ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ottemperanza al giudicato civile: interpretazione, integrazione o sostituzione del giudicato?
(nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369)
di Raffaella Dagostino
Sommario: 1. Il caso di specie. 2. Le questioni giuridiche. 3. Brevi considerazioni conclusive.
1. La recente pronuncia del Consiglio di Stato (7 luglio 2020, n. 4369) ha offerto una preziosa occasione per riflettere, ancora una volta, sulla natura giuridica del giudizio di ottemperanza e sull’ampiezza dei poteri di cognizione da riconoscersi al giudice dell’ottemperanza medesima, in relazione all’oggetto del giudicato, in particolare allorché si tratti di dare compiuta attuazione a sentenze del giudice civile.
La questione originava da una sentenza passata in giudicato del giudice ordinario del lavoro con cui era stato riconosciuto al lavoratore esposto al rischio amianto il diritto a beneficiare del ricalcolo della pensione contributiva per ogni anno di lavoro svolto con esposizione all’agente patogeno, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13, comma 8, della l. n. 257/1992.
In particolare, la sentenza disponeva che si procedesse alla supervalutazione della pensione contributiva per gli anni di esposizione all’inalazione di fibre di amianto, da calcolarsi moltiplicando il coefficiente pari a 1,5 per il periodo di contribuzione individuato per un arco temporale definito (dal 15.12. 1960 al 31.12.1985). Pertanto, si condannava l’INPS al pagamento delle differenze sulla pensione e alla maggior somma dovuta a titolo di rivalutazione monetaria, oltre che al pagamento degli interessi legali maturati.
Tuttavia, il lavoratore, in esecuzione della sentenza, chiedeva che gli venisse riconosciuta una ulteriore maggiorazione di anzianità (di 12 anni e mezzo) rispetto a quella contributiva complessiva già conseguita (pari a 39 anni circa), per un totale di 52 anni di anzianità, sul presupposto che la sentenza passata in giudicato avesse implicitamente accertato il proprio diritto alla riliquidazione della pensione sulla base di tutta l’anzianità contributiva.
Si opponeva l’INPS, contestando che, diversamente, tale calcolo non poteva che essere effettuato sulla base dell’anzianità contributiva utilmente valutabile, il cui limite massimo, imposto dalla legge, nello specifico ambito del Fondo trasporti, era pari a 36 anni di contribuzione.
Veniva, pertanto, adito in sede di ottemperanza il Tar del Lazio che, in applicazione del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. lavoro, n. 17528/2002; n. 7556/2014; n. 27677/2011; n. 5419/2020), fatto proprio anche dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. III, n. 1718/2018), riteneva che il diritto alla rivalutazione contributiva di cui all’art. 13 della l. n. 257/1992, poiché funzionale ad agevolare il conseguimento della pensione massima per i lavori esposti a rischio amianto che non avessero raggiunto il massimo della prestazione conseguibile, implicasse che il ricalcolo della pensione a seguito dell’applicazione della suddetta rivalutazione dovesse avvenire entro e non oltre i limiti della massima anzianità contributiva, ope legis stabiliti.
Era proposto appello al Consiglio di Stato sul presupposto che il Tar Lazio, così decidendo, avesse inopinatamente compresso il diritto alla riliquidazione della pensione entro i limiti ordinamentali, violando quanto implicitamente accertato con sentenza passata in giudicato, ossia il diritto al superamento del tetto massimo contributivo ai fini del ricalcolo della pensione.
2. Il Consiglio di Stato respingeva l’appello, perché infondato, facendo leva su alcune rilevanti argomentazioni.
Innanzitutto, si confutava la tesi secondo cui in sede di cognizione civile si fosse formato giudicato implicito relativamente all’eccezione di merito, sollevata dall’INPS, intesa a determinare il tetto massimo del montante contributivo. Piuttosto, si riteneva che il giudice civile fosse rimasto silente sul punto, non affrontando specificatamente la questione.
Più specificatamente, si riteneva che, nel caso di specie, il giudicato civile si fosse limitato a riconoscere il solo diritto alla rivalutazione dell’anzianità per via dell’accertata esposizione all’amianto, senza nulla sancire in ordine al diritto ad ottenere la liquidazione della pensione sulla base di tutta l’anzianità contributiva, per come complessivamente maturata, a prescindere dal rispetto del limite legale.
Il Consiglio di Stato, quindi, acclarava che il giudice civile non si fosse espresso sulla questione sollevata dall’INPS e che la statuizione di condanna al pagamento delle differenze di trattamento retributivo, conseguenti a supervalutazione da esposizione ad amianto, non contenesse alcuna indicazione, nemmeno nella parte motivazionale, sulle modalità di calcolo dell’anzianità contributiva e alla riconduzione entro i limiti ordinamentali.
Di conseguenza, richiamando il consolidato principio per cui il giudicato civile copra il dedotto e il deducibile, il Consiglio di Stato riteneva di escludere che tale ultima questione (afferente il possibile superamento del limite del tetto contributivo) potesse ritenersi implicitamente affrontata e decisa in quella sede, poiché estranea all’oggetto del contendere, non costituendo un passaggio logico-pregiudiziale necessariamente implicato nel percorso argomentativo e motivazionale di cui in sentenza, rimasta neutra rispetto al tema.
Pertanto, si riteneva che l’oggetto del contendere su cui si era formato giudicato, avesse riguardato specificatamente il riconoscimento del beneficio di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 257/1992, beneficio, si ribadiva, previsto esclusivamente al fine di agevolare il conseguimento della pensione massima ai lavoratori esposti al rischio amianto, ottenibile da coloro che non avessero raggiunto il massimo della prestazione conseguibile.
Circoscritto l’oggetto del giudicato in stretta aderenza alla res controversa e chiarito, di conseguenza, che nel caso di specie il giudicato “silente” non avesse comportato la formazione di un giudicato implicito su questioni, pur eccepite ma non affrontate, collegate ma logicamente consequenziali a quelle oggetto del decisum, il Consiglio di Stato, ai fini dell’ottemperanza[1], riteneva di poter comunque garantire puntuale attuazione del giudicato formatosi in sede di cognizione civile, procedendo all’applicazione del medesimo in conformità con le regole ordinamentali, le sole capaci di ricondurre l’ottemperanza a conclusioni coerenti con il sistema normativo.
Facendo leva sul criterio di stretta continenza che deve orientare il giudice amministrativo nell’esecuzione del giudicato civile (o più in generale, nell’esecuzione di pronunce emesse da organi appartenenti a plessi giurisdizionali diversi), il Consiglio di Stato giungeva a ritenere che fosse consentito integrare il precetto di cui in sentenza, mediante l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento (ex art. 12 disp. att.), così da colmare lo spazio regolativo lasciato vuoto dal giudicato, senza incorrere in alcuna manipolazione interpretativa del decisum.
La pronuncia, dunque, sebbene si ponga formalmente in linea con il costante e risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa che riconosce la sussistenza di limiti stringenti ai generalmente penetranti poteri di cognizione spettanti al giudice dell’ottemperanza nell’ipotesi in cui si tratti di dare esecuzione al giudicato civile[2], merita di essere segnalata perché esplicita alcuni importanti principi per la comprensione delle tecniche giurisdizionali di attuazione del giudicato, invitando a riflettere sull’ampiezza e sui limiti dei poteri, di cognizione prima che di esecuzione, spettanti al giudice amministrativo in qualità di giudice dell’ottemperanza del giudicato civile e sulla peculiare natura giuridica dell’ottemperanza, che è da considerarsi complessa anche in tali ipotesi[3].
Si ritiene, infatti, che la natura giuridica e la funzione di un istituto processuale non possa mutare in ragione dell’imputabilità del giudicato, che ne formerà oggetto di attuazione e che ne costituisce presupposto processuale, a un organo appartenente ad altro plesso giurisdizionale.
Certamente l’asserzione merita chiarimenti, posto che non è assolutamente da confutare la diversità ontologica che corre fra l’assetto dei rapporti scaturenti dai due tipi di sentenza, del giudice civile e del giudice amministrativo, la diversità degli obblighi di conformazione gravanti sulla p.a. in conseguenza del giudicato amministrativo piuttosto che civile e, di conseguenza, il diverso grado di penetrazione e di ampiezza dei poteri cognitori spettanti al giudice dell’ottemperanza a garanzia della compiuta attuazione del giudicato, a seconda che ricorra l’una o piuttosto l’altra ipotesi[4].
Sicuramente, nell’ipotesi di ottemperanza di provvedimenti del giudice civile è da negare la sussistenza di poteri di accertamento su elementi esterni al provvedimento da eseguirsi o su questioni non ricadenti nell’oggetto del giudicato né implicitamente coperte dal giudicato stesso, in ragione dei vincoli derivanti dal riparto di giurisdizione che escludono, a pena di violazione dei limiti esterni[5], un’attività di cognizione su materie rientranti nell’altrui giurisdizione.
E in aderenza a siffatta prospettiva si pone la pronuncia che si commenta, posto che essa muove proprio dal principio fondamentale di stretta continenza interpretativo-cognitoria del giudice dell’ottemperanza al contenuto e all’oggetto del giudicato civile, in funzione della corretta attuazione del precetto ivi espresso, nonché – si aggiunge – a garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale, ai sensi e per gli effetti degli artt. 24 e 113 della Cost.
Infatti, sebbene sia pacifico che la natura poliforme del giudizio di ottemperanza e la poliedricità delle forme di tutela iviapprestabili non ne consenta una reductio ad unitatem[6], ciò non permette di accantonare la tesi della ricostruzione in termini unitari dell’istituto dell’ottemperanza, perché la complessità intrinseca dell’ottemperanza stessa (recte: delle forme di tutela apprestabili con il giudizio di ottemperanza) non collima con il diverso assunto che mira a riconoscerne natura giuridica e funzione unitaria.
Lungi dal poter considerare il giudice dell’ottemperanza alla stregua di giudice di mera esecuzione, non fosse altro perché Egli è il giudice naturale del potere amministrativo, o per meglio dire della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni a carico della p.a. che dal giudicato discendono o che in esso trovano legittimo presupposto[7], ciò che muta è il contenuto della domanda, anche in ragione del diverso presupposto processuale[8], da cui deriva il diverso atteggiarsi dei poteri di cognizione del giudice dell’ottemperanza, senza per questo poter ritenere di escluderne qualsiasi margine d’intervento.
In conformità con le origini storiche dell’istituto[9], sorto come rimedio per dare attuazione alle sentenze del giudice ordinario emesse nei confronti della p.a. (ex art. 4 L.A.C.) e poi, in via pretoria esteso anche all’esecuzione delle sentenze del G.A., il giudizio di ottemperanza assolve la fondamentale funzione di garantire effettiva «giustizia nell’amministrazione», perseguendo piuttosto l’obiettivo del buon funzionamento dell’amministrazione pubblica, obbligata a conformarsi al giudicato[10], a garanzia dell’effettività della tutela del privato coinvolto nell’esercizio dell’attività amministrativa, non solo discrezionale bensì vincolata[11], prima ancora che quello della responsabilità civile della amministrazione medesima[12].
Pertanto, posto che il giudizio di ottemperanza richiede l’attuazione di una regola espressa in sentenza e che spesso la medesima si appalesa incompleta o indeterminata, l’ampiezza dei poteri cognitori del giudice dell’ottemperanza può dirsi inversamente proporzionale al grado di astrattezza e autonomia – rispetto al giudizio di cognizione – del contenuto del precetto espresso nel titolo esecutivo, che tendenzialmente dovrebbe offrire al G.A. tutti gli elementi per ricavare le coordinate operative da imporre alla p.a., in assenza dei quali il provvedimento resta ineseguibile[13].
Ciò porta certamente a distinguere le ipotesi di condanna generica, in cui il dictum posto dal giudice ordinario non è passibile d’integrazione nemmeno in via interpretativa, essendo indispensabili ulteriori accertamenti, in fatto e in diritto, da compiersi dinanzi al giudice munito di giurisdizione[14], da quelle di condanna (rectius: giudicato) implicita[15], in cui invece l’integrazione è meramente apparente, perché frutto della esplicitazione di questioni o accertamenti che, costituendo presupposto logico indispensabile per la soluzione di questioni su cui invece si è formato giudicato esplicito, debbono ritenersi implicitamente accertate e risolte, e ancora, le ipotesi di giudicato silente non implicito bensì incompleto[16].
Secondo la sentenza che si annota nel caso di specie il giudicato presenterebbe un vuoto regolativo in ragione del fatto che il dispositivo di cui in sentenza non esplicita compiutamente le obbligazioni gravanti sulla p.a. a garanzia della corretta esecuzione del giudicato, lasciando margini d’incertezza in relazione al faciendum[17].
Rimane il dubbio se di fronte a un parziale non liquet del giudice di cognizione su questioni, pur eccepite in giudizio ma non specificatamente affrontate, si formi effettivamente giudicato o meno, dal momento che questo copre, ancor prima del deciso, il dedotto (e il deducibile). A fronte del dubbio sta però il fatto che se al giudice dell’esecuzione di regola è precluso completare il dispositivo contenuto in sentenza compiendo accertamenti su questioni di merito esterne al giudicato, il giudice dell’ottemperanza non può considerarsi alla stregua di mero giudice di esecuzione – a maggior ragione oggi in cui le derive evolutive di quest’ultimo giudizio, sempre più proteso verso l’eterointegrazione del titolo esecutivo, impongono di rimarcare la specialità del primo[18] . Il bilanciamento concretamente operato nel caso di specie ha portato il giudice amministrativo a ritenere possibile che, in mancanza di una espressa statuizione nella sentenza, il giudicato potesse essere integrato in via interpretativa come se si fosse in presenza di un dispositivo incompleto.
Esclusa la possibilità di qualificare l’ipotesi di cui al caso di specie alla stregua di una condanna generica[19], posto che al giudice amministrativo erano stati forniti tutti i parametri per il calcolo del quantum dovuto, il giudice amministrativo ha dunque ritenuto di poter procedere a un’interpretazione e applicazione del giudicato (attraverso la lettura del dispositivo e della motivazione a sentenza) conforme alle regole ordinamentali.
Conseguentemente, «l’effetto arricchente»[20] che ne è derivato è stato legato all’interpretazione sistematica e all’applicazione della normativa in questione e il problema del non liquet è stato superato mediante l’applicazione dei criteri generali d’interpretazione della legge, di cui all’art 12 disp. att., che permettono una lettura del dispositivo coerente con il sistema normativo vigente, evitando manipolazioni interpretative ed extra ordinem del decisum.
Il non liquet del giudice civile sulla questione “connessa”, in via succedanea, alla materia oggetto del contendere, su cui si era formato giudicato, è stato così spiegato in ragione di un silente rinvio all’inderogabile disciplina di legge che fissa le soglie massime del tetto contributivo[21].
La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato, è evidente, si preoccupa di bilanciare esigenza di certezza delle regole e principio di effettività della tutela sfruttando al massimo le potenzialità offerte dalla natura cognitoria del giudizio di ottemperanza per contestualizzare il dispositivo della sentenza nel quadro normativo di riferimento [22].
I poteri interpretativi e cognitori spesi nel caso di specie dal giudice dell’ottemperanza sembrerebbero così non avere integrato il decisum con accertamenti di merito ricadenti nell’altrui giurisdizione.
Pare doveroso sottolineare che, al mutare del presupposto, giudicato civile piuttosto che giudicato amministrativo, e delle modalità con cui è esplicato, ciò che muta non è la natura giuridica e la funzione del giudizio di ottemperanza, piuttosto le caratteristiche e l’estensione del potere di cognizione del giudice dell’ottemperanza medesima.
Allorché si domandi esecuzione del giudicato civile, nelle peculiari ipotesi di profili non espressamente esplicitati in sentenza, il diverso atteggiarsi dei poteri di cognizione del g.a. è condizionato dall’oggetto del giudicato e dal suo contenuto[23], per come esplicato in sentenza, oltre a essere vincolato al rispetto dei criteri di riparto della giurisdizione, che inevitabilmente, impediscono al giudice dell’ottemperanza di effettuare accertamenti extra ordinem ma non di integrare il precetto contenuto nella sentenza del g.o. attraverso un’attività d’interpretazione conforme alle regole e ai principi generali dell’ordinamento giuridico, in stretta aderenza all’oggetto del giudicato.
Giova ricordare un antico brocardo latino, ubi remedium ibi ius[24], ove il concetto di “rimedio”, colto nella sua valenza sostanziale dell’effettività della tutela è incontrovertibilmente legato al concetto di ius, di diritto oggettivamente inteso. Principio che riecheggia i ben noti e insuperati insegnamenti di autorevoli Maestri del diritto processuale civile[25] che, nell’avviare la riflessione sulla estensione e sui limiti dell’attuazione della legge nel processo, hanno posto una pietra miliare ancor oggi valida per il sistema processuale generalmente considerato, per cui «il processo deve dare per quanto è possibile … a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire».
Pertanto, nell’ipotesi di esecuzione dei provvedimenti del giudice civile (ex art. 112, co. 2, lett.c), è sullo scivoloso crinale del distinguo fra interpretazione e integrazione (interna o esterna) del giudicato che si attagliano i poteri di cognizione del giudice dell’ottemperanza, da esercitarsi in equilibrio fra legalità ed effettività della tutela, al fine di evitare di travalicare i limiti esterni della giurisdizione.
Torna, dunque, la vexata quaestio dell’individuazione dell’oggetto della res iudicata, dell’ampiezza dell’ambito oggettivo di efficacia del giudicato medesimo, da discernere attraverso oculata attività interpretativa della sentenza, quale bilanciata sintesi fra comando e giudizio, fra dictum contenuto nel dispositivo e ragioni giuridiche espresse in motivazione[26], su i cui profili problematici non è possibile soffermarsi in questa sede.
Questione complessa che, tuttavia, non esclude anzi rimarca l’esistenza di poteri di cognizione interna al giudicato, esercitabili dal g.a. anche ad integrazione del dispositivo incompleto, a garanzia dell’effettività della tutela in conformità alle regole ordinamentali.
3. Volendo ripercorrere gli insegnamenti d’illustre dottrina[27], non resta che ribadire che l’ottemperanza sia sempre necessariamente giudizio di cognizione prima che di esecuzione, sebbene diverso sia il grado di penetrazione dei poteri del giudice ai fini della compiuta conformazione dell’attività amministrativa agli obblighi discendenti dal giudicato.
Ciò si spiega in ragione del fatto che il giudizio di ottemperanza sia sempre necessariamente volto prima all’accertamento puntuale degli obblighi derivanti dal giudicato[28], sia civile sia amministrativo, e di conseguenza all’attuazione[29] del medesimo.
A differenza del giudizio di esecuzione, il giudice dell’ottemperanza non guarda solamente al titolo esecutivo, bensì al giudicato nella sua completezza, ossia alla complessità di rapporti giuridici ad esso sottesi.
Ciò garantisce un maggior grado di penetrazione ed estensione dell’attività d’interpretazione, fino a consentire di spingerla sino ai margini d’integrazione del dispositivo ove tale attività di cognizione abbia ad oggetto questioni implicitamente coperte dal giudicato. Nel caso di specie il Consiglio di Stato ha ricompreso nel suddetto margine l'ipotesi del giudicato silente ma “incompleto”[30], ritenendo che l’attività interpretativo-integrativa del dispositivo possa spingersi oltre il dispositivo guardando alle regole ordinamentali che disciplinano compiutamente il rapporto giuridico oggetto di controversia, al precipuo fine di dare attuazione al giudicato in maniera conforme ad esse. E un percorso che viene seguito nell'intento di evitare eterointegrazioni manipolative del decisum e di garantire al contempo l'effettività della tutela, nella evidente consapevolezza di muoversi sul crinale dell'eccesso di potere giurisdizionale.
Pertanto, emerge chiaramente come l’ottemperanza di sentenze del giudice civile implichi per il g.a. uno sforzo interpretativo maggiore, dovendo Egli chiarire, interpretandoli, gli esatti contenuti del giudicato[31]; ragione, questa, che sottolinea carattere e natura cognitoria del giudizio.
Concludendo, il sapiente bilanciamento fra interpretazione e legittima integrazione del dispositivo, nei limiti di cui si è detto, necessitata dalla compiuta individuazione degli obblighi discendenti dal giudicato, per come accertati dal giudice ordinario, in uno con quelli discendenti dalla legge, fa dell’ottemperanza strumento di attuazione del giudicato, espressione del contemperamento fra limite giurisdizionale, legalità processuale e ordinamentale, effettività e concentrazione della tutela (ex art. 113 Cost.).
* * *
[1] Sul giudizio di ottemperanza, per un inquadramento generale: A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018. Più specificatamente sul tema, cfr.: M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 195 ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990; Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Atti del XXVII Convegno di Scienza dell’amministrazione di Varenna, Milano, 1983, fra cui v.: F.G. Scoca, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza; C. Calabrò, L’ottemperanza come prosecuzione del «giudizio amministrativo»; A. Sorrentino, Provvedimenti elusivi e giudizio di ottemperanza; F. Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, 52 ss.; M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in federalismi, 2010; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018, 119 e ss., ibidem: A. Storto, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, 139 e ss.; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, 181 e ss; G. Montedoro, Esecuzione delle sentenze CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali, 199 e ss; N. Paoloantonio, Riapertura del processo, giurisprudenza CEDU e giudicato nazionale: un irragionevole orientamento della Corte Costituzionale, in Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018, 275 e ss.; ibidem, I. Raiola, Esecutività della sentenza ed efficacia preclusiva o conformativa, 289 e ss.; A.M. Angiuli, Esecutività della sentenza ed efficacia conformativa o preclusiva. Profili introduttivi, 319 e ss.; Aa.Vv. Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), B. Capponi - A. Storto (a cura di), Napoli, 2018.
[2] Non a caso generalmente ricorrere la tralaticia affermazione per cui nel giudizio di ottemperanza di un giudicato civile il momento cognitorio sia da considerarsi ridotto rispetto al momento esecutivo, ragion per cui deve ritenersi che in tal caso, i tratti del giudizio di ottemperanza siano piuttosto quelli del processo esecutivo e solo minimamente di un giudizio cognitorio. F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), B. Capponi - A. Storto (a cura di), Napoli, 2018, 163-258.
[3] Per una puntuale ricostruzione in termini unitari dell’istituto dell’ottemperanza, sia con riferimento al giudicato civile sia a quello amministrativo, cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, 171-215, Id., Giudicato e ottemperanza, in F. Francario,Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, sez. II, Napoli, 2019.
[4] A. Storto, Tra esecuzione e ottemperanza dei provvedimenti del giudice civile, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., op.cit., 373 - 398, che richiama M. Nigro, Giustizia amministrativa, III° ed., Bologna, 1983.
[5] Sulla violazione dei limiti esterni di giurisdizione, breviter: F.G. Scoca, Riflessioni sui criteri di riparto delle giurisdizioni (ordinaria e amministrativa), in Dir. proc. amm. 1989, 549 ss.; Id., Piccola storia di un serrato “dialogo” fra giudici: la vicenda della c.d. pregiudizialità amministrativa, in Scritti in memoria di Roberto Maramma, vol. II, Napoli, 2012, 1009 ss.; R. Villata, Problemi attuali della giurisdizione amministrativa, Milano, 2009; Id., Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 2, 285-301; Id., Sui motivi inerenti alla giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2015, 3, 632-645; Id., La giurisdizione amministrativa e il suo processo sopravviveranno ai «cavalieri dell’apocalisse»?, in Riv. dir. proc., 2017, 1, 106-111; Id., La Corte di cassazione non rinuncia al programma di imporre al Consiglio di Stato le proprie tesi in tema di responsabilità della pubblica amministrazione attribuendo la veste di questione di giurisdizione a un profilo squisitamente di merito, in Dir. proc. amm., 2009, 1, 236-240; Id., Scritti in tema di questioni di giurisdizione: tra giudice ordinario e giudice amministrativo, Milano, 2019; M.A. Sandulli, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass. SS.UU., 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Giust. amm., 2006, fasc. 3, pp. 569-574; E. Follieri, Il sindacato della Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Giustamm.it, 2014; C.E. Gallo, Il controllo della Corte di Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, in La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, op. cit., 229 e ss.; ibidem: R. Rordorf, Il rifiuto di giurisdizione, 239 e ss.; A. Caia, L’eccesso di potere di giurisdizione, 249 e ss.; M.A. Sandulli, A proposito del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, 325 e ss.; A. Travi, Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione: osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Memorandum sulle tre giurisdizioni superiori, in Foro it., 2018, fasc. II, parte V, 57-136; M.C. Cavallaro, Riflessioni sulle giurisdizioni: il riparto di giurisdizione e la tutela delle situazioni soggettive dopo il codice del processo amministrativo, Milano, 2018; A. Police – F. Chirico, «I soli motivi inerenti la giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il Processo, 1, 2019, 113-150; F. Francario, Diniego di giurisdizione, in Il libro dell’anno del diritto, 2019.
[6] A. Storto, Tra esecuzione e ottemperanza dei provvedimenti del giudice civile, op.cit.
[7] Cons. di Stato, Ad. Pl., 15 gennaio 2013, n. 2 con nota di A. Travi, in Foro it., 2014, III, 712; nonché M. Trimarchi, Sui vincoli alla riedizione del potere amministrativo dopo la pronuncia dell’adunanza plenaria n. 2/2013, in Dir. proc. amm., 2015, 384 ss.
[8] Si veda: Cons. Stato, 16 maggio 2016, n. 1956: «L’azione di ottemperanza, lungi dal costituire soltanto uno strumento per l’esecuzione della sentenza e/o di altro provvedimento a essa equiparabile, evidenzia profili diversi per quanto attiene non solo al «presupposto», cioè al provvedimento per il quale l’ottemperanza può essere chiesta, ma anche ai «contenuti» che la stessa può assumere …». Cfr. anche: F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, op.cit.
[9] Cfr.: E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1964; A.M. Sandulli, Consistenza ed estensione dell’obbligo delle autorità amministrative di conformarsi ai giudicati, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, ora in Aldo M. Sandulli, Scritti giuridici, vol. V, Napoli, 1990.
[10] Sul giudicato: F. Benvenuti, Giudicato (dir. amm.), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969. Si veda altresì: M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989; A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in www.giustamm.it; A. Lolli, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo, Milano, 2002; L. Maruotti, Il giudicato, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, G.P. Cirillo (a cura di), Padova, 2014. Per una lettura del giudicato in una prospettiva sovranazionale, nell’ambito del network della nomofilachia europea: A. Barone, La nomofilachia “oltre i confini”; G. Tropea, Diritto alla sicurezza giuridica nel dialogo “interno” ed “esterno” tra Corti, entrambi in Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, op.cit.
[11] Per l’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza con riguardo a tutte le sentenze, passate in giudicato, emesse dal G.O. nei confronti della P.A., finanche in riferimento a quelle che impongono un’attività vincolata: Cons. Stato, Ad. Pl., 10 aprile 2012, n. 2.
[12] Cfr. B.G. Mattarella, La natura del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione dei giudicati del giudice civile, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., op. cit., 335 - 339.
[13] C. Delle Donne, Le decisioni del giudice civile e il lodo arbitrale: l’ambito della cognizione, le tecniche di redazione, il titolo esecutivo e il contenuto ottemperabile, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., op.cit., consultabile anche sul sito della giustizia amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it); F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 4, 1025 - 1047.
[14] Cons. Stato, 13 maggio 2016, n. 1952; Cons. Stato, 21 dicembre 2011, n. 6773.
[15] Sulle problematiche connesse alla condanna implicita fondamentali le sentenze della Cassazione: Cass. Civ., 31 gennaio 2012, 1367 e Cass. Civ., 26 gennaio 2005, n. 1619, nonché Cons. Stato, 13 maggio 2016, n. 1952; Id., 14 aprile 2016, n. 1499, su cui cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, op. cit., 172. Sui poteri del giudice dell’ottemperanza nelle ipotesi di condanna generica e di condanna implicita cfr.: F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, op.cit.; F. D’Alessandri, Il giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice ordinario, rinvenibile sul sito della giustizia amministrativa.
[16] Si chiariranno meglio nel prosieguo i termini dell’incompletezza.
[17] F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, op. cit.
[18] Sul tema, si leggano gli Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), ora in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., B. Capponi - A. Storto (a cura di), op.cit.
[19] La cui ottemperanza, come noto, è preclusa al Giudice amministrativo. Cfr.
[20] Così, specificatamente, si legge in sentenza.
[21] Non a caso l’orientamento della Cassazione Civile, pur richiamata dal g.a., sul punto, è stabile e conforme da tempo, non consentendo per il ricalcolo della pensione per esposizione all’amianto, lo sforamento del limite contributivo massimo previsto dalla legge.
[22] A.M. Sandulli, I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, 21 novembre 2018, consultabile al sito www.federalismi.it,.
