ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dialogo mai interrotto con Gino Giugni
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Silvana Sciarra
Giustizia Insieme ospita l'intervista alla Professoressa Silvana Sciarra curata da Vincenzo Antonio Poso che, nel ripercorrere l'esperienza umana e professionale di Gigno Giugni, offre la fervida testimonianza di una giurista di alto profilo accademico oggi al servizio della Corte costituzionale, alla quale la Rivista rivolge i sensi della più viva gratitudine per la ricchezza delle riflessioni destinate naturalmente a valicare le tematiche lavoristiche anche per i tratti di umanità che esse contengono.
V.A. Poso Silvana Sciarra è nata a Trani il 24 luglio 1948, si è laureata nel 1971 con Gino Giugni, discutendo una tesi sui Consigli di Fabbrica, nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari, dove ha svolto, subito dopo la laurea, attività di ricerca e didattica. Nel commemorare il Suo Maestro nel 2009, in uno scritto intitolato “Gino Giugni Viaggiatore” ( in Sociologia del diritto, 2009, n. 3, p.199 e ss.) c’è il ricordo, vivente, di un << professore che scende da tanti treni per raggiungere l’Università di Bari: carico di documenti da distribuire, di quesiti da risolvere, di citazioni da verificare, di progetti da condividere. Ogni articolo da riguardare, ogni pagina da discutere porta inciso sulla prima pagina un nome, a volte una sola iniziale. C’era lavoro per tutti, c’era frenesia ed allegria nell’Istituto di diritto del lavoro di Bari. Per tutti noi presenti nelle stanze e nei lunghi corridoi dell’Istituto si aprivano piccoli spazi di felicità quando si riusciva a tener dietro a Gino e talvolta intercettare il suo ingegno creativo e dirompente>>. Era una persona davvero straordinaria.
S. Sciarra È così: Gino Giugni è stato per tutti noi allievi una persona straordinaria ed è rimasto nelle nostre esperienze accademiche un modello da seguire, una persona da ricordare nelle fasi importanti della nostra vita. Incalzanti i suoi richiami – mi sembra di ascoltare ancora la sua voce – ad asciugare la scrittura, accorciare le frasi, evitare i gerundi. Moderno il suo suggerimento di usare con moderazione le note a piè di pagina, per renderle funzionali al testo e non inutile manifestazione di sfoggio o di erudizione. Se ripenso agli anni della ‘scuola barese’ che ha visto tanti allievi, di età e provenienze diverse, attivi intorno a lui, mi accorgo che era assente fra noi la rivalità. Questo è un dato non secondario nel litigioso panorama dell’accademia italiana; una conquista di serenità e di collaborazione proficua. Un altro bel ricordo da preservare.
V.A. Poso Nella presentazione della raccolta di alcuni contributi di Gino Giugni, che Lei ha curato per un pubblico di lettori non specialistico (Gino Giugni, Idee per il lavoro, Roma-Bari, Laterza, 2020), Lei ha scritto: << Le “idee per il lavoro” che, più di altre, hanno caratterizzato l’opera di Gino Giugni, si intrecciano inevitabilmente con i tempi in cui sono state generate, si colorano delle passioni e delle tensioni che attraversano il dibattito pubblico, si calano dentro precise scelte di metodo, destinate ad affinarsi e a divenire funzionali alla realizzazione di progetti riformatori. Il fatto che esse possano essere fruibili nel dibattito contemporaneo dimostra la solidità delle basi teoriche su cui erano state costruite e l’accuratezza dell’analisi storica che le ha conformate>>. Una conclusione solo accennata. Quali sono le moderne idee per il lavoro di cui ha bisogno l’Italia per ripartire e crescere?
