ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nei giorni in cui l’Accademia di Svezia tributa il Nobel a Olga Tokarczuk “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’andare al di là dei confini come forma di vita”, non posso non riflettere sulle vibrazioni generate dalle parole della scrittrice, che nelle sue opere si racconta e sussurra al lettore che sin da piccola, mentre osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava solo essere su quel fiume. Desiderava essere eterno movimento.
E’ il movimento, l’erranza che esso genera, il tratto più autentico dell’umano, perché ci rende vivi e ci trasforma, perché produce cambiamento e - come dice la scrittrice e premio Nobel - “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.
Ancor più al termine di una domenica d’ottobre dal sapore estivo passata a lasciarsi cullare dall’instancabile corrente del mare salentino che da sempre ignora la quiete, mi frullano nella mente le tante riflessioni, che in più occasioni ho avuto modo di scambiare con tanti giovani colleghi che lavorano come me in Calabria, su quale cambiamento epocale abbia vissuto l’associazionismo e l’auto governo della magistratura italiana, in particolare nell’ultimo decennio.
Cambiamento che i drammatici fatti della scorsa primavera hanno manifestato in tutta la sua crudezza e intollerabilità anche per chi, come me e come tanti altri, aveva già chiaro che, sia nell’associazionismo che nell’autogoverno, ci stavamo avviando a un punto di non ritorno.
Come ha lucidamente messo in luce da un noto candidato in una mail precedente alle elezioni, il doppio colpo assestato dal legislatore dapprima con la legge elettorale del 2002 e poi con le riforme ordinamentali del 2006 ha, imprevedibilmente anche per i più pessimisti, mutato rapidamente l’atteggiamento dei magistrati nei confronti della funzione, con immediate ricadute, da un lato, sui rapporti di forza tra correnti e ANM, dall’altro, sull’attuazione del sistema di autogoverno e in definitiva sul peso del C.S.M. all’interno della magistratura.
L’intreccio perverso tra una legge elettorale con sistema maggioritario e una discrezionalità sempre più ampia - e attuata via via in forme sempre meno leggibili - nella scelta dei dirigenti e dei semidirettivi ha invero accresciuto a dismisura il peso delle correnti, favorendo rapporti personalistici tra consiglieri e singoli magistrati, accrescendo il ruolo della territorialità, mortificando l’elaborazione culturale, esaltando l’idea della “carriera”, da costruire, fin dai primissimi anni di servizio, anche mediante l’accaparramento delle c.d. medagliette, ossia esperienze varie di natura ordinamentale o comunque di supporto all’organizzazione giudiziaria.
Di pari passo il ruolo e il peso dell’ANM è andato sempre più svilendosi, riducendosi spesso a un contenitore privo di autonomia, schiacciato dalla contrapposizione sempre più dura tra le correnti, finalizzata esclusivamente ad accrescere i rispettivi consensi.
Molti colleghi che sono entrati in magistratura nell’ultimo decennio hanno così avuto immediatamente la percezione di una magistratura “oppressa” dalle correnti, viste essenzialmente come centri di gestione del potere, da utilizzare eventualmente solo come scudo di protezione personale.
In questo contesto AREA si è posto come soggetto aperto e inclusivo della magistratura progressista sulla base di una piattaforma valoriale, cercando di rifuggire da logiche meramente clientelari e pur soffrendo, dalla sua nascita, di una fragilità intrinseca, che perdura a causa di una mai sopita diffidenza di parte dei suoi aderenti al progetto stesso, fondata peraltro su profili che ben potrebbero trovare una reductio ad unitatem all’interno del gruppo stesso e orientarne, sempre dall’interno, le scelte.
E’ in questo scenario che i fatti di maggio sono esplosi, segnando drammaticamente uno dei punti più bassi del nostro sistema di autogoverno.
Ebbene, a fronte della plastica rappresentazione di un sistema di autogoverno in disfacimento, e nel silenzio imbarazzato delle correnti, l’ANM ha coraggiosamente ripreso il suo ruolo, proponendo una competizione elettorale realmente plurale, libera e trasparente, pur con una legge elettorale che favorisce le alleanze meramente elettorali.
In sostanza l’ANM ha suggerito un’operazione non di facciata, cogliendo il cambiamento, cercando di lanciare un messaggio “alto”, di ampio respiro e tendendo una mano a una base delusa e arrabbiata.
La storia ci ha detto come finì la corsa, per dirla con Guccini.
Senza ipocrisie, il pluralismo è stato attuato solo da AREA e la dispersione dei voti tra i tanti candidati, più o meno indipendenti, vicini ad AREA, ha impedito l’elezione di uno di loro.
Ma, ciò detto, ritengo che rendersi conto della necessità fisiologica del cambiamento - e farlo al di là delle logiche di corto respiro legate agli esiti della contingente competizione – sia ben più importante della fredda analisi sui “vicini di casa”, sulle “candidature forti degli avversari”, sugli esiti delle competizioni elettorali democratiche in cui “vince chi prende più voti”, e ciò per due motivi essenziali: a) perché l’associazionismo e quindi l’ANM è un bene prezioso di tutti noi, che non può essere gettato alle ortiche come un giocattolo rotto che non serve più; b) perché la cosiddetta “base”, quasi sempre silenziosa, è fatta da tantissimi magistrati che all’ANM sono iscritti e, pur vivendo magari ancora da poco tempo l’associazionismo, sono teste pensanti che leggono il messaggio che è stato lanciato, un messaggio che scorre sul fiume di un cambiamento che noi tutti possiamo ancora governare e trasformare in un’opportunità di rinascita dalle ceneri.
Non vince solo chi prende più voti, vince chi è più credibile, vince chi riaccende la passione per l’associazionismo, chi restituisce significato al principio di condivisione di valori essenziali che non possono e non devono essere considerati come un vecchio ospite che si invita ancora per affetto ma senza che possa partecipare veramente alla conversazione.
E’ dalle idee condivise che deve ripartire la cultura dell’associazionismo, del quale altrimenti non resta che l’ombra.
Un’ombra che genera distorsioni, conflitti, contrapposizioni sterili che alimentano la deriva individualistica in atto e divenuta ormai una triste narrazione che non rende giustizia alla storia e alla funzione della magistratura.
Errore fatale sarebbe perciò quello di non cogliere lo Spirito del tempo, forse meno fatale quello di sottovalutare l’amara ironia di Nanni Moretti. Temo infatti che sia più pericoloso non assumerci, oggi, la responsabilità etica dell’edificazione della casa dei valori condivisi in cui riconoscerci come persone, prima che come giudici.
Lasciare inascoltata la voce che si eleva da più parti e che reclama una partecipazione attiva dalla base significa negare in radice l’identità stessa di un gruppo che come valore fondante – e non solo come etichetta – sceglie la democrazia.
E’ un non senso.
Considerare secondarie le istanze che arrivano dai colleghi più giovani che non si riconoscono in metodi e sistemi che hanno alimentato logiche correntizie e spartitorie, significa svuotare di significato anche la carta stessa dei valori di Area.
Quando la hybris sottovaluta l’indignazione che serpeggia tra i più, gli esiti del tracotante mancato ascolto degli altri sono sempre una disfatta.