[23] S. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987.
[24] Per una disamina critica del concetto, attualizzato al moderno contesto giuridico, anche in prospettiva comparata fra ordinamenti di civil law e common law, cfr.: G. Smorto, Sul significato di “rimedi”, in Europa e dir. priv., 2014, 1, 159 - 200.
[25] Si allude all’insegnamento del Chiovenda, Istituzioni del diritto processuale civile, vol. I e II, Napoli, 1933-1934, su cui v. A. Proto Pisani, Nel centenario del magistero di Giuseppe Chiovenda: la tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, in Foro it., 2002, 125 - 130.
[26] Chiaramente sul tema: F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel giudizio amministrativo, op. cit.
[27] M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, op. cit.
[28] Sul tema cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, op. cit.
[29] Può farsi altresì notare che il termine «attuazione» è quello espressamente adoperato dal legislatore nell’art 112 c.p.a., a ribadire la diversità ontologica dell’ottemperanza rispetto al giudizio di esecuzione, propriamente inteso.
[30] Questa volta l’attributo “incompleto” è posto tra virgolette perché si sono chiariti i termini dell’incompletezza, legati non già all’oggetto del giudicato, all’accertamento di questioni di merito relative al rapporto giuridico controverso, bensì alla esplicitazione (mediante interpretazione sistematica e conseguente applicazione) del complessivo quadro normativo di riferimento.
[31] F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, op.cit.
Il difetto di contraddittorio rilevato in appello non comporta l'annullamento con rinvio.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578)
di Enrico Zampetti
SOMMARIO: 1. L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578. 2. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di primo grado. 3. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di appello. 4. Considerazioni a margine della soluzione adottata dall’ordinanza.
1. L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578.
L’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. II, 15 luglio 2020 n. 4578 afferma alcuni rilevanti principi in materia di contraddittorio nel giudizio di primo grado e in appello, nell’obiettivo di coniugare le ragioni del diritto di difesa con l’esigenza di una ragionevole durata dei processi.
La vicenda trae origine da una procedura concorsuale bandita da un’amministrazione provinciale per la copertura di n. 5 posti in categoria D. La candidata classificatasi nona e all’ultimo posto della graduatoria ricorreva al TAR Piemonte avverso gli atti del procedimento concorsuale, deducendo vizi procedurali idonei a inficiare l’intera procedura, ma il ricorso veniva notificato soltanto a tre degli otto soggetti controinteressati utilmente collocati in graduatoria. Il TAR respingeva nel merito il ricorso senza previamente disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati non evocati in giudizio. Sebbene il TAR non lo abbia precisato espressamente, la mancata integrazione del contradditorio risulterebbe giustificata dall’applicazione al caso di specie dell’articolo 49, co.2, c.p.a., che, come noto, permette al giudice di non disporre l’integrazione del contraddittorio “nel caso in cui il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato”.
Chiamata a pronunciarsi sull’appello avverso la decisione del TAR, la Sezione II del Consiglio di Stato, con l’ordinanza in commento, rileva preliminarmente la mancata pienezza del contraddittorio nel giudizio di primo grado, pur a fronte della deduzione nel ricorso originario di vizi astrattamente idonei ad inficiare l’intera procedura e, come tali, potenzialmente lesivi delle posizioni giuridiche di tutti i soggetti collocati in graduatoria. Tuttavia, nella ricostruzione dell’ordinanza, l’assenza di un contradittorio pieno nel giudizio di primo grado non darebbe luogo ad un “vizio originario di costituzione del rapporto processuale”, poiché la mancata integrazione del contradditorio sarebbe dipesa da ragioni di economia processuale, nel rispetto della previsione di cui al citato articolo 49, co.2. Il fatto che il difetto di contraddittorio non rifletta un “vizio originario di costituzione del rapporto processuale” escluderebbe che il giudice di appello sia tenuto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a., sul presupposto che il difetto di contraddittorio rilevante agli effetti del rinvio sia soltanto quello identificabile in un vizio del procedimento giurisdizionale.
Tanto precisato, la Sezione dichiara esplicitamente di non ritenere l’appello “manifestamente” irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato, esprimendo in ciò una valutazione meramente preliminare sull’impugnazione proposta, che di fatto contrasta con la valutazione che a suo tempo aveva indotto il primo giudice a non disporre l’integrazione del contraddittorio. Sulla base di tale valutazione, l’ordinanza ritiene pertanto necessario disporre in appello, ai sensi dell’articolo 95, co.3 c.p.a., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati già pretermessi in primo grado, al fine di garantire nel giudizio di secondo grado il loro diritto di difesa, “alla luce della potenziale lesività degli esiti dell’odierno giudizio sulle relative posizioni”. Secondo l’ordinanza, l’integrazione del contradittorio (solo) in appello rappresenterebbe un giusto punto di equilibrio tra le ragioni di economia processuale e il diritto di difesa dei controinteressati, poiché “solo in tal modo, ritiene la Sezione, non si pregiudicano le ragioni di economia processuale, al contempo eludendo la regola, che riflette il principio di parità delle parti, secondo cui l’integrità del contraddittorio assume valenza pregiudiziale rispetto a qualsiasi tipi di decisione”. Conseguentemente, senza decidere definitivamente sul ricorso, la pronuncia ordina alla ricorrente di provvedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti utilmente collocati nella graduatoria concorsuale.
Se questa è, in sintesi, la soluzione adottata dal Consiglio di Stato, per meglio coglierne l’esatta portata è opportuno soffermarsi sinteticamente sulla disciplina che regola il contraddittorio nel giudizio di primo e secondo grado.
2. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di primo grado.
Nel processo amministrativo di primo grado, la disciplina sul contraddittorio relativa all’azione di annullamento è recata principalmente nel combinato disposto degli articoli 41 e 49 c.p.a[i]: il co. 2 dell’articolo 41 prevede che “quando sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge …” (v. anche art. 27 c.p.a.); il co.1 dell’articolo 49 stabilisce che “quando il ricorso sia stato proposto solo contro taluno dei controinteressati, il presidente o il collegio ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri”.
Le richiamate previsioni non presentano particolari problemi applicativi, risolvendosi nella regola per cui il giudizio è correttamente instaurato con la notifica del ricorso ad almeno uno dei soggetti controinteressati, salvo il dovere del giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti di quei controinteressati ai quali il ricorso non sia stato inizialmente notificato. La disciplina attua pienamente il diritto di difesa costituzionalmente garantito, assicurando che tutti i soggetti controinteressati rispetto all’iniziativa giurisdizionale del ricorrente siano messi in condizione di partecipare al giudizio a tutela delle rispettive situazioni giuridiche. Può aggiungersi che, se il ricorrente non procede ad integrare il contraddittorio nel termine assegnato dal giudice, il ricorso è dichiarato improcedibile ai sensi dell'articolo 35 c.p.a. (articolo 49, co.3. c.p.a.).
In questo quadro di riferimento, il già richiamato co.2 dell’articolo 49 c.p.a. consente eccezionalmente di derogare alla pienezza del contraddittorio, nelle ipotesi in cui il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato nel merito. La norma prevede testualmente che “l’integrazione del contraddittorio non è ordinata nel caso in cui il ricorso sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato: in tali casi il collegio provvede con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’articolo 74”, disponendo che, nei casi indicati, il giudice possa decidere la controversia con sentenza in forma semplificata senza previamente disporre l’integrazione del contradditorio, anche ove il ricorrente abbia evocato in giudizio solo alcuni dei soggetti controinteressati[ii]. All’evidenza, la previsione sacrifica il diritto di difesa nell’intento di assicurare una più rapida durata del processo, privando di fatto del contraddittorio processuale i controinteressati pretermessi, negli specifici casi in cui la decisione giurisdizionale non possa arrecare loro pregiudizio. Non è certamente questa la sede per approfondire la questione, ma è indubbio che la norma presenti delle criticità rispetto alla garanzia costituzionale del diritto di difesa sancita nell’articolo 24 Cost. Non è, infatti, un caso che, anteriormente al codice del processo amministrativo, in un contesto che non contemplava l’analoga previsione oggi recata nell’articolo 49, co.2, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato abbia affermato che il principio del contraddittorio, quale cardine di tutto il diritto processuale, non può subire limitazioni nemmeno nelle ipotesi in cui il ricorso venga rigettato, poiché l’apporto dei controinteressati potrebbe sempre contribuire a “consolidare i motivi posti alla base della decisione di rigetto”, sia attraverso la mera contestazione delle censure dedotte nel ricorso, sia attraverso la proposizione di un eventuale ricorso incidentale ampliativo del thema decidendum[iii].
Senonchè, la più recente giurisprudenza non mette adeguatamente in luce questi aspetti, ma tende piuttosto a valorizzare l’articolo 49, co.2, nella sua compiuta aderenza “ai principi di accelerazione e di concentrazione processuale”, sottolineando come la disciplina del nuovo codice miri ad evitare “l'inutile protrarsi del processo medesimo mediante l'imposizione di incombenti intuitivamente inutili rispetto ad un esito che le risultanze già acquisite consentono di definire sfavorevole per le tesi della parte ricorrente”[iv].
3. Il contraddittorio nel giudizio amministrativo di appello.
Nel giudizio di appello la disciplina sul contraddittorio è recata nell’articolo 95 c.p.a: il co. 1 prevede che “l’impugnazione della sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti è notificata, a tutte le parti in causa e, negli altri casi, alle parti che hanno interesse a contraddire”; il co. 3 stabilisce che “se la sentenza non è stata impugnata nei confronti di tutte le parti di cui al comma 1, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro cui la notificazione deve essere seguita, nonché la successiva udienza di trattazione” [v]. Con i dovuti adattamenti, le richiamate previsioni ribadiscono per il giudizio di secondo grado quanto stabilito dagli artt. 41, co. 2 e 49, co.1 c.p.a. per il giudizio di primo grado, richiedendo che il ricorso in appello sia notificato a tutte le parti in causa e che, ove il ricorso non sia stato notificato nei confronti di tutte le parti, il giudice di appello debba ordinare l’integrazione del contraddittorio. Anche in tal caso, l’impugnazione è dichiarata improcedibile se l’integrazione del contradditorio non viene effettuata nel termine assegnato dal giudice (art. 95, co.4, c.p.a.).
Il co. 5 dell’articolo 95 c.p.a. ripropone, invece, per il giudizio di appello la previsione sancita per il giudizio di primo grado dall’articolo 49, co.2 c.p.a., disponendo che “il Consiglio di Stato, se riconosce che l’impugnazione è manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, può non ordinare l’integrazione del contraddittorio, quando l’impugnazione di altre parti è preclusa o esclusa”. Una lettura della norma coerente con i precedenti commi 1 e 3 dello stesso articolo 95 indurrebbe a circoscriverne l’applicazione alle sole ipotesi in cui il difetto del contraddittorio si riscontri nel giudizio di appello, quando cioè l’appellante abbia notificato il ricorso soltanto ad alcuna delle parti del primo giudizio. In questi casi, al giudice di appello sarebbe consentito di decidere direttamente la causa senza disporre l’integrazione del contraddittorio, esattamente per le stesse ragioni di economia processuale che giustificano l’analoga previsione del giudizio di primo grado. Senonchè, nella giurisprudenza amministrativa si è largamente affermata un’interpretazione estensiva della norma, ritenuta più aderente al principio di economia processuale, in base alla quale, nei casi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza dell’impugnazione, il giudice di secondo grado potrebbe non disporre l’integrazione del contraddittorio, non solo nelle ipotesi in cui il contraddittorio sia carente in appello ma integro in primo grado, ma anche nelle diverse ipotesi in cui il contraddittorio non si sia pienamente realizzato sin dal giudizio di primo grado[vi]. Le implicazioni di questo orientamento vanno adeguatamente sottolineate, perché, tradizionalmente, il difetto di contraddittorio in primo grado rappresenta una delle cause di rimessione al primo giudice, con la specifica finalità di garantire un contraddittorio integro sin dal primo grado di giudizio. Ad ogni modo, le argomentazioni a sostegno dell’interpretazione estensiva poggiano sempre sul fatto che il rigetto dell’appello non possa di per sé pregiudicare il controinteressato pretermesso in primo grado, quantomeno nei casi in cui l’appello sia proposto dall’originario ricorrente avverso la pronuncia che ha respinto il ricorso. Sicchè, in questi casi, la rimessione della causa al primo giudice non arrecherebbe alcun vantaggio al controinteressato, ma determinerebbe soltanto un ingiustificato allungamento dei tempi processuali[vii].
Come si è anticipato, il contraddittorio viene in rilievo anche nella disciplina sulla rimessione prevista dall’articolo 105 c.p.a, che, accanto alla “lesione del diritto di difesa”, annovera espressamente la “mancanza di contraddittorio” tra le cause di annullamento con rinvio, nell’obiettivo di garantire la pienezza del contraddittorio sin dal primo grado di giudizio[viii]. La concreta portata della disciplina è stata recentemente puntualizzata dalle decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 10,11,14 e 15 del 2018[ix], che hanno sottolineato come le due espressioni “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio” siano “ambedue riconducibili alle menomazione del contraddittorio lato sensu inteso”, poiché in entrambi i casi “è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, nel senso che lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, sicché il giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va riguardata non per il suo contenuto, ma per il solo fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa o di beneficiare dell’integrità del contraddittorio”. Se la “lesione del diritto di difesa” integrerebbe “un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio”, che si traduce “nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato”, la “mancanza del contraddittorio” sarebbe, invece, riconducibile all’ipotesi “in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte”, sicchè “il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento”[x]. Nei casi in cui il contraddittorio è mancato ma avrebbe dovuto essere integro, lo svolgimento del giudizio risulta irrimediabilmente viziato, con la conseguenza che il giudice di appello è tenuto a rimettere la causa al primo giudice, affinchè al controinteressato pretermesso sia garantito il pieno esercizio del diritto di difesa.
4. Considerazioni a margine della soluzione adottata dall’ordinanza.
La pronuncia in commento si limita ad ordinare in appello l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati pretermessi in primo grado, senza rinviare la causa al primo giudice e così realizzare sin dal primo grado la pienezza del contraddittorio. Secondo l’ordinanza, l’integrazione del contraddittorio si renderebbe necessaria in ragione della valutazione di non manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza dell’impugnazione, compiuta in via meramente preliminare dallo stesso giudice di appello. Poiché un eventuale accoglimento dell’appello pregiudicherebbe i controinteressati pretermessi in primo grado, essi dovrebbero poter prendere parte al giudizio di secondo grado a tutela delle rispettive situazioni giuridiche, non applicandosi in questi casi la deroga alla pienezza del contraddittorio prevista dagli articoli 49, co.2 e 95, co. 5 c.p.a. Così disponendo, l’ordinanza mira a coniugare il diritto di difesa con il principio di ragionevole durata del processo, individuando il giusto punto di equilibrio in una soluzione che, se esclude la rimessione al giudice di primo grado, assicura il contraddittorio quantomeno nel giudizio di appello. Senonchè, nel caso in cui il ricorso in appello dovesse essere definitivamente accolto, i controinteressati pretermessi in primo grado, ma ammessi al contraddittorio nel giudizio di secondo grado, si vedrebbero pregiudicati da una decisione giurisdizionale rispetto alla quale non potrebbero più esperire alcuna impugnazione di merito, essendo ipotizzabile soltanto un eventuale ricorso in cassazione per motivi di giurisdizione. Il che significa che, pur partecipando al giudizio di appello, i suddetti controinteressati subirebbero la decisione ad essi sfavorevole senza beneficiare e aver beneficiato di un doppio grado di giudizio, di cui, invece, il ricorrente e i controinteressati evocati in primo grado hanno beneficiato.
Pertanto, se pur ispirata da apprezzabili esigenze di economia processuale, la soluzione di limitare al giudizio d’appello la pienezza del contraddittorio appare arrecare un eccessivo sacrificio al diritto di difesa, sia perché impedisce ai controinteressati di esercitare sin dal primo grado le ordinarie garanzie difensive, sia perché di fatto li priva di un doppio grado di giudizio. Va aggiunto che, quantomeno in linea teorica, alle stesse obiezioni si espone il già ricordato orientamento che, nell’interpretare estensivamente l’articolo 95, co.5, reputa superfluo integrare il contraddittorio sin dal primo grado, nelle ipotesi in cui l’impugnazione sia riconosciuta “irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata”. Tuttavia, in questi casi, la mancata integrazione del contraddittorio può trovare una giustificazione nel fatto che gli esiti dell’appello di per sé non pregiudicano il controinteressato pretermesso. Diversamente, nella vicenda oggetto dell’ordinanza in commento, non è affatto scontato che l’esito dell’impugnazione coincida con una decisione di rigetto, come appunto rivela l’espressa valutazione preliminare sulla non manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso d’appello.
Piuttosto, una soluzione diversa da quella adottata dal Consiglio di Stato, più aderente e rispettosa del diritto di difesa, sarebbe quella di rinviare la causa al giudice di primo grado, così da garantire che tutti i soggetti controinteressati possano esercitare sin dal primo grado di giudizio le rispettive prerogative difensive, nel rispetto dell’articolo 24, co 2, Cost., che, è bene sottolinearlo, afferma l’inviolabilità del diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”. Al contempo, la rimessione garantirebbe anche ai controinteressati originariamente pretermessi di beneficiare del doppio grado di giudizio. Questa soluzione sembra perfettamente compatibile con l’articolo 105 c.p.a, poiché la norma, come si è già ricordato, annovera espressamente tra le cause di rimessione proprio il difetto di contraddittorio e la lesione del diritto di difesa. Né potrebbe utilmente opporsi la circostanza che nel caso di specie il difetto di contraddittorio non integrerebbe un error in procedendo, in quanto giustificato dall’applicazione dell’articolo 49, co.2, c.p.a. Se, infatti, il giudice di secondo grado ritiene che il ricorso in appello non sia manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato, di fatto sta esprimendo una valutazione contrastante rispetto a quella a suo tempo compiuta dal primo giudice, in base della quale non era stato integrato il contraddittorio in applicazione dell’articolo 49, co.2, c.p.a. Il che dimostra che il difetto di contraddittorio perpetratosi nel giudizio di primo grado è il frutto di un’applicazione della norma che lo stesso giudice di secondo grado considera in qualche modo errata, laddove esprime una valutazione preliminare di non manifesta inammissibilità, irricevibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso d’appello (e quindi, in sostanza, del ricorso di primo grado). Ciò è sufficiente a confermare che il difetto di contraddittorio riscontrato nel giudizio di primo grado sia il frutto di un errore del primo giudice tale da integrare l’ipotesi di rimessione prevista dall’articolo 105 c.p.a..
Dal punto di vista della ragionevole durata del processo, una soluzione incentrata sulla rimessione è certamente meno soddisfacente di quella adottata dall’ordinanza in commento, ma probabilmente più coerente con i canoni del diritto di difesa. Ad ogni modo, il solo prospettarla rivela la necessità di una più ampia riflessione su quale debba essere il giusto punto di equilibrio tra le ragioni del diritto di difesa e l’esigenza di una ragionevole durata del processo, riflessione meritevole di un approfondimento che i limiti della presente nota non consentono di svolgere in questa sede.
* * *
[i] Sulla disciplina del contraddittorio nel giudizio di primo grado, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, 249 ss.; R. DE NICTOLIS, a cura di, Processo amministrativo - formulario commentato, Milano, 2019, 641 ss.; D.TRAINA, commento agli artt. 40-49 c.p.a., inCodice della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, Milano, 2015, 563 ss.; F. CANGELLI, Le parti, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, Torino, 2011, 219 ss.
[ii] Sull’articolo 49, co. 2. c.p.a., P. PATRITO, Lo svolgimento del giudizio e le decisioni emesse in camera di consiglio, in Il nuovo processo amministrativo, commentario sistematico diretto da R. CARANTA, Bologna, 2011, 406; sulla sentenza in forma semplificata e la sua disciplina, F. RISSO, La sentenza in forma semplificata, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. FFRANCARIO e M.A. SANDULLI, Napoli, 2019, 125 ss.
[iii] Cons. St., Ad. Pl., 17 ottobre 1994 n. 13, in Dir. proc. amm., 2/1996, con nota di C.E.GALLO, Omessa integrazione del contraddittorio e rinvio al giudice di primo grado nel giudizio amministrativo, 336 ss e di S. MENCHINI, La rimessione della causa al primo giudice nell’appello amministrativo, 352 ss.
[iv] Cons. St.,Sez. IV, 12 giugno 2013 n. 3261.
[v] Sulla disciplina del contraddittorio nel giudizio di appello, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 334 ss.; R. DE NICTOLIS, a cura di, Processo amministrativo - formulario commentato, cit., 1735 ss.; F.P.LUISO, commento agli artt. 91- 99 c.p.a., in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, cit., 889 ss.; A. ZITO, Le impugnazioni, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, cit., 409 ss.
[vi] La giurisprudenza è solita affermare che “la disposizione di cui all'art. 95 comma 5, espressiva del principio di economia dei mezzi giuridici, conclusivamente, deve essere intesa nel senso che il giudice d'appello, ove riconosca che l'impugnazione è manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, può (anche) non annullare la decisione di primo grado, ove il contraddittorio sia stato carente in detto grado di giudizio, ove l'impugnazione di altre parti è preclusa o esclusa” (Cons. St., Sez. IV, 9 febbraio 2012 n. 688); in termini, Cons. St., Sez. IV, n. 3261/2013, cit.; Cons. St., Sez. IV, 7 dicembre 2015 n. 5571; Cons. St., Sez. III, 27 maggio 2013 n. 2893; Cons. St., Sez. III, 28 ottobre 2013 n. 5172.
[vii] Cons. St., Sez. III, 27 maggio 2013/2893, cit.: “ragioni di economia processuale e l’interesse a una ragionevole durata del processo fanno ritenere non necessario disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati non evocati nel giudizio di primo grado, quando nel merito l’appello è infondato”.
[viii] Sulla disciplina della rimessione recata nel codice del processo amministrativo, D. CORLETTO, commento all’articolo 105 c.p.a., in Il processo amministrativo, a cura di A. QUARANTA – V. LOPILATO, Milano, 2011, 810 ss.; F.P.LUISO, Le impugnazioni, in Il codice del processo amministrativo, a cura di R.VILLATA – B. SASSANI, Torino, 2012, 1207 ss.; R. DE NICTOLIS - M. NUNZIATA, commento all’articolo 105 c.p.a. in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, cit., 965 ss.; A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 338 ss.
[ix] Cons. St., Ad. Pl., 30 luglio 2018 n. 10; Cons. St., Ad. Pl., 30 luglio 2018 n. 11; Cons. St., Ad. Pl, 5 settembre 2018 n. 14; Cons. St., Ad. Pl., 28 settembre 2018 n. 15; per approfondimenti in merito alle decisioni dell’Adunanza Plenaria, M.A. SANDULLI, Il Consiglio di Stato è giudice in unico grado sulle domande declinate o pretermesse dal TAR. La Plenaria definisce i confini del rinvio al primo giudice e stigmatizza la motivazione apparente delle sentenze, in Federalismi.it, 2018; A. CASSATELLA, La Plenaria limita i casi di rinvio al giudice di primo grado, in Giorn. dir. amm., 2/2019, 207 ss.; A TRAVI, nota a Cons. St., Ad. pl., decisioni 30.7.2018 n. 10, 5 settembre 2018 n. 14, 28 settembre 2018 n. 15, in Foro it., 2018, III, 546 ss.; A. SQUAZZONI, Ancora in tema di rinvio o giudizio diretto del Consiglio di Stato. Brevi note a margine dell’Adunanza Plenaria, in Dir. proc. amm., 2/2019, 616 ss; C.E.GALLO, Omessa pronuncia e annullamento con rinvio da parte del Giudice di appello nel processo amministrativo, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. FFRANCARIO e M.A. SANDULLI, cit., 81 ss.; E. ZAMPETTI, Riflessioni a margine delle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 10.11 e 15 del 2018 in tema di annullamento con rinvio, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. FRANCARIO e M.A. SANDULLI, cit., 427 ss.
[x] Cons. St., Ad. Pl., n. 10/2018, cit.
L’onere della prova del nesso causale nella responsabilità sanitaria. Le oscillazioni del «pendolo» nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza. (*)
di Emilio Iannello
Abstract: Il tema dell’onere della prova del nesso di causa nella responsabilità sanitaria è tra i più controversi degli ultimi decenni. La Terza Sezione Civile della Suprema Corte, nell’ambito di un progetto organizzativo diretto a fornire indicazioni nomofilattiche sulle questioni più attuali e dibattute in tema di responsabilità medica e danno alla persona (c.d. Progetto Sanità), sul finire dell’anno scorso ne ha offerto, con le sentenze gemelle nn. 28991-28992 del 2019, una chiave di lettura chiara sulla base di una ricostruzione concettuale che, pur mantenendosi nel solco già tracciato da Cass. n. 18392 del 2017, tiene conto delle serrate critiche mosse dalla dottrina. A poco meno di un anno da quelle pronunce, il contributo propone una sintetica ricognizione dell’itinerario giurisprudenziale e delle posizioni della dottrina, segnalando le persistenti differenze di approccio teorico-dogmatico ma anche i punti di vicinanza, apprezzabili in particolare sul piano della pratica giudiziaria, attraverso la «chiave di volta» rappresentata dal meccanismo delle prove presuntive.
Sommario:1. Premessa. Lo statuto della responsabilità sanitaria prima e dopo le leggi Balduzzi e Gelli- Bianco - 2. Il riparto dell'onere della prova del nesso di causa in ambito di responsabilità medica. Breve itinerario giurisprudenziale (il «pendolo della prova») - 2.1. Prima fase: dagli anni '50 agli anni '70, l'obbligazione del sanitario come obbligazione di mezzi - 2.2. Seconda fase: distinzione tra interventi di facile esecuzione (o di routine) e interventi di difficile esecuzione (o interventi complessi) - 2.3. Terza fase: l'omogeneità delle regole di riparto dell'onere probatorio in materia contrattuale (Cass. S.U. n. 13533 del 2001) - 2.4. Quarta fase: al debitore/danneggiante l'onere di provare la mancanza del nesso di causa, al creditore quello di allegare l'«inadempimento qualificato» (Cass. S.U. n. 577 del 2008) - 3. La quinta stagione dell'onere della prova (Cass. n. 18392/2017 e il doppio ciclo causale) - 4. Le posizioni della dottrina - 5. Le sentenze di San Martino 2019 (Cass. nn. 28991 - 28992 del 2019) - 6. Le reazioni della dottrina - 6.1. Le critiche - 6.2. Le aperture e i possibili punti di contatto - 6.3. Le presunzioni e le inferenze probabilistiche (probabilità statistica o pascaliana vs. probabilità logica o baconiana).
1. Premessa. Lo statuto della responsabilità sanitaria prima e dopo le leggi Balduzzi e Gelli-Bianco
Il rapporto medico-paziente, per decenni informato a un modello paternalistico, con l’effetto di una sostanziale immunità per i medici ([1]), comincia a porsi in termini diversi tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, dopo il diffondersi e lo svilupparsi del servizio sanitario nazionale, sulla scia di un ripensamento più generale delle categorie del diritto civile alla luce della Costituzione.
Il cittadino, mal curato dal medico pubblico non scelto da lui, si rivolge, per il risarcimento dei danni che riteneva di aver subito, direttamente o in via solidale, alla struttura sanitaria.
La giurisprudenza opera allora una distinzione tra la responsabilità della struttura e quella del medico.
La prima è ritenuta responsabilità da inadempimento, ipotizzandosi la conclusione di un contratto d’opera professionale tra paziente ed ente ospedaliero. La responsabilità del medico, dipendente e pagato dalla struttura pubblica, per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico, viene invece qualificata extracontrattuale con esclusione della colpa lieve nei casi di negligenza o imprudenza ([2]).
Lungi dal fermarsi qui, l’allontanamento dai vecchi paradigmi porta poi alla svolta segnata da Cass. n. 589 del 1999 ([3]), che afferma il principio, da allora imperante per quasi vent’anni, secondo cui anche la responsabilità del medico dipendente ospedaliero deve considerarsi da inadempimento, non già per l’esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio sussistente tra le parti, bensì in virtù di un rapporto di fatto originato dal «contatto sociale» e dal consenso informato sulle cure da eseguire.
Secondo questo indirizzo, il medico designato dalla struttura sanitaria non può essere considerato come l’autore di un fatto illecito aquiliano, poiché la vicenda non inizia con la violazione del principio alterum non laedere e con il cagionare un danno ingiusto, ma si struttura come rapporto in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico che ha il dovere di prestargliele in virtù del servizio pubblico sanitario nazionale ([4]).