S.Sciarra Le idee per il lavoro che Giugni ci ha trasmesso possono sembrare legate a una fase perduta del dibattito pubblico. Non è così. Molte proposte sono sedimentate in una sorta di coscienza collettiva, preservata innanzi tutto dalla comunità scientifica dei giuslavoristi, che ciclicamente le ritrova e le corrobora. Penso, per esempio, alla concertazione intesa come ricerca permanente del consenso, che conduce a soluzioni condivise soprattutto quando si affrontano materie controverse, che spaccano trasversalmente le parti sociali da un lato, e gli operatori del diritto dall’altro. Penso anche alle intuizioni che Giugni ha avuto sulla riforma del collocamento pubblico e sull’avvio delle politiche attive del lavoro, sempre più legate a domande effettive e concrete di professionalità e di competenze. Penso, a questo riguardo, all’attenzione premonitrice da lui prestata allo studio delle mansioni, espressione di un patrimonio culturale identitario del singolo lavoratore. Si sente oggi molto forte l’ansia di crescere su percorsi professionali ben tracciati, spesso polivalenti e capaci di adattarsi a mutamenti rapidi del mercato del lavoro. Si parla non a caso di transizioni occupazionali. E ancora, penso all’impegno, che non dovrebbe attenuarsi, nel preservare spazi di democrazia nei luoghi di lavoro, con l’apertura alla partecipazione dei lavoratori attraverso varie istanze rappresentative. Il tema della tutela della salute, che incombe prepotentemente al tempo della pandemia, è un esempio eloquente di come la partecipazione condivisa sulle misure da adottare può condurre a forme più sicure di prevenzione. Giugni, non a caso, ha sempre valorizzato l’individuo dentro le istanze rappresentative, ne ha esaltato il discernimento e la consapevolezza, contro qualunque forma di supremazia delle organizzazioni rappresentative.
V.A. Poso Molti (da ultimo anche il suo allievo Pietro Curzio, Il metodo Giugni, in Lavoro Diritti Europa, n. 3/2019) parlano di “metodo Giugni”. In cosa consisteva e cosa ha rappresentato questo metodo, anche per i giovani studiosi che gli sono stati vicini e che da lui hanno imparato il “mestiere dell’intellettuale”?
S. Sciarra Il metodo che Giugni ha costruito e progressivamente affinato nel suo lungo percorso accademico è intriso di esperienze comparate e anche per questo è originale e innovativo. Oggi la comparazione appare a volte schematica e troppo condizionata da singoli fattori, piuttosto che da indagini coerenti. Inoltre, la frequentazione delle scienze sociali ed economiche, da un lato, l’attenzione per l’analisi storica, dall’altro, unite a una spiccata propensione per la ‘politica del diritto’ e dunque per l’interesse a incidere sulle scelte del legislatore, hanno reso Giugni un giurista pronto a sfidare il conformismo, che rappresentava un retaggio ingombrante del periodo corporativo. Quella sfida metodologica è servita a rafforzare i pilastri della democrazia nel nostro paese e a dare voce ai corpi intermedi. L’ascolto che imprese e sindacati hanno mostrato per il metodo giugniano è frutto del rispetto che esse hanno inteso rivolgere a un pensiero solido, proprio perché nutrito dalla realtà dei fatti e non da vuota teoria. Si deve aggiungere che il riformismo praticato da Giugni non è stato divisivo. Sia nelle più accanite dispute accademiche – basti ricordare quella con Giuseppe Pera dopo l’emanazione dello Statuto dei lavoratori e quella assai sarcastica con Guido Zangari sulla traduzione del libro di Kahn-Freund – sia sul piano politico, nell’affiancare il legislatore, c’era sempre una via d’uscita dialogante. Metodo e costruzione del consenso hanno marciato insieme. Pietro Curzio ha ragione nel ricordare che quel pensiero emergeva con forza nell’insegnamento universitario e nelle collaborazioni scientifiche; Giugni ci ha tenuti costantemente sul filo di nuovi traguardi, non competitivi, ma molto impegnativi.
V.A. Poso Per diversi anni è stata Direttore con Franco Liso della rivista Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, fondata da Gino Giugni. Cosa può dire di quell’esperienza?