Il pensiero necessariamente lungo della politica - come ricordava Enrico Berlinguer - si schiaccia sull’immediatezza, così come si schiaccia sulla ricerca sterile di consensi che sfocia nel populismo, così come si schiaccia sull’urgenza di ottenere tutto e subito.
Le parole schiudono significati, aprono mondi, rifondano luoghi, anche quelli dissolti nel disincanto raccontato dalla nostra storia più recente.
E le parole di cui oggi abbiamo bisogno non sono: “candidature forti”, “strategie da opporre a quelli che sono più furbi”, “vince chi prende più voti”.
Non abbiamo bisogno di un lessico propagandistico.
Le parole di cui abbiamo bisogno sono: “credibilità”, “condivisione”, “etica”.
L’ondata di presentizzazione che stiamo vivendo soffoca ogni pulsione di crescita e cambiamento, toglie ogni respiro alle scelte coraggiose e di ampio respiro.
Toglie spazio alla visione, che è un’altra delle parole di cui abbiamo bisogno.
Un gruppo umano che agisce ciecamente, senza alcuna elaborazione degli ideali e delle proposte generate dalle quotidiane e assai differenti vicende che animano oggi gli uffici giudiziari, può generare negli altri solo la sensazione frustrante e diffusa del tradimento. Con la conseguenza che anche l’eventuale vittoria è solo illusoria, è una vittoria di Pirro.
Mi vengono in mente le parole di Alessandro Barbano quando dice che “l’etica della responsabilità è introiettiva, avverte il peso della responsabilità, lo sente e lo sostiene. L’estetica della miserabilità è proiettiva. La proiezione è propria di chi rifiuta questa responsabilità e vede il male soltanto all’esterno, fuori di sé”.
La dirigenza di Area, nella scelta di aderire senza riserve e con trasparenza alle indicazioni della GEC, ha avuto il coraggio e la lungimiranza di preservare il ruolo dell’associazionismo nel suo complesso, anche a costo di una prevedibile sconfitta elettorale, e di dare una visione diversa a una base sfiduciata.
Ci sono momenti in cui bisogna avere il coraggio di scegliere da che parte stare e quali valori perseguire, senza indugi e senza quell’atteggiamento omologante e autoassolutorio del “dobbiamo fare così altrimenti quelli ci distruggono”.
Ci sono momenti in cui non si può relativizzare e l’Ethos, quale valore assoluto, deve avere la meglio su tutto il resto.
Perché, come diceva Pericle agli ateniesi: “ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla”.
di Maria Chiara David
La recente Sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite n. 30475/19 del 30.5.2019 relativa alle condotte di commercializzazione della c.d. cannabis light chiama in causa anche tematiche di natura tecnico-scientifica. La riflessione, partendo dal principio affermato, si sviluppa dal punto di osservazione del tecnico che opera quotidianamente sul campo[1] ed è chiamato a tradurre i risultati degli accertamenti chimici in dati utilizzabili nelle aule giudiziarie anche alla luce dei criteri normativi e giurisprudenziali.
Viene approfondito e messo a confronto l’approccio giuridico al concetto di dose drogante con l’approccio scientifico, anche attraverso gli esiti di analisi di evidenze epidemiologiche relative ai mutamenti intervenuti nel tempo, sulla piazza romana, nel mercato dei derivati della cannabis, nonché analizzati gli effetti di tali mutamenti nella repressione penale del fenomeno, per concludere con l’indicazione di opzioni operative nell’ottica della traduzione pratica dei principi affermati dalla Suprema Corte.
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Esiti di analisi tossicologiche su derivati della cannabis sottoposti a sequestro penale nel periodo 2017-2018 in procedimenti trattati dalla Procura della Repubblica di Roma. - 3. Dati del biennio 2009-2010 e confronto con l’attualità. - 4. Il concetto di dose drogante. - 5. Riverberi operativi sulla c.d. cannabis light.
1. Premessa
Dal punto di vista scientifico, una sostanza è stupefacente quando provoca in chi la assume effetti psicotropi, cioè quando contiene una molecola in grado di alterare le normali reazioni fisiche e/o psichiche. Questa molecola viene definita principio attivo e costituisce una percentuale della sostanza che viene immessa sul mercato a diversi livelli di concentrazione.
Si riscontra, in via generale, che le diverse tipologie di sostanze stupefacenti (es. cocaina, eroina, hashish, ecc.) vengono destinate alla distribuzione con concentrazioni di principio attivo (c.d. purezza) molto variabili, tanto che -attraverso l’esame del principio attivo, dei costituenti naturali –alcaloidi– aggiunte diluenti/adulteranti come le sostanze da taglio -è spesso possibile risalire - ad un medesimo venditore o alla stessa piazza di spaccio: ogni laboratorio o spacciatore che raffina la sostanza originaria lavora in modo differente, dando al prodotto in commercio una composizione specifica.
Chi immette, a diversi livelli il prodotto sul mercato, può dunque determinare la quantità di principio attivo e quanto conseguentemente sarà forte lo stupefacente da vendere al dettaglio.
Per tale motivo gli acquirenti si riforniscono spesso dallo stesso spacciatore, conoscendo le caratteristiche della merce che vende e volendo evitare conseguenze spiacevoli, come l’acquisto di stupefacenti con quantità di principio attivo non soddisfacenti.
Già i caratteri di un simile contesto rendono evidente la difficoltà a stabilire un parametro universale per la composizione delle singole dosi, per cui ad esempio una dose di marijuana – per essere definita tale – dovrebbe contenere x% di principio attivo in quantità predeterminata.
Va considerato, poi, che l’effetto psicotropo non è sempre lo stesso, ma varia da individuo a individuo in conseguenza di numerosi fattori. E' intuitivo, ad esempio, che uno spinello contenente 1 grammo di marijuana al 2,5% di THC da cui si ricavano 25 mg di THC non fa lo stesso effetto su un uomo di 50 kg e su uno di 100, perché la sostanza viene assorbita e distribuita in modo molto diverso; a ciò si aggiunga che l’assorbimento è influenzato dallo stato di salute, dal momento dell’assunzione, dallo stato o meno di digiuno, dalle abitudini del soggetto, dall’interazione con altre sostanze presenti nell’organismo.
Vi è poi un fattore che influenza grandemente l'effetto psicotropo: la tolleranza dell'organismo alla sostanza assunta aumenta man mano che il consumatore reitera nel tempo l'assunzione, per cui lo stesso individuo, per avere effetto drogante, deve assumere quantitativi ogni volta più consistenti (assuefazione).
Non essendo predeterminabile secondo parametri fissi,il concetto di dose drogante non è rinvenibile nella letteratura scientifica.
Un dato di fondamentale importanza assume ulteriormente rilievo alla luce di concrete evidenze di mercato: da un'analisi ragionata degli esiti di accertamenti su una significativa percentuale di derivati della cannabis posti in sequestro in casi trattati dalla Procura della Repubblica di Roma negli anni 2017-2018 (v. infra) emerge come il contenuto di principio attivo sia soggetto ad un progressivo aumento. Lo stupefacente venduto a Roma è divenuto, negli anni, sempre più forte, evidenziando un processo ad andamento esponenziale: i consumatori si abituano a dosi sempre più massicce di THC, fattore che induce i venditori ad immettere in commercio sostanze sempre più forti, con conseguente ulteriore innalzamento delle soglie di assuefazione dei consumatori.
In buona sostanza, la dose drogante, vale a dire quella idonea a produrre nel consumatore effetto psicotropo, varia:
1. da individuo a individuo,
2. per lo stesso individuo, in conseguenza di fattori contingenti quali lo stato di salute, il digiuno, l’interazione con altre sostanze, l’assuefazione ed altro,
3. secondo il grado di assuefazione medio nella fetta di mercato/territorio in cui avviene l’approvvigionamento.
2. Esiti di analisi tossicologiche su derivati della cannabis sottoposti a sequestro penale nel periodo 2017-2018 in procedimenti trattati dalla Procura della Repubblica di Roma.
Allo scopo di verificare la variabile indicata al punto numero 3, sono stati esaminati i risultati delle analisi svolte[2] sui derivati della cannabis (hashish, marijuana, olio di hashish, piante, ecc.) sequestrati nel territorio di competenza della Procura della Repubblica di Roma nel biennio 2017-2018.
All’esito è possibile valutare, con un buon grado di affidabilità, l’andamento del mercato clandestino e delle percentuali di THC presenti nei derivati della cannabis. Emerge, come innanzi anticipato, un dato piuttosto netto: il trend delle percentuali di THC riscontrate sul territorio di Roma è in continuo ed incessante aumento.
Tale dato, peraltro, risulta coerente con quanto si segnala nella relazione dell’osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze del 2018 (dati 2017) EMCDDA, ove viene riportata la potenza media della resina (hashish) nell’intervallo 14-21% e per i preparati della cannabis (marijuana) tra il 9 ed il 12% di THC. Analoga coerenza con le evidenze del National Institute of Drug of Abuse (NIDA)[3] che rileva come la potenza della marijuana, presente in campioni confiscati negli USA, sia aumentata notevolmente nel periodo più recente. Secondo quest’ultima analisi, il contenuto medio di THC nei campioni di marijuana sequestrati negli anni 90 era del 3,8%, mentre nel 2014 si sono registrate percentuali in deciso aumento, fino al 12,2%.
E’ chiaro che la tendenza solleva preoccupazioni per il possibile aggravamento delle conseguenze dell'uso di tali sostanze, soprattutto per chi è nuovo all'uso.
La percentuale media complessiva di THC riscontrata nei sequestri di derivati della cannabis (hashish e marijuana) per l’anno 2017 nell’area di Roma è pari al 16,2%, rilevato su 552.362,05 kilogrammi totali[4]. La percentuale media per l’hashish è pari al 18% e per la marijuana del 14,2% .
Tabella 1 Anno 2017: numero di reperti; Percentuale media di THC riscontrata; Valore minimo rilevato alle analisi; Valore massimo rilevato alle analisi.
ANNO 2017 | N. reperti | Media ###b# medio | ###b# min | ###b# max |
Piante | 3 | 6,6 | 0,8 | 10,1 |
Hashish | 141 | 18,0 | 5,5 | 47,3 |
Marijuana | 121 | 14,2 | 1,30 | 34,3 |
Per l’anno 2018, la percentuale media complessiva di THC riscontrata nei sequestri di derivati di cannabis è invece pari al 19,4% (hashish e marijuana) stimato su 36.157,49 kilogrammi complessivi[5]. La percentuale media è pari al 25,2% per i soli reperti di hashish e del 17,2% per i reperti di marijuana.
Tabella 2 Anno 2018: numero di reperti; Percentuale media di THC riscontrata; Valore minimo rilevato alle analisi; Valore massimo rilevato alle analisi.
ANNO 2018 | N. reperti | Media ###b# medio | ###b# min | ###b# max |
Piante | 10 | 4,5 | 0,3 | 10,3 |
Hashish | 62 | 25,2 | 6,5 | 60,3 |
Marijuana | 102 | 17,2 | 1,1 | 36,6 |
3. – Dati del biennio 2009-2010 e confronto con l’attualità.
Interessante è il confronto dei dati ora riportati con gli esiti di uno studio pregresso[6], effettuato sui reperti in sequestro relativi agli anni 2009-2010, da cui emerge che la percentuale media di THC nei derivati di cannabis era all’epoca pari al 5-6% su un campione di 157.089,00 kilogrammi oggetto di sequestro.
Il sensibile aumento delle percentuali di THC nei preparati reperibili sul mercato clandestino e utilizzati con finalità ricreative fornisce un indice dell’andamento della potenza/efficacia dei prodotti utilizzati come sostanze aventi effetto stupefacente: da un iniziale 5-6% di THC siamo arrivati a reperire nel 2018 prodotti con percentuali medie di THC del 25,2% per le resine (hashish) e del 17,2% per la marijuana.
In altri termini, gli stupefacenti c.d. leggeri in vendita sulle piazze romane hanno oggi un’efficacia drogante sensibilmente più consistente di quelli che si vendevano solo qualche anno fa. E’ come se le bottiglie di vino in vendita fossero passate da una gradazione del 12% ad una del 25%: a parità di quantità di bicchieri bevuti l’effetto ubriacante sarebbe straordinariamente maggiore.
Poiché l’offerta si modula in base alla domanda, il fenomeno è indicativo anche di una più decisa assuefazione dei consumatori al prodotto e della conseguente, generalizzata, richiesta di prodotti con proprietà droganti sempre più elevate, essendo ritenuti ormai insoddisfacenti quelli aventi bassa percentuale di THC.
4. -Il concetto di dose drogante
Come già indicato, vi è concreta evidenza della impossibilità di pre-stabilire la dose stupefacente. Questo concetto non riveste validità scientifica poiché è del tutto generico e fa riferimento ad una serie ampia di presupposti ed effetti diversi e non meglio definiti, proprio come sarebbe impossibile ed improduttivo stabilire la quantità di vino ubriacante (per incidens, il valore soglia di 0,5 g/L di alcol è il valore del tasso alcolemico, ovvero la concentrazione di alcol presente nel sangue, e non la concentrazione di alcol presente nei prodotti in commercio)
E’ necessario dunque distinguere la percentuale di THC nel prodotto presente sul mercato (hashish/marijuana con il X% di THC) dalla dose drogante per il singolo (la quantità X milligrammi di THC assunta), cioè la quantità di THC che viene assimilata in concreto fumando spinelli.
Focalizzando l’attenzione sulla letteratura scientifica, va rilevato che, negli studi esaminati[7], non si fa menzione del concetto di dose drogante, ma più in generale vengono riportate ricerche cliniche compiute su popolazioni controllate nella prospettiva di verificare uno o pochi effetti terapeutici.
A riprova del difetto di esplicitazione del concetto di dose drogante, vi sono gli esiti di una verifica effettuata su documenti provenienti da diverse fonti istituzionali che, a vario titolo, impattano con la problematica.
Il documento approvato dal gruppo di lavoro previsto dall’Accordo di collaborazione del Ministero della Salute e Ministero della Difesa del Novembre2016 sulla Sostanza vegetale Cannabis[8] riporta studi sugli effetti clinici analgesici, antiemetici, ipotensivi nel glaucoma, ed altri, per assunzioni di THC di 16-34 mg.
Ed ancora: il Consiglio Superiore di Sanità, nella nota del 10 aprile 2018[9], riporta uno studio dell’effetto antalgico con assunzione di 2-22 mg di THC.
Anche la ricerca nei testi della farmacologia generale[10] non fornisce una risposta circa la definizione del concetto di dose drogante, ma si rilevano solo studi dell’azione terapeutica antiemetica per assunzione di 5-15 milligrammi di THC.
Il Portale del Network Nazionale sulle Dipendenze[11], in collaborazione con il Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, riporta effetti evidenti dopo l’assunzione di piccole dosi di THC (5-10 mg).
Una valutazione, in concreto, di quantità stupefacente riscontrabile negli spinelli da strada, si trova in un lavoro scientifico degli anni 70, pubblicato sull’autorevole rivista Nature[12], dove viene riportato una quantità di THC di 12-15 milligrammi.
Sul web[13] si rintracciano descrizioni delle abituali quantità e modalità di consumo dei prodotti della cannabis in questi ultimi anni; emerge che un consumatore di cannabis non abituale, per avere un effetto leggero, deve assumere almeno 33 mg/dose di THC, mentre per ottenere lo stesso effetto, un consumatore medio deve assumerne almeno 50 mg e un consumatore forte circa 100 mg.
L’unico riferimento al concetto di soglia stupefacente è quello presente nella Nota del Ministero dell’Interno del luglio 2018[14], confluita nell’indirizzo operativo comunicato nella Direttiva[15] sulla commercializzazione di canapa n. 11013/110 del 9 maggio 2019, dove si legge: “ le infiorescenze con tenore superiore allo 0,5% rientrano nella nozione di sostanze stupefacenti … per la cannabis, sia la tossicologia forense che la letteratura scientifica individuano tale soglia attorno ai 5 mg di THC che in termini percentuali equivalgono allo 0,5%” (calcolato su uno spinello/sigaretta artigianale confezionato da 1 grammo). Ma tale riferimento, poiché non si basa su lavori condotti alla luce di studi controllati di popolazione, non può avere, per quanto sinora rilevato, valore assoluto.
L’ambito di applicazione di tali indicazioni non può, dunque, che esser visto nell’ottica di stabilire una soglia minima, al di sotto della quale il prodotto, nemmeno in astratto, può essere utilizzato con finalità ricreative.
In tale prospettiva va tuttavia tenuto presente che l’assunzione di 5-10 mg di THC può avvenire con spinelli confezionati con marijuana o hashish contenenti percentuali differenti di principio attivo, così come si può assumere 1 grammo di un farmaco con una compresa ad alta percentuale di principio attivo o tante compresse a basso tenore. Ed ancora: è possibile ubriacarsi con tante birre a bassa gradazione così come è possibile con una unica assunzione di un superalcolico. Peraltro, con la cannabis light non c’è una proporzionalità diretta tra quantità assunta ed effetto drogante, nel senso che l’effetto non è da intendersi come sommatorio, perché nello spinello sono presenti molti costituenti vegetali inattivi e materiale di confezionamento che implicano una diminuzione dell’assorbimento del principio attivo e quindi dell’efficacia drogante.
Il contesto in esame è denso di complesse implicazioni ed il legislatore ha evidente necessità di stabilire un quantitativo-soglia da ritenersi idoneo, almeno in astratto, a produrre effetti droganti. Per punire una condotta di detenzione a fini di spaccio o di cessione occorre, infatti, stabilire cosa si intenda per sostanza stupefacente, non potendosi certo sottoporre a sanzione penale condotte prive di qualsiasi offensività. E’ sulla base di questa esigenza che il DPR 309/90, attraverso il rinvio alle tabelle redatte dal Ministero della Salute (D.M. 11 aprile 2006), indica come parametro la singola dose media, specificando la quantità di THC ritenuta mediamente idonea a determinare effetto stupefacente. La quantità o dose che viene stabilita dalla legge è di 25 mg/dose. Ciò significa che, dal punto di vista normativo, ad un determinato quantitativo di sostanza sequestrata è normativamente riconducibile un certo numero di dosi. Ogni volta che la Polizia Giudiziaria invia ad un laboratorio di tossicologia una sostanza stupefacente per l'analisi, il tossicologo forense verifica il principio attivo della sostanza sequestrata e la quantità di esso e divide il dato ottenuto per 25 mg, ottenendo il numero di dosi che viene acquisito dal Pubblico Ministero ai fini della contestazione. Si tratta, tuttavia, di un dato astratto, non ricollegabile a basi propriamente scientifiche.
Sembra dunque evidente che il concetto giuridico di dose drogante è frutto di convenzione, analogamente al dato della percentuale di alcol nel sangue idoneo a qualificare lo stato di ebbrezza ai sensi dell’art. 186 cds: la legge stabilisce che se la percentuale è di 0,8 g/l il soggetto è ubriaco, se invece è di 0,7 non lo è; e ciò a prescindere dal fatto che il soggetto sia uomo o donna, se l'alcol sia stato assunto a stomaco vuoto o durante una cena, ecc.. Si tratta di un criterio che ha, comunque, piena validità processuale, salve le complesse valutazioni del Giudice in ordine alla correlata individuazione della destinazione o meno della sostanza all’uso personale.
4. Dose drogante e cannabis light
Le recenti vicende normative e giurisprudenziali della c.d. cannabis light impongono una riflessione ulteriore sul concetto di dose drogante.
Se fino ad oggi i prodotti finali della pianta di cannabis, cioè le infiorescenze essiccate contenenti il principio attivo THC, rientravano integralmente nell’ambito di applicazione del Testo Unico degli Stupefacenti. Con l’entrata in vigore della legge nr. 242 del 2016 il legislatore ha aperto spazi, per determinate finalità, alla coltivazione di cannabis con un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %. A seguito dell’intervento normativo, diverse aziende si sono lanciate sul mercato offrendo una vasta gamma di prodotti contenenti percentuali di principio attivo ritenute inoffensive, sul presupposto che la liceità della coltivazione della pianta (con determinate caratteristiche) portasse con sé la possibilità di distribuirne i diversi derivati.
I punti vendita si dono diffusi in ogni parte d'Italia e si sono creati non pochi problemi per gli operatori a vario titolo coinvolti nell’azione di contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti (forze di polizia, autorità giudiziaria, tecnici di laboratorio), dove si sono improvvisamente trovati a fronteggiare la presenza sul mercato di un prodotto apparentemente identico allo stupefacente ma - per la prima volta - posto in vendita in regolari esercizi commerciali.
In un primo momento si è posto il problema della liceità della presenza stessa di questo tipo di negozi che, spesso con fare ammiccante, sembravano proporsi come attrattivi proprio per le (più che dubbie) proprietà droganti della merce venduta. E’ stato avvertito poi che la libera circolazione nelle strade e la detenzione da parte dei giovani utenti del nuovo prodotto di pacchetti, bustine e contenitori vari di marijuana (seppure non contenente principio attivo, elemento ovviamente non riscontrabile ictu oculi) rischiava di penalizzare proprio l'attività di contrasto allo spaccio di stupefacenti, costringendo gli operanti a moltiplicare controlli ed a rivolgere i propri sforzi alla ricerca di un corpo del reato piuttosto evanescente.
La recente sentenza delle Sezioni Unite n. 30475/2019 afferma il principio per cui la cessione, la vendita e in genere la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L. quali foglie, inflorescenze, olio, resina, è condotta che integra il reato di cui all'art. 73 T.U. n. 309/90 anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4 commi 5 e 7 Legge n. 242 del 2016, "…salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività".
Viene stabilito, in sostanza, che i prodotti in questione (c.d. cannabis light nell’accezione corrente), non rientrando nell’alveo applicativo delle disposizioni della L. 242/2016, debbono considerarsi sostanza stupefacente e che la loro detenzione a fini di cessione o cessione costituisce reato, salvo che si tratti di prodotti privi, appunto, di efficacia drogante o psicotropa ovvero privi di offensività.
Il principio affermato inevitabilmente impone un'analisi, in concreto, della idoneità del prodotto a determinare un effetto drogante, pur in presenza di modestissime percentuali di principio attivo. Si pensi, nella pratica quotidiana, al sequestro di cannabis light in vendita nei negozi ed alla conseguente esigenza di stabilire, al più presto, la legittimità della detenzione/cessione.
Per rispondere a tale esigenza, gli operatori e gli uffici di Procura debbono necessariamente rapportarsi a criteri chiari e suscettibili di riscontro. Ma qui entrano in gioco, in modo particolarmente accentuato, le sottolineate difficoltà nella definizione, in concreto, di soglia/effetto drogante.
In tale prospettiva si dovrà considerare che, se è in astratto possibile confezionare uno spinello contenente cannabis light, per avere un effetto psicotropo in presenza di una percentuale di THC pari allo 0,5% (ma il principio affermato dalle SS.UU implica considerare anche percentuali inferiori), occorrerebbe fumare uno spinello contenente un quantità di prodotto del peso di almeno 5 grammi, anziché di 1 grammo (peso convenzionale della sigaretta artigianale considerato dai tecnici) per arrivare ad assumere una dose drogante da 25 milligrammi di THC, normativamente indicata nel DPR 309/90.
A ciò si aggiunga che la bassa percentuale di THC in relazione agli altri componenti presenti nel prodotto oggetto di commercio, come le parti vegetali inattive, gli alcaloidi minori e il materiale di confezionamento, influenza non poco la possibilità concreta di avere effetto drogante.
Un parallelo rende chiara l’affermazione: è come se si avesse un vino con gradazione alcolica del 2%: è possibile in astratto ubriacarsi bevendolo, ma occorrerebbe berne dieci litri.
E’ davvero difficile, quindi, immaginare che si possa fumare uno spinello con dette caratteristiche, senza contare il costo dell’operazione: ha senso acquistare cannabis light per avere effetti droganti quando, con lo stesso prezzo, si può acquistare agevolmente marijuana ad alta potenza ed ottenere un effetto psicotropo incomparabilmente maggiore?
Il principio affermato dalla Suprema Corte lascia pertanto aperti non pochi interrogativi e sono intuibili le difficoltà per coloro che possono essere chiamati ad intervenire sui casi concreti. Pur non potendo dare risposte con valenza scientifica, alla luce delle osservazioni svolte, è ragionevole ipotizzare che difficilmente potrà essere riconosciuta efficacia drogante a derivati della cannabis che presentino un contenuto di principio attivo THC compreso tra lo 0,2 e lo 0,6%.
[1] L’autrice, tossicologo forense, è consulente tecnico e perito del Tribunale di Roma in materia di stupefacenti.
[2]Lo studio si è concentrato sui campioni posti in sequestro da me sottoposti ad analisi in qualità di consulente tecnico nel corso degli accertamenti chimico tossicologici disposti dalla Procura di Roma nei procedimenti destinati a giudizio direttissimo, con cadenza settimanale per ogni mese del biennio.
[3]https://www.drugabuse.gov/node/pdf/1380/marijuana
[4]Il numero di reperti analizzati di derivati della cannabis è di 265 reperti nell’anno 2017, così suddivisi: 53% di Hashish, 45,6% di Marijuana ed1,1% di piante di cannabis.
[5]Il Totale dei reperti analizzati nell’anno 2018 è di 174, così suddivisi: 35,6% di Hashish, il 58,6% di Marijuana ed il 5,7% di piante di cannabis.
[6] Si tratta di un progetto del Laboratorio di Tossicologia Forense Università di Roma Tor Vergata e dell’ Istituto Superiore di Santità, in collaborazione con il Ministro della Gioventù ed il Dipartimento delle Politiche Antidroga Presidenza del Consiglio dei Ministri “Analisi e Valutazione del potenziale tossicomanico dei nuovi consumi giovanili associati o no alle sostanze incluse nelle tabelle di cui all’art. 14 del DPR 9 ottobre 1990 n. 309 e nel testo aggiornato del DPR 309 pubblicato sulla GU serie generale n. 242 del 15/10/2008 (decreto 26/09/2008) con riferimento ai sequestri effettuati dalle forze di Polizia”.
[7] Letteratura Scientifica Nazionale accessibile ai soci del Gruppo Italiano Tossicologi Forensi (GTFI) ed ai membri del gruppo internazionale The International Association of Forensic Toxicologist (TIAFT)
[8]https://www.epicentro.iss.it/cannabis-uso-medico/pdf/sost%20vegetale%20cannabis.pdf
[9]http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2761_allegato.pdf
[10] G. B. Katzung – Farmacologia Generale e clinica. Edizione VIII
[11]http://cannabis.dronetplus.eu/guida.html
[12] Rivista Nature Vol. 227 (1970)
[13] https://erowid.org/plants/cannabis/cannabis_dose.shtml
[14] Nota n. 2018/43586 - Direzione Centrale Servizi Antidroga – https://www.easyjoint.it/wp-content/uploads/2018/09/Ministero-Interno-31-lug-2018-commercializzazione-delle-infiorescenze.pdf
[15] http://www.interno.gov.it/sites/default/files/direttiva_canapa.pdf
CONVEGNO | - Roma - 09:28 Durata: 6 ore 56 min
https://www.radioradicale.it/scheda/586960/migliorare-il-csm-nella-cornice-costituzionale
di Andrea Apollonio
La campagna elettorale per le elezioni riguardanti i due posti vacanti al Consiglio Superiore della Magistratura - campagna archiviata con esiti elettorali ormai certi - mi ha ricordato molto da vicino quella delle politiche del 2008.
Qualcuno forse ricorda ancora la campagna elettorale ovattata e gentile, che vedeva contrapposti, essenzialmente, Silvio Berlusconi e Walter Weltroni. Io ricordo distintamente quest'ultimo aprire la sua campagna in Umbria, assiso su un colle verdeggiante, con sullo sfondo un centro storico pittoresco: il suo linguaggio era garbato, non pronunciava mai il nome di Berlusconi, non era aggressivo e snocciolava temi progressisti concreti. Peccato che gli esiti di quelle elezioni erano segnati fin da subito, con i partiti di centro-destra compatti in un solo schieramento e - dall'altra parte - il terzo blocco della Sinistra Arcobaleno. Da questa parte, infatti, era mancata l'aggregazione delle forze in un unico progetto politico, con inevitabile dispersione dei voti. Silvio Berlusconi avrebbe ottenuto una vittoria netta, conseguendo schiaccianti maggioranze parlamentari. Il resto (della legislatura, intendo, con il finale targato Mario Monti), è Storia.
Stiamo divagando, o forse no. Perchè il dato più rilevante della "nostra" campagna elettorale è stata la scelta - idealmente ineccepibile, elettoralmente fallimentare - della componente progressista, cioè di Area democratica per la Giustizia, di non presentare una candidatura unica o al massimo duplice, di non indicare insomma, ai suoi iscritti una direzione di voto, previe le dovute consultazioni interne - come sempre è accaduto in questo spicchio di magistratura. Le altre "correnti" (a me questo termine neppure dispiace, e su questo torno tra un attimo), in maniera più pragmatica, hanno perlopiù puntato tutte le loro fiches su uno o due candidati al massimo.
Puntualizziamo: in questa tornata elettorale, che doveva servire a riacquistare una verginità morale dopo i noti scandali e le logiche spartitorie emerse, tutti i candidati erano indipendenti e tutti, al contempo, chiaramente individuabili nel campo dell'associazionismo. Salvo i "veri" indipendenti (quattro o cinque al massimo), tutti erano legati a quella o a quell'altra "corrente", com'era giusto che fosse: perché gli associati non possono rinnegare l'associazionismo, e l'associazionismo non può rinnegare se stesso: ci si dissocia dalla mafia, non da gruppi di magistrati che, mettendosi assieme, aspirano a migliorare le cose nel complessivo ambito dell'esercizio della giustizia.
A dire il vero, coloro che andavano individuati in Area hanno pugnacemente rivendicato una tale appartenenza; ma i candidati erano troppi, e tutti di spessore, e così non è stato altrove (mi riferisco al numero, non allo spessore, indubbio): perché i voti sono numeri, e i numeri vanno sommati. Sommando i numeri di questi candidati, alla luce delle performance dei primi due arrivati al traguardo, si ottiene - si sarebbe ottenuto - un dato vincente: è algebra. Certo, la decisione recava con sé un valido contenuto ideale (occorreva sancire il pluralismo democratico in un momento in cui la magistratura è tacciata di "poltronismo", al pari della peggiore politica), un messaggio di netta rottura col passato "correntizio" (ma le "correnti", lo ribadisco, sono un fatto non eludibile); eppure se gli altri gruppi avevano dei capo-fila, per non dire dei candidati "unici", di notevole caratura professionale, intellettuale ed anche mediatica, quella decisione andava rivista, perché figure di pari rango, in Area, ce ne sono e ce ne saranno; e la competizione sarebbe stata così ad armi pari. Il paradosso orwelliano che si era venuto a creare ("tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri") poteva e doveva essere superato per tempo.
Ancora a urne aperte leggevo alcuni commenti, al riguardo, tutti di questo tenore: ci siamo presentati in tanti per una giusta causa; saremo sconfitti, ma per una giusta causa. E allora mi chiedo, e me lo chiedo come farebbe un osservatore esterno della vicenda elettorale: è altrettanto giusto rinunciare scientemente - e, direi quasi: preventivamente - alle proprie istanze riformiste e progressiste, se è vero che queste passano fatalmente da un dato di rappresentanza? Non è ricercando scientemente la la disfatta dei numeri che si cambiano le cose.
Sia chiaro: i due pm eletti al Consiglio (Antonio D'Amato e Antonino Di Matteo) sono magistrati di grande valore, la cui storia professionale parla da sé: sapranno senz'altro mantenere alto il prestigio della funzione consiliare, contribuendo al superamento del momento di profonda crisi che la Magistratura tutta sta attraversando. Ma non è sui vincitori che occorre soffermarsi. Perché queste righe di commento vogliono essere una rapida analisi del voto che, in quanto tale, deve mostrarsi obiettiva: quindi implacabile con gli sconfitti. E noi possiamo girarci attorno ed utilizzare formule più o meno diplomatiche, più o meno edulcorate: ma la vera sconfitta è - come nel 2008 Veltroni, per gli stessi motivi, con una campagna elettorale molto simile: bella, partecipata, piena di contenuti, ma perdente in partenza perché scissa dai numeri e dai conteggi - Area; la quale non ha attivato i meccanismi di selezione interni (leggi: primarie), che avrebbero garantito una resa democratica ed una immagine incorrotta prima, di unità poi: così, avendo voluto perdere sapendo che avrebbe potuto vincere (i numeri, questo hanno detto), avendolo fatto per una ragione di principio, se non altro si è guadagnata un patrimonio di coerenza da spendere per il futuro.
Note per il futuro, quindi.
Non indicare ai propri iscritti, sostenitori o simpatizzanti un'unica direzione di voto, avendo permesso, sia pure per nobili ragioni di principio, la presentazione di tante candidature (tutte, giocoforza, necessariamente perdenti), avendolo permesso anche dopo aver accertato che i vicini di casa si stavano organizzando diversamente, con candidature forti (e come dare loro torto), perché così funziona nelle competizioni elettorali democratiche: vince chi prende più voti, non averlo fatto è stato non solo un errore che ha portato alla sconfitta, ma anche una negazione del principale ruolo delle "correnti": fare sintesi e mostrarsi concretamente propositivi. Questo è un dato che va acquisito: in Area, e più in generale nel corpo molle dell'associazionismo.
Perché l'associazionismo interno alla magistratura nega se stesso quando abdica al proprio ruolo di sintesi, giacché un filtro selettivo - selettivo di idee, di istanze, e anche di persone - tra la base e il vertice (che sia l'ANM, che sia il Consiglio Superiore, che sia altro, poco importa) è necessario; è nell'ordine delle cose. Dirò di più, in quest'ottica non mi dispiace neppure il termine "correnti": perché se non vi fossero queste, idee, istanze e persone stagnerebbero indistintamente su di una superficie immobile, o appena increspata.
Pare che tra un paio di mesi vi saranno nuove elezioni, per l'ultimo posto vacante al Consiglio. Un solo posto, democraticamente conteso tra tutti. E, inconsciamente, mi sovviene un altro collegamento, con un altro personaggio di sinistra: non Veltroni, ancora, ma Nanni Moretti. Si tratta della scena memorabile del film "Ecce Bombo", nella quale il protagonista partecipa ad una riunione tra amici tutti molto idealisti, in cui, sopratutto, si espongono gli errori commessi; errori anche di calcolo, come non aver correttamente calcolato le latitudini di un'alba. E c'è chi dice: "Per me quel sole, che noi abbiamo aspettato tanto tempo, a Ostia, e che poi spuntava dalla parte opposta, per me è stato un segno, un invito a capire". Altra nota per il futuro: rivedere ogni tanto i film cervellotici e impietosi di Nanni Moretti.
Prime applicazioni giurisprudenziali in tema di tratta di esseri umani
Calogero Ferrara
La Procura della Repubblica di Palermo ha di recente emesso il decreto di fermo per i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico ed alla tratta di esseri umani, al sequestro di persona a scopo di estorsione e per i relativi reati-fine del sodalizio criminoso, tra cui per la prima volta il reato di tortura di cui all’art. 613 bis codice penale, commesso in uno dei centri di detenzione dei migranti in Libia.
Il provvedimento restrittivo è stato convalidato dal giudice per le indagini preliminari competente cui ha fatto seguito la emissione delle ordinanze custodiali in carcere che pure è qui allegato.
Immigrazione e trattamento dei migranti rappresentano senza dubbio uno dei regimi giuridici di maggiore complessità con cui l’attività d’indagine degli uffici di Procura è chiamata a misurarsi, e ciò per due ordini di ragioni: da un lato, l'immigrazione è un fenomeno profondamente connesso con diversi aspetti di tipo giuridico, economico e sociale che rendono le questioni in gioco (ed i diritti potenzialmente coinvolti) particolarmente controverse; d’altra parte in questo settore, più che in altri, si sovrappongono, si integrano e competono tra loro fonti normative diverse, internazionali, europee e nazionali.
Invero proprio la dimensione sovranazionale del fenomeno determina continuamente nuovi e complessi problemi investigativi che richiedono necessariamente l’adozione di strategie comuni da parte dei diversi Stati coinvolti e un approccio di tipo “ diverso” e innovativo rispetto alle tradizionali modalità della cooperazione internazionale.
Dal punto di vista normativo, seppure in teoria la disciplina in oggetto, indipendentemente dalla provenienza, dovrebbe ispirarsi al principio inderogabile di tutela dei diritti umani (nel senso ampio di tutela della dignità di ogni essere umano indipendentemente dalla sua origine e dal suo status), l’esperienza concreta dimostra la estrema problematicità del bilanciamento tra tali diritti ed altre esigenze, di tipo preventivo, connesse alla tutela della sovranità dello Stato, alla sicurezza interna, alla protezione dell’ordine pubblico, interno ed internazionale, alla necessità della lotta contro il traffico e la tratta di esseri umani.
Da un punto di vista strettamente giudiziario, poi, il traffico di migranti e la tratta di persone (secondo le accezioni mutuate dalla Convenzione internazionale delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, aperta alla firma a Palermo dal 12 al 15 dicembre 2000, nonché dai Protocolli Addizionali contro la tratta di persone e contro il traffico di migranti adottati nel 2003), per le loro caratteristiche e peculiarità, costituiscono fenomeni nuovi, e soprattutto mutevoli nelle modalità operative e nelle dimensioni, i cui elementi distintivi non sono ancora del tutto conosciuti, sono in costante ed emergenziale aumento, e destano costante preoccupazione sia a livello istituzionale che di opinione pubblica, soprattutto per la facile manipolazione delle relative tematiche.
Per tale ragione, una efficace forma di contrasto del fenomeno criminale richiede, necessariamente, un monitoraggio costante della sua evoluzione con la introduzione di strumenti normativi, ma anche modalità operative, capaci di affrontarlo nei suoi continui e rapidi cambiamenti e dotati di validità in tutti i territori in cui agiscono le organizzazioni criminali o in cui si manifestano gli effetti di tali illecite attività.
Le scelte di contenimento dei flussi migratori adottate pressoché in tutti i paesi occidentali ed il contemporaneo incremento di detti flussi, causato da situazioni di instabilità economica e politica, se non da veri e propri conflitti, in molti paesi (soprattutto dopo la stagione delle cc.dd. “Primavere Arabe”) hanno determinato al contempo, e come paradossale contrappasso, investimenti sempre più ingenti di risorse da parte della criminalità organizzata nella gestione illegale dei medesimi flussi migratori, con l’effetto di trasformare i gruppi criminali operanti in questo settore in delle vere e proprie “società di servizi” che agiscono ad un livello transnazionale, poiché in considerazione del servizio offerto vi è la necessità di attraversare clandestinamente ed illegalmente i confini di un altro Stato o di più Stati.
In particolare, nel traffico dei migranti (smuggling) il soggetto criminale svolge una funzione assimilabile a quella di una “agenzia” che, dietro pagamento e disinteressandosi completamente del futuro della persona trasportata, offre un servizio di accoglienza e trasporto, sovente in condizioni disumane: si instaura, così, un rapporto “commerciale” tra il migrante che chiede un servizio, di norma illegale, ed il criminale che glielo offre dietro adeguato compenso per la gestione della “merce” (umana - human goods) che come tale viene trattata.
All’opposto, nella tratta degli esseri umani (trafficking), di norma, non vi è alcuna pattuizione tra criminale e vittima ed il destino della “merce” ha una rilevanza fondamentale per il trafficante, poiché i veri e reali guadagni derivano dal futuro impiego che il criminale ne farà (prostituzione, lavoro nero, pedopornografia, ecc.).
Tra traffico di migranti (sanzionato in Italia dall’art. 12 comma 3 e commi seguenti del D.Lgs. 286/1998 e dall’art. 416 comma 6 c.p. se commesso in forma associata) e tratta di persone (sanzionata in Italia dagli artt. 600, 601 e 602 c.p. nelle diverse condotte di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani e commercio di schiavi) esistono differenze significative, anche se nel linguaggio comune le due figure tendono a confondersi, poiché spesso episodi di traffico in itinere divengono casi di tratta, o all’opposto la persona trasportata, inizialmente richiedente il solo servizio di ingresso migratorio illegale in uno Stato, diviene in un momento successivo vittima di tratta ed oggetto di condotte di sfruttamento.
Molteplici casi giudiziari hanno, infatti, dimostrato che inizialmente la persona si rivolge spontaneamente agli esponenti delle organizzazioni che gestiscono il servizio migratorio illegale per essere condotta in altro Stato ed in seguito, durante le fasi del viaggio, la condotta del trasportatore si modifica, facendo subentrare ipotesi di restrizione della libertà personale o comunque di coartazione della volontà e connotandosi progressivamente in finalità di sfruttamento e/o altre manifestazioni di prevaricazione proprie della tratta (minacce, violenze, frode con il disvelamento dell’inganno originario) che possono giungere anche all’omicidio, anche come esempio da fornire ad altri “compagni di viaggio”.
Ciò premesso, traffico e tratta si differenziano, principalmente, per una condotta maggiormente aggressiva e violenta del soggetto attivo della tratta, per l’elemento temporale - poiché nel traffico il rapporto si esaurisce generalmente nel tempo strettamente necessario per il trasporto, mentre nella tratta tende ad essere particolarmente lungo o a a tempo indeterminato (ad esempio nel caso dell’indebitamento in cui il rapporto si estingue solo con la restituzione del debito), e per la cura o meno della sorte e delle condizioni della “merce umana” trafficata.
Per tali ragioni, se nelle intenzioni del legislatore internazionale appariva più probabile una maggiore gravità oggettiva delle condotte di tratta rispetto a quelle di traffico, riscontrandosi nelle prime violenze e sevizie di elevata efferatezza, l’esperienza giudiziaria ha dimostrato che tali forme di trattamento inumano si verificano anche in relazione al fenomeno del traffico, ove anzi si registrano i decessi più numerosi, per l’incuria e l’indifferenza dei trafficanti rispetto al buon esito del viaggio.
Le indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo negli ultimi anni hanno dimostrato che le rotte dei migranti - in particolare quella cosiddetta del Mediterraneo Centrale che dall’Africa subsahariana attraversa la Libia e da lì consente loro di raggiungere la Sicilia verso l’Europa - sono fortemente controllate da reti criminali pluridimensionali, che trovano i propri centri organizzativi in Paesi africani e che hanno dimostrato la capacità di gestire in maniera certosina il viaggio, dal paese di origine del migrante fino al paese di destinazione finale (non di rado nel Nord Europa), prevedendo così una vera e propria “governance” dei flussi migratori tramite le proprie “regole” – ovviamente criminali – e sovente con complicità in ambienti istituzionali, militari e paramilitari di quei paesi.
Ogni gruppo criminale è risultato strutturato, gerarchicamente organizzato, con contatti e collegamenti in una molteplicità di aree territoriali e di paesi, dotato di risorse umane e materiali, da utilizzare anche al fine di vincere la “concorrenza” di altri gruppi criminali o, addirittura, di organizzazioni lecite.
Tra tali strutture logistiche per la adeguata organizzazione del viaggio del migrante e la sua gestione nell’attesa dell’imbarco, e soprattutto del pagamento che deve sempre essere anticipato, un ruolo chiave è quello delle c.d. “Connection/safe houses” - aree recintate sorvegliate da carcerieri armati (talvolta reclutati tra gli stessi migranti secondo il modello dei “kapo’” di nazista memoria) per concentrare i migranti prima del viaggio e dove gli stessi sono tenuti in condizioni ai limiti della sopravvivenza, vittime di torture, stupri ed uccisioni che ricordano eventi che pensavamo ormai potessero far parte solo della Memoria e della Storia (seppure anche recente, come purtroppo dimostrato dai campi di pulizia etnica o di stupro creati in occasione dei conflitti nei Balcani negli anni ’90 o in analoghe situazioni di crisi in altre aree del pianeta).
Invece nelle parole dei migranti - e talvolta nelle loro stesse urla di dolore intercettate sui c.d. “Telefoni di servizio” sottoposti ad indagine e utilizzati per contattare i familiari delle vittime, fare ascoltare loro in diretta le torture e spingerli a pagare prima possibile il prezzo della liberazione e/o del viaggio – si ripetono i nomi di persone e luoghi ormai divenuti tristemente famosi e sinonimo di orrore, terrore, sofferenza e morte, come “la prigione militare di Zawya”, “il Ghetto di Alì il torturatore”, “la Casa Bianca” o “il campo di Bani Walid” per citare alcuni dei più ricorrenti.
Molti procedimenti avviati dalla Procura di Palermo, pur nella difficoltà di indagini svolte per fatti commessi principalmente all’estero, seppure con effetti criminali che si dispiegano sul territorio nazionale, hanno consentito di accertare la responsabilità di alcuni dei soggetti che avevano cooperato con dette organizzazioni criminali e che poi si erano recati in Italia, una volta guadagnata la somma necessaria per pagarsi il viaggio ovvero avendo deciso di interrompere la loro attività criminale per recarsi in Europa. A tal proposito si richiamano, tra le altre, la sentenza del 13 febbraio 2015 della Corte di Assise di Agrigento (divenuta definitiva), di condanna a trent’anni di reclusione di un somalo, a capo di un gruppo paramilitare operante al confine tra il Ciad e la Libia che intercettava i migranti sulla rotta terrestre nel deserto per sequestrarli al fine di ottenere il pagamento del riscatto. Ancora si richiamano le sentenze di condanna all'ergastolo, emesse in data 18 dicembre 2018 dal GIP di Palermo in sede di giudizio abbreviato e la condanna a 24 anni e sei mesi di reclusione pronunciata in data 16 luglio 2019 dalla Corte di Assise di Agrigento, nei confronti di alcuni dei carcerieri torturatori posti a guardia del “Ghetto di Alì il Libico” nella città di Sabrah in Libia.
In tali casi, a differenza che nel fermo di indiziato di delitto del Pubblico Ministero di Palermo del 14 settembre 2019 sotto riportato (convalidato dal GIP di Messina competente per il luogo ove sono stati localizzati gli indagati con applicazione della misura cautelare custodiale e successiva dichiarazione di incompetenza territoriale e poi rinnovato dal GIP di Palermo) non era stato contestato il delitto di tortura, pur essendovene tutti gli elementi costitutivi, trattandosi di fatti antecedenti alla sua introduzione all'articolo 613 bis del codice penale avvenuta con la Legge 110 del 2017 pubblicata in data 18 luglio 2019.
Nel provvedimento in commento si è, infatti, proceduto, per la prima volta, alla specifica contestazione del delitto di tortura, oltre alla condotta associativa ed al sequestro di persona a scopo di estorsione, commesso in uno dei più famigerati centri di detenzione e concentramento dei migranti in territorio libico - la ex prigione militare di Zawya, in passato gestita dalle miliziue di Gheddafi - a pochi metri dalla spiaggia da cui si registrano partenze quotidiane di barche stipate all'inverosimile di migranti in cerca di un futuro migliore.
Peraltro, si è ritenuta sussistente ancora una volta la giurisdizione italiana poichè i delitti in esame vanno inquadrati nella disciplina di cui all’art. 10, co. 2, c.p., ispirata dal principio di universalità, trattandosi di delitti comuni commessi da stranieri all’estero, ai danni di stranieri, punibili secondo la legge italiana, su richiesta di procedimento penale del Ministro della Giustizia. Orbene, nel caso di specie nella procedibilità disposta dal Ministero della Giustizia si rileva, oltre alla sussistenza di tutte le altre condizioni, la opportunità di rimuovere l’impedimento all’esercizio della giurisdizione italiana, proprio in considerazione dell’estrema gravità ed efferatezza delle condotte, oltre che dell’elevato numero delle vittime, come emerge dalle univoche e coerenti dichiarazioni dei migranti, avvalorate anche da convergenti riconoscimenti fotografici. Merita di essere richiamato che in ordine alla mancata attivazione della procedura di estradizione, secondo una consolidata e condivisibile giurisprudenza di legittimità non occorre che la stessa sia stata preventivamente esperita prima della richiesta ministeriale, occorrendo soltanto che all’estradizione non si sia fatto luogo, e ciò in quanto i due istituti della procedibilità nello Stato e dell’estradizione non possono coesistere, di tal ché solo se è avvenuta l’estradizione lo Stato si priva del diritto di punire (cfr. Cass. 22 ottobre 1981, Boccolato) .
Il contrasto e la gestione di macrofenomeni criminali e socio-politici, come quelli inerenti alla movimentazione di centinaia di migliaia di persone da un continente ad un altro, con il ruolo spesso decisivo della criminalità organizzata e la connivenza di strutture istituzionali corrotte deviate, non possono essere riservati solo ed esclusivamente alla Autorità Giudiziaria ed alle Forze di Polizia di un paese, né tantomeno ai limitati strumenti del diritto penale, tuttavia la risposta giurisdizionale consente, perlomeno, la affermazione del principio del “rule of law” anche in Paesi ove sembra regnare il caos, di fornire alle vittime tutela e riconoscimento dei loro diritti fondamentali brutalmente e ferocemente lesi e, alla fine, lancia un messaggio di contrasto per ogni forma di impunità, anche nelle situazioni più estreme, in cui sarebbe facile sostenere il contrario.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.