Negli anni successivi, il cammino della giurisprudenza verrà scandito da ulteriori tappe di avanzamento del livello di tutela dei diritti coinvolti dall’attività medico-chirurgica ([5]), tanto da giungersi a ipotizzare, da parte di taluno, la creazione di un vero e proprio sottosistema della responsabilità civile ([6]).
Un tale percorso trova una sua prima tappa d’arresto con l’emanazione della c.d. legge Balduzzi (d.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con modif. dalla legge 8 novembre 2012, n. 189).
L’intento di restituire ai sanitari una meno onerosa posizione processuale nel crescente contenzioso non ha avuto, tuttavia, efficace espressione nella norma, a causa della scarsa chiarezza del testo (art. 3), che ha lasciato prevalere una esegesi conservativa del «diritto vivente» ([7]).
È dunque intervenuta, pochi anni dopo, la legge c.d. Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n. 24), entrata in vigore il 1 aprile 2017, il cui art. 7 non lascia più adito a dubbi sull’intento di indirizzare il contenzioso verso un c.d. doppio binario: responsabilità contrattuale delle strutture (ex art. 1218 c.c. per l'inadempimento o l'inesatto adempimento del contratto concluso con il paziente al momento del ricovero; ex art. 1228 c.c. per il danno cagionato dal professionista/ausiliario di cui si sia avvalsa per l'adempimento dell'obbligazione); extracontrattuale del sanitario operante al suo interno, dipendente o meno che sia, salva l’ipotesi che lo faccia sulla base di accordo negoziale con il paziente ([8]).
I problemi di diritto (in senso lato) intertemporale posti dalla qualificazione operata dal legislatore della responsabilità del medico dipendente in termini di responsabilità extracontrattuale sono stati risolti dalla S.C. nell’ambito del c.d. Progetto Sanità ([9]) da Cass. n. 28994 del 2019 ([10]), che ─ ritenuta la legittimità della qualificazione giuridica della fattispecie operata direttamente dal legislatore (benché con evidente invasione di un campo proprio della giurisdizione) ─ ha tuttavia affermato il principio secondo cui «le norme sostanziali contenute nella legge n. 189 del 2012, al pari di quelle di cui alla legge n. 24 del 2017, non hanno portata retroattiva, e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca precedente alla loro entrata in vigore, a differenza di quelle che, richiamando gli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni private in punto di liquidazione del danno, sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi» ([11]).
Le più rilevanti conseguenze operative di tale modello dualistico di responsabilità sono certamente (o dovrebbero essere) ─ oltre al diverso termine prescrizionale ─ quelle relative al diverso riparto dell’onere della prova.
Al fondo delle descritte oscillazioni intorno alla statuto o agli statuti della responsabilità sanitaria, vi è, infatti, principalmente, il problema del nesso causale (tra condotta della struttura e del personale sanitario e danno lamentato dal paziente) e della relativa prova, con riferimento sia alla distribuzione dei carichi probatori, sia al contenuto degli stessi.
Problema cruciale, poiché incombe sovente, nel contenzioso, il «rischio della causa ignota», in relazione al quale rilievo decisivo assume, ovviamente, la regola di giudizio da applicare in tema di riparto del relativo onere.
La qualificazione in termini di responsabilità extracontrattuale della responsabilità del medico lo risolve solo in parte, non solo per la negata applicabilità della nuova qualificazione (normativa) ai fatti pregressi, ma anche e soprattutto perché l’opposta qualificazione, come s’è detto, rimane valida e operante nei confronti della struttura sanitaria, pubblica o privata, ossia del soggetto nei cui confronti, per intuibili motivi, del tutto prevedibilmente si rivolgerà sempre, in via preferenziale e quanto meno in via cumulativa, la pretesa risarcitoria.
Non a caso il tema forma oggetto di due delle dieci sentenze di San Martino del 2019 (Cass. nn. 28991-28992 del 2019) e può forse considerarsi quello sul quale maggiormente si è concentrata l’attenzione critica della dottrina (a cominciare dalla svolta segnata già un paio d’anni prima dalla sentenza n. 18392 del 2017, delle cui affermazioni di principio quelle più recenti costituiscono, come si vedrà, ripresa e sviluppo). Ciò anche per gli indubbi riflessi che la complessa costruzione dogmatica comporta su di un piano di teoria generale delle obbligazioni.
Può dirsi, anzi, che il nuovo corso sul tema della giurisprudenza della Terza Sezione Civile della Suprema Corte ha catalizzato l’attenzione della dottrina molto più della singolare opera qualificatoria del legislatore, avendo la prima, per certi versi, sopravanzato il secondo nell’opera di riequilibrio delle posizioni processuali delle parti, a favore della classe medica.
A quasi un anno dalle sentenze di San Martino 2019 la vicenda merita, dunque, di essere ripercorsa, partendo da un breve excursus degli orientamenti espressi sul tema dalla giurisprudenza degli ultimi settant’anni.
2. Il riparto dell’onere della prova del nesso di causa in ambito di responsabilità medica. Breve itinerario giurisprudenziale (il «pendolo della prova»)
Secondo una attenta analisi dottrinale ([12]) nella evoluzione della giurisprudenza in materia possono distinguersi cinque fasi (o stagioni), «ognuna caratterizzata da regole peculiari elaborate dalla giurisprudenza nel tentativo, non sempre riuscito, di tenere in considerazione le peculiarità di tale settore» ([13]).
2.1. Prima fase: dagli anni ’50 agli anni ’70, l’obbligazione del sanitario come obbligazione di mezzi
Fino agli anni ’70, l'obbligazione del sanitario (genericamente inteso sia come medico sia come struttura) è considerata obbligazione di mezzi, con conseguente onere del paziente di dimostrare la difettosa esecuzione della prestazione, nonché il nesso eziologico tra la condotta del sanitario e il danno ricevuto (The doctor can do no wrong).
A partire dagli anni ‘70 l’eccessiva rigidità della classificazione (tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato) fu sempre più avvertita e cominciarono ad emergere, nella giurisprudenza costituzionale e in quella di legittimità, nell'interpretazione dell'art. 2236 cod. civ., le prime distinzioni, nell'ambito della nozione di colpa grave, tra imperizia, negligenza e imprudenza ([14]).
2.2. Seconda fase: distinzione tra interventi di facile esecuzione (o di routine) e interventi di difficile esecuzione (o interventi complessi)
Cass. n. 6141 del 1978 ([15]) applica per la prima volta la distinzione ─ mantenuta per i successivi trent’anni ─ tra interventi di facile e interventi di difficile esecuzione, come criterio di riparto dell'onere probatorio.
Nei casi di difficile esecuzione spetta al paziente provare l’errore del medico, attraverso una ricostruzione precisa delle modalità con cui è stata eseguita ogni fase dell'intervento.
Nell'ipotesi, invece, di interventi di facile esecuzione (o routinari) l’attore deve solo provare il peggioramento delle proprie condizioni di salute (res ipsa loquitur); spetterà in tal caso al sanitario dimostrare che l'esito peggiorativo è stato causato dal sopravvenire di un evento imprevedibile o dalle condizioni fisiche del malato.
Tale regola ha avuto il pregio di porre un unico criterio di ripartizione dell'onere della prova a fronte di titoli di responsabilità differenti (aquiliana per il medico dipendente e contrattuale per la struttura o il libero professionista).
Ad uscirne favoriti però sono stati, per la massima parte dei casi, gli attori a scapito dei sanitari convenuti (gravati del c.d. rischio del fatto impeditivo ignoto). Si è detto trattarsi di «un espediente retorico piuttosto maldestro» ([16]), in grado di configurare una responsabilità oggettiva del medico, con conseguente trasformazione dell'obbligazione di quest'ultimo da obbligazioni di mezzi a obbligazioni di risultato.
Non a caso dagli anni ‘80 in poi cominciò a porsi il problema della deterrenza in ambito sanitario (c.d. medicina difensiva).
2.3. Terza fase: l’omogeneità delle regole di riparto dell’onere probatorio in materia contrattuale (Cass. S.U. n. 13533 del 2001)
Cass. S.U.. n. 13533 del 2001 ([17]) ─ facendo riferimento ad esigenze di omogeneità, al principio di persistenza del diritto e a quello di vicinanza della prova ─ ha, come noto, stabilito, in materia di responsabilità contrattuale, un'unica regola probatoria, sia nel caso in cui venga proposta domanda di adempimento, di risoluzione o di risarcimento, sia nel caso in cui si agisca per il mancato o l'inesatto adempimento. In tutte queste ipotesi il creditore è solo tenuto a dimostrare esclusivamente la fonte del suo diritto, spettando al debitore la prova di aver adempiuto ([18]).
Questa sentenza ha dato avvio alla terza stagione.
Alla luce, infatti, dei principi in essa affermati e della qualificazione in termini contrattuali della responsabilità della struttura e del medico, tre sentenze della S.C. ─ la n. 9471, la n. 10297 e la n. 11148 del 2004 ([19]) ─ hanno escluso che la distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione potesse costituire valido criterio di riparto dell’onere della prova, ed hanno attribuito: al paziente l’onere di dimostrare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgere di nuove patologie per effetto dell'intervento; all'ente e/o al sanitario quello di provare che la prestazione professionale è stata eseguita diligentemente e che gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
Le pronunce non chiarirono su chi dovesse gravare la prova del nesso eziologico tra prestazione ed evento dannoso, ma la giurisprudenza immediatamente successiva è stata chiara e univoca nell’affermare che tale onere era a carico del danneggiato ([20]).
2.4. Quarta fase: al debitore/danneggiante l’onere di provare la mancanza del nesso di causa, al creditore quello di allegare l’«inadempimento qualificato» (Cass. S.U. n. 577 del 2008)
Quest’ultimo approdo (prova a carico del danneggiato del nesso causale tra azione od omissione ed evento dannoso) è stato invece rivisto da Cass. S.U. n. 577 del 2008 ([21]).
Pur condividendo i principi affermati dalla Terza Sezione nel 2004 e dalla giurisprudenza successiva, le Sezioni Unite se ne discostano in punto di nesso causale, ritenendo che tale prova non debba essere fornita dal paziente-attore. Secondo tale fondamentale arresto, infatti, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato (c.d. inadempimento qualificato), rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
A fondamento di tale principio le Sezioni Unite posero, da un lato, il superamento ─ già sancito da Cass. S.U. n. 15781 del 2005 ([22]) ─ della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazione di risultato (ritenuta di rilievo solo descrittivo e dagli esiti applicativi incerti e contrastanti proprio sul piano del riparto degli oneri probatori), dall’altro il principio affermato da Cass. S.U. n. 13533 del 2001.
A quest’ultima si riallacciarono rilevando che, trattandosi di obbligazioni così dette di comportamento, «l’inadempimento rilevante … non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno».
La dottrina non ha mancato di rilevare gli aspetti rimasti irrisolti dopo tale arresto:
─ qual è il contenuto dell'allegazione cui è tenuto l'attore e quale il suo grado di specificità?
─ per converso, che contenuto deve avere la prova liberatoria in capo al medico o alla struttura ospedaliera?
─ soprattutto a carico di chi resta il rischio della causa ignota?
3. La quinta stagione dell’onere della prova (Cass. n. 18392/2017 e il doppio ciclo causale)
Si arriva così, nove anni dopo l’arresto di Cass. S.U. n. 577 del 2008, in una temperie ancora caratterizzata dalla ricerca di soluzioni che ponessero gli esercenti la professione sanitaria in una posizione meno gravosa nell’ambito del crescente contenzioso, alla pronuncia di Cass. n. 18392 del 2017 ([23]), che, come s’è anticipato, segna una svolta di rilievo ancora più dirompente di quello che sarà successivamente rappresentato dal modello del doppio binario introdotto dalla legge Gelli-Bianco.
Con tale pronuncia la S.C., a sezione semplice, compie una raffinata quanto innovativa operazione di sistemazione concettuale, culminata nell’affermazione di principio secondo cui «ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione; l'onere per la struttura sanitaria di provare l'impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari».
Questi, in sintesi, i passaggi argomentativi:
─ il nesso causale (tra azione/omissione del medico ed evento di danno) è elemento del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria;
─ secondo la regola generale (art. 2697 cod. civ.: onus probandi incumbit ei qui dicit) la sua prova incombe sull’attore/danneggiato;
─ il principio affermato da Cass. S.U. n. 577 del 2008 solo apparentemente enuncia una regola opposta, in quanto si riferisce in realtà non al nesso causale che lega l’evento di danno all’azione od omissione del sanitario (causa costitutiva del diritto al risarcimento), ma al diverso nesso causale che intercorre tra inadempimento e fatto non imputabile al debitore/sanitario (causa estintiva dell’obbligazione).
Occorre dunque distinguere due cicli causali:
─ il primo riguarda l’evento di danno, è comune ad ogni fattispecie di responsabilità (contrattuale o extracontrattuale) e caratterizza negli stessi termini gli oneri di allegazione e prova del danneggiato («tronco comune» delle azioni di danno)(c.d. causalità costitutiva);
─ il secondo è proprio della responsabilità contrattuale e riguarda l’impossibilità di adempiere (per fatto non imputabile al debitore) come causa di estinzione dell’obbligazione, la cui prova è a carico del debitore (c.d. causalità estintiva);
─ la dimostrazione di tale causa estintiva passa attraverso la prova della non imputabilità del fatto che ha reso impossibile la prestazione (casus=non culpa) ([24]) e, dunque, della diligenza del debitore, che però, a questo fine, non attiene all’adempimento ma alla «conservazione della possibilità di adempiere»;
─ essa va quindi valutata secondo il parametro della diligenza ordinaria (o del buon padre di famiglia: art. 1176, comma primo, cod. civ.), a differenza di quella relativa alla prestazione dedotta in contratto, che va valutata secondo la diligenza professionale (art. 1176, comma secondo, cod. civ.).
Discende da tali regole che il rischio della causa ignota: a) graverà sul creditore/danneggiato, se riguarda l’evento di danno; b) graverà invece sul debitore/danneggiante, se riguarda la causa esterna imprevedibile e inevitabile che ha reso impossibile l’adempimento.
Con la ovvia precisazione che il (secondo) ciclo causale, relativo alla possibilità di adempiere, acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore.
Cass. n. 18392 del 2017 ha segnato la giurisprudenza successiva della Terza Sezione, presto conformatasi al nuovo paradigma ([25]).
4. Le posizioni della dottrina
È bene anzitutto rilevare che l’orientamento che addossa al creditore l’onere di provare il nesso causale tra danno e inadempimento godeva già di un'autorevole copertura dottrinale ([26]).
Da questo punto di vista, l’aspetto realmente innovativo della «sentenza Scoditti» ([27]) è rappresentato proprio dalla affermata «non discontinuità» con il principio affermato da Cass. S.U. n. 577 del 2008; affermazione ─ per vero dai più non condivisa ─ cui si giunge attraverso l’inedita teorizzazione del «doppio ciclo causale» (si dice, infatti, che quel principio riguardava il secondo ciclo causale, non dunque la causa costitutiva del diritto al risarcimento, ma la causa impeditiva dell’adempimento).
Al riguardo occorre segnalare che una più articolata ─ e, in parte, ammorbidita ─ prospettazione dei principi enunciati da Cass. n. 18392 del 2017 viene, poco tempo dopo, offerta dal suo stesso estensore, in sede «dottrinale» ([28]).
Come efficacemente sintetizza l’abstract anteposto allo scritto, la tesi ivi sostenuta è che «la l. n. 24 del 2017 impone un adeguamento delle conclusioni cui sono giunte le Sezioni Unite della Corte di cassazione in materia di responsabilità contrattuale del medico. Alla luce dell'acquisita rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida deve essere recuperata la distinzione fra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi quale distinzione fra interventi routinari e non routinari».
Viene in tal senso evocata anche la distinzione tra interesse strumentale (immanente alla prestazione dedotta in obbligazione) e interesse primario (il risultato ultimo che si intende conseguire, che però rimane, come tale, estraneo al perimetro dell’obbligazione).
Distinzione in concreto non percepibile per le obbligazioni di risultato, ma rilevante per quelle di mezzi.
«Se l'intervento sanitario non è routinario – prosegue l’abstract – e l'obbligazione è quindi di mezzi, una volta che il medico abbia provato l'esecuzione della prestazione nel rispetto delle leges artis, spetta al paziente provare che l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di nuova patologia sono stati determinati da negligenza o imprudenza del medico».
Si ipotizza, infatti, che in questa tipologia di obbligazioni, una volta che il debitore abbia confutato l'inadempimento contestatogli dal creditore mediante la prova dell'avvenuta osservanza delle regole di perizia, spetti a quest'ultimo di individuare il fattore causale della mancata realizzazione del proprio interesse, ossia del danno: un fattore alternativo alla condotta del debitore ma da questi prevedibile ed evitabile, dunque a lui imputabile a titolo di responsabilità.
La prova, da parte del debitore, di aver osservato le leges artis, farebbe in altre parole scattare un nuovo ciclo causale (il terzo) questa volta a carico del creditore, tenuto a allegare e dimostrare la causa ignota e la sua prevedibilità da parte del debitore.
La ricostruzione operata da Cass. n. 18392 del 2017 è favorevolmente commentata da P. SPAZIANI ([29]) che, però, a tal fine, muove, pour cause, da una netta presa di distanze dal principio affermato da Cass. S.U. n. 13533 del 2001 (in tal senso distinguendosi dalla «sentenza Scoditti» che, invece, quel principio, nella versione resa da Cass. S.U. n. 577 del 2008, affermava essere solo apparentemente disatteso).
Osserva, infatti, l’A. che «sul piano dogmatico, non appariva pienamente giustificata l’equiparazione di tale regime» (s’intende, quello di riparto dell’onere della prova in tema di responsabilità contrattuale) a quello degli altri rimedi posti a tutela del diritto di credito, atteso che nella domanda di adempimento o di risoluzione del contratto (art. 1453 cod. civ.), diversamente che in quella di risarcimento del danno (art. 1218 cod. civ.), per un verso l’inadempimento non rientra tra i fatti costitutivi della pretesa (costituendo soltanto un presupposto logico della domanda), mentre, per altro verso, l’adempimento si caratterizza come fatto estintivo del diritto di credito e forma pertanto oggetto delle eventuali eccezioni del debitore, rientrando tra i fatti che egli ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, cod. civ..
Al contrario, nella domanda di risarcimento del danno contrattuale è l’inadempimento ad integrare, insieme al danno e al nesso causale, la vicenda fattuale costitutiva della fattispecie, talché il trasferimento di tale vicenda dalla sfera dell’onere probatorio dell’attore (in cui rientra naturaliter in base all’art. 2697, comma primo, cod. civ.) in quella del convenuto, può trovare giustificazione soltanto nei principi di presunzione di persistenza del diritto e di vicinanza della prova.
Ma tali principi, mentre possono essere invocati in relazione al fatto di inadempimento (essendo più agevole per il debitore dare la prova positiva del fatto estintivo dell’obbligazione che non, per il creditore, fornire la dimostrazione negativa della sua inesistenza), difficilmente possono trovare applicazione in relazione alla dimostrazione del nesso causale tra quel fatto e il danno che ne è conseguito: tanto il nesso causale “materiale” (intercorrente tra l’inadempimento e l’evento di danno) quanto il nesso causale “giuridico” (intercorrente tra l’evento lesivo e le sue conseguenze pregiudizievoli), integrano infatti elementi egualmente “distanti” da entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio, talché non può ipotizzarsi a carico del debitore l’onere di fornire una prova liberatoria rispetto all’assenza del nesso di causa analoga a quella richiestagli in relazione all’esattezza dell’adempimento» ([30])([31]).
Ben più numerose sono state però le reazioni - più o meno apertamente - critiche ([32]).
La «sentenza Scoditti» del 2017 è stata, infatti, vista – benché ciò, come detto, sia espressamente in essa negato - come una netta inversione di rotta rispetto a Cass. S.U. n. 577 del 2008 ed un regresso ad una fase, che sembrava abbandonata, di sostanziale favor debitoris con l’effetto, al contempo, di elidere in gran parte, sul piano del riparto degli oneri probatori, la differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, finendo così con il risultare finanche più sbilanciata in favore delle strutture sanitarie di quanto non intendesse esserlo lo stesso legislatore con la legge n. 24 del 2017 ([33]).
Il nocciolo di tali critiche, da un punto di visto strettamente teorico-concettuale, può essere sintetizzato nelle seguenti proposizioni, che converrà tenere presenti in vista della successiva tappa del percorso in esame.
I) È pacifico che nella responsabilità extracontrattuale il giudizio causale (causalità materiale) è criterio di imputazione oggettiva (del danno), il dolo o la colpa è criterio di imputazione soggettiva.
Orbene, secondo la «sentenza Scoditti», anche nella responsabilità contrattuale, il giudizio causale è allo stesso modo criterio di imputazione oggettiva, mentre l’inadempimento lo è di imputazione soggettiva.
Tale asserto è criticato sul rilievo che nella responsabilità contrattuale non vi è spazio per una analoga distinzione tra imputazione oggettiva e soggettiva, poiché ad entrambe presiede l’inadempimento.
Ciò in quanto l'inadempimento all'obbligazione implica di per sé l'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta del debitore (inadempiente) e l'evento lesivo (ossia la lesione dell'interesse del creditore ad acquisire l'utilità proveniente dalla prestazione del debitore).
Conseguentemente la prova del nesso di causalità (materiale) è contenuta in re ipsa nella prova dell'inadempimento imputabile, restando assorbita in quest'ultima ([34]).
Tale conclusione poggia sul rilievo (e qui sta probabilmente il vero nodo teorico di fondo) che «nell'obbligazione la responsabilità costituisce uno stadio del medesimo rapporto obbligatorio che, venuta meno o divenuta non più utile in termini oggettivi la prestazione originaria, muta il proprio oggetto nella prestazione di risarcimento del danno, finalizzata ad attuare per equivalente il risultato atteso e a rimuovere il costo dei danni conseguenti all'inadempimento. Il fatto costitutivo in senso proprio della responsabilità consiste, dunque, nell'esistenza del rapporto obbligatorio di cui il vincolo di responsabilità rappresenta un'epifania» ([35]).
II) Dare la prova del nesso di causa (tra inadempimento ed evento di danno) significa dover dimostrare una sequenza concreta di eventi (sino a quello finale, che rappresenta il danno), tra i quali sia possibile istituire (e dimostrare l’esistenza di) nessi di collegamento e/o di derivazione. «Ma come si fa a provare (in concreto) tali nessi se non si sono prima provati (perché non si era tenuti a farlo), nel loro effettivo e specifico svolgimento, i singoli fatti della sequenza (e, in particolare, il fatto che si pone all’origine della sequenza medesima)?» ([36]). In altre parole dimostrare il nesso non richiede anche, prima, la dimostrazione dell’errore, ossia della condotta erronea che ha causato il danno ([37])?
III) Nel ragionamento si annida uno «slittamento semantico» che ha mutato l'oggetto della prova gravante sul debitore-medico dal fattore causale del danno alternativo all'inadempimento, nel fattore causale che ha reso impossibile la prestazione ([38]).
Il medico e/o la struttura, però, possono essere chiamati (anzi, sono normalmente chiamati, quando risulti in concreto accertata una loro condotta che sia qualificabile come inadempimento) a dimostrare che l’inadempimento (pur essendosi, in ipotesi, verificato) non ha avuto efficienza causale rispetto all’evento dannoso di cui si discute. A maggior ragione hanno interesse a dimostrare la causa che ha provocato l'evento dannoso, «nonostante la corretta esecuzione della prestazione» (esecuzione che, dunque, non è stata affatto «impedita» da quella causa) ([39]).
IV) L’implicazione necessaria tra evento di danno e inadempimento è, in realtà, ritenuta non predicabile anche da quelli tra i citati Autori che maggiormente si sono spesi sul tema nel descritto attuale contesto, ovvero i professori Giovanni D’AMICO e Fabrizio PIRAINO, con riferimento ad alcune categorie di obbligazioni, che, il primo identifica - sostanzialmente recuperando la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato (ovvero quella tra interventi routinari e interventi complessi) - in quelle aventi ad oggetto prestazioni mediche difficili (in contrapposizione a quelle «ad alta vincolatività»), il secondo identifica in quelle «con risultato indeterminato» (in contrapposizione a quelle «con risultato determinato»).
Nondimeno, anche in tal genere di obbligazioni, secondo entrambi, non si giustifica la regola di riparto affermata da Cass. n. 18392 del 2017.
La convergenza delle critiche si ferma però qui, sviluppando poi i due Autori percorsi argomentativi nettamente diversi.
IV.1) Secondo il D’AMICO, infatti, nelle obbligazioni di mezzi il debitore oltre a poter dimostrare il fatto non imputabile che ha reso impossibile l’adempimento (art. 1218 cod. civ.), ha anche (e si tratterà, anzi, dell'ipotesi più frequente) la possibilità di provare che, con la propria condotta, egli ha in realtà correttamente adempiuto la prestazione dovuta (risultando quella condotta conforme agli standard di perizia/diligenza richiesti e non essendoci qui un preciso risultato che possa considerarsi «promesso», e non potendosi, pertanto, dal suo mancato avverarsi, trarre alcuna presunzione assoluta di inadempimento).
Con la conseguenza che, in tal caso, il rischio della mancata individuazione di una «causa alternativa» (prevedibile ed evitabile) che possa spiegare la mancata realizzazione dell'interesse del creditore (una volta escluso che questa «causa» possa essere stata l'inadempimento dell'obbligazione), ricadrebbe sul creditore stesso ([40]).
IV.2) Diversamente il PIRAINO riconosce bensì «un fondo di verità» sotteso alla distinzione tra obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», ma sostiene che esso si esaurisce nell'aver colto la varietà morfologica del contenuto delle obbligazioni, con incidenza sui temi di allegazione e prova, senza poter giustificare una diversificazione delle regole di responsabilità (funzione, dunque, connotativa, non denotativa, del criterio della determinatezza o meno del risultato) ([41]).
Secondo l’A., in questa tipologia di obbligazioni, la perdita lamentata dal creditore può essere considerata un danno risarcibile soltanto se, a seguito di una valutazione necessariamente a posteriori, si appuri che l'utilità perduta coincide proprio con quella che, nel quadro di un giudizio controfattuale, il creditore avrebbe potuto ottenere qualora il debitore si fosse determinato in maniera diversa nel rispetto dei criteri di esattezza e di correttezza della prestazione. Non basta dunque un sindacato incentrato sulla sola condotta.
In questa valutazione trova spazio allora una componente eziologica che, però, non si esplica su di un piano concreto, ma su un piano astratto. Occorre, cioè, ricondurre la condotta del debitore sotto una legge scientifica, o statistica, di copertura così da verificare se il tipo di danno lamentato dal creditore corrisponde al novero dei pregiudizi rispetto ai quali quel tipo di condotta si pone come antecedente secondo il modello nomologico-deduttivo. Non è qui in questione la prova dell'esistenza del nesso di causalità, ma la possibilità stessa di qualificare quanto lamentato dal creditore come danno da inadempimento.
Ciò si traduce nella necessità: a) per il creditore, di allegare (e provare) l'attitudine in astratto della condotta inesatta del debitore a produrre il tipo di pregiudizio lamentato; non è invece necessario che il creditore fornisca elementi per la verifica della causalità individuale; b) per il debitore, di conseguenza, o di sconfessare la legge scientifica o statistica di copertura o di provare l’esistenza, in concreto, di una causa del danno alternativa alla propria condotta (fattore causale esterno che esclude non l’inadempimento, come il fatto non imputabile ex art. 1218 cod. civ., ma l’obbligo di risarcimento).
La prova del fattore causale alternativo va equiparata sul piano dogmatico alla prova della causa di impossibilità della prestazione non imputabile al debitore sotto il comune segno dell'esonero dalla responsabilità: questa esclude l’inadempimento (art. 1218 cod. civ.); quella esclude il danno come conseguenza della condotta del sanitario (inadempiente o meno che sia).
IV.3) Sostanzialmente sullo stesso piano (che potremmo definire intermedio) merita di essere qui ricordata altra attenta dottrina ([42]) secondo cui il principio di omogeneità (Cass. S.U. n. 13533 del 2001) è in realtà neutrale dal punto di vista ricostruttivo, «perché omogeneo sarebbe anche un sistema che gravasse della prova sempre il creditore» e che, nei fatti, «affrettato» si è rivelato l’abbandono, sulla base di quel principio, da parte della giurisprudenza, della tradizionale dicotomia tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato quale criterio per «differenziare la conformazione dell’onere della prova dell’adempimento» (la cui persistente «vitalità» è testimoniata proprio dalle menzionate nuove proposte classificazioni).
Illusorio, dunque, secondo l’A., è il beneficio che quel principio arrecherebbe in termini di semplificazione dei criteri di riparto dell’onere della prova, in quanto destinato a infrangersi contro «un’unica e innegabile realtà logico-giuridica: non tutte le prestazioni sono uguali per livello di alea implicita, non tutte le obbligazioni sono uguali per tasso di diligenza efficiente e non tutti i rapporti sono uguali per allocazione intersoggettiva del rischio».
Per tal motivo, osserva l’A., «un regime probatorio forzatamente omogeneo, così rigido da non poter assecondare l'eterogeneità delle fattispecie, è votato all'instabilità, alla crisi e, in ultimo, al rigetto».
Così come dunque troppo severo si è rivelato il regime probatorio instaurato dalla giurisprudenza dopo Cass. S.U. n. 577 del 2008 per il debitore di prestazione medica, tanto da produrre «una crisi di rigetto, sfociata in progetti legislativi di rigidità uguale e contraria», allo stesso modo, all’opposto, «gravi interrogativi» suscita «la razionalità di un sistema probatorio indifferente – ancora una volta – alla multiforme configurazione degli ambiti di rischio».
Evidenziata, quindi, la non decisività dei criteri di vicinanza della prova e del brocardo, in cui esso si riflette, «negativa non sunt probanda» (poiché privo di logica giustificazione ove si tratti di provare una proposizione antitetica ad una proposizione affermativa specifica: negativa praegnans probari potest), l’A. osserva che l'onere di allegazione in capo al ceditore/paziente danneggiato può svolgere un'utile, ancorché molto parziale, funzione delimitativa, onerando il debitore a provare solo il contrario dell'inadempimento o dell'inesattezza allegati dal creditore, anziché il contrario di tutti gli inadempimenti e tutte le inesattezze astrattamente concepibili».
Resta comunque indispensabile, secondo l’A., che il riparto dell’onere probatorio guardi «prima di ogni altra cosa alla verosimiglianza del fatto e agli ambiti di rischio, ove non voglia scadere in distribuzioni pragmaticamente irrazionali o eticamente orientate».
5. Le sentenze di San Martino 2019 (Cass. nn. 28991 – 28992 del 2019)
Nell’acceso dibattito di cui si è fatto cenno irrompono le due sentenze gemelle emesse dalla Terza Sezione Civile, per la penna dello stesso estensore della sentenza n. 18392 del 2017, il giorno di San Martino del 2019.
L’intento – che le accomuna alle altre emesse nello stesso contesto (in tema di responsabilità medica e danno alla persona: c.d. Progetto Sanità) – è quello di affrontare uno dei nodi, come si è visto, più intricati e problematici ed offrirne una chiave di lettura chiara e univoca, in funzione dell’obiettivo di prevedibilità e certezza degli indirizzi giurisprudenziali.
Con riferimento al tema in esame il risultato è, sostanzialmente, quello del consolidamento del principio affermato dalla sentenza del 2017; esso, però, viene ottenuto alla luce di un più articolato percorso argomentativo diretto a tener conto – e in certa misura anche ad accogliere, apportando qualche «correzione di tiro» – alcuni dei rilievi mossi dalla dottrina.
Trovano ingresso in tal senso alcuni passaggi argomentativi già svolti da E. SCODITTI in sede dottrinale nel ricordato scritto ([43]); non anche però (ma la fattispecie non ne dava occasione) la parte relativa a quello che qui si è definito «terzo ciclo causale».
Recita così, fedelmente, la massima di Cass. n. 28991 del 2019 ([44]): «in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione».
Questi in sintesi i passaggi argomentativi delle sentenze «gemelle».
I) La causalità relativa tanto all'evento pregiudizievole, quanto al danno conseguenziale, è comune ad ogni fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, quale portato della distinzione fra causalità ed imputazione.
È un collegamento naturalistico fra fatti accertato sulla base delle cognizioni scientifiche del tempo ovvero su basi logico-inferenziali.
Attiene alla relazione probabilistica (svincolata da ogni riferimento alla prevedibilità soggettiva) tra condotta ed evento di danno (e fra quest'ultimo e le conseguenze risarcibili), da ricostruirsi secondo un criterio di regolarità causale.
Su un piano diverso si colloca la dimensione soggettiva dell'imputazione. Quest'ultima corrisponde all'effetto giuridico che la norma collega ad un determinato comportamento sulla base di un criterio di valore, che è rappresentato dall'inadempienza nella responsabilità contrattuale e dalla colpa o il dolo in quell'aquiliana (salvo i casi di imputazione oggettiva dell'evento nell'illecito aquiliano: artt. 2049, 2050, 2051 e 2053 c.c.).
Che la causalità materiale si iscriva a pieno titolo anche nella dimensione della responsabilità contrattuale trova una testuale conferma nell'art. 1227 c.c., comma 1, che disciplina proprio il fenomeno della causalità materiale rispetto al danno evento sotto il profilo del concorso del fatto colposo del creditore.
Ogni forma di responsabilità è dunque connotata dalla congiunzione di causalità ed imputazione. Su questo tronco comune intervengono le peculiarità della responsabilità contrattuale.
II) Il tratto distintivo della responsabilità contrattuale risiede nella premessa della relazionalità, da cui la responsabilità conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio. Il danno derivante dall'inadempimento dell'obbligazione non richiede la qualifica dell'ingiustizia, che si rinviene nella responsabilità extracontrattuale, perché la rilevanza dell'interesse leso dall'inadempimento non è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua dell'ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all'art. 2043 c.c. (cfr. Cass. S.U.. 22 luglio 1999, n. 500), ma alla corrispondenza dell'interesse alla prestazione dedotta in obbligazione (arg. ex art. 1174 c.c.). È la fonte contrattuale dell'obbligazione che conferisce rilevanza giuridica all'interesse regolato.
III) Se la soddisfazione dell'interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto dell'obbligazione vuol dire che la lesione dell'interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall'inadempimento.
La causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall'inadempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile dall'inadempimento, perché quest'ultimo corrisponde alla lesione dell'interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento. La causalità acquista qui autonomia di valutazione solo quale causalità giuridica, e dunque quale delimitazione del danno risarcibile.
L'assorbimento pratico della causalità materiale nell'inadempimento fa sì che tema di prova del creditore resti solo quello della causalità giuridica (oltre che della fonte del diritto di credito), perché, come affermato da Cass. S.U. n. 13533 del 2001, è onere del debitore provare l'adempimento o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.), mentre l'inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve essere solo allegato dal creditore. Non c'è quindi un onere di specifica allegazione (e tanto meno di prova) della causalità materiale perché allegare l'inadempimento significa allegare anche nesso di causalità e danno evento.
Tale forma del rapporto fra causalità materiale e responsabilità contrattuale attiene tuttavia allo schema classico dell'obbligazione di dare o di fare contenuto nel codice civile. Nel diverso territorio del facere professionale la causalità materiale torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della riconducibilità dell'evento alla condotta secondo le regole generali sopra richiamate.
IV) Se l'interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all'interesse primario del creditore, causalità ed imputazione per inadempimento tornano a distinguersi anche sul piano funzionale (e non solo su quello strutturale) perché il danno evento consta non della lesione dell'interesse alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione, ma della lesione dell'interesse presupposto a quello contrattualmente regolato.
La distinzione fra interesse strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione, ed interesse primario emerge nel campo delle obbligazioni di diligenza professionale. La prestazione oggetto dell'obbligazione non è la guarigione dalla malattia o la vittoria della causa, ma il perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore.
Il danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie attinge non l'interesse affidato all'adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto corrispondente al diritto alla salute.
Benché guarigione dalla malattia o vittoria della causa non siano dedotte in obbligazione, esse non costituiscono un motivo soggettivo che resti estrinseco rispetto al contratto d'opera professionale, ma sono tipicamente connesse all'interesse regolato perché la possibilità del loro soddisfacimento è condizionata dai mutamenti intermedi nello stato di fatto determinati dalla prestazione professionale. L'interesse corrispondente alla prestazione oggetto di obbligazione ha natura strumentale rispetto ad un interesse primario o presupposto, il quale non ricade nel motivo irrilevante dal punto di vista contrattuale, perché non attiene alla soddisfazione del contingente ed occasionale bisogno soggettivo ma è connesso all'interesse regolato già sul piano della programmazione negoziale e, dunque, del motivo comune rilevante al livello della causa del contratto. Non c'è obbligazione di diligenza professionale del medico o dell'avvocato se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione dalla malattia o della vittoria della causa.
V) Dato che il danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda, come si è detto, non l'interesse corrispondente alla prestazione ma l'interesse presupposto, la causalità materiale non è praticamente assorbita dall'inadempimento.
Quest'ultimo coincide con la lesione dell'interesse strumentale, ma non significa necessariamente lesione dell'interesse presupposto, e dunque allegare l'inadempimento non significa allegare anche il danno evento il quale, per riguardare un interesse ulteriore rispetto a quello perseguito dalla prestazione, non è necessariamente collegabile al mancato rispetto delle leges artis ma potrebbe essere riconducibile ad una causa diversa dall'inadempimento.
La violazione delle regole della diligenza professionale non ha dunque un'intrinseca attitudine causale alla produzione del danno evento. Aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie non sono immanenti alla violazione delle leges artis e potrebbero avere una diversa eziologia. Si riespande così, anche sul piano funzionale, la distinzione fra causalità ed imputazione soggettiva sopra delineata.
Il creditore ha l'onere di allegare la connessione puramente naturalistica fra la lesione della salute, in termini di aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico e, posto che il danno evento non è immanente all'inadempimento, ha anche l'onere di provare quella connessione, e lo deve fare sul piano meramente naturalistico sia perché la qualifica di inadempienza deve essere da lui solo allegata, ma non provata (appartenendo gli oneri probatori sul punto al debitore), sia perché si tratta del solo profilo della causalità materiale, il quale è indifferente alla qualifica in termini di valore rappresentata dall'inadempimento dell'obbligazione ed attiene esclusivamente al fatto materiale che soggiace a quella qualifica.
VI) La prova della causalità materiale da parte del creditore può naturalmente essere raggiunta anche mediante presunzione.
Argomentare diversamente, e cioè sostenere che anche nell'inadempimento dell'obbligazione di diligenza professionale non emerga un problema pratico di causalità materiale e danno evento, vorrebbe dire implicitamente riconoscere che oggetto della prestazione è lo stato di salute in termini di guarigione o impedimento della sopravvenienza dell'aggravamento o di nuove patologie, ma ciò non è perché il parametro per valutare se c'è stato inadempimento dell'obbligazione professionale è fornito dall'art. 1176 c.c., comma 2, il quale determina il contenuto della prestazione in termini di comportamento idoneo per il conseguimento del risultato utile. Per riprendere le parole di un'autorevole dottrina della metà del secolo scorso ([45]), la guarigione o l'impedimento della sopravvenienza dell'aggravamento o di nuove patologie dipendono troppo poco dalla volontà del medico e dalla collaborazione del malato perché possano essere dedotte in obbligazione. Lo stato di salute, come si è detto, integra la causa del contratto, ma l'obbligazione resta di diligenza professionale.
VII) Una volta che il creditore abbia provato, anche mediante presunzioni, il nesso eziologico fra la condotta del debitore, nella sua materialità, e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie, sorgono gli oneri probatori del debitore, il quale deve provare o l'adempimento o che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a lui non imputabile. Emerge così un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle … (da qui in poi le ulteriori considerazioni ribadiscono quanto già affermato da Cass. n. 18392 del 2017).
6. Le reazioni della dottrina
Pur dando atto della «predisposizione di un più preciso corredo concettuale», ed al contempo degli «arretramenti» ed «aggiustamenti di tiro» compiuti rispetto alla strada tracciata nel 2017, la dottrina rimane, in netta prevalenza, apertamente critica rispetto all’orientamento allora inaugurato dalla Terza Sezione Civile, successivamente più volte ribadito ed ora ulteriormente consacrato dalle sentenze in esame, almeno nelle sue linee concettuali di fondo.
La quantità e la qualità dei commenti ([46]) – a volte dai toni fin troppo accesi – testimoniano l’attenzione della dottrina civilistica e l’importanza da essa attribuita a tale scelta, ritenuta segno della volontà di mantenere fermo negli anni a venire l’enunciata regola di riparto dell’onere della prova del nesso causale nella responsabilità sanitaria di matrice contrattuale, ma non per questo, ovviamente, meno discutibile sul piano dogmatico.
6.1. Le critiche
Temi di critica continuano, naturalmente, ad essere: l’impostazione teorica di fondo, considerata frutto di una indebita commistione di paradigmi propri della responsabilità contrattuale con quelli della responsabilità extracontrattuale; l’attribuzione alla causalità materiale di un rilievo (quello di criterio di imputazione oggettiva) distinto da quello dell’inadempimento (criterio di imputazione soggettiva); l’individuazione di un doppio ciclo causale; l’esito finale dell’attribuzione al creditore/paziente del rischio della causa ignota dell’evento dannoso.
Con più specifico riferimento alle precisazioni ed ai nuovi argomenti svolti nelle sentenze del 2019, le critiche più acute sul piano teorico si appuntano in particolare:
a) sul sostanziale recupero, con valenza non solo descrittiva (o connotativa), ma anche dogmatica (o denotativa) ─ dietro l’enucleazione di una categoria di obbligazioni di facere professionale dalle ampie maglie (senza cioè alcuna distinzione tra quelle «ad alta vincolatività» ([47]) o «a risultato predeterminabile» ([48]) e quelle invece che tali non sono) ─ della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato; tra le prime verrebbero in sostanza annoverate tutte le obbligazioni di facere professionale, sia pure sotto il diverso nome di obbligazioni «di diligenza professionale»;
b) sul rilievo attribuito (e sulla relativa giustificazione), nelle obbligazioni di facere professionale, ai fini della configurazione del danno evento, all’interesse primario presupposto, distinto da quello, strumentale, contrattualmente regolato;
c) sull’identificazione, in tal genere di obbligazioni, dell’oggetto della prestazione con il «perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore».
Delle prime già si è detto nel dare sommariamente conto del dibattito sviluppatosi dopo la sentenza del 2017.
Con riferimento al secondo tema si è osservato ([49]) che «il danno da inadempimento può commisurarsi all'interesse al miglioramento dello stato di salute o al contenimento degli effetti della patologia in quanto, e solo in quanto, quest'ultimo, nel singolo caso concreto e all'esito di una valutazione a posteriori che risalga a ritroso la condotta del debitore-medico, risulti dovuto e non già soltanto presupposto» e si è contestato che tale interesse, se in ipotesi esterno al perimetro dell’obbligazione, possa rilevare ai fini predetti «in ragione della valorizzazione fattane dalla causa del contratto».
A tale argomento (definito «nulla più che un gioco di parole»)([50]) si muove, infatti, una duplice obiezione: a) varrebbe nei confronti della struttura ospedaliera, ma non del medico dipendente poiché, nel nuovo regime, responsabile solo ex lege Aquilia, e risulterebbe pertanto impossibile stabilire a quale parametro commisurare il danno subito dal paziente ([51]); b) non è concepibile un motivo rilevante sul piano della causa, che non si rifletta anche sugli effetti del negozio (ossia, sulla prestazione dovuta)([52]).
Il terzo rilievo, infine, si sostanzia nella osservazione che «non è corretto ravvisare l’oggetto dell’obbligazione professionale in una qualità della condotta del debitore», e ciò in quanto «il risultato atteso» si identifica sempre in una «utilità ulteriore» rispetto alla condotta ([53]).
6.2. Le aperture e i possibili punti di contatto
Come s’è già accennato, molti commentatori non mancano tuttavia di sottolineare alcuni passaggi, nelle «sentenze Scoditti» del 2019, dai quali è possibile cogliere il riconoscimento di alcune delle obiezioni mosse alla originaria troppo schematica ricostruzione e l’attenuazione della rigidità della regola che addossa al ceditore la prova del nesso causale.
Il riferimento è, da un lato, al rilievo dell’«assorbimento pratico della causalità materiale nell'inadempimento», tale da sollevare il creditore dall’onere di specifica allegazione (e tanto meno di prova) della causalità materiale ([54]): «assorbimento» affermato tuttavia (solo) in relazione allo «schema classico dell'obbligazione di dare o di fare contenuto nel codice civile», con esclusione delle obbligazioni di «facere professionale»; dall’altro, all’insistita precisazione circa la possibilità, per il creditore, di assolvere l’onere di provare il nesso causale anche a mezzo di presunzioni ([55]).
Sotto quest’ultimo profilo si è in particolare rimarcato come, sul piano della prova per presunzioni, avrà agio di operare l’orientamento giurisprudenziale consolidato in tema di negligente tenuta della cartella clinica e potrà, soprattutto, essere recuperata la distinzione tra prestazioni routinarie [o «ad esito vincolato» o «con risultato predeterminabile» ([56])] e prestazioni che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (le prime autorizzando la presunzione che il mancato conseguimento del risultato in questione appaia come collegato necessariamente ad un inadempimento del debitore)([57]).
Le distanze, insomma, tra le diverse impostazioni concettuali, pur innegabili sul piano teorico, appaiono destinate a ridursi alquanto negli esiti pratici.
Partendo da posizioni opposte, l’una e l’altra impostazione si mostrano infatti costrette a venire a patti con le obiezioni dell’altra e nell’avvicinarsi finiscono con il predicare regole di riparto dell’onere probatorio, a ben vedere, nei fatti, destinate ad avvicinarsi alquanto.
6.3. Le presunzioni e le inferenze probabilistiche (probabilità statistica o pascaliana vs. probabilità logica o baconiana)
Appare in tal senso degno di nota che, una delle ricostruzioni antitetiche più accuratamente argomentate ([58]), predica anch’essa, nel caso di prestazioni con risultato non predeterminato (o, più precisamente, determinabile solo a posteriori), oneri di allegazione (e prova) per il creditore più pregnanti della mera generica allegazione dell’inadempimento e del danno.
Si tratta, bensì, come detto, di oneri declinati sul piano della causalità generale o astratta (dell'attitudine, cioè, in astratto, della condotta inesatta del debitore a produrre il tipo di pregiudizio lamentato dal debitore) da verificare in rapporto alle leggi scientifiche o statistiche di copertura (probabilità statistica o pascaliana); non dunque sul piano della causalità individuale o del caso concreto, da verificare alla luce «degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)» ([59])([60]).
Ciò non toglie però che in tal modo ─ ossia, anche nell’assolvimento dell’onere di allegazione e prova gravante, secondo la citata dottrina, sul creditore/danneggiato, alla stregua del più lato paradigma pascaliano ─ ci si muova pur sempre sul piano dei criteri che pongono una correlazione, di tipo probabilistico inferenziale, tra due fatti o classi di fatti, sembrando lecito allora domandarsi fino a qual punto, nella pratica, sarà possibile cogliere di volta in volta la differenza ─ che in teoria certamente sussiste ─ tra un tal genere di attività assertivo-probatoria e quella che le sentenze del 2019 riconoscono, ripetutamente, che il creditore possa compiere per il tramite di presunzioni ([61]).
Per converso se l’attore/creditore offre la prova per presunzioni predicata dalle sentenze Scoditti del 2019, le regole del processo certo non escludono che il debitore possa offrire la contro-prova atta a falsificare il risultato probabilistico raggiunto con gli elementi di giudizio offerti dal primo. Anche dal lato del debitore, dunque, al di là del diverso schema concettuale utilizzato, non sembra si possano ravvisare così nette differenze nella pratica.
Può darsi il caso che quel genere di relazione inferenziale predicata dall’attore a fondamento della domanda non regga alla verifica condotta alla luce delle risultanze raccolte ovvero non sia sufficientemente giustificata in relazione alle circostanze del caso concreto. Qui si coglie la differenza tra le due impostazioni dogmatiche. Secondo Cass. nn 28991-28992 del 2019, la domanda andrebbe in tal caso rigettata; secondo l’impostazione contraria la domanda (ove risulti comunque assolto l’onere dell’attore dell’allegazione di un inadempimento eziologicamente connotato sul piano astratto) andrebbe invece accolta ([62]).
Appare però evidente che, in tal modo, la distanza tra le due impostazioni si trasferisce interamente sul piano della valutazione della relazione probabilistico-inferenziale proposta a supporto degli oneri di allegazione e prova comunque gravanti in capo al creditore/danneggiato.
E non può non rilevarsi, però, al riguardo, che la conclusione che questa non raggiunga il grado richiesto di conferma probatoria passa necessariamente attraverso la valutazione degli elementi acquisiti; intanto l’uno o l’altro esito potranno essere affermati, in quanto tali elementi (si reputi) emergano (oppure no) dalla attività probatoria delle parti e, dunque, anche da quella del convenuto, oltre che, naturalmente, in primis, dalla consulenza tecnica d’ufficio, perno immancabile in tal genere di contenzioso.
Nella concreta dinamica processuale finisce, dunque, con il ridursi alquanto (se non svanire del tutto), almeno sul piano pratico, il peso della differenza tra le opzioni dogmatiche di fondo, atteso che, a fronte dell’allegazione da parte dell’attore/danneggiato (che, giova ripetere, è reputata necessaria anche dai sostenitori della impostazione, per così dire, contrattualistica tradizionale), di un inadempimento eziologicamente rilevante (secondo causalità statistica o pascaliana) il convenuto che non voglia correre il rischio di affidarsi alla sola (scivolosa) difesa dell’inidoneità di quella relazione inferenziale a dar prova del nesso di causa, avrà tutto l’interesse (e l’onere) di fornire in giudizio gli elementi di falsificazione, in concreto, di quella inferenza ([63]).
A ben vedere, viene anche a smarrirsi in gran parte il divario tra l’uno e l’altro statuto di responsabilità in ambito sanitario ─ contrattuale per la struttura, extracontrattuale per il medico ─ non potendosi dubitare che, anche in tale secondo ambito, la prova gravante sull’attore danneggiato possa essere offerta per presunzioni.
Non può, infine, sfuggire che, così ricostruiti i contenuti dei rispettivi oneri, il «pendolo della prova» torni fatalmente indietro e venga a sovrapporsi, almeno sul piano pratico, al punto già tracciato da Cass. S.U. n. 577 del 2008; questa invero nel predicare, a carico dell’attore danneggiato, un onere di allegazione di un «inadempimento qualificato», altro non indicava se non la necessità di accompagnare l’allegazione dell’inadempimento anche alla allegazione di una relazione inferenziale, sia pure su di un piano astratto, tra questo e il danno patito [l’aggettivo «qualificato» è in sentenza specificato con la alternativa locuzione aggettivale «(inadempimento) astrattamente efficiente alla produzione del danno»].
È evidente, in ultima analisi, che tutte le volte almeno in cui quella relazione inferenziale possa ritenersi idonea a sorreggere, sul piano probatorio, il convincimento dell’esistenza di un nesso causale, viene a perdersi, almeno sul piano pratico, ogni differenza tra quella impostazione concettuale e quella predicata dalle sentenze di San Martino della Terza Sezione, trovando in tal senso conferma, dunque, la (da queste) affermata sostanziale continuità di indirizzo ([64]).
In questi termini sembra allora si possa convenire, in conclusione, con le osservazioni di quella dottrina ([65]) che, nel riconoscere alla Cassazione di avere svolto pregevolmente il suo compito di fissare con la massima chiarezza possibile i principi che, in termini sostanziali e processuali, devono indirizzare il giudice del merito, ricorda che «sarà (soltanto) quest'ultimo a poter accertare, in concreto, le circostanze idonee, grazie alle produzioni delle parti e soprattutto alla c.t.u., a valorizzare e far funzionare il meccanismo processuale della presunzione (anche e in primo luogo in considerazione del carattere della prestazione), che perciò rimane, nelle controversie più spinose e comunque nei casi in cui vi sia il rischio della c.d. "causa ignota" , la vera chiave di volta della decisione».
* Lo scritto rielabora parte del testo di una relazione svolta dall’autore nell’ambito dell’incontro di studio «Il contenzioso in materia di responsabilità medica: le principali problematiche sostanziali e processuali», organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 12 febbraio 2019 e svoltosi «da remoto», attraverso la piattaforma Microsoft Teams®, il 10 giugno 2020.
[1] Così G. TRAVAGLINO, La responsabilità contrattuale tra tradizione e innovazione, in Resp. Civ. Prev. 2016, fasc. 1, p. 93 ss. cui si rimanda per alcuni paradigmatici esempi.
[2] Cass. 13 marzo 1998, n. 2750 in Foro it. 1998, I, c. 3521.
[3] Cass. 22 gennaio 1999, n. 589 (Pres. Bile – Est. Segreto), in Foro it., 1999, I, 3332, con nota di F. DI CIOMMO e A. LANOTTE; in Danno e resp., 1999, 294, con nota di V. CARBONE; in Corr. Giur., 1999, 441, con nota di A. DI MAJO. Per la teoria del “contatto sociale” v. già, in dottrina, C. CASTRONOVO, Tra contratto e torto. L’obbligazione senza prestazione, in Scritti in onore di Mengoni, I, Milano, 1995, 191 ss.. Per un approccio critico alla teorica del contatto sociale, v. tra gli altri E. NAVARRETTA, L'adempimento dell'obbligazione del fatto altrui e la responsabilità del medico, in Resp. civ. prev., n. 7-8, 2011, 1453 ss., secondo cui è sì innegabile che la pronuncia n. 589 del 1999 abbia corretto il tiro, rifuggendo dal paradigma dell'obbligazione senza prestazione, ma al contempo non è riuscita a dare una qualunque spiegazione «del passaggio dalla dimensione del contatto puramente sociale al piano della rilevanza giuridica».
[4] Per una analisi del percorso normativo e giurisprudenziale che precede l’emanazione della legge Balduzzi si rimanda a V. CARBONE, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi, in Danno resp. 2013, fasc. 4, pp. 378 ss..
[5] Oltre al tema del nesso di causa, sul quale si concentra il presente contributo, si pensi alle pronunce in tema di: danno da perdita di chance (Cass. n. 4400 del 2004; Cass. n. 21619 del 2007; Cass. n. 23846 del 2008; Cass. n. 5641 del 2018; v. da ultimo, nell’ambito del c.d. Progetto Sanità della Terza Sezione Civile, su cui appresso si dirà, Cass. n. 28993 del 2019); contratto ad effetti protettivi verso i terzi (Cass. n. 14488 del 2004); consenso informato (Cass. n. 5444 del 2006; Cass. n. 2847 del 2010; v. da ultimo, nell’ambito del Progetto Sanità, Cass. n. 28985 del 2019); risarcibilità iure proprio della nascita malformata (affermata da Cass. n. 16754 del 2012, ma negata da Cass. S.U. n. 25767 del 2015). Per una sintesi v. G. TRAVAGLINO, op. cit., p. 96.
[6] R. DE MATTEIS, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Cedam Padova 1995. V. anche U. IZZO, Il tramonto di un «sottosistema» della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in Danno resp. 2005, fasc. 2, p. 130; E. PALMERINI, Il “sottosistema” della responsabilità da nascita indesiderata e le asimmetrie con il regime della responsabilità medica in generale, in Nuova Giur. Civ. 2011, 5, 10464; U. SALANITRO, Sistema o sottosistema? La responsabilità sanitaria dopo la novella, in Nuova Giur. Civ. 2018, 11, 1676.
[7] V. Cass. 17 aprile 2014, n. 8940 (Pres. Finocchiaro – Est. Frasca) [«La norma dell'art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla 1. n. 189 del 2012, quando dispone nel primo inciso che «l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve» e, quindi, soggiunge che «in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile», poiché omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. dev'essere interpretata, conforme al principio per cui in lege Aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica. Deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un'opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale»]. In termini convergenti si era già espressa Cass. 19 febbraio 2013, n. 4030 (Pres. Trifone – Est. Petti).
Nella giurisprudenza di merito v. in tal senso: Trib. Milano, 18 novembre 2014, in www.ilcaso.it; Id. 20 febbraio 2015, in Resp. Civ. Prev. 2015, p. 163, con nota di M. GORGONI; Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013, in Danno e resp., 2013, 368; Trib. Cremona, 19 settembre 2013, in www.altalex.com; Id. 1 ottobre 2013, in www.ilcaso.it; Trib. Rovereto, 29 dicembre 2013, in Danno resp., 2013, 378.; Trib. Brindisi, 18 luglio 2014, in www.ilcaso.it.; Trib. Arezzo 14 febbraio 2013, in Danno resp. 2013, 373 ss. con nota di V. CARBONE.
Contra: Trib. Varese 26 novembre 2012; Trib. Torino, 26 febbraio 2013; in Danno resp. 2013, 373 ss; Trib. Milano, 17 luglio 2014 in Dir. Pen. Contemporaneo; Id. 23 luglio 2014; Id. 2 dicembre 2014; Trib. Caltanissetta, 1 luglio 2013 in Resp. Civ. Prev. 2013, 1988 con nota di C. SCOGNAMIGLIO.
[8] Tra i commenti alla novella: M. FACCIOLI, La nuova disciplina della responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (Legge Gelli Bianco): profili civilistici, in Studium Iuris, 2017, 659 ss., 781 ss., in parte sviluppato in ID., La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie, Pacini, 2018; AA.VV., La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, a cura di Alpa, Pacini, 2017; R. PUCELLA, È tempo per un ripensamento del rapporto medico paziente?, in Resp. med., 2017, 3 s.; M. FRANZONI, La nuova responsabilità in ambito sanitario, ibidem, 5 ss.; M. GORGONI, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, ibidem, 17 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Il nuovo volto della responsabilità del medico, ibidem, 35 ss.; R. PARDOLESI, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2017, 261 ss.; G. PONZANELLI, Medical malpratice: la legge Bianco Gelli. Una premessa, ibidem, 268 ss.; A. BARBARISI, L'onere della prova nella responsabilità sanitaria, in Contratti, 2017, 217 ss.; C. GRANELLI, La riforma della disciplina della responsabilità sanitaria: chi vince e chi perde, ibidem, 377 ss.; R. CALVO, La "decontrattualizzazione" della responsabilità sanitaria, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 453 ss.; P.G. ALPA, Ars interpretandi e responsabilità sanitaria a seguito della nuova legge Bianco - Gelli, in Contr. e impr., 2017, 728 ss.; C. MASIERI, Novità in tema di responsabilità sanitaria, in Nuova Giur. Civ., 2017, 5, 752 ss.; A. ASTONE, Profili civilistici della responsabilità sanitaria (riflessioni a margine della legge 8 marzo 2017, n. 24), ibidem, 1115 ss.; C. COLOMBO, Profili civilistici della riforma della responsabilità sanitaria, in ODCC, 2017, 299 ss.; V. CARBONE, Legge Gelli: inquadramento normativo e profili generali, in Corr. giur., 2017, 737 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Regole di condotta, modelli di responsabilità e risarcimento del danno nella nuova legge sulla responsabilità sanitaria, ibidem, 740 ss.; C. GRANELLI, Il fenomeno della medicina difensiva e la legge di riforma della responsabilità sanitaria, in Resp. civ. e prev., 2018, 410 ss.; AA.VV., La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli - Bianco (legge n. 24/2017), a cura di Volpe, Zanichelli, 2018; U. PERFETTI, La responsabilità civile del medico tra legge c.d Gelli e nuova disciplina del consenso informato, in Giust. civ., 2018, 359 ss.; E. MOSCATI, Responsabilità sanitaria e teoria generale delle obbligazioni (note minime sui commi 1 e 3 prima frase, art. 7, L. 8 marzo 2017, n. 24), in Riv. dir. civ., 2018, 829 ss.; B. MARUCCI, La riforma sanitaria Gelli - Bianco. Osservazioni in tema di responsabilità civile, E.S.I., 2018, 115 ss.; AA.VV., La nuova responsabilità medica, a cura di Ruffolo, Giuffrè, 2018.
[9] Così denominato il progetto organizzativo adottato dal Presidente Titolare della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, e realizzato, in estrema sintesi, attraverso la trattazione in tre udienze tematiche all’inizio di luglio del 2019, di ricorsi prospettanti le questioni di maggior rilievo nomofilattico in tema di responsabilità sanitaria e di danno alla persona, con l’intento di offrire soluzioni interpretative chiare e univoche, in funzione dell’obiettivo di una tendenziale uniformità degli indirizzi giurisprudenziali. Ne è sortita, poi, la pubblicazione di dieci sentenze nella stessa data dell’11 novembre 2019 (dalla n. 28985 alla n. 28994).
[10] Cass. 11 novembre 2019, n. 28994 (Pres. G. Travaglino – Est. C. Valle), in Resp. Civ. Prev. 2020, p. 169, con nota di C. CONSOLO – S. BARONE, Responsabilità del medico e regolazione della successione di leggi di qualificazione; in La Nuova Giur. Civ. Comm. 2020, p. 318, con nota di C. SCOGNAMIGLIO, Sulla "irretroattività" della disciplina sostanziale della L. n. 189/2012 e della L. n. 24/2017.
[11] Per tale ultimo principio v., nell’ambito del medesimo Progetto, funditus, Cass. 11 novembre 2019, n. 28990 (Pres. G. Travaglino – Est. S. Olivieri), in Resp. Civ. Prev. 2020, p. 213, con nota di P. ZIVIZ, A ritroso (prevista l'applicazione retroattiva per le tabelle normative); in La Nuova Giur. Civ. Comm. 2020, p. 318, con nota di C. BOITI, Medical malpractice e applicazione retroattiva del criterio tabellare di liquidazione del danno; in Corr. Giur. 2020, p. 128; in Danno e resp., 2020, 1, 36, con nota di D. AMRAM, La persona, le "forzose rinunce" e l'algebra: qualche considerazione all'indomani delle sentenze di San Martino 2019 (commento, quest’ultimo, concentrato però sul diverso tema, pure affrontato da Cass. n. 28990 del 2019, del c.d. danno differenziale, a sua volta sviluppato dalla numericamente successiva Cass. n. 28996 del 2019, Pres. G. Travaglino – Est. M. Rossetti).
[12] A. BARBARISI, L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, cit., p. 220 ss..
[13] Così A. BARBARISI, op. loc. cit..
[14] Cfr. S. BARONE, L’onere della prova nelle controversie in materia di responsabilità sanitaria, in C. CONSOLO (a cura di), Il contenzioso sulla nuova responsabilità sanitaria (prima e durante il processo), Giappichelli Torino 2018, p. 36 (e ivi altri rimandi, nt. 24).
[15] Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141 (Pres. Pedroni – Est. Schermi) in Foro it. 1979, I, c. 4; anche in Arch. civ., 1979, p. 335; Giur. it., 1979, I, p. 953.
[16] C. CASTRONOVO, Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno, Milano, 1998, 124; L. NIVARRA, La responsabilità civile dei professionisti (medici, avvocati, notai): il punto sulla giurisprudenza, in Europa dir. priv., 2000, 518 ss., citati da A. BARBARISI, op. cit., p. 221, nt. 20.
[17] Cass. S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533 (Pres. Vela – Est. Preden) in Foro it., 2002, I, 769 ss., con nota di P. LAGHEZZA, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo; in Corr. giur., 2001, 1565 ss., con nota di V. MARICONDA, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in Nuova giur. civ. comm., 2002, 356 ss., con nota di B. MEOLI; in I Contratti, 2002, 118 ss., con nota di U. CARNEVALI, Inadempimento e onere della prova. Cfr. altresì G. VILLA, Onere della prova, inadempimento e criteri di razionalità economica, in Riv. dir. civ., 2002, II, 707 ss.; G. VISINTINI, La Suprema corte interviene a dirimere un contrasto tra massime (in materia di onere probatorio del creditore vittima dell'inadempimento), in Contratto e impr., 2002, 903 ss.; S. MAZZAMUTO, Il mobbing, Milano, 2006, 66 ss.; M. MAGGIOLO, Inadempimento e oneri probatori, in Riv. dir. civ., 2006, fasc. 6, 165 ss.; F. BUSONI, L'onere della prova nella responsabilità del professionista, Milano, 2011, passim, spec. 47 ss. Per una critica della soluzione elaborata dalle sezioni unite cfr. C. CASTRONOVO, Le due specie della responsabilità civile e il problema del concorso, in Europa e dir. privato 2004, p. 115, nt. 105.
[18] Fatta eccezione per l'inadempimento delle obbligazioni negative, la prova del quale è posta a carico del creditore, sul rilievo che trattasi di fatto positivo ex art. 1222 cod. civ..
[19] Cass. 19 maggio 2004, n. 9471; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488, pubblicate in Danno e resp. 2005, 26 ss., con commento di R. DE MATTEIS, La responsabilità medica ad una svolta?; anche in Corr. giur., 2005, p. 33, con nota di A. DI MAJO; Foro it., 2004, I, c. 3328, con nota di A. BITETTO; Giust. civ., 2005, I, p. 2115; Nuova giur. civ. comm., 2005, I, p. 552, con nota di C. PASQUINELLI; Giur. it., 2005, p. 1413, con nota di S. PERUGINI.
[20] V. Cass. 24 maggio 2006, n. 12362; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 19 aprile 2006, n. 9085.
[21] Cass. 11 gennaio 2008, n. 577 (Pres. Carbone – Est. Segreto), in Danno e resp., 2008, 788 ss., con nota di G. VINCIGUERRA, Nuovi (ma provvisori?) aspetti della controversia medica; in Resp. civ., 397 ss., con nota di R. CALVO, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria; in Nuova giur. civ. comm., 2008, 616 ss., con nota di R. DE MATTEIS, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in Danno e resp., 2008, p. 1002 ss. con nota di M. GAZZARA, Le Sezioni Unite fanno il punto di tema di prova della responsabilità sanitaria; in Giur. it., 2008, 2197 ss., con nota di M. G. CURSI, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell'onere probatorio; in Danno e resp., 2008, 871-879, con nota di A. NICOLUSSI, Sezioni sempre più unite contro la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico; in Resp. civ. e prev., 2008, 849, con nota di M. GORGONI, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi/di risultato; in Giur. it., 2008, p. 1653, con nota di A. CIATTI, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato, e p. 2196, con nota di G. CURSI, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell'onere probatorio; in La responsabilità civile, 2009, p. 221, con nota di C. MIRIELLO, Nuove e vecchie certezze sulla responsabilità medica; ivi, 2008, p. 397, con nota di R. CALVO, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria; ibid., p. 687, con nota di M. DRAGONE, Le sezioni unite, la «vicinanza alla prova» e il riparto dell'onere probatorio. Cfr. anche G. VETTORI, Le fonti e il nesso di causalità nella responsabilità medica, in Obbligazioni e contratti, 2008, 393 ss.; M. PARADISO, La responsabilità medica tra conferme giurisprudenziali e nuove aperture, in Riv. dir. civ., 2001, I, 703 ss., e M. FORTINO, I danni ingiusti alla persona, in Tratt. teor. prat. dir. priv. diretto da G. ALPA-S. PATTI, Padova, 2009, p. 209 ss..
[22] Cass. S.U. 28 luglio 2005, n. 15871 (Pres. Carbone – Est. Elefante) in Dir. Form. 2005, p. 1290; in Vita not. 2005, p. 1530; in Nuova Giur. Civ. Comm. 2006, p. 828, con nota di R. VIGLIONE, Prestazione d'opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazioni di mezzi e di risultato; in Europa Dir. Priv. 2006, p. 781, con nota di A. NICOLUSSI, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi; in I Contratti 2006, p. 349, con nota di F. TOSCHI VESPASIANI – F. TADDEI, Il contratto d'appalto e la responsabilità del progettista-direttore dei lavori per i vizi e le difformità dell'opera.
[23] Cass. 26 luglio 2017, n. 18392 (Pres. Travaglino – Est. Scoditti) (spesso citata, dal nome del suo estensore, come «sentenza Scoditti» o del doppio ciclo causale) in: Foro it. 2018, I, c. 1348, con nota di G. D’AMICO, La prova del nesso di causalità «materiale» e il rischio della c.d. «causa ignota» nella responsabilità medica; in Danno e resp. 2017, fasc. 6, p. 696, con nota di D. ZORZIT, La Cassazione e la prova del nesso causale: l'inizio di una nuova storia?; ivi 2018, fasc. 3, p. 345, con nota di G. D’AMICO, Il rischio della “causa ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria.
[24] Tradizionale equazione con la quale si esprime una nozione «soggettiva» di impossibilità della prestazione, i cui limiti e la cui corretta accezione sono ulteriormente illustrati (e diversamente modulati in rapporto agli sviluppi ricostruttivi di cui si dirà appresso) dallo stesso estensore (E. SCODITTI) nel suo scritto La responsabilità contrattuale del medico dopo la l. n. 24 del 2017: profili di teoria dell'obbligazione, in Foro it. 2018, V, c. 265, come riferiti non all’inadempimento (che trova il suo criterio di verifica e imputazione nel mero dato oggettivo della mancata o inesatta attuazione del contenuto della prestazione) ma alla responsabilità da inadempimento, come criterio di imputazione della causa che ha reso impossibile la prestazione. V. sul tema, ivi citati, U. NATOLI, L'attuazione del rapporto obbligatorio, II. Il comportamento del debitore, Milano, 1984, 77 ss.; M. GIORGIANNI, L'inadempimento, Milano, 1975, p. 270 ss.; C. CASTRONOVO, La responsabilità per inadempimento da Osti a Mengoni, in Europa e dir. privato, 2008, 8 ss.; F. PIRAINO, Sulla natura non colposa della responsabilità contrattuale, in Europa e dir. privato, 2011, p. 1042
[25] V. Cass. 14 novembre 2017, n. 26824, in Foro it., 2018, I, 557, con nota di B. TASSONE, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non»; 7 dicembre 2017, n. 29315; 29 gennaio 2018, n. 2061, in Riv. dir. proc. civ., 2019, 587, con nota di R.M. DE ANGELIS, Sulla prova del nesso causale; 15 febbraio 2018, nn. 3698 e 3704; 9 marzo 2018, n. 5641, in Foro it. 2018, c. 1579; 31 maggio 2018, n. 13752; 31 maggio 2018, n. 13766; 13 luglio 2018, n. 18540; 13 luglio 2018 n. 18549 e 19 luglio 2018, n. 19199, in Foro it., 2018, I, 3582, con nota di R. PARDOLESI – R. SIMONE, Tra discese ardite e risalite: causalità e consenso in campo medico; 19 luglio 2018, n. 19204; 20 agosto 2018, n. 20812; 22 agosto 2018, n. 20905; 13 settembre 2018, n. 22278; 23 ottobre 2018, n. 26700; 30 ottobre 2018, nn. 27455, 27449, 27447, 27446; 20 novembre 2018, n. 29853; 17 gennaio 2019, n, 1045; 26 febbraio 2019, n. 5487, in Foro it., 2019, c. 1603, con nota di A. PALMIERI – R. PARDOLESI, Responsabilità sanitaria e nomofilachia inversa.
[26] F. CARNELUTTI, Sulla distinzione tra colpa contrattuale e colpa extracontrattuale, in Riv. Dir. Comm. 1912, p. 747; C.M. BIANCA, Diritto civile. 5. La responsabilità, Milano 2012, p. 149; M. ROSSETTI, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupate considerazioni sull'inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica), in Giust. Civ. 2010, p. 2218; M. FACCIOLI, L'onere della prova del nesso di causalità nella responsabilità medica: la situazione italiana e uno sguardo all'Europa, in Resp. Civ. 2012, p. 333; A. BARBARISI, Onere di allegazione e prova liberatoria nella responsabilità sanitaria, in Danno e resp. 2012, p. 882; L. NOCCO, Il nesso causale e la responsabilità sanitaria: un itinerario in perenne evoluzione, in Danno e resp. 2012, p. 953; R. PUCELLA, Inadempimento "qualificato", prova del nesso di causa e favor creditoris, in Resp. Civ. Prev. 2014, p. 1087; M. FACCIOLI,"Presunzioni giurisprudenziali" e responsabilità sanitaria, in Contr. Impr. 2014, p. 100; G. MIOTTO, L'onere della prova del nesso causale nella responsabilità medica (ovvero l'adempimento della prestazione, questo sconosciuto), in Resp. Civ. Prev. 2015, p. 1916; R. PUCELLA, Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema, in Danno e resp. 2016, p. 822; A. BARBARISI, L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, cit..
[27] Converrà, in tal senso, ricordare che l’attribuzione al paziente/danneggiato dell’onere della prova del nesso causale era già affermato nella giurisprudenza di legittimità: v. ex aliis Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143, in Ragiusan, 2013, 354 ss.; Cass. 31 luglio 2013, n. 18341, in I Contratti, 2014, p. 139 ss., con nota di A. PUTIGNANO, Danno da parto in presenza di cause patologiche pregresse e onere della prova; Cass. 12 settembre 2013, n. 20904; Cass. 20 ottobre 2015, n. 21177; Cass. 9 giugno 2016, n. 11789.
[28] E. SCODITTI, La responsabilità contrattuale del medico dopo la l. n. 24 del 2017: profili di teoria dell'obbligazione, cit.
[29] P. SPAZIANI, Nesso causale e inadempimento: da questione probatoria a discriminante strutturale, in AA. VV., Rassegna della Giurisprudenza di legittimità - Gli orientamenti delle Sezioni civili - Approfondimenti tematici (anno 2019), curata dall’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, per i tipi dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. V. anche ID., La prova della responsabilità per fatto ingiusto: condotta, nesso causale, misurazione del danno (Relazione informativa destinata ai magistrati ordinari in tirocinio generico impegnati nella settimana di formazione interdisciplinare sul tema delle prove: Scandicci 17-21 giugno 2019).
[30] P. SPAZIANI, Nesso causale e inadempimento, cit., p. 4 (della copia messa cortesemente a disposizione dall’Autore).
[31] Merita di essere segnalato che le tesi di P. SPAZIANI, e in particolare il riferimento alla neutralità, in argomento, del criterio di persistenza del diritto e di vicinanza della prova, risultano fatte proprie da recente arresto della Terza Sezione Civile della S.C.: Cass. 18 febbraio 2020, n. 4009 (Pres. Spirito – Est. Gorgoni), in Foro it. 2020, I, c. 1595, con nota (critica) di R. PARDOLESI – R. SIMONE, Sulla «fine della storia» della responsabilità da «facere» professionale; ivi (solo massima), I, c. 1999, con nota (ancor più aspramente critica) di F. PIRAINO, Travisamenti pretori in tema di esonero dalla responsabilità contrattuale tra causalità e vicinanza della prova. Come segnalato da detti commenti, la sentenza n. 4009 del 2020, successiva alla pubblicazione delle note sentenze di San Martino del 2019, pur facendone menzione, sembra però in effetti fermarsi all’approccio più rigoroso e schematico alla complessa tematica declinato dalla sentenza del 2017 (n. 18392). E questo era per vero anche l’auspicio (non esplicito, ma chiaro) di P. SPAZIANI, secondo il quale le sentenze di San Martino 2019 «si pongono in controtendenza rispetto all’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale della teorica dell’inadempimento degli ultimi decenni, nella quale si era affermata una concezione della responsabilità contrattuale fondata sull’unicità della regola dettata dall’art. 1218 c.c., in quanto regola generale valevole per ogni tipo di obbligazione» e «tornano ad introdurre una distinzione strutturale nella fattispecie di responsabilità contrattuale, fondata sulla diversa tipologia di obbligazione». Il presente scritto intende, però, soffermarsi proprio sulle linee di sviluppo segnate, quale termine al momento più avanzato, dalle sentenze gemelle nn. 28991-28992 del 2019.
[32] R.V. NUCCI, La distribuzione degli oneri probatori nella responsabilità medica: ‘‘qualificato Inadempimento’’ e prova del nesso causale, in Resp. Med. 2017, 527; D. ZORZIT, La Cassazione e la prova del nesso causale: l'inizio di una nuova storia?, in Danno e resp. 2017, p. 696; G. D’AMICO, Il rischio della “causa ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria, in Danno e resp. 2018, p. 349; B. TASSONE, Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, in Danno e resp. 2018, p. 14 ss.; R. PARDOLESI – R. SIMONE, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria: indietro tutta?, in Danno e resp. 2018, p. 5 ss.; G. D’AMICO, La prova del nesso di causalità «materiale» e il rischio della c.d. «causa ignota» nella responsabilità medica, in Foro it. 2018, I, c. 1348; B. TASSONE, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e ‘‘più probabile che non’’, in Foro it. 2018, I, c. 557; A. PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, La Terza Sezione e la strana teoria dell’inadempimento … extra-contrattuale per colpa, in Danno e resp. 2019, p. 248; M. MAGLIULO - R. PARDOLESI, Pluralità di nessi di causa e paziente allo sbaraglio, in Danno e resp. 2019, p. 256; F. PIRAINO, Il nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale e la ripartizione dell’onere della prova, in Giur. It. 2019, p. 709 ss.
[33] Un’operazione – si è detto (F. PIRAINO, op. ult. cit., p. 717, nt. 50) – di restaurazione, che minaccia di lasciare il danno là dove cade (a loss shall remain where it falls).
[34] Così F. PIRAINO, op. cit., p. 717 ss..
[35] Così F. PIRAINO, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, in AA.VV., Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, fascicolo speciale monotematico del Foro italiano a cura di R. PARDOLESI, 2020, c. 196; v. già ID., Il nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., p. 717 s. e, ivi citati, C. CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano 2006, p. 456; L. MENGONI, Responsabilità contrattuale (dir. vig.), in Enc. Dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, 1072-1073 e ora in Scritti. II. Obbligazioni e negozio, a cura di C. Castronovo-A. Albanese-A. Nicolussi, Milano, 2011, 299 e segg.
[36] G. D’AMICO, Il rischio della causa ignota, cit., p. 354.
[37] P. ZORZIT, La Cassazione e la prova del nesso causale, cit., p. 706.
[38] F. PIRAINO, Il nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., p. 714
[39] G. D’AMICO, Il rischio della «causa ignota», cit., p. 354; ID., La prova del nesso di causalità, cit., c. 1348 ss..
[40] Quest’ultima prospettiva, come si è visto, è stata accolta da E. SCODITTI nello scritto sopra citato. È invece criticata da F. PIRAINO, opp. citt.
[41] In semiotica la denotazione identifica la relazione tra significante e significato; la connotazione vale a integrare ed arricchire il significato ma non a distinguerlo da quello primario.
[42] E. CARBONE, Sviluppi in tema di onere probatorio e adempimento delle obbligazioni, in Giur. It. 2018, fasc. 11, p. 2557 ss.
[43] E. SCODITTI, La responsabilità contrattuale del medico dopo la l. n. 24 del 2017, cit..
[44] La sentenza «gemella» n. 28992 del 2019 non è massimata al CED ma pienamente sovrapponibile è la motivazione che, in ciascuna di esse, è dedicata al tema (paragrafi da 1.1 a 1.1.5).
[45] Il riferimento è a L. MENGONI, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» (studio critico), in Riv. Dir. Comm. 1954, p. 189
[46] A.M. BENEDETTI, Verso una "medicalizzazione" della responsabilità contrattuale? Esercizi di (discutibile) riscrittura dell'art. 1218 c.c., in Giustizia civile.com 2020; T. DE MARI CASARETO DAL VERME, Prestazione professionale sanitaria e prova dell'inadempimento dell'obbligazione: tornare ai “mezzi” senza dirlo?, in Giustizia civile.com 2020; R. SIMONE, Ombre e nebbia di San Martino; la causalità materiale nel contenzioso sanitario, in Foro it. 2020, I, c. 210; R. PARDOLESI – R. SIMONE, Prova del nesso di causa e obbligazioni di facere professionale: paziente in castigo, in AA.VV., Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, fascicolo speciale monotematico del Foro italiano a cura di R. PARDOLESI, 2020, c. 136; G. D'AMICO, L'onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di assestamento, ibidem, c. 150; F. MACARIO, Prova del nesso di causalità (materiale) e responsabilità medica: un pregevole chiarimento sistematico da parte della Cass., ibidem, p. 162; F. PIRAINO, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, ibidem, c. 170; U. IZZO, In tema di tecnica e politica della responsabilità medica, ibidem, c. 198; A. DI MAJO, La doppia natura della responsabilità del medico, in Giur. It. 2020, p. 37; M. FRANZONI, Onere della prova e il processo, in Resp. Civ. Prev. 2020, p. 195; A. PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, Inadempimento e causalità "materiale": perseverare diabolicum, in Danno resp. 2020, c. 75; C. SCOGNAMIGLIO, La Cassazione mette a punto e consolida il proprio orientamento in materia di onere della prova sul nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, in Corr. Giur. 2020, p. 307; ID., L'onere della prova circa il nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, in Resp. Civ. Prev. 2020, p. 202. V. anche A. PLAIA, Il nesso di causalità nella responsabilità contrattuale del medico, in Giur. it., 2020, p. 1327; ID., La responsabilità del medico e l’argomento statistico, in I contratti 2020, fasc. 3, p. 341 ss.; N. RIZZO, Inadempimento e danno nella responsabilità medica: causa e conseguenze, in Nuova giur. civ., 2020, p. 327; E. LABELLA, Il nesso di causalità nelle «obbligazioni di diligenza professionale», in Europa e dir. privato, 2020, p. 277.
[47] G. D’AMICO, opp. citt.
[48] F. PIRAINO, opp. citt.
[49] F. PIRAINO, Ancora sul nesso di causalità materiale, cit., c. 181.
[50] F. PIRAINO, op. ult. cit., c. 182.
[51] F. PIRAINO, op. ult. cit., c. 181.
[52] F. PIRAINO, op. ult. cit., c. 182 e, ivi citati, R. PARDOLESI – R. SIMONE, Prova del nesso di causa, cit., c. 140 (per i quali «l’espediente … di far rientrare nella causa del contratto, per il tramite del motivo comune alle parti, ciò che ─ la salute ─ in thesi si assume rimanere fuori dal perimetro dell’obbligazione, appare davvero spericolato e alla fine indifendibile. Dentro o fuori, prosit. Ma dentro e fuori a un tempo, proprio no!»).
[53] Ancora F. PIRAINO, op. ult. cit., c. 186.
[54] Lo sottolineano un po’ tutti i commentatori; v., in particolare, G. D’AMICO, op. ult. cit., c. 153; F. PIRAINO, op. ult. cit., c. 174.
[55] Anche su tale aspetto, come si vedrà di importanza centrale, si concentra l’attenzione di molti commentatori: v. G. D’AMICO, op. ult. cit., c. 158 (e ivi nt. 27); C. SCOGNAMIGLIO, L'onere della prova circa il nesso di causa, cit., p. 210 s.; F. PIRAINO, op. ult. cit., c. 190 s.; F. MACARIO, Prova del nesso di causalità (materiale) e responsabilità medica, cit., c. 166; U. IZZO, In tema di tecnica e politica della responsabilità medica, cit., c. 211.
[56] Definizioni, come detto, preferite, rispettivamente, da G. D’AMICO e da F. PIRAINO (opp. citt.).
[57] A tali presunzioni fanno in particolare riferimento sia C. SCOGNAMIGLIO, sia G. D’AMICO (opp. locc. ult. citt.), il quale ultimo rileva trattarsi di «presunzioni giurisprudenziali» distinte dalle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 cod. civ., riconoscendo tuttavia che le sentenze in commento fanno, invece, più ampio e generico riferimento a questo secondo istituto (G. D’AMICO, op. ult. cit., c. 158, nt. 27, e ivi ulteriori rimandi). Sulla nozione di «presunzione giurisprudenziale» v. M. TARUFFO, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1992, I, 740 e segg.; ID., La semplice verità, il giudizio e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009, 233 e segg.; E. BENIGNI, Presunzioni giurisprudenziali e riparto dell’onere probatorio, Torino, 2014, passim, in part. 173 e segg.. Con specifico riferimento all’applicazione delle presunzioni giurisprudenziali nell’ambito della responsabilità medica v. M. FACCIOLI, ‘‘Presunzioni giurisprudenziali’’ e responsabilità sanitaria, in Contr. e Impr., 2014, p. 79 e segg., nonché V. OCCORSIO, Cartella clinica e ‘‘vicinanza’’ della prova, in Riv. Dir. Civ., 2013, p. 1249 ss..
[58] F. PIRAINO, opp. citt., passim.
[59] Va rammentato che la Suprema Corte afferma, con orientamento costante, che il c.d. standard di «certezza probabilistica» in materia civile, presupposto per ritenere provato un fatto ed in particolare il nesso di causalità materiale, non può essere ancorato esclusivamente alla c.d. probabilità quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, nell’esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). V. Cass. S.U. 11 gennaio 2008, nn. 576-584; v. anche, conff., Cass. 29 dicembre 2016, n. 27449; Cass. 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. 24 ottobre 2017, n. 25119; Cass. 27 settembre 2018, n. 23197.
Mette conto, tuttavia, al riguardo segnalare che le «sentenze gemelle» del 2019 (Cass. nn. 28991-28992 del 2019) mantengono sul tema un approccio generico, evidenziando (§ 1.1) che «la causalità attiene al collegamento naturalistico fra fatti accertato sulla base delle cognizioni scientifiche del tempo ovvero su basi logico-inferenziali [dove l’avverbio «ovvero» sembra avere valore di congiunzione non esplicativa ma disgiuntiva, n.d.r.]. Essa attiene alla relazione probabilistica (svincolata da ogni riferimento alla prevedibilità soggettiva) tra condotta ed evento di danno (e fra quest'ultimo e le conseguenze risarcibili), da ricostruirsi secondo un criterio di regolarità causale, integrato, se del caso, da quelli dello scopo della norma violata e dell'aumento del rischio tipico, previa analitica descrizione dell'evento (cfr. Cass. sez. U. 11 gennaio 2008, n. 576 pag. 13 e Cass. 11 luglio 2017, n. 17084).
[60] Secondo acquisito insegnamento della dottrina processualistica il ragionamento inferenziale si riscontra sia nella valutazione delle prove dirette (ad es., con riguardo alla prova testimoniale, sul presupposto che un teste attendibile ha detto che un enunciato di fatto è vero - e sulla premessa che le prove attendibili forniscono informazioni veritiere - il giudice trae la conferma della verità di quell’enunciato in base alla prova esperita), sia, più marcatamente, nella valutazione delle prove indirette o per induzione, che trovano fondamento nell’operazione logica mediante la quale, muovendo da un fatto noto assunto come premessa, vengono tratte conclusioni intorno alla verità o falsità di un fatto ignorato. In base all’inferenza probatoria si attribuisce un certo grado di conferma probatoria agli enunciati di fatto che hanno formato oggetto della prova. La determinazione del grado di conferma (che può riguardare tanto la verità quanto la falsità dell’enunciato di fatto e che può essere forte, debole o nullo) deriva da inferenze logiche che tengono conto della quantità e della qualità delle prove disponibili, del loro grado di attendibilità e della loro coerenza. Al riguardo la menzionata dottrina processualistica fa riferimento al concetto di probabilità logica (o baconiana) che fonda il grado di conferma di un enunciato sulla base degli elementi di prova che lo riguardano. Ciò sul rilievo che anche un evento statisticamente poco frequente, può, nel caso concreto, essere ritenuto conseguenza del fatto allegato ove la ipotizzata relazione inferenziale trovi, in ambito civile, maggiori elementi di conferma che di esclusione e viceversa. Secondo efficace definizione «la probabilità logica alla quale è interessato il giudice non è quella del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione del caso, bensì attiene ai profili inferenziali della verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè alla luce delle emergenze del caso concreto»: M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu-Messineo-Schlesinger, Giuffrè Milano 1992, p. 212 ss.; v. anche ID., La prova del nesso causale, in Rivista critica del diritto privato, 2006, pp. 129-130; ID., La valutazione delle prove, in Le prove nel processo civile, Milano, 2012, p. 207 e ss.; v. anche, sul tema, G. TRAVAGLINO, La questione dei nessi di causa, Milano, 2012, 102 ss.; P. SPAZIANI, La prova della responsabilità per fatto ingiusto, cit., p. 20; R. POLI, Gli standard di prova in Italia, in Giur. It., 2018, 2526; ID., Logica del giudice, standard di prova e controllo in Cassazione, in Judicium [http://www.judicium.it/wp-content/uploads/2019/10/R.-Poli.pdf]; A. PLAIA, op. cit..
[61] Secondo TARUFFO, op. cit., 118, «una frequenza statistica, anche se relativamente elevata, non fornisce mai la prova che un singolo evento si è davvero verificato», e ciò in quanto «i dati statistici “parlano di classi di eventi e non di eventi singoli, e servono a fare previsioni invece che accertare fatti singoli già accaduti”».
L’assunto tuttavia non è pacifico in dottrina.
Secondo F. SCHAUER (2008), citato da R. POLI, Logica del giudice, cit., p. 14, nt. 53, «se si dispone di una statistica particolarmente elevata relativa alla connessione tra due tipi di eventi, ciò può essere sufficiente a stabilire che nel caso singolo si è davvero verificata una associazione tra i due eventi specifici, ed anche ove si tratti di una connessione causale». Si è inoltre osservato (ancora R. POLI, op. loc. cit.), che «se è certamente vero che le leggi statistiche parlano di classi di eventi e non di eventi singoli, è altrettanto vero che tale aspetto caratterizza negli stessi termini le massime di esperienza. Non vi è infatti dubbio che qualsiasi generalizzazione basata sull’esperienza, anche quelle ritenute più “sicure” e “convincenti”, non possa dire e non dica nulla della verità dello specifico e concreto fatto ignoto oggetto di prova. Tuttavia, anche da parte dei critici delle massime d’esperienza si riconosce che esse, o più in generale le nozioni di senso comune, sono una componente ineliminabile del ragionamento decisorio e giustificativo del giudice, e svolgono un ruolo centrale proprio nell’ambito della prova e della sua valutazione. Ebbene, in altre parole, … se si riconosce l’ineliminabilità del ricorso alle massime d’esperienza nella valutazione delle prove e la loro idoneità a costituire la premessa maggiore di un ragionamento inferenziale che conduce alla affermazione di verità di un determinato enunciato fattuale –enunciato che di conseguenza il giudice può portare a fondamento della sua decisione –, la stessa idoneità deve essere riconosciuta, a fortiori, alle leggi scientifiche statistiche che, a ben vedere, non sono altro che massime d’esperienza qualificate».
Il pericolo di un «calo di tensione» e di un «approccio più lasco e abborracciato al problema della causalità materiale» è segnalato da F. PIRAINO (Ancora sul nesso di causalità materiale, cit., c. 194), quale conseguenza della «connotazione probabilistica assunta dal giudizio causale, soprattutto a seguito del mutamento epistemologico nella filosofia della scienza che ha condotto alla presa di coscienza dello statuto soltanto probabile degli asserti scientifici» e dalla conseguente nascita, in campo di diritto civile, della «convinzione, chiaramente errata, che l’irrompere della probabilità giustifichi un minore rigore in sede di ricostruzione del nesso causale».
[62] A. PLAIA (op. cit., nt. 23), critico verso tale ultima impostazione e favorevole alla ricostruzione accolta da Cass. nn. 28991-28992 del 2019, fa l'ipotesi di un bambino cui venga diagnosticata una lesione cerebrale, patologia che può essere genetica, o successiva al parto, ma anche possibile conseguenza di una condotta imperita del medico. «Questa ipotesi causale – osserva l’A. ─, fondata su una probabilità statistica, è però astratta e nulla ci dice sul caso concreto e già accaduto, almeno sinché non trovi conforto sul piano strettamente probatorio e cioè della "probabilità logica". Si pensi, ancora, ad un intervento chirurgico al polso in ragione di una frattura di radio cui, secondo le prospettazioni del paziente, sarebbe seguita una lesione del nervo mediano. Anche qui, la letteratura scientifica ci dice che la lesione del nervo è un "tipo" di danno che può essere conseguenza di un trattamento chirurgico imperito del polso, ancorché possa anche essere possibile "complicanza" iatrogena (cioè causata dall'intervento medico, ma) non evitabile, oppure essere conseguenza della frattura stessa (causata dalla contusione o dall'edema). L'imperizia del medico è, allora, eziologicamente rilevante in astratto, ma occorre valutare se, in concreto, il danno sia "più probabilmente che no" una complicanza inevitabile, ovvero se possa dirsi vera "più probabilmente che no" - tenendo conto anche del livello di probabilità statistica, che tuttavia è solo un argomento tra tanti - che a cagionare la lesione sia stata l'imperizia del medico. Ebbene, anche in un caso di questo tipo, la frequenza statistica della complicanza iatrogena assai poco ci dice in termini di "probabilità logica", potendo, al più, valere quale argomento di prova, certamente insufficiente a rendere credibile razionalmente l'ipotesi eziologica allegata».
[63] Sembra utile segnalare al riguardo che la valutazione della validità del ragionamento inferenziale trova limitati spazi di sindacabilità nel giudizio di legittimità. Cass. S.U. 24 gennaio 2018, n. 1785, occupandosi dei criteri e dei requisiti da osservare per la denuncia, in cassazione, del vizio di violazione o di falsa applicazione dell’art. 2729 cod. civ., ha in proposito affermato che tale denuncia «si può prospettare … sotto i seguenti aspetti:
aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell'art. 2729 cod. civ., primo comma, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;
bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell'art. 2729 cod. civ. fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacché dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.
Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com'è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient'altro — almeno secondo l'opinione preferibile — che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l'idea che vorrebbe sotteso alla "gravità" che l'inferenza presuntiva sia "certa").
La precisione esprime l'idea che l'inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.
La concordanza esprime — almeno secondo l'opinione preferibile — un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione "non falsa" dell'art. 2729 cod. civ.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sé considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l'idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.
Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz'altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell'art. 360 cod. proc. civ., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell'art. 2729 cod. civ., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.
Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., n. 3 dell'errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un'inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.
In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell'art. 2729, primo comma, cod. civ., suppone allora un'attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito — assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato — risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.
Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l'evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.
Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un'attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell'applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell'art. 2729, primo comma (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali)».
[64] In questa prospettiva si era espressamente mossa Cass. n. 29315 del 2017 (Pres. Travaglino – Est. Sestini), già citata supra, nota 25, secondo la quale la ricostruzione operata da Cass. n. 18392 del 2017 non si pone in contrasto con il principio affermato da Cass. S.U. n. 577/2008, dal momento che «tale principio venne … affermato a fronte di una situazione in cui l'inadempimento "qualificato" allegato dall'attore (ossia l'effettuazione di un'emotrasfusione) era tale da comportare - di per sé, ed in assenza di fattori alternativi "più probabili", nel caso singolo di specie - la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta (sì che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sé quella del nesso causale), con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l'onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all'art. 2697 c.c., comma 2 (e non - si badi - la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 cod. civ.)».
Appare in tal senso anche significativo che, successivamente alle sentenze di San Martino, la Terza Sezione Civile della S.C., in collegio diverso ma presieduto dallo stesso Presidente (G. Travaglino) ─ Cass. 26 febbraio 2020, n. 5128 (ud. 20 novembre 2019), Pres. Travaglino – Est. Fiecconi, in Foro it. 2020, I, c. 1595, con nota di R. PARDOLESI-R. SIMONE, Sulla «fine della storia» della responsabilità da «facere» professionale, cit. ─ abbia deciso il caso di responsabilità medica al suo esame (che poneva la questione dell’onere della prova e del rischio della causa ignota) espressamente richiamando a fondamento il principio affermato da Cass. S.U. n. 577 del 2008.
[65] F. MACARIO, op. cit., c. 166.
Annullamento “dalla data in cui”.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. Prima, 30 giugno 2020 n. 1233)
Andreina Scognamiglio
sommario: 1.- Il caso. 2.- VAS ed autorizzazione paesaggistica per gli interventi di taglio del bosco con finalità antincendio in zone di interesse paesaggistico ed ambientale. 3.- La modulazione temporale degli effetti della pronuncia giurisdizionale. I precedenti. 4.- La modulazione temporale degli effetti delle sentenze di annullamento. Critiche e possibili sviluppi.
1.- Il caso.
Con due delibere datate 18 marzo e 1° aprile 2019 la giunta regionale della Toscana ha approvato il “Piano specifico di prevenzione anti incendio boschivo” riguardante il tratto di pineta litoranea che va da Marina di Grosseto a Castiglione della Pescaia (c.d. “Tombolo”).
Il piano di prevenzione che prevedeva il taglio di circa il 70% dei pini e di circa l’80% del sottobosco di macchia mediterranea, sia pure limitatamente all’area interessata dall’intervento pari a circa il 15% della superficie complessiva della pineta, è stato impugnato con ricorso straordinario al Capo dello Stato da varie associazioni ambientaliste.
Il dispositivo del parere n. 1233 reso il 30 giugno 2020 dal Consiglio di Stato è di accoglimento del ricorso “esclusivamente nei limiti e con le prescrizioni indicate in motivazione”.
In estrema sintesi, la prima Sezione ha accolto il motivo di ricorso relativo alla violazione delle norme che prescrivono l’autorizzazione paesaggistica per i piani di taglio delle foreste e dei boschi sui quali gravi un vincolo paesaggistico “provvedimentale”. Al tempo stesso, tenuto conto dell’esigenza di prevenire il grave rischio di incendi e dunque il pericolo di ingenti danni a persone e cose rappresentato dalla regione Toscana nelle sue difese, ha disposto che “il piano qui annullato rimane in vigore per il periodo di 180 giorni” ed ha prescritto alle autorità preposte di adottare in tale lasso di tempo tutte le misure e le azioni “per mettere in sicurezza il sito nonché per fronteggiare gli interventi improcrastinabili ed indifferibili relativi ad aree – soprattutto vicine ad insediamenti antropici – che presentano rischi elevati secondo la prudente e responsabile valutazione dell’amministrazione”, eventualmente anche in attuazione parziale del piano annullato.
Il parere presenta due profili di interesse.
Sul piano del diritto sostanziale, è notevole l’affermazione della necessità dell’autorizzazione paesaggistica per il taglio finalizzato alla prevenzione degli incendi boschivi laddove l’intervento riguardi boschi o foreste sottoposti a vincolo paesaggistico provvedimentale e non già a vincolo ex lege.
Sul piano processuale, il parere si inserisce nel solco della giurisprudenza favorevole a riconoscere all’autorità giudiziaria il potere di modulare gli effetti temporali delle sue decisioni e ne propone, anzi, un impiego particolarmente incisivo. Nel periodo di ultrattività del piano dichiarato illegittimo l’amministrazione è infatti espressamente invitata a darvi attuazione ponendo in essere una parte dei programmati interventi di taglio e precisamente quelli relativi alle aree maggiormente antropizzate e quindi più esposte a rischio.
2.- VAS ed autorizzazione paesaggistica per gli interventi di taglio del bosco con finalità antincendio in zone di interesse paesaggistico ed ambientale.
Con i primi due motivi di ricorso le associazioni ambientaliste avevano contestato alla Regione Toscana di avere sottoposto il Piano ad un mero studio di incidenza ambientale (VINCA) ai sensi delle direttive “Natura 2020” in luogo di una valutazione ambientale strategica (VAS) e di non avere richiesto la autorizzazione paesaggistica per l’intervento. Le censure sollevano una questione nuova e le soluzioni accolte dalla prima sezione, di rigetto del primo motivo e di accoglimento del secondo, meritano un approfondimento.
Per una migliore comprensione della vicenda è opportuno ricordare che il Piano di prevenzione AIB approvato dalla regione Toscana riguarda un’area boschiva di sicuro valore ambientale e paesaggistico. Il tratto di pineta costiera compreso tra Marina di Grosseto e Castiglione della Pescaia è classificata infatti quale “sito di importanza comunitaria” (SIC) ai sensi della c.d. direttiva habitat n. 43 del 21 maggio 1992 (92/43/CEE)[1] e “zona speciale di conservazione” (ZSC) in forza di delibere della regione Toscana[2]. Il vincolo paesaggistico è poi impresso da ben sei decreti ministeriali degli anni dal 1958 al 1967 e dal piano di indirizzo territoriale con valenza di piano paesaggistico della Regione Toscana.
Secondo le associazioni ricorrenti, il valore ambientale del sito avrebbe richiesto la valutazione ambientale strategica (VAS), e cioè la procedura di cui agli articoli 5, 11 e 15 del d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto l’articolo 5, comma 2, lett. a) e b) della legge regionale della Toscana 12 febbraio 2010, n. 10 ne prevede l’obbligatorietà per “i piani e i programmi per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e di quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali, della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione di incidenza, ai sensi dell'art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357”.
La Sezione osserva che la norma regionale deve essere collocata nel quadro tracciato dalla disciplina nazionale relativa ai siti compresi nella rete ecologica europea denominata “Natura 2000” , Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e Zone speciali di Conservazione (ZSC), di cui alla direttiva 92/43/CEE, sulla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche (“Direttiva Habitat”); Zone di Protezione Speciale (ZPS) previste dalla direttiva 79/409/CEE, ora 2009/147/CE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (“Direttiva Uccelli”)].
Il richiamo è dunque al d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, alla legge 11 febbraio 1992, n.157 e ai decreti ministeriali 3 settembre 2002 (recante “Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000”) e 17 ottobre 2007 (relativo ai criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative di detti siti) i quali rendono obbligatoria la sola preventiva valutazione di incidenza ambientale (di cui all’articolo 6, comma 3 della direttiva habitat) per i piani o i progetti che possano pregiudicare significativamente il sito.
In senso contrario, si potrebbe sostenere che la normativa regionale prevale in quanto la procedura di VAS, in luogo della VINCA, assicura un più elevato livello di tutela all’interesse ambientale.
L’argomento non è invero preso in considerazione dalla Sezione I la quale rinviene ulteriore e diretta conferma della tesi accolta nelle direttive europee e nell’art. 6, comma 4 lett. c-bis) del d.lgs. n. 152 del 2006[3] che esclude l’obbligatorietà della VAS per “i piani di gestione forestale o strumenti equivalenti riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale” (quale è appunto il piano specifico di prevenzione AIB). La norma di cui alla lett. c-bis) assume un carattere derogatorio rispetto al principio della obbligatorietà della VAS sancita dalle precedenti lett. a) e b) dello stesso art. 6 anche per tutti i piani ed i programmi relativi ai settori agricolo e forestale e tale carattere ne impone la prevalenza.
In effetti, contemplando la lett. c-bis) una ipotesi specifica (quella dei piani di gestione forestale o strumenti equivalenti riferiti ad un ambito aziendale o sovraziendale di livello locale), si deve ritenere che la comparazione tra l’interesse alla realizzazione di una pratica che può essere inclusa tra quelle di buona gestione del territorio e l’interesse ambientale è stata operata direttamente dal legislatore e che questi ha ritenuto sufficiente lo strumento meno oneroso e meno complesso della valutazione ambientale strategica.
Per quanto riguarda l’aspetto paesaggistico, il parere si pronuncia su di una questione di grande interesse: se il piano specifico di prevenzione anti incendio boschivo sia soggetto all’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” oppure rientri nell’ambito di applicabilità dell’art. 149, comma 1, lett. c) del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (d.,lgs. 42/2004), intitolato “interventi non soggetti ad autorizzazione”. Quest’ultima disposizione sottrae alla previa autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 dello stesso codice le normali pratiche inerenti all’attività agro-silvo-pastorale, e cioè il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione, anche laddove detti interventi siano eseguiti “nei boschi e nelle foreste indicati dall’art. 142, comma 1, lett. g)”.
La risposta all’interrogativo sopra sintetizzato è rintracciata nella distinzione tra vincolo paesaggistico ex lege e vincolo paesaggistico impresso da provvedimento amministrativo e dunque tra boschi e foreste soggetti a tutela in quanto ricadenti nella previsione generale dell’art. 142 del Codice e quelli oggetto di provvedimento costitutivo di vincolo.
L’art. 149, nell’escludere la necessità dell’autorizzazione paesaggistica per determinati interventi di silvicoltura, circoscrive espressamente la propria portata applicativa alla prima categoria ( e cioè ai boschi e alle foreste indicati dall’art. 142, comma 1, lett. g) ). Sicché la Sezione conclude che per i boschi e le foreste sui quali il vincolo paesaggistico sia impresso da provvedimento amministrativo resta valido il regime generale di cui all’art. 146 il quale, come è noto, richiede l’autorizzazione per ogni intervento che riguardi il bene dichiarato di interesse paesaggistico.
La specifica questione esaminata nel parere è nuova e non risultano precedenti in termini.
Tuttavia la soluzione adottata si inscrive in un indirizzo giurisprudenziale alquanto consolidato che, pur ponendosi in un’ottica di bilanciamento dei compositi interessi ambientali, paesaggistici e produttivi che fanno capo al patrimonio agro-forestale nazionale, avverte l’esigenza di tenere in dovuto conto le esigenze legate alla silvicoltura e all’agricoltura anche in base alla considerazione, del tutto condivisibile, che una compressione eccessiva delle facoltà proprietarie otterrebbe il controproducente effetto di una disincentivazione della pratica agricola con effetti negativi paradossali sulla buona manutenzione del territorio.
Il regime autorizzatorio è allora fatto salvo solo laddove “un vincolo paesaggistico sia stato introdotto proprio per salvaguardare una specifica presenza di piantagioni, quali elementi costitutivi essenziali della tipicità di un certo e qualificato paesaggio agrario”[4].
In linea di continuità con detto indirizzo il parere delimita l’ambito di applicazione del regime di autorizzazione paesaggistica sulla base di un’interpretazione sistematica degli artt. 149, comma 1, lett. b) e c), 134, 136 e 142 del Codice dei Beni culturali e del paesaggio.
Gli interventi sottratti all’autorizzazione paesaggistica sono quelli “inerenti l’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio” (art. 149, comma 1, lett. b)) e quelli consistenti nel taglio colturale, nella forestazione, nella riforestazione, in opere di bonifica, anincendio e di conservazione, a condizione che questi siano eseguiti nei boschi e nelle foreste vincolati per legge in quanto “territori coperti da boschi e foreste” (art. 149, comma 1, lett. b) e art. 142, comma 1, lett. g) .
L’ambito di applicabilità del regime della autorizzazione paesaggistica risulta in definitiva ristretto agli interventi della seconda categoria (e cioè quelli di cui all’art. 149, comma 1, lett. c) laddove questi debbano essere eseguiti su boschi e foreste vincolati con apposito provvedimento amministrativo che ne abbia accertato lo specifico valore paesaggistico, come è appunto il caso della pineta del Tombolo.
3.- La modulazione temporale degli effetti della pronuncia giurisdizionale. I precedenti. L’aspetto più significativo della pronuncia in commento riguarda senza dubbio il versante processuale. Accertata la fondatezza delle censure formulate dalle associazioni, e quindi l’illegittimità del piano, il parere prescrive che l’annullamento degli atti dichiarati illegittimi decorra solo dall’approvazione del nuovo piano antincendi “da disporsi entro 180 giorni dalla comunicazione del decreto che decide il ricorso”. Il lasso temporale di ultrattività del piano è concesso all’amministrazione regionale all’esplicito fine - e con la prescrizione - di adottare tutte le misure di prevenzione del pericolo di incendi che la stessa reputi necessarie alla messa in sicurezza del sito e alla salvaguardia dell’incolumità delle persone e dei beni maggiormente minacciati dal pericolo di incendi.
La modulazione degli effetti caducatori del decreto decisorio del ricorso straordinario - ed il rinvio degli stessi alla scadenza del termine concesso alla Regione Toscana per adottare un nuovo piano - consente al Collegio di fornire comunque una risposta alle preoccupazioni manifestate dall’amministrazione resistente. Questa aveva avvertito come la mancata tempestiva attuazione delle misure disposte dal piano avrebbe esposto la pineta al rischio “sempre più urgente e pressante di devastanti incendi boschivi, molto probabili (se non addirittura inevitabili) a causa del mutamento climatico”.
Come è noto l’orientamento favorevole all’utilizzo della tecnica della modulazione temporale degli effetti della pronuncia giurisdizionale ha matrice essenzialmente giurisprudenziale. Sul versante della giustizia amministrativa fa capo a due pronunce, invero non del tutto isolate, che sono entrambe richiamate nel parere esaminato nella presente nota.
Con la sentenza 10 maggio 2011, n. 2755, la Sezione VI, accertata l’illegittimità del piano faunistico venatorio della Regione Puglia, ne aveva disposto l’annullamento con effetto a far data dalla adozione del nuovo piano. In quel caso con la pronuncia caducatoria de futuro si era inteso salvaguardare proprio l’interesse alla protezione della fauna selvatica, e dunque l’interesse delle associazioni ricorrenti, che paradossalmente sarebbe stato compromesso dal richiesto annullamento poiché, nelle more dell’adozione del nuovo piano, ogni restrizione dell’attività venatoria sarebbe venuta meno.
La sentenza 22 dicembre 2017, n. 13 dell’Adunanza Plenaria, risolta invece in senso difforme rispetto ad una giurisprudenza alquanto consolidata la questione di diritto della natura ordinatoria o perentoria del termine di 180 giorni concesso alle soprintendenze per esprimersi sulla proposta di dichiarazione di notevole interesse paesaggistico-culturale[5], aveva deciso il caso sottoposto al suo esame secondo la regola risultante dal precedente indirizzo ed aveva rinviato l’applicabilità dell’interpretazione ritenuta conforme a diritto a partire dal centottantesimo giorno dalla pubblicazione della decisione[6].
Le due sentenze, pur riconoscendo entrambe il potere del giudice di modulare gli effetti temporali delle proprie pronunce in funzione della migliore tutela, o di un non eccessivo sacrificio, degli interessi presenti in giudizio, si riferiscono a due situazioni notevolmente diverse. Nell’un caso, quello deciso dalla Sezione VI, il rinvio a data futura incide sull’effetto caducatorio della pronuncia che è comunque adottata secondo la regola ritenuta conforme a diritto. Nell’altro, il rinvio a data futura riguarda lo stesso effetto dichiarativo o di accertamento della sentenza la quale va a dirimere la concreta controversia secondo una regola che lo stesso giudice afferma non rispondente a diritto e a giustizia[7].
Qui la Sezione I decide la controversia secondo la regola ritenuta conforme a diritto e di conseguenza si pronuncia per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento del Piano con la prescrizione, però, che questo decorra a far data dal centottantesimo giorno dalla comunicazione del decreto decisorio e che l’amministrazione attui parzialmente il piano nel suo periodo di ultra efficacia. Queste caratteristiche collocano chiaramente il parere in esame nel solco aperto dal precedente del 2011. La tecnica impiegata in questo caso dai giudici è quella della “mera” modulazione temporale dell’effetto di annullamento e non già quella del prospective overruling. Correttamente il parere si riallaccia alla prima decisione e ne verifica l’ammissibilità alla stregua del nostro ordinamento.
4.- La modulazione temporale degli effetti delle sentenze di annullamento. Critiche e possibili sviluppi.
Il parere ha piena consapevolezza delle critiche mosse dalla dottrina pressoché unanime[8] alla sperimentazione di percorsi di “ingegneria processuale” che giustificano la gradazione nel tempo dell’effetto demolitorio della pronuncia di annullamento, a partire dalla sentenza 2755/2011, e tuttavia di quell’indirizzo ribadisce le motivazioni: il richiamo al diritto europeo e l’esigenza di effettività della tutela dell’interesse sostanziale sotteso al ricorso.
All’argomento fondato sul diritto europeo e sull’art. 264 del TFUE, che attribuisce alla Corte di giustizia un certo margine di discrezionalità nella modulazione temporale degli effetti della pronuncia di nullità correttamente, la dottrina[9]ha opposto che quanto previsto dal diritto europeo non può essere utilizzato per provare il potere del giudice nazionale di disporre degli effetti demolitori della propria pronuncia di accoglimento. Le regole proprie del processo dinanzi alla Corte di Giustizia valgono appunto per quel processo e non incidono sull’esercizio della potestà giurisdizionale da parte del giudice nazionale.
Le repliche che il parere muove all’obiezione dottrinale sono poco convincenti.
Del resto la stessa Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla questione dei caratteri che deve presentare un “efficace meccanismo di ricorso” - in un caso in cui il diritto europeo ne prevedeva l’obbligatorietà -, ha escluso che l’espressione implichi una presa di posizione del diritto europeo riguardo alla decorrenza ex tunc o ex nuncdi una sentenza di annullamento che è materia in linea di principio rimessa alla autonomia procedurale degli Stati membri[10].
Le ulteriori critiche alla tesi della disponibilità della decorrenza temporale dell’effetto caducatorio fanno leva sul contenuto tipico dell’azione e della pronuncia di annullamento nonché sull’art. 113 Cost. il quale riserva alla legge di statuire in merito “ai casi ed agli effetti” dell’annullamento stesso.
Gli argomenti sono attentamente analizzati dalla Sezione. Le obiezioni, in questo caso, sembrano pertinenti laddove si osserva che in realtà nessuna norma sostanziale o processuale disciplina il contenuto tipico della sentenza di annullamento e la decorrenza degli effetti.
Alla tesi della tipicità e della riserva di legge è opposta la suggestiva formula della “atipicità dell’apparato rimediale”. Questo – non regolato espressamente dalla legge – è disponibile per il giudice, il quale discrezionalmente “cuce” il rimedio sulle esigenze di tutela degli interessi fatti valere in giudizio.
Si arriva così all’interrogativo cruciale e a quello che, a mio avviso, è il vero punto debole della giurisprudenza “innovativa”. L’interrogativo è se, una volta ammesso il potere del giudice di modulare gli effetti demolitori della sentenza, poiché l’apparato rimediale è atipico, siffatto potere sia esercitabile dal giudice d’ufficio oppure su domanda di parte e, nel secondo caso, se su domanda del solo ricorrente o anche dell’amministrazione convenuta e, più in generale, delle parti resistenti.
Commentando favorevolmente una sentenza del Consiglio di stato[11] nella quale i giudici avevano fatto ancora una volta uso del potere di modulare gli effetti temporali della sentenza annullando il decreto di scioglimento di un consiglio comunale con effetti non retroattivi, autorevole dottrina[12] aveva osservato che la limitazione temporale dell’efficacia dell’annullamento era stata correttamente pronunciata in quanto espressamente richiesta dalla parte ricorrente.
La soluzione di individuare nel principio della domanda e in quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato la linea di discrimine tra un utilizzo consentito ed un utilizzo improprio del potere di modulare gli effetti temporali dell’annullamento è, a mio avviso, condivisibile.
Ad apparire incompatibile con i principi propri del processo amministrativo come processo di parti retto dal principio dispositivo è proprio l’esercizio officioso del potere di modulare l’effetto caducatorio sull“autentico interesse delle parti” come individuato dallo stesso giudice. Di detto interesse – invece - solo le parti sono interpreti.
Perché il giudice possa pronunciare la decorrenza dell’annullamento ex tunc, ex nunc o “dalla data in cui” è essenziale che le parti manifestino un interesse in tal senso. Le parti, dunque la parte ricorrente o l’amministrazione resistente [13] che – come nel caso di specie – ben potrebbe rappresentare al giudice l’eccessiva compromissione dell’interesse generale che l’annullamento retroattivo comporta e ne faccia però esplicita richiesta.
[1] La Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, nota anche come Direttiva “Habitat”, recepita in Italia dal d.p.r. 8 settembre 1997, n. 357 nel 1997, Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, ha lo scopo di promuovere la conservazione degli habitat naturali sul territorio europeo a fini di mantenimento della biodiversità.
[2] La classificazione accerta il valore ambientale dell’area in forza del contributo offerto al mantenimento della biodiversità della regione in cui si trova e comporta l’assoggettamento a procedura di valutazione di incidenza ambientale di tutti i piani ed i progetti che possano avere incidenze significative sul sito e che non siano direttamente connessi e necessari alla loro gestione.
[3] La disposizione è stata introdotta nel testo unico delle norme in materia ambientale dal d.l. 3 novembre 2008, n. 171, conv. in l. 30 dicembre 2008, n. 205 che è finalizzato al sostegno del settore agricolo.
[4] Così Cons. stato, VI, 20 luglio 2018, n. 4416. La sentenza afferma che non rientrano nella particolare esenzione dell'art. 149, comma 1, lett. b) D.Lgs. n. 42 del 2004, gli interventi su elementi arborei del paesaggio vincolato per i quali la valutazione di compatibilità paesaggistica resta necessaria. Analogamente la sentenza di Cons. stato, sez. VI, 2 dicembre 2019, n. 8242 per la quale la normativa di cui all'art. 149 del D.Lgs. n. 42/2004 ha escluso dall'ambito di applicazione dell'autorizzazione paesaggistica le attività, quali il taglio colturale, che rappresentano opere di manutenzione delle aree boscate atteso che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi.
[5] O meglio sulla natura decadenziale o meno del termine di efficacia delle misure di salvaguardia collegate alla proposta medesima.
[6] In modo da accordare alle soprintendenze il lasso di tempo necessario ad esprimersi sulle proposte di vincolo già presentate e che altrimenti sarebbero immediatamente decadute.
[7] In questo aspetto a. gambaro, La funzione della responsabilità civile tra diritto giurisprudenziale e dialoghi transnazionali, in Nuova giur. civ., 2017, fasc. 10, 1405 coglie l’aspetto un po’ paradossale del c.d. prospective overruling.
[8] Vedi: a. travi, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in Urbanistica e appalti, 2011, fasc. 8, 937 e e. follieri, L’ingegneria processuale del Consiglio di stato, in Giur. it., 2012, II, c. 438. In termini critici anche r. villata, Ancora spigolature sul nuovo processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857, c. e. gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine alle proprie sentenze di annullamento, ivi, 2012, 285, l. bertonazzi, Sentenza che accoglie l’azione di annullamento amputata dell’effetto eliminatorio, ivi, 1134, r. dipace, L’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, ivi, 325.
[9] In particolare a. travi, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo
[10] Corte di Giustizia, 13 ottobre 2916, C-231/2015 Prezes Urzędu Komunikacji Elektronicznej e Petrotel sp. z o.o. w Płocku contro Polkomtel sp. z o.o.
[11] Cons. Stato, Sez. III, 24 febbraio 2016, n. 748.
[12] f. g. scoca, Scioglimento di organi elettivi per condizionamento della criminalità organizzata, in Giur. it., 2016, VII, 1722.
[13] In senso contrario, su questo punto, f. g. scoca, Scioglimento di organi elettivi, per il quale il petitum e la sua delimitazione competono esclusivamente alla parte attrice e possono essere integrati solo se le altre parti, proponendo ricorso incidentale, si fanno anch’esse parti attrici. L’obiezione a mio avviso risponde ad un’idea eccessivamente rigida del thema decidendum alla cui individuazione concorrono anche le parti convenute, anche con strumenti diversi dalla proposizione del ricorso incidentale, ad esempio formulando eccezioni sulle quali il giudice è comunque tenuto a pronunciarsi.
Decreto semplificazioni: contratti pubblici, concorrenza e tutela.
di Alessandra Coiante
Sommario: 1. Premessa: le principali modifiche in materia di contratti pubblici – 2. Le principali deroghe nelle procedure sotto soglia – Segue: Le principali deroghe nelle procedure sopra soglia – 3. Il Collegio consultivo tecnico e la sospensione dell’esecuzione dell’opera – 4. Le nuove “incisioni” sulla tutela giurisdizionale” – 5. Prime considerazioni
1. Premessa: le principali modifiche in materia di contratti pubblici
Il tanto atteso decreto semplificazioni(d.l. 16 luglio 2020, n. 76), “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici”, ha introdotto, nel Capo I, una serie di disposizioni di carattere prevalentemente temporaneo (operanti dalla data in vigore del decreto fino al 31 luglio 2021) finalizzate al raggiungimento del suddetto obiettivo.
Ai primi due articoli, al dichiarato fine di “incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici e a far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19”, viene previsto un regime derogatorio per le procedure sotto soglia (art. 1 “Procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici durante il periodo emergenziale in relazione all’aggiudicazione dei contratti pubblici sotto soglia”) e sopra soglia comunitaria (art. 2 “Procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici in relazione all’aggiudicazione dei contratti pubblici sopra soglia), applicabile a tutte le procedure in cui la determina a contrarre (o altro atto di avvio del procedimento equivalente) venga adottata entro il 31 luglio 2021.
L’art. 3 delinea una disciplina derogatoria e semplificata in materia di controlli antimafia e detta disposizioni a regime sui Protocolli di legalità[1]; mentre l’art. 4 introduce tutta una serie di disposizioni che vanno ad incidere, anche a regime, sulla fase di conclusione dei contratti e sul codice del processo amministrativo.
L’art. 5 detta, invece, un regime derogatorio all’art. 107 del Codice dei contratti pubblici (di seguito anche solo c.c.p.)., sulla sospensione dell’esecuzione delle opere pubbliche.
A parziale e ipotetico bilanciamento di tale riduzione di garanzie, l’art. 6 introduce, un nuovo “organismo”, di cui si darà conto, con cui le Stazioni appaltanti (di seguito anche solo “SA”) e gli operatori economici dovranno imparare a rapportarsi: il Collegio consultivo tecnico.
L’art. 7 istituisce un “Fondo per la prosecuzione delle opere pubbliche” con il fine di «garantire la regolare e tempestiva prosecuzione dei lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 del decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50, nei casi di maggiori fabbisogni finanziari dovuti a sopravvenute esigenze motivate nel rispetto della normativa vigente, ovvero per temporanee insufficienti disponibilità finanziarie annuali (…)”
L’art. 8 prevede invece “altre disposizioni urgenti” che si applicheranno non solo alle procedure che saranno avviate dalla data di entrata in vigore del decreto fino al 31 luglio 2021, ma a tutte le procedure pendenti i cui bandi o avvisi sono già stati pubblicati alla data di entrata in vigore del decreto[2].
L’art. 9, norma di chiusura del Capo I, detta alcune «Misure di accelerazione degli interventi infrastrutturali», tra le quali rientra quella di individuare “con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro il 31 dicembre 2020, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentito il Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono individuati gli interventi infrastrutturali caratterizzati da un elevato grado di complessità progettuale, da una particolare difficoltà esecutiva o attuativa, da complessità delle procedure tecnico - amministrative ovvero che comportano un rilevante impatto sul tessuto socio-economico a livello nazionale, regionale o locale, per la cui realizzazione o completamento si rende necessario la nomina di uno o più Commissari straordinari che è disposta con i medesimi decreti”.
Altro punto di rilievo è la riforma in materia di responsabilità erariale e di abuso d’ufficio a cui sono stati dedicati gli artt. 21 e 23.
Nei seguenti paragrafi si intende dare conto di alcune delle predette modifiche concentrando l’attenzione, in particolar modo, su quelle incidenti sulla concorrenza e sulla tutela giurisdizionale[3].
2. Le principali deroghe nelle procedure sotto soglia
Per l’affidamento di lavori, servizi e forniture nonché dei servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione, di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 c.c.p.[4] le stazioni appaltanti devono procedere, in deroga a quanto previsto dall’art. 36, comma 2[5],come segue.
L’art. 36 c.c.p. prevede l’utilizzo dell’affidamento diretto, anche senza la previa consultazione di alcun operatore economico, per lavori, servizi e forniture di importo inferiore a 40.000. Tale soglia è stata innalzata, dal decreto semplificazioni, sino a 150.000 euro. In particolare, è stato previsto l’affidamento diretto “per lavori, servizi e forniture di importo inferiore a 150.000 euro e, comunque, per servizi e forniture nei limiti delle soglie di cui al citato articolo 35”. Per tali affidamenti l’art. 36 c.c.p., inoltre, prevede la possibilità di richiedere almeno trepreventivi per i lavori e almeno cinque per servizi e forniture, indicazione che è stata del tutto rimossa nella disciplina derogatoria dettata dal decreto.
Viene poi prevista, quale altra modalità possibile di affidamento, la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara di cui all’art. 63 c.c.p., da utilizzare, viene specificato, nel rispetto del principio di rotazione degli inviti.
Tale procedura potrà essere utilizzata: a) per l’affidamento di servizi e forniture di importo pari o superiore a 150.000 euro e fino alle soglie di cui all’articolo 35 c.c.p., previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici; b) per l’affidamento di lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 350.000 euro, previa consultazione, ove esistenti di almeno cinque operatori economici; c) per lavori di importo pari o superiore a 350.000 euro e inferiore a un milione di euro, previa consultazione di almeno dieci operatori economici; d) per l’affidamento di lavori di importo pari o superiore a un milione di euro e fino alle soglie di cui all’articolo 35 c.c.p., previa consultazione di almeno quindici operatori economici
In base a quanto previsto dall’art. 36 c.c.p., ciò che rileva maggiormente è la notevole diminuzione del numero minimo di operatori da consultare: per i lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 350.000 euro si è passati da dieci a cinque, per i lavori di importo pari o superiore a 350.000 euro e inferiori a un milione di euro, da quindici a dieci.
L’incisione forse più rilevante è stata fatta, tuttavia, per gli affidamenti di lavori di importo pari o superiore al milione di euro e fino alle soglie di cui all’art. 35 c.c.p. (quindi, ad esempio, fino a 5 milioni per gli appalti di lavori). Per tale tipologia di affidamenti è stato previsto anche qui l’utilizzo della procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara in luogo della procedura aperta di cui all’art. 60 c.c.p.
Sempre nell’ottica dell’accelerazione, viene inoltre precisato che, salve le ipotesi in cui la procedura sia sospesa per effetto di provvedimenti dell’autorità giudiziaria[6], l’aggiudicazione o l’individuazione definitiva del contraente avviene entro il termine di due mesi dalla data di adozione dell’atto di avvio del procedimento, aumentati a quattro mesi nei casi in cui deve essere applicata la procedura negoziata di cui all’art. 63 c.c.p.
Il mancato rispetto di tali termini, la mancata tempestiva stipula del contratto e il tardivo avvio dell’esecuzione dello stesso possono essere valutati ai fini della responsabilità del RUP per danno erariale[7] e se, invece, risultano imputabili all’operatore economico, costituiscono causa di esclusione dalla procedura o di risoluzione del contratto per inadempimento che opera di diritto e viene dichiarata dalla stazione appaltante.
Viene poi precisato che gli affidamenti diretti possono essere realizzati tramite determina a contrarre, o atto equivalente che contenga gli elementi di cui all’art. 32, comma 2, c.c.p.
Per la procedura di negoziazione senza previa pubblicazione del bando viene stabilito, invece, che le stazioni appaltanti procedono a loro scelta (pur se nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento) all’aggiudicazione dei relativi appalti, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ovvero del prezzo più basso. In caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso le stazioni appaltanti devono procedere all’esclusione automatica delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia (di cui dell’articolo 97, comma 2, 2 -bis e 2 -ter, del decreto c.c.p) anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque.
Il quarto comma introduce una disciplina derogatoria anche per la garanzia provvisoria di cui all’art. 93 c.c.p. Viene previsto, infatti, che la stessa non venga richiesta dalle stazioni appaltanti salvo che ricorrano particolari esigenze in considerazione della tipologia e della specificità della singola procedura che devono essere specificate dalla stazione appaltante nell’avviso di indizione della gara o in altro atto equivalente. Nell’ipotesi in cui sussistano i presupposti motivati per la richiesta, la garanzia è comunque dimezzata rispetto all’ammontare previsto dall’art. 93 c.c.p.
Il quinto comma precisa, inoltre, che tutta la disciplina derogatoria stabilita da questo primo articolo si applichi anche alle procedure per l’affidamento dei servizi di organizzazione, gestione e svolgimento delle prove dei concorsi pubblici di cui agli articoli 247 e 249 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, fino all’importo di cui alla lettera d), comma 1, dell’articolo 35 c.c.p. (750.000 euro).
Da tale breve disamina di questo primo articolo del decreto dedicato alle procedure sotto soglia comunitaria, traspare una prima linea direttrice di tale intervento riformatore: garantire una partecipazione ampia e adeguatamente aperta alla competizione tra imprese rallenta gli appalti pubblici. Da qui il favor per l’affidamento diretto e la procedura negoziata senza bando (con il confronto con un numero quanto più ridotto di operatori), mentre sembra essere stato “dimenticato” che la tutela della concorrenza deve essere garantita e rispettata anche nelle procedure sotto soglia. Da qui il mancato utilizzo della procedura aperta per gli appalti di importi più che rilevanti.
Segue: Le principali deroghe nelle procedure sopra soglia
L’art. 2 del decreto è dedicato invece alle procedure sopra soglia comunitaria.
Il secondo comma dispone che, salvo quanto previsto dal comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’affidamento delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture nonché dei servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione, di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 c.c.p., mediante procedura aperta, ristretta o, previa motivazione sulla sussistenza dei presupposti previsti dalla legge, mediante la procedura competitiva con negoziazione di cui agli artt. 61 e 62 del c.c.p. (e di cui agli articoli 123 e 124, per i settori speciali) con i termini ridotti di cui all’articolo 8, comma 1, lettera c) del medesimo decreto[8].
Al terzo comma viene stabilita invece la possibilità di applicare la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, di cui all’art. 63 c.c.p. nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivanti dagli effetti negativi della crisi causata dalla pandemia COVID-19 o dal periodo di sospensione delle attività, determinato dalle misure di contenimento adottate per fronteggiare la crisi, i termini, anche abbreviati, previsti dalle procedure ordinarie non possono essere rispettati.
In merito a tale previsione non si comprende come potranno essere interpretate le ragioni di estrema urgenza, in una fase in cui l’emergenza (almeno) sanitaria risulta rientrata: quale urgenza derivante dagli effetti negativi della pandemia potrà essere qualificata addirittura come “estrema” tale da giustificare l’applicazione della procedura di cui all’art. 63 c.c.p. ? Si aggiunga poi che il comma 2, lett. c) dell’art. 63 c.c.p. prevede, tra i casi in cui è consentito l’utilizzo della procedura negoziata senza bando, l’ipotesi della sussistenza di ragioni di estrema urgenza derivanti da eventi imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice. L’imprevedibilità della disciplina ordinaria viene quindi sostituita da non meglio precisati effetti negativi derivanti dalla crisi causata dalla pandemia, aprendo così a un ampio ventaglio di possibilità applicative.
Il quarto comma dispone, inoltre, che nei casi di cui al terzo comma (recte: in caso di applicazione della procedura di cui all’art. 63 c.c.p.) e “nei settori dell’edilizia scolastica, universitaria, sanitaria e carceraria, delle infrastrutture per la sicurezza pubblica, dei trasporti e delle infrastrutture stradali ferroviarie, portuali, aeroportuali, lacuali e idriche, ivi compresi gli interventi inseriti nei contratti di programma ANAS-Mit 2016-2020 e RFI-Mit 2017 – 2021 e relativi aggiornamenti, nonché gli interventi funzionali alla realizzazione della transizione energetica”, per quanto non espressamente disciplinato dallo stesso art. 2, le stazioni appaltanti, per l’affidamento delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture nonché dei servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione, e per l’esecuzione dei relativi contratti, operano: i) in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale; ii) fatto salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159; iii) nonché dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all'Unione europea, ivi inclusi quelli derivanti dalle direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE, dei principi di cui agli articoli 30 (principi generali per l’affidamento e l’esecuzione), 34 (principi in materia di sostenibilità energetica e ambientale) e 42 (in materia di conflitto di interesse) del c.c.p. e delle disposizioni in materia di subappalto.
Tale previsione desta non poche perplessità in particolar modo nella parte in cui viene prevista la deroga “ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale”: sembrerebbe doversi intendere derogato non solo il Codice dei contratti pubblici ma anche, a titolo meramente esemplificativo, tutta la normativa in materia antitrust sia nei settori sopra elencati ma anche “nei casi di cui al terzo comma” quindi nei casi di applicabilità della procedura negoziata senza bando.
La legittimità di tale regime derogatorio dovrebbe essere garantita dall’indicazione (anch’essa di non facile interpretazione) del rispetto dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all'Unione europea, ivi inclusi quelli derivanti dalle direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE e dei principi di cui agli articoli 30, 34 e 42 c.c.p. e delle disposizioni in materia di subappalto.
Viene poi stabilito anche per le procedure sopra soglia (similmente a quanto previsto per le procedure sotto soglia) che, salva l’ipotesi in cui la procedura sia sospesa per effetto di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, l’aggiudicazione o l’individuazione definitiva del contraente avviene entro il termine di sei mesi dalla data di adozione dell’atto di avvio del procedimento. Anche qui viene specificato che il mancato rispetto dei termini, la mancata tempestiva stipulazione del contratto e il tardivo avvio dell’esecuzione dello stesso possono essere valutati ai fini della responsabilità del responsabile unico del procedimento per danno erariale e, qualora imputabili all’operatore economico, costituiscono causa di esclusione dell’operatore dalla procedura o di risoluzione del contratto per inadempimento che opera di diritto e viene dichiarata dalla stazione appaltante.
La disciplina delle procedure sopra soglia risultante dal decreto semplificazioni è quindi caratterizzata da una possibile diminuzione dei termini procedimentali, dalla possibilità di applicare la procedura negoziata senza bando ogni qualvolta ricorrano ragioni di estrema urgenza derivanti da non chiari “effetti negativi della crisi causata dalla pandemia”, da deroghe generali “ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale” che non rendono di certo chiara la disciplina applicabile.
3. Il Collegio consultivo tecnico e la sospensione dell’esecuzione dell’opera
Un’altra importante novità introdotta dal decreto semplificazioni per i lavori tesi alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all’art. 35 c.c.p.[9] è l’istituzione di un Collegio consultivo tecnico[10], organo finalizzato, da quanto si evince anche dalla Relazione illustrativa, “a prevenire controversie relative all'esecuzione dei contratti pubblici” e operante anche quest’ultimo fino al 31 luglio 2021 (art. 6).
La costituzione del Collegio, ai sensi dell’art. 6, comma 2, del decreto, è obbligatoria, presso ogni SA, prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque non oltre dieci giorni da tale data, con i compiti previsti dall’articolo 5 e con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso. Viene inoltre previsto che, per i contratti la cui esecuzione sia già iniziata alla data di entrata in vigore della novella presente, il Collegio deve essere nominato entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla medesima data.
Il comma 5 prevede, peraltro, che le SA, tramite il loro responsabile unico del procedimento, possano costituire un collegio consultivo tecnico formato da tre componenti per risolvere problematiche tecniche o giuridiche di ogni natura suscettibili di insorgere anche nella fase antecedente alla esecuzione del contratto, ivi comprese le determinazioni delle caratteristiche delle opere e le altre clausole e condizioni del bando o dell’invito nonché la verifica del possesso dei requisiti di partecipazione, dei criteri di selezione e di aggiudicazione[11].
Le disposizioni dettate dall’art. 6 vanno lette in combinato disposto anche con quanto previsto dallo stesso decreto all’art. 5, rubricato “Sospensione dell’esecuzione dell’opera pubblica”, che disciplina i compiti del Collegio consultivo nel caso di sospensione dell’esecuzione dell’opera.
Con riguardo alla sospensione viene previsto, in deroga all’art. 107 c.c.p., che la sospensione, dell’esecuzione di lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35 c.c.p., anche se già iniziati, può avvenire, esclusivamente, per il tempo strettamente necessario al loro superamento, unicamente per: a) cause previste da disposizioni di legge penale, dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nonché da vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. In tal caso, viene previsto che si debba provvedere “ai sensi del comma 4”: nel caso in cui la prosecuzione dei lavori, per qualsiasi motivo (ivi incluse la crisi o l’insolvenza dell’esecutore anche in caso di concordato con continuità aziendale ovvero di autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa) non possa proseguire con il soggetto designato, la stazione appaltante, previo parere del collegio consultivo tecnico, salvo che per gravi motivi tecnici ed economici sia comunque, anche in base al citato parere, possibile o preferibile proseguire con il medesimo soggetto, dichiara senza indugio (in deroga alla procedura di cui all’articolo 108, commi 3 e 4) del c.c.p. la risoluzione del contratto, che opera di diritto, e provvede secondo le modalità alternative previste dallo stesso comma; b) gravi ragioni di ordine pubblico, salute pubblica o dei soggetti coinvolti nella realizzazione delle opere, ivi incluse le misure adottate per contrastare l’emergenza sanitaria globale da COVID-19; c) gravi ragioni di ordine tecnico, idonee a incidere sulla realizzazione a regola d’arte dell’opera, in relazione alle modalità di superamento delle quali non vi è accordo tra le parti. In questa ipotesi è stabilito che il collegio consultivo tecnico “entro quindici giorni dalla comunicazione della sospensione dei lavori ovvero della causa che potrebbe determinarla, adotta una determinazione con cui accerta l’esistenza di una causa tecnica di legittima sospensione dei lavori e indica le modalità, tra quelle di cui al comma 4, con cui proseguire i lavori e le eventuali modifiche necessarie da apportare per la realizzazione dell’opera a regola d’arte. La stazione appaltante provvede nei successivi cinque giorni”; d) gravi ragioni di pubblico interesse.
Per le ipotesi di cui comma 1, lettere b) e d) è previsto che su determinazione del collegio consultivo tecnico, le SA o le autorità competenti, “previa proposta della stazione appaltante, da adottarsi entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione allo stesso collegio della sospensione dei lavori, autorizzano nei successivi dieci giorni la prosecuzione dei lavori nel rispetto delle esigenze sottese ai provvedimenti di sospensione adottati, salvo assoluta e motivata incompatibilità tra causa della sospensione e prosecuzione dei lavori”.
Di particolare rilievo risulta poi il comma 6 ove è stabilito che “salva l’esistenza di uno dei casi di sospensione di cui al comma 1, le parti non possono invocare l’inadempimento della controparte o di altri soggetti per sospendere l’esecuzione dei lavori di realizzazione dell’opera ovvero le prestazioni connesse alla tempestiva realizzazione dell’opera”. Al secondo periodo viene precisato che in sede giudiziale, sia nella fase cautelare che in quella di merito, il giudice deve tenere conto “delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale o locale alla sollecita realizzazione dell’opera”. Inoltre, l’accoglimento della domanda cautelare viene sottoposto alla previa valutazione circa ai “la irreparabilità del pregiudizio per l’operatore economico, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto pubblico alla celere realizzazione dell’opera”.
4. Le nuove “incisioni” sulla tutela giurisdizionale”
L’art. 4 detta tutta una serie di modifiche che vanno a incidere sulla conclusione dei contratti pubblici e sul codice del processo amministrativo[12].
Al primo comma viene prevista la modifica dell’art. 32, comma 8, c.c.p. nei termini che seguono.
In particolare, tale disposizione al primo periodo prevedeva che: “Divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario”.
Nel decreto è stata prevista non solo la sostituzione dell’inciso “ha luogo” con quello “deve avere luogo” ma ora l’ipotesi di differimento concordata con l’aggiudicatario deve risultare comunque “giustificata dall’interesse alla sollecita esecuzione del contratto”. Dopo questo primo periodo così modificato ne è stato poi aggiunto un altro ove viene previsto che: “La mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente preposto. Non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto. Le stazioni appaltanti hanno facoltà di stipulare contratti di assicurazione della propria responsabilità civile derivante dalla conclusione del contratto e dalla prosecuzione o sospensione della sua esecuzione”[13].
La disposizione così modificata prevede dunque come obbligatoria la stipula del contratto entro i 60 giorni successivi all’aggiudicazione, fatto salvo: a) l’eventuale esercizio dei poteri di autotutela; b) l’indicazione di un diverso termine all’interno del bando (o dell’invito ad offrire); c) l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario. Quest’ultima ipotesi tuttavia è sottoposta alla condizione che sia comunque giustificata dall’interesse (pubblico) alla sollecita esecuzione del contratto.
Viene poi previsto che l’eventuale mancata stipula del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento sia all’interesse della stazione appaltante che a quello “nazionale” alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente preposto.
A tale proposito, viene peraltro specificato che la pendenza di un ricorso giurisdizionale non costituisce giustificazione adeguata alla mancata stipula del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dall’art. 32, commi 9 e 11 c.c.p. (sul c.d. stand still sostanziale e processuale), ovvero che essa sia frutto di una inibitoria giurisdizionale. Non è chiaro il senso del termine “disposto”, ma è verosimile che il legislatore intendesse fare riferimento alla sospensione della procedura e, nella fretta, abbia “troncato” la frase prima del complemento oggetto (il testo della legge è tronco alla parola “disposto”, ma è verosimile si tratti di un errore materiale) o inibito detta stipula.
Viene inserita, peraltro, la possibilità per le SA di stipulare contratti di assicurazione della propria responsabilità civile derivante dalla conclusione e dalla prosecuzione o sospensione dell’esecuzione del contratto fuori dalle suddette inibitorie ex lege o iussu iudicis[14].
Modifiche di particolare rilievo vengono previste anche per il rito speciale appalti[15].
Anzitutto, l’art. 4, comma 2, dispone che in caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui agli articoli 1 (procedure sottosoglia) e 2, comma 2, (procedure sopra soglia aperta, ristretta e negoziata di cui agli artt. 61 e 62 c.c.p) “qualora rientranti nell’ambito applicativo dell’articolo 119, comma 1, lettera a) del c.p.a.”[16] si applica l’articolo 125, comma 2, del medesimo codice. Quest’ultima disposizione stabilisce un particolare onere motivazionale della decisione cautelare, inteso a verificare l'impatto della pronuncia sull'interesse pubblico legato alla celere realizzazione dell'appalto che verrebbe dunque estesa addirittura anche alle procedure sottosoglia.
Al comma 3 del medesimo articolo viene prevista, inoltre l’integrale applicazione dell’art. 125 c.p.a. in caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui all’art. 2, comma 3, (procedure negoziate nel sopra soglia), compresa, quindi, la previsione riguardante i limiti alla caducazione del contratto a seguito dell’accertata illegittimità dell’aggiudicazione[17]
Ulteriori modifiche (a regime) sono state apportate anche all’art. 120 c.p.a.
In particolare, il comma 6 viene così modificato: “Il giudizio è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell’articolo 74, in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”[18].
Rilevanti modifiche vengono apportate anche al comma 9 che secondo la nuova formulazione ora prevede che: “Il giudice deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro quindici giorni dall’udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al primo periodo, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro trenta giorni dall’udienza”[19].
Da tali “incisioni” si evince un chiaro e definitivo favor (quasi a tutti i costi) per la sollecita definizione del merito in sede cautelare.
Nonostante l’art. 120 c.p.a. già prevedesse non solo che il giudizio venisse comunque definito in forma semplificata ma anche la possibilità di definizione immediata nell’udienza cautelare, ciò non è sembrato sufficiente, bensì si è optato per una ordinaria anticipazione del momento decisorio alla fase cautelare. Trascurando, tuttavia, che tale fase, per sua natura e per i tempi strettissimi intercorrenti tra l’udienza e il deposito dei documenti e degli scritti difensivi, non permette di avere una “cognita causa”. A ciò si aggiungano le difficoltà che potrebbero incontrare, nel tentare di garantire tale tutela, sezioni specializzate nella materia degli appalti (si pensi alla V sezione del Consiglio di Stato) gravate da un elevato quantitativo di questioni da dover definire all’esito di una valutazione ad horas.
Sia per le modifiche al comma 6 ma anche per quelle apportate al comma 9, vale sempre la considerazione per cui una tutela “celere” (sempre più celere, in un rito già accelerato all’interno di un processo, quello amministrativo, già particolarmente veloce) non sempre sta a significare la garanzia di una tutela “piena ed effettiva”[20] soprattutto quando, come è stato evidenziato in diverse occasioni, le lentezze e le lungaggini che “paralizzano” gli appalti pubblici non risiederebbero né nella garanzia della concorrenza, né tanto meno nella garanzia del giudice amministrativo, bensì risiederebbero a monte, soprattutto nelle fasi di programmazione e progettazione e non anche (o almeno non solo) in quella di scelta del contraente né in quella giurisdizionale, meramente eventuale [21].
Sarebbe stato forse più utile cogliere quest’opportunità di “semplificazione” per sciogliere, ad esempio, l’annosa questione che vede protagonista proprio l’art. 120 c.p.a. che, al comma 5, fa decorrere il dies a quo per l’impugnazione degli atti (sia per la proposizione del ricorso principale che dei motivi aggiunti) dalla “dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163” (…) ovvero “in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto”.
L’intera previsione, come anche solo il richiamo all’art. 79 del precedente codice, ha creato non pochi problemi interpretativi[22], alcuni dei quali sono stati affrontati da una recentissima pronuncia dell’Adunanza Plenaria (n. 12/2020)[23].
Il Massimo Consesso della Giustizia Amministrativa, dirimendo i quesiti interpretativi che gli erano stati sottoposti, ha poi trasmesso copia della pronuncia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, “affinché sia disposta una modifica legislativa ispirata alla necessità che vi sia un ‘sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile', disciplinato dalla legge con disposizioni di immediata lettura da parte degli operatori cui si rivolgono le direttive dell'Unione Europea”.
La possibilità di garantire maggiore certezza alla disciplina della decorrenza di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a. è stata invece del tutto ignorata dal decreto.
5. Prime e brevi considerazioni
Da tale breve disamina della disciplina contenuta nel decreto semplificazioni e che dovrà essere applicata (almeno in parte) solo fino al 31 luglio 2021 può forse ipotizzarsi che la semplificazione tanto attesa forse, anche stavolta, tanto semplice non sarà.
Dai primi articoli traspare una prima tendenza: la concorrenza, la massimizzazione della partecipazione degli operatori economici alle procedure, la preferenza per procedure aperte, trasparenti e con più operatori rallentano gli appalti pubblici. Da qui la preferenza (in gran parte nel sotto soglia) per affidamenti diretti e procedure negoziate senza previa pubblicazione del bando di gara. Ma è davvero così? È davvero la garanzia della concorrenza a rallentare gli appalti pubblici?
Si pensi, ad esempio, alle opere pubbliche. In media nel nostro Paese la realizzazione di un’opera pubblica dura circa 4,4 anni. La fase di progettazione dell’opera è (in media) la fase più lunga e da sola rappresenta più della metà della durata complessiva media (2,5 anni). In media, invece, si impiegano 0,6 anni per la fase di affidamento dei lavori e 1,3 per la loro esecuzione. Sui tempi di realizzazione incidono, tuttavia, i c.d. “tempi di attraversamento” ossia i tempi intercorrenti tra la fine di una fase procedurale e l’inizio di quella successiva oppure addirittura tra le sottofasi (es. tra la progettazione preliminare e quella definitiva), che equivarrebbero in media circa al 54% della durata complessiva della realizzazione di un’opera (valore che sale al 60% se si prende in considerazione la sola fase della progettazione)[24]. L’allungamento di questi tempi sarebbe dovuto in gran parte a “inefficienze amministrative” quali, ad esempio, lungaggini burocratiche e incertezze negli iter autorizzativi.
Sulla base di tali considerazioni, l’aver agito diminuendo la partecipazione degli operatori economici alle procedure di gara e prevedendo non chiari regimi derogatori, porterà davvero a una velocizzazione del procedimento di realizzazione delle opere pubbliche? È davvero l’apertura al confronto competitivo tra imprese che non permette la celere realizzazione delle opere e che rende tale mercato inefficiente?
Tali scelte (almeno a prima lettura) sembrerebbero fondate sull’erronea convinzione che sia la tutela della concorrenza[25] la causa delle inefficienze di tale mercato, come se la garanzia di accesso al mercato sia un interesse unicamente degli operatori privati, come se sia un “lusso” di cui in periodi di crisi (anche economica)si può fare a meno, dimenticando forse che la stessa sia anche (se non principalmente) l’interesse pubblico della (buona) amministrazione ad ottenere le migliori prestazioni, i migliori servizi a prezzi adeguati[26].
L’interesse “nazionale” alla celere realizzazione delle opere, ma anche “l’interesse della stazione appaltante” sono stati inseriti con una certa costanza in diverse disposizioni e sono spesso stati delineati come interessi che devono prevalere praticamente ad ogni costo.
A prima vista sembrerebbero “reminiscenze” di quella visione c.d. contabilistica[27] della normativa in materia di appalti pubblici, venuta poi meno con l’avvento della disciplina UE, ove l’obiettivo primario era quello di garantire le condizioni (economiche) più favorevoli per l’amministrazione e ove la concorrenza veniva tutelata solo di riflesso (e comunque nell’interesse esclusivo dell’amministrazione)[28].
La necessità di garantire un rilievo primario all’interesse della stazione appaltante e quello alla celere realizzazione delle opere a discapito quasi di ogni altro interesse in gioco, sarà una tendenza valida solo fino al luglio 2021?
Sempre nell’ottica di “velocizzare” la realizzazione delle opere pubbliche viene riconosciuto un ruolo di primaria importanza alla figura del “Commissario straordinario” (art. 9 del decreto), a conferma del fatto che l’Amministrazione “ordinaria” viene considerata inadeguata a garantire, tramite procedure non straordinarie, il perseguimento dell’interesse pubblico. Da qui il paradosso che vede le regole dell’evidenza pubblica piegate o forzate proprio laddove (nell’ambito della realizzazione di opere strategiche per lo sviluppo del Paese), invece, dovrebbero dispiegare la loro massima efficacia[29]. Si conferma così il tendenziale favor per l’Amministrazione straordinaria. Eppure, le premesse non sembravano puntare tutte in questa direzione.
Si pensi alla proposta di riforma che era stata presentata, nel mese di giugno, al Presidente del Consiglio dal “Comitato di esperti in materia economica e sociale”[30] ove veniva sconsigliato uno spasmodico utilizzo dell’Amministrazione commissariata[31] in favore invece: a) nel breve periodo, dell’applicazione delle Direttive UE (con possibilità di minime integrazioni per le parti non direttamente applicabili) alle opere di interesse strategico; b) nel lungo periodo, della riforma integrale del Codice dei contratti pubblici in quanto ritenuto l’unico luogo ove possa avvenire un corretto bilanciamento tra i diversi interessi in gioco.
La disciplina delineata nei primi articoli del decreto nasce tesa alla semplificazione, eppure tale obiettivo sembrerebbe doversi raggiungere tramite norme di non chiara interpretazione e nuovi organismi, esterni all’amministrazione, ma che probabilmente comporteranno anche costi ulteriori per la stessa. Nuovi organismi che portano con sé, come visto, nuove competenze e nuovi ruoli che andranno ad inserirsi all’interno di una “macchina”, quella amministrativa, che dovrà comunque imparare a funzionare con “il nuovo”, a recepirlo e ad integrarlo. Cosa che, data anche solo la formulazione delle disposizioni richiamate, non sembra un’impresa di poco conto.
Tutto questo in un tempo ristretto, nell’arco di circa un anno.
Simile discorso è stato fatto, già in sede di commento alla bozza del decreto, anche in merito alle disposizioni analizzate in materia di processo amministrativo. Anche in tal caso è stato ricordato che “un intervento legislativo che assume l'ambiziosa etichetta della semplificazione deve sempre ricordare che l'opzione zero è quasi sempre la migliore”[32].
Norme che richiedevano, invece, chiarimenti e semplificazioni sono rimaste intoccate mentre si è andato ad incidere su disposizioni che forse non avevano bisogno di rimaneggiamenti e che invece sono state modificate a regime. A ciò si aggiunga che il processo amministrativo è di per sé un processo celere, specie nel rito (appunto, accelerato) in materia di contratti pubblici.
Velocizzare ancora di più il processo attraverso il favor per la decisione del merito in sede cautelare, a scapito probabilmente di una tutela piena ed effettiva, abbreviare i tempi del processo e, in particolar modo, quelli della decisone, saranno davvero questi interventi che garantiranno di realizzare “un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture” e raggiungere così l’obiettivo della riforma?
[1] Il comma 1 prevede la generalizzazione del sistema del rilascio della documentazione antimafia in via d’urgenza, nei procedimenti avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l’erogazione di benefici economici comunque denominati, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni e pagamenti da parte di pubbliche amministrazioni, qualora il rilascio della documentazione non sia immediatamente conseguente alla consultazione della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia di cui all’articolo 96 del Codice antimafia (d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159). Al secondo e terzo comma viene stabilito che per le verifiche antimafia riguardanti l’affidamento e l’esecuzione dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, debba procedersi al rilascio di informativa liberatoria provvisoria immediatamente conseguente alla consultazione della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia nonché tramite l’immediata acquisizione degli esiti delle interrogazioni di tutte le ulteriori banche dati disponibili. L’informativa liberatoria provvisoria consente di stipulare contratti o altri atti sotto condizione risolutiva. Qualora la documentazione successivamente pervenuta accerti poi la sussistenza di una delle cause interdittive, i soggetti che secondo il Codice antimafia (art. 83, commi 1 e 2) sono tenuti all’acquisizione della documentazione antimafia, sono legittimate a recedere dai contratti, fatto “salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” (comma 4). Il comma 5 stabilisce che con decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro quindici giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, possono essere individuate ulteriori misure di semplificazione relativamente alle Prefetture competenti al rilascio della documentazione antimafia e ai connessi adempimenti. Al comma 6 è precisato che, per quanto non espressamente disciplinato dai commi precedenti, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.In merito ai protocolli di legalità, viene previsto l’inserimento di un nuovo articolo (art. 83 bis) all’interno del Codice antimafia ove è stabilito che: “Il Ministero dell’interno può sottoscrivere protocolli, o altre intese comunque denominate, per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata, anche allo scopo di estendere convenzionalmente il ricorso alla documentazione antimafia di cui all’articolo 84. I protocolli di cui al presente articolo possono essere sottoscritti anche con imprese di rilevanza strategica per l’economia nazionale nonché con associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale di categorie produttive, economiche o imprenditoriali, e possono prevedere modalità per il rilascio della documentazione antimafia anche su richiesta di soggetti privati, nonché determinare le soglie di valore al di sopra delle quali è prevista l’attivazione degli obblighi previsti dai protocolli medesimi. I protocolli possono prevedere l’applicabilità delle previsioni del presente decreto anche nei rapporti tra contraenti, pubblici o privati, e terzi, nonché tra aderenti alle associazioni contraenti e terzi”.
[2] Per tali procedure: a) è sempre autorizzata la consegna dei lavori in via di urgenza e, nel caso di servizi e forniture, l’esecuzione del contratto in via d’urgenza ai sensi dell’articolo 32, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016, fermo restando quanto previsto dall’articolo 80 del medesimo decreto legislativo; b) le stazioni appaltanti possono prevedere, a pena di esclusione dalla procedura, l’obbligo per l’operatore economico di procedere alla visita dei luoghi, nonché alla consultazione sul posto dei documenti di gara e relativi allegati ai sensi e per gli effetti dell’articolo 79, comma 2, decreto legislativo n. 50 del 2016. esclusivamente laddove detto adempimento sia strettamente indispensabile in ragione della tipologia, del contenuto o della complessità dell’appalto da affidare; c) in relazione alle procedure ordinarie, si applicano le riduzioni dei termini procedimentali per ragioni di urgenza di cui agli articoli 60, comma 3, 61, comma 6, 62 comma 5, 74, commi 2 e 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016. Nella motivazione del provvedimento che dispone la riduzione dei termini non è necessario dar conto delle ragioni di urgenza, che si considerano comunque sussistenti; d) le procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture possono essere avviate anche in mancanza di una specifica previsione nei documenti di programmazione di cui all’articolo 21 del decreto legislativo n. 50 del 2016, già adottati, a condizione che entro trenta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del presente decreto si provveda ad un aggiornamento in conseguenza degli effetti dell’emergenza COVID-19. Di particolare rilievo anche la modifica prevista dall’art. 8, comma 5, lett. b) all’articolo 80, comma 4, c.c.p. E’ stato previsto, infatti, che il quinto periodo di tale ultima disposizione sia sostituito dalla seguente previsione: “Un operatore economico può essere escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se la stazione appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali non definitivamente accertati qualora tale mancato pagamento costituisca una grave violazione ai sensi rispettivamente del secondo o del quarto periodo”.Viene così introdotta una nuova causa di esclusione per irregolarità contributive non definitivamente accertate. Viene poi precisato che l’irregolarità che legittima l’esclusione debba essere una “grave violazione” ossia un’irregolarità fiscale o contributiva pari ad almeno 5.000 euro (art. 48 commi 1 e 2 bis del d.p.r . 602/1973). Tale previsione, tuttavia, non si applica “quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l’estinzione, il pagamento o l’impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande.”.
[3] Per una disamina articolo per articolo delle novità più rilevanti in materia di contratti pubblici sia consentito il rinvio a A. Coiante, Le principali novità del decreto semplificazioni in materia di Contratti pubblici, in lamministrativista.it, 20 luglio 2020.
[4] Le attuali soglie comunitarie, modificate da ultimo dai Regolamenti (UE) 2019/1827, 1828, 1829, 1830, sono in vigore dal 1 gennaio 2020 e sono così individuate: nei settori ordinari, per gli appalti pubblici di lavori e per le concessioni la soglia di rilevanza europea è di euro 5.350.000. Per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione aggiudicati dalle amministrazioni aggiudicatrici che sono autorità governative centrali è invece di euro 139.000. Per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali; tale soglia si applica anche agli appalti pubblici di forniture aggiudicati dalle autorità governative centrali che operano nel settore della difesa la soglia è di euro 214.000 mentre è di euro 750.000 per gli appalti di servizi sociali. Nei settori speciali, le soglie di rilevanza comunitaria sono di: euro 5.350.000 per gli appalti di lavori; di euro 428.000 per gli appalti di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione; e di euro 1.000.000 per i contratti di servizi, per i servizi sociali.
[5] Tale disposizione prevede che “fermo restando quanto previsto dagli articoli 37 e 38 e salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie” le stazioni appaltanti possono procedere all’affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35, secondo le seguenti modalità: “a) per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici o per i lavori in amministrazione diretta; b) per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all’articolo 35per le forniture e i servizi, mediante affidamento diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti, per i lavori, e, per i servizi e le forniture, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti. I lavori possono essere eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto salvo l’acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica comunque la procedura di cui al periodo precedente. L’avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati; c) per affidamenti di lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 350.000 euro, mediante la procedura negoziata di cui all’articolo 63 previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici. L’avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati; c-bis) per affidamenti di lavori di importo pari o superiore a 350.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, mediante la procedura negoziata di cui all’articolo 63 previa consultazione, ove esistenti, di almeno quindici operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici. L’avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati; d) per affidamenti di lavori di importo pari o superiore a 1.000.000 di euro e fino alle soglie di cui all’articolo 35, mediante ricorso alle procedure di cui all’articolo 60, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 97, comma 8”.
[6] Disposizione da raccordare con l’art. 32 c.c.p. (per come modificato dal decreto) secondo cui “Non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto”. Si veda infra.
[7] Tale previsione deve essere letta alla luce di quanto previsto dagli artt. 21 e 23 del decreto in materia di responsabilità erariale e di abuso d’ufficio. In particolare, L’art. 21 sulla “Responsabilità erariale” prevede che all’art.1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il primo periodo venga inserito il seguente: “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso.” Tale disposizione risulterebbe così modificata: “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l'insindacabilità' nel merito delle scelte discrezionali. La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso. In ogni caso è esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione nell'esercizio del controllo”. Inoltre, viene previsto, al secondo comma dell’art. 21, che per i fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, “La responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente.” Emerge dunque una normativa che, da un lato, riduce le ipotesi di responsabilità erariale commissiva e, dall’altro, tale limitazione di responsabilità non viene applicata all’omissione e all’inerzia dei decisori. Sulla stessa linea si pongono le modifiche previste (art. 23) per il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p. Viene previsto, infatti, che “all’articolo 323, primo comma, del codice penale, le parole “di norme di legge o di regolamento,” sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. La disposizione sarebbe quindi così modificata: “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. Per un’approfondita analisi della tematica e delle modifiche previste nel decreto, si rinvia al Webinar del 13 luglio 2020 “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, introdotto e coordinato da M.A. Sandulli e visionabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8&t=8s. ; e anche al contributo di V. Manes, Semplificare l’abuso d’ufficio. “Bene il governo, ma la discrezionalità è sempre dei Pm, ilfoglio.it, 15 luglio 2020.
[8] Si veda la nota n. 2.
[9] Le stazioni appaltanti possono decidere di istituire il Collegio consultivo anche per le opere diverse dalle suddette con tutti i compiti previsti dall’art. 6 o anche solo alcuni di essi (comma 4).
[10] Ai sensi dell’art. 6, comma 2, è previsto che “Il collegio consultivo tecnico è formato, a scelta della stazione appaltante, da tre componenti, o cinque in caso di motivata complessità dell’opera e di eterogeneità delle professionalità richieste, dotati di esperienza e qualificazione professionale adeguata alla tipologia dell’opera, tra ingegneri, architetti, giuristi ed economisti con comprovata esperienza nel settore degli appalti delle concessioni e degli investimenti pubblici, anche in relazione allo specifico oggetto del contratto e alla specifica conoscenza di metodi e strumenti elettronici quali quelli di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture (BIM), maturata per effetto del conseguimento di un dottorato di ricerca ovvero di una dimostrata pratica professionale per almeno cinque anni nel settore di riferimento”.
[11] In tale caso due componenti sono nominati dalla stazione appaltante e il terzo componente è nominato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per le opere di interesse nazionale, dalle regioni, dalle province autonome di Trento e Bolzano o dalle città metropolitane per le opere di interesse locale.
[12] Per un’analisi approfondita di tali modifiche, con riferimento alla bozza del decreto, si rinvia al contributo di M. Lipari, La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?, in lamministrativista.it, 3 luglio 2020. In generale sulle criticità della normativa “emergenziale” nel processo amministrativo v. ex multis: M.A. Sandulli, Cognita causa, rielaborazione della Relazione al webinar del 30 giugno/1 luglio 2020 su L'emergenza Covid e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro, in Questa rivista, 6 luglio 2020 e ivi gli ulteriori richiami (il webinar è visionabile ai seguenti link: https://www.youtube.com/watch?v=8fBPo-RfN8s&t=20s; https://www.youtube.com/watch?v=Jz6Tv-fGk6E). Sulla normativa emergenziale in tema di giustizia amministrativa e sul ruolo del giudice amministrativo si richiamano i seguenti webinar: Il processo amministrativo e il Covid-19 introdotto e coordinato da M.A. Sandulli e ascoltabile su https://www.youtube.com/watch?v=qv33zNnY6I8; il webinar organizzato dall’AIPDA su Poteri del giudice amministrativo e efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti, coordinato da C. Barbati e ascoltabile su https://www.youtube.com/watch?v=HZhPESkwTD8; il webinar Emergenza sanitaria, diritto e (in)certezza delle regole, introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, https://www.youtube.com/watch?v=o8vebWv7iKw.
[13] Da ciò risulta il nuovo testo dell’art. 32, comma 8, c.c.p.: “Divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario, purché comunque giustificata dall’interesse alla sollecita esecuzione del contratto. La mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente preposto. Non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto. Le stazioni appaltanti hanno facoltà di stipulare contratti di assicurazione della propria responsabilità civile derivante dalla conclusione del contratto e dalla prosecuzione o sospensione della sua esecuzione”.
[14] Sulla inadeguatezza di alcune delle scelte compiute in sede di riforma v. M. A. Sandulli, L'Adunanza Plenaria n. 12/2020 esclude i “ricorsi al buio” in materia di contratti pubblici, mentre il legislatore amplia le zone grigie della tutela, lamministrativista.it, 16 luglio 2020, ora anche in Questa rivista, ove è stato evidenziato il sistema che verrebbe a delinearsi dalla scelta di estendere la portata dell’art. 125 , ma anche da quella di prevedere un'ipotesi specifica di responsabilità erariale e disciplinare a carico dei funzionari che, anche in pendenza di contenziosi, non procedono tempestivamente alla stipula e all'avvio dell'esecuzione dei contratti o, se il ritardo è imputabile all'operatore economico, l'esclusione di dritto di quest'ultimo dalla procedura o la risoluzione del contratto per suo inadempimento. Da tali possibilità conseguirebbe, infatti, che “gli affidamenti contra legem per i quali il soggetto leso non sia riuscito a superare i riferiti ostacoli frapposti all'accoglimento dell'istanza cautelare producono indisturbati i loro effetti, con pregiudizio irreparabile dei concorrenti (soprattutto le PMI) illegittimamente esclusi o mal valutati e degli utenti (esposti anche a rischi di sicurezza) e, soprattutto, della legalità. Si tratta di danni seri e gravi, che si aggiungono a quello del rischio del risarcimento gravante sulla stazione appaltante e, di risulta, sulla collettività, che il decreto avrebbe cercato di attenuare riconoscendo la possibilità delle stazioni appaltanti di stipulare (evidentemente a caro prezzo) appositi contratti di assicurazione (!)”.
[15] Le modifiche realizzate sembrerebbero confermare i timori avanzati da S. Cogliani nella sua relazione nel Webinar “Emergenza sanitaria, diritti e (in)certezza delle regole” del 30 aprile 2020 (introdotto e coordinato da M.A. Sandulli e visionabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=o8vebWv7iKw&t=10s) ove poneva l’attenzione sulla possibilità che il periodo emergenziale venisse utilizzato come “cavallo di Troia” per inserire definitivamente norme speciali e accelerate all’interno del processo amministrativo. Sul rapporto tra normativa emergenziale e garanzia di una tutela effettiva v. ex multisanche F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell'amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Osservatorio emergenza covid-19, federalismi.it ove l’A. evidenzia che l’emergenza Covid 19 ha reso il processo amministrativo “oggetto di un attacco concentrico, arrecato ab externo, dalla tendenza a depotenziarne efficacia e incisività nei confronti dell’attività contra jus della pubblica amministrazione , e , per così dire , dall’interno, attraverso una strisciante ma costante riduzione delle garanzie tipiche di un processo giurisdizionale che tende a ricondurlo nei limiti originari di una procedura paragiurisdizionale”.
[16] Tale richiamo sarebbe del tutto inutile, in quanto il rito di cui all'art. 125 presuppone l'applicabilità degli articoli 119 e 120 e anche fuorviante, perché lascia supporre che le innovazioni sostanziali portate dal decreto in itinere potrebbero riferirsi a procedure di scelta del contraente non soggette al rito speciale. Così M. Lipari, op. cit.
[17] Sui limiti di tale scelta si rinvia ancora una volta al contributo di M. Lipari, op.cit.
[18] A fronte di quanto previamente previsto dallo stesso comma 6: “Il giudizio, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare ove ne ricorrano i presupposti, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”.
[19] Il comma 9 prevedeva che: “Il Tribunale amministrativo regionale deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro trenta giorni dall'udienza di discussione; le parti possono chiedere l'anticipata pubblicazione del dispositivo, che avviene entro due giorni dall'udienza”.
[20] Su queste tematiche e sulla deriva verso una prevalenza del processo breve sul processo giusto v. ex multis: M.A. Sandulli, Il tempo del processo come bene della vita, in federalismi.it, 1 ottobre 2014.
[21] A. Pajno, nel Webinar “Ripresa economica e riforma dei contratti pubblici: quali problemi per quali soluzioni?” del 4 maggio 2020, ha ricordato che la fase più lunga sarebbe quella della progettazione e che ulteriori ritardi procedurali sono dovuti ai diversi momenti di “traghettamento” da una fase all’altra.
[22] Si richiama anche la questione sottoposta dal TAR Puglia, Lecce, (ord. 2 marzo 2020, n.297) alla Corte costituzionale sempre in merito all’art. 120, comma 5, c.p.a. e alla disciplina della decorrenza in esso contenuta. Il TAR, infatti, ha proposto q.l.c. in merito all’art. 120, comma 5, c.p.a. nella parte in cui fa decorrere il termine di trenta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti dalla ricezione della comunicazione dell’aggiudicazione di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006, per contrasto con il diritto di difesa e il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost.
[23] Per un’analisi della pronuncia v. S. Tranquilli, L'Adunanza Plenaria sul dies a quo per impugnare l'aggiudicazione: il mancato coordinamento tra Codice e c.p.a. non deve pregiudicare il diritto di difesa, in lamministrativista.it, 3 luglio 2020.
[24] Dati e considerazioni ricavate dal Paper della Banca D’Italia “Questioni di Economia e finanza. Capitale e investimenti pubblici in Italia: effetti macroeconomici, misurazione e debolezze regolamentari”, 19 ottobre 2019 n. 520.
[25] Intesa in particolar modo quale concorrenza per il mercato.
[26] Di tale avviso anche G. Olivieri, Semplificazione e tutela della concorrenza: valori a confronto, relazione nel webinar Contratti pubblici e decreto semplificazione, presieduto e coordinato da G. Severini, 20 luglio 2020. Sulle recenti derive “patologiche” della tutela della concorrenza v. F. Cintioli, Per qualche gara in più, Rubettino, 2020.
[27] Con la precisazione, tuttavia, che la normativa in materia di contabilità dello stato (si fa riferimento al r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e al regolamento attuativo approvato con r.d. 23 maggio 1924, n. 824) era in gran parte finalizzata a garantire una corretta gestione del denaro pubblico, questo intervento riformatore sembra, invece, prospettare costi ulteriori (e forse non necessari) per l’amministrazione (si pensi ai contratti di assicurazione o ai costi che deriveranno dalla nomina del Collegio consultivo tecnico).
[28] Sull’originaria anima “contabilistica” dei contratti pubblici v. M. Clarich, Contratti pubblici e concorrenza, relazione per il 61 Convegno di Studi Amministrativi su “La nuova disciplina dei contratti pubblici fra esigenze di semplificazione, rilancio dell’economia e contrasto alla corruzione”, Varenna 17-19 settembre 2015, in astrid-online.it, 19, 2015. Su queste tematiche v. anche ex multis: S. Simone-L. Zanetti, Appalti pubblici e concorrenza, in (a cura di) L. Fiorentino, Lo Stato compratore. L’acquisto di beni e servizi nelle pubbliche amministrazioni, Bologna, 2007, 119 ss. Sugli interessi astrattamente tutelabili mediante il ricorso alle procedure di gare v. M. Cafagno, Lo Stato banditore. Gare e servizi locali, Milano, 2001, 120.
[29] Tale tendenza è stata riscontrata anche da A. Farì, L’uso strategico dei contratti pubblici, in (a cura di) M. Cafagno-F. Manganaro, L’intervento pubblico nell’economia, Firenze University Press, 2016, 441 ss.
[30] Per approfondimenti sia consentito rinviare a A. Coiante, Il futuro del Codice dei contratti pubblici al vaglio del Comitato di esperti per il rilancio dell’economia italiana nel periodo post emergenza, in lamministrativista.it, 10 giugno 2020.
[31] In particolare, veniva rilevato che gli interventi tesi alla accelerazione delle “grandi opere”, forzando in modo significativo passaggi o competenze, hanno spesso portato a significative reazioni in sede contenziosa. Allo stesso modo, norme speciali o emergenziali e commissariamenti non hanno mai condotto a risultati positivi concreti se non in casi condizionati da alti livelli di pressione sociale (i due esempi riportati sono stati quelli di Expo2015 e del Ponte di Genova).
[32] M. Lipari, op. cit.
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