La procedura civile in italia nei primi anni del xx secolo di Paolo Spaziani
Recensione a cura di Irene Ambrosi
Il bel saggio di Paolo Spaziani ci consente di ripercorrere una grande stagione, trascorsa ma non dimenticata, della scienza italiana del processo.
Il volume è dedicato ai protagonisti di quell’epoca leggendaria, alle cui venture e sventure l’Autore si accosta con rigoroso metodo scientifico e con venerazione e profonda umanità, perché dentro queste pagine, non soltanto storico-giuridiche, può dirsi che, come accade nelle opere letterarie, si aggirano persone vive, che con le loro gioie e dolori appartengono alla vita interiore di chi le ha scritte e che suscitano nel lettore, allo stesso tempo, l’interesse a conoscerne il genio e una malinconia struggente per ciò che, umano, è inesorabilmente perduto.
Il tempo che ci viene raccontato è quello del primato di Lodovico Mortara, giurista insigne, uomo «dalla ridondante personalità» e dal «non facile carattere», al quale, come ci rammenta Paolo Spaziani, dobbiamo una visione assolutamente
innovativa e moderna dell’ordinamento giuridico, al cui centro viene a trovarsi «con oltre mezzo secolo di anticipo, la persona umana”.
Mortara ebbe una carriera prestigiosissima: come presidente di Corte d’appello, nel 1906, riconobbe il diritto di voto alle donne, come ministro della giustizia, nel 1919, abrogò l’autorizzazione maritale e infine, come primo presidente della Cassazione di Roma, nel 1922, attribuì all’autorità giudiziaria il potere di controllo dei presupposti di urgenza dei decreti-legge, escludendo che potesse essere esercitata l’azione penale per un reato previsto in un decreto del governo prima della sua conversione in legge.
Paolo Spaziani ci restituisce la concezione di Mortara in tutta la sua originalità, consegnandoci in proposito le riflessioni di due illustri giuristi; da una parte, Piero Calamandrei che osservò come Mortara, diversamente dagli altri processualisti, fosse «arrivato allo studio del processo non salendovi dal diritto privato, ma scendendovi dal diritto costituzionale, cercando in esso non lo strumento per far vincere le cause ai litiganti, ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia»; dall’altra, Salvatore Satta che ipotizzò come Mortara avesse scelto la missione del giudice proprio in ragione del nobile obiettivo di rendere giustizia attraverso il processo, obiettivo che non si esauriva soltanto in ciò, bensì nell’anelito di renderla in uno Stato libero, e dunque in un processo circondato delle più ampie garanzie delle libertà e dei diritti delle parti, come costante della vita professionale e scientifica di Mortara e, verosimilmente, la stessa ragione del suo abbandono della cattedra universitaria per la magistratura.
«Mentre Mortara ascendeva al primato», Carlo Lessona e Giuseppe Chiovenda, «due giovani studiosi piemontesi» facevano il loro ingresso nel mondo della procedura civile. Nel tratteggiarne le diverse personalità, le opere e i riconoscimenti accademici, l’Autore li descrive come appartenenti a due scuole contrapposte, l’una riconducibile a Lodovico Mortara, costituendo Lessona «il valoroso scrittore» cui si riferiva la recensione anonima, ma facilmente riconducibile al suo Direttore (appunto, Mortara), apparsa sulla Giurisprudenza Italiana nel 1894, l’altra riconducibile a Vittorio Scialoja, potentissimo preside della facoltà giuridica romana, con il quale si laureò Giuseppe Chiovenda nel 1893, a soli 21 anni.
Alle due scuole corrispondevano due concezioni opposte sia per carattere ideologico-politico sia per carattere metodologico- scientifico: «Mortara aveva compreso che anche il piccolo e affatto peculiare mondo della procedura avrebbe risentito della reazione degli studiosi del diritto romano (e in particolare di uno di loro, Vittorio Scialoja)». Da un lato, quindi, Mortara fu portatore di una concezione progressista volta a rafforzare la funzione del processo come strumento di giustizia sociale, dall’altro, Scialoja, difensore di una concezione liberale post-unitaria, si batté per la riaffermazione della perdurante attualità del diritto romano e per la costruzione di un nuovo sistema giuridico ispirato dalla scienza giuridica tedesca.
La ricerca di Paolo Spaziani prosegue nel racconto delle vicende professionali e personali di Giuseppe Chiovenda e Carlo Lessona, descrivendone le diverse fortune: «trionfi» per Chiovenda, «sventure» per Lessona.
Trionfi accademici per il primo, se sol si pensi alla celeberrima prolusione di Chiovenda a Bologna su L’azione nel sistema dei diritti, ricordata dalla dottrina delle successive generazioni come il «manifesto» della nuova scienza del diritto processuale civile tanto che il giorno in cui essa fu tenuta - il 3 febbraio 1903 - è considerato il giorno della sua «fondazione».
Sventure accademiche per il secondo, cagionategli improvvidamente dal suo Maestro Mortara, il quale sferrando un attacco contro uno scritto di Chiovenda, nell’estate del 1903, proprio nello stesso periodo in cui veniva indetto dalla facoltà giuridica di Napoli il concorso per coprire la cattedra già da lui occupata, ne danneggiò gravemente la candidatura; infatti, la cattedra, all’esito di un concorso protrattosi tra alterne vicende per quasi due anni, fu assegnata a Chiovenda, sebbene Lessona fosse già professore ordinario rispetto al suo concorrente, ancora straordinario, ed autore di un trattato sulle prove in cinque volumi. In proposito, Paolo Spaziani con termini illuminanti spiega: «ciò che si stava per consumare non era soltanto la gara tra due sommi studiosi ma lo scontro tra due contrastanti concezioni sul modo di condurre lo studio e l’insegnamento della scienza processuale - e poiché tra queste due concezioni quella di cui era espressione Chiovenda era molto più potente, tanto in sede accademica quanto in sede politica, rispetto a quella di cui era espressione Lessona - non bisognerà stupirsi nell’apprendere che il concorso avrebbe preso una piega tale da elidere il vantaggio iniziale di cui godeva quest’ultimo e da consentire al primo di salire trionfalmente sulla cattedra che era stata di Mortara, permettendo alla scuola di stampo roman-germanista e di ispirazione scialojana di estendere il suo dominio sull’Università italiana.». L’ultimo atto della sconfitta di Lessona si consumò nel 1906, quando Chiovenda venne chiamato all’Università di Roma per chiara fama.
Nelle pagine dedicate alla grave malattia che colpì Carlo Lessona dopo la sconfitta professionale, troviamo l’umanità sincera e la commozione dell’Autore che traspare a proposito della dedica formulata da Lessona al proprio medico, posta nella prima di copertina del particolarissimo volume Giurisprudenza animalesca, apparso nel 1906, ove si legge: «Illustre e caro collega, un anno fa tu mi hai salvato la vita con la tua scienza, con la tua arte. Io ti offro un lavoro mio che non né di scienza né di arte. Ma te lo offro con l’affetto e con la riconoscenza d’un risorto. Sei stato così buono con me! Siilo ancora accettando il dono».
Davvero arguto e divertente è il racconto delle schermaglie ironiche che Lessona riservò a Chiovenda negli anni a seguire: definendolo, parlando agli studenti durante le sue lezioni, come la «vetta dell’Himalaya» oppure inviandogli i propri «rallegramenti» per il premio ricevuto dall’accademia dei Lincei per le scienze giuridiche, appena quarantenne nel 1912, sebbene si trattasse, come chiosa a ragione l’Autore, di una «malcelata insolenza» e di «un’alluvione di insulti».
Il volume si chiude con le vicende legate alla comparsa sulla scena della scienza del processo di Piero Calamandrei e alla prematura scomparsa di Lessona, a 56 anni, il 16 aprile 1919.
La ricostruzione di quelle vicende nella riflessione di Paolo Spaziani è inedita nell’attribuire all’intervento di Calamandrei un valore di intervento pacificatore tra l’affetto per Lessona, indimenticato suo Maestro, e l’avvicinamento a Chiovenda, detentore del primato di studioso di procedura civile.
L’Autore dedica le ultime pagine alla Prefazione di Chiovenda al Trattato delle prove di Lessona del 1922 e alla «misteriosa recensione» di Calamandrei apparsa nell’anno successivo e spiega che la Recensione era soltanto formalmente dedicata a Lessona e che, viceversa, era diretta a replicare alla Prefazione di Chiovenda il quale «aveva colto quell’occasione per affermare, contrariamente al vero, che Lessona aveva riconosciuto il valore della sua scuola e persino la superiorità delle sue idee».
La reazione di Calamandrei, «uomo di studio, ma anche di azione», come lo definì Salvatore Satta, non si fece attendere e nello stilare la Recensione difese la memoria di Lessona con un’estrema abilità polemica.
Difatti, come già ipotizzato da Franco Cipriani, il misterioso bersaglio degli strali di Calamandrei non poteva che essere lo stesso Chiovenda, che mentre veniva ringraziato personalmente per aver riportato Lessona nel posto che gli spettava incarnando «il vanto più alto e il più fecondo fermento della scuola giuridica italiana», veniva a costituire il reale bersaglio dell’attacco misterioso rivolto a «qualche inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi» che avrebbe ostentato «balorda indifferenza» verso l’opera di Lessona.
Paolo Spaziani, nel dedicare il volume «alla memoria del Prof. Franco Cipriani, «esempio animatore», ci ha dato affidamento che il racconto delle vicende della procedura civile in Italia continui per il tramite della sua felice penna anche per i secondi anni del ventesimo secolo.
Noi ce lo auguriamo e glielo auguriamo.
*recensione già pubblicata su Giudice donna on line n.1/2019.