S. Sciarra Grazie per aver citato ‘il Giornale’. Fra le mie esperienze di collaborazione con Gino Giugni quella che ha riguardato l’ideazione e poi la nascita della rivista, da lui così pervicacemente voluta, è stata la più esaltante. Ricordo le lunghe riunioni preparatorie presso lo studio di Roma, in Via Livenza, l’ansia di creare uno strumento comunicativo nuovo, l’attenzione costante nel creare una generazione di giuristi del lavoro aperta al confronto internazionale e finalmente affrancata da ogni formalismo. Il Giornale voleva essere per lui – e lo è stato, mi spingo a dire lo è ancora – un luogo di confronto reale fra idee diverse, di scambio interdisciplinare. Negli anni in cui le forze di Gino si affievolivano a causa del suo stato di salute, con Franco Liso e con il sostegno della redazione abbiamo provato a non disperdere quell’insegnamento. Dopo la mia elezione a giudice costituzionale ho avvertito l’esigenza – anche se la direzione scientifica di riviste accademiche non è incompatibile con la funzione esercitata – di lasciare quell’incarico, per non condizionare in alcun modo il dibattito critico dentro la redazione e non compromettere la mia serenità di giudizio. Resto convinta dell’opportunità di questa scelta, ma non posso negare che il Giornale – guidato con grande competenza da Luca Nogler e ora tristemente privato della co-direzione di Lauralba Bellardi – mi manca molto e avverto nostalgia del clima, a volte disordinato eppure così propositivo, che respiravo nelle riunioni di redazione: le battute scherzose, le lunghe disquisizioni sull’editing delle traduzioni, la ricerca rigorosa dei lettori anonimi cui assegnare i saggi pervenuti. E’ stato già ricordato da Giugni tante volte, ma voglio farlo anch’io: il Giornale ha aperto la strada in Italia alla doppia lettura anonima dei saggi, anch’essi resi anonimi, in tempi non sospetti. Anche questa non secondaria ‘modernizzazione’ si inserisce in un vero e proprio progetto culturale, guidato da scelte trasparenti e rivolto a rendere porosi gli ambienti accademici, perché solo così si esce da logiche restrittive di ‘scuole’ chiuse in se stesse.
V.A. Poso Lei è stata Harkness Fellow presso l’Università di Los Angeles (UCLA ), dove, molti anni dopo, è stata anche Fulbright Fellow, e presso la Harvard Law School. Nel corso degli anni ha insegnato, con vari ruoli, a Warvick, alla Columbia University di New York, a Cambridge, Stoccolma e Lund. In Italia, dopo l’esperienza barese, ha insegnato, dal 1978 al 1990, presso la Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie dell’Università di Siena. Dal 1994 al 2003 è stata Professore di Diritto del Lavoro e Diritto Sociale Europeo presso l'Istituto Universitario Europeo di Fiesole, dove ha diretto diversi progetti internazionali e curato varie pubblicazioni. Ha guidato il Dipartimento di Diritto tra il 1995 e il 1996 e il programma sugli studi di genere dal 2002 al 2003. Prima e dopo questo periodo ha insegnato le stesse materie nell’Università degli Studi di Firenze, dove è stata chiamata per trasferimento nel 1990 presso la Facoltà di Giurisprudenza. Ora è Professore Emerito dell’Università di Firenze. Fin dalla sua fondazione nel 2011 è membro dello European Law Institute (ELI) e ha ricevuto vari riconoscimenti come Dottore di Ricerca Honoris Causa e nel 2015, ad Amsterdam, è stata insignita del premio Hugo Sinzheimer, per la sua carriera accademica. Cosa può dirci di questo lungo percorso di studi e ricerca?
S. Sciarra Devo molto a Gino Giugni per avermi mostrato subito sentieri di ricerca che mi inducevano a uscire dall’ambiente accademico nazionale, per mettermi alla prova. Ricordo il suo incitamento nel fare domanda per la Harkness Fellowship, la sua generosa lettera di referenza, che indicava l’Università di Los Angeles come luogo di approdo negli Stati Uniti, presso l’Istituto diretto da Benjamin Aaron, suo interlocutore nel Comparative Labour Law Group. Poi il viaggio verso Roma per la prova di inglese e l’incontro con Cipriana Scelba, curatrice accorta degli scambi culturali presso l’ambasciata americana. Nella nave Queen Elisabeth II che, partendo dalla Francia e diretta a New York, ha accolto gli Harkness Fellows selezionati quell’anno (era il 1974!) ho incontrato uno studioso francese, non ricordo più di quale disciplina, che più volte mi ha chiesto come mai una donna proveniente dal Sud dell’Italia fosse su quella nave, vincitrice di quella borsa di studio. Non gli ho confessato l’ansia che mi pervadeva e per fortuna ho condiviso la cabina con una linguista inglese che praticava la trascendental meditation. Così mi sono messa anch’io con lei a meditare, imparando a respirare profondamente per scacciare i pregiudizi e guardare oltre l’oceano.
Le altre tappe che Lei così cortesemente cita sono state raggiunte in piena condivisione con il mio Maestro. Voglio ricordare l’incontro a Siena con Marcello De Cecco, che ha facilitato enormemente il mio ingresso in una facoltà arricchita dalla presenza di molti economisti suoi allievi. Marcello l’ho ritrovato, sia pur brevemente, a Fiesole e ho apprezzato ancora una volta il suo stile sarcastico e profondo, la sua cura dei dettagli. Mi fa piacere che lei abbia menzionato la Direzione del Law Department e poi del centro di Gender studies. In quest’ultima esperienza ho voluto affermare il punto di vista delle giuriste, proponendo una serie di seminari guidati da donne giudici provenienti da vari paesi. Ricordo ancora il dibattito appassionato nel seminario tenuto da Ninon Colneric, allora giudice a Lussemburgo, una giuslavorista tedesca che più volte aveva partecipato ai seminari di diritto del lavoro comparato di Pontignano. Ricordo anche la personalità mite, eppure così convincente, dell’allora presidente del Tribunale costituzionale tedesco Jutta Limbach. La mia idea della promozione di genere, in un ambiente accademico elitario quale l’IUE, si è sostanziata nel condividere con gli studenti le storie di donne indipendenti e appassionate nel loro lavoro, per affermare che non ci sono vette precluse e soprattutto che la scalata poggia sugli arpioni del merito. Questo messaggio deve essere ugualmente e contestualmente indirizzato agli uomini.
Essere ora Professore Emerito nell’Università di Firenze, che mi ha accolta in una fase per me così significativa della vita accademica, è motivo di grande orgoglio e di gratitudine per i miei colleghi e per gli organi accademici che mi hanno onorata della loro considerazione.
La stessa gratitudine provo per le Università straniere che mi hanno invitata come Visiting Professor. L’ingresso in un nuovo ambiente è sempre per me motivo di apprensione. Per fortuna mi aiuta la curiosità: riuscirò a inserirmi in un contesto sconosciuto, capirò le dinamiche interne, gli studenti mi seguiranno o sarò un’aliena planata su di loro? Alla fine – e anche in questo mi sento privilegiata – sono partita con dispiacere da luoghi che inizialmente mi incutevano timore. Ho lasciato con nostalgia nuovi e vecchi amici e ho segnato i nomi degli studenti che ho poi ritrovato altrove, vedendoli camminare con passo sicuro. Non è straordinaria la vita di un professore universitario che ha avuto la fortuna di guardare oltre la siepe del suo luogo di origine? Il merito è tutto di chi ha insegnato a saltare quella siepe.
V.A. Poso Il 6 novembre 2014 è stata eletta (prima donna) dal Parlamento in seduta comune, sostenuta da un vasto schieramento di forze politiche (630 voti su 748 votanti), Giudice della Corte Costituzionale e ha iniziato a svolgere il suo mandato l’11 novembre 2014, dopo il giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. In questi anni ha continuato a pubblicare, oltre che a partecipare a convegni, anche internazionali. Come si combinano fra di loro queste due anime?
S. Sciarra L’elezione a Giudice costituzionale resta nella memoria come uno snodo cruciale della mia vita, non solo professionale. È superato solo da due altri momenti indimenticabili: la nascita delle mie figlie, accompagnata dall’esaltazione impareggiabile della maternità e dalla gioia immensa che questa condizione fa provare. A volte mi scopro a pensare di non essere io seduta in quel collegio, mi scuoto da una incredulità, che poi mi riporta dentro una realtà condivisa di responsabilità e di impegno. Ho imparato molto dai miei colleghi e mi sforzo costantemente di misurare il mio metodo e la mia impronta disciplinare con personalità molto diverse, tutte prorompenti e per questo affascinanti. Ma c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e questo è davvero un impulso vitale da non disperdere.
La scrittura mi aiuta a non perdere di vista la mia vita precedente, che in realtà è sempre la mia vita attuale. Credo molto fermamente che quando si creano occasioni straordinarie non si deve smettere di frequentare quelle ordinarie, perché la concretezza di quello che siamo non deve mai essere perduta. La scrittura corrobora questo mio proposito, perché mi impone una disciplina, che finisce con l’entrare nelle vene per poi scorrere insieme alla linfa dei progetti da realizzare, dei nuovi orizzonti da scoprire.
Così sono riuscita, con grande ritardo, a onorare nel 2018 l’impegno preso tempo fa con Cambridge University Press – casa editrice che ho frequentato fin dagli anni dell’IUE, apprezzandone il rigore e la disponibilità – a riscrivere in inglese un libro già apparso con Laterza, ampliandolo e corredandolo di alcuni riferimenti alla giurisprudenza delle corti costituzionali europee negli anni dell’austerità. Il titolo intrigante ‘Solidarity and Conflict. European Social Law in crisis’ può lasciar intendere che sia in crisi il diritto sociale europeo. In realtà, la crisi economica e finanziaria mi ha indotta a ricercare sinergie fra le politiche europee già in atto, che si riverberano sul lavoro. Questo libro mi ha consentito di riprendere alcuni contatti accademici e di tornare ad apprezzare il gusto della discussione intorno a un tavolo, con colleghi più giovani che ora insegnano in altri paesi e coltivano con i loro studenti l’insegnamento del ‘Diritto sociale europeo’. Questa è una mia piccola ambizione, che porto avanti con discrezione, ma anche con convinzione: non dovrebbe essere marginalizzato il diritto sociale nella formazione dei giuristi europei. Esiste una storia delle politiche sociali europee che si è sedimentata in acquisizioni importanti e che ha corroborato alcuni principi generali del diritto europeo, trasformando in senso più avanzato gli ordinamenti nazionali. Questa affermazione è rilevante nei tempi della pandemia che attraversiamo: molte misure eccezionali e molti finanziamenti non possono che ruotare intorno alle politiche sociali e porre al centro il lavoro.
Quanto ai congressi internazionali, è stata per me una vera rivelazione scoprire che la Corte costituzionale partecipa a numerosi incontri di studio, in cui si realizza un proficuo scambio di buone pratiche e di esperienze con altre corti. L’immagine della ‘rete’ rende molto bene il clima di collaborazione che si instaura. Nel caso delle Corti costituzionali e supreme che operano nell’Unione europea vi è una più precisa finalità comune da perseguire, che va molto più in là del ‘dialogo’, per divenire ricerca di un linguaggio comune. Da qui l’attenzione che la Corte costituzionale sta dedicando – io stessa con alcuni colleghi seguo questi aspetti – alle traduzioni in lingua inglese delle sentenze che presentano profili europei e internazionali di rilievo.
V.A. Poso In occasione della celebrazione del 70° anniversario della Costituzione e nell’ambito del progetto “Il viaggio della Costituzione”, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Editore Laterza ha curato il progetto “Dialoghi sulla Costituzione”. Il 15 dicembre 2018 a Bari si è svolto un dialogo con Pietro Curzio sull’art. 4 della Costituzione sul diritto al lavoro. La “questione lavoro”, una delle tante questioni italiane irrisolte, è rappresentata dallo squilibrio tra imprese e lavoratori. Qual è l’oggetto di questo diritto? Su chi grava il relativo obbligo? Come può essere adempiuto?
S. Sciarra Sono felice che sia ricordato quell’incontro a Bari per due ragioni. Innanzitutto è stata brillante l’idea dell’Editore Laterza di segnare la tappa dei 70 anni della Costituzione con iniziative non paludate, rivolte ai giovani e alle scuole. Quell’esperienza si è incrociata per me con l’altra iniziativa, intrapresa dall’allora Presidente Paolo Grossi, di portare i giudici costituzionali nelle scuole, con esiti di grande soddisfazione per quanti di noi vi hanno partecipato. La seconda ragione di orgoglio per me è aver condiviso quell’incontro di riflessioni sull’art. 4 della Costituzione in un’aula della ‘mia’ Facoltà di Giurisprudenza di Bari, con Pietro Curzio, cui va tutta la mia ammirazione per il prestigioso incarico di Primo Presidente della Corte di Cassazione che ora ricopre. Senza aver coordinato i nostri interventi, ci siamo trovati a riallacciare i nodi della nostra formazione giugniana, che ci accomuna nell’intento di diffondere pensieri costruttivi sul lavoro. Dall’art. 4 della Costituzione si ricavano indicazioni non solo programmatiche; la valenza prescrittiva di quella norma è nella lettura congiunta con l’art. 35, che la Corte Costituzionale propone da lungo tempo. Da quell’impianto di promozione e tutela del lavoro non si può prescindere, soprattutto nel tempo difficile che attraversiamo, caratterizzato dalle incertezze causate dalla pandemia. Diritto al lavoro significa creare lavoro e stimolare, ora più che mai, politiche attive e non meramente assistenziali. Questo progetto deve tenere insieme imprese e sindacati e lo sforzo di adeguamento deve nascere da impulsi comuni. La strada maestra è individuare congiuntamente le carenze e le eccellenze del nostro mercato del lavoro, per renderlo meno asfittico e per modulare i diritti dei lavoratori, senza comprimere l’iniziativa imprenditoriale.
V.A. Poso I quasi nove anni trascorsi all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, sono stati, probabilmente, quelli più fecondi della Sua attività di ricerca e di insegnamento. È così? Quali sono state le tappe fondamentali di questa esperienza?
S. Sciarra In effetti, quelli trascorsi all’IUE sono stati anni molto speciali per me. Ho instaurato rapporti di collaborazione con colleghi, non solo nel Dipartimento di legge, ma anche di Storia, di Scienze politiche e di Economia. Ricordo di essermi spesso seduta nel folto numero di partecipanti che seguiva i seminari di diritto della concorrenza tenuti da Giuliano Amato, in quegli anni Presidente dell’Antitrust e visiting professor. Mi tornano in mente le suggestioni del corso interdisciplinare che ho insegnato con lo storico svedese Bo Stråth, mettendo insieme i nostri dottorandi. Circolavano idee propositive sull’Europa in quegli anni: mercato e diritti sociali; politiche monetarie e politiche dell’occupazione; armonizzazione e metodo aperto di coordinamento. Quello era lo spirito che animava la straordinaria esperienza di insegnamento con giovani studiosi provenienti da tanti diversi paesi europei ed extra europei. Con i frequentanti dei miei seminari si è creato un rapporto di scambio e di ricerca comune, che continua ancora ora. I successi nelle attività che ciascuno di loro ha prescelto sono motivo di grande orgoglio per me, così come lo è saperli attivi e programmaticamente impegnati nella difesa dei diritti sociali, nella diffusione di un diritto europeo specialistico, eppure così centrale nel dibattito pubblico nazionale e sovranazionale. Una tappa fondamentale è stata la ricerca comparata sui rinvii pregiudiziali in materia di lavoro (S. Sciarra (ed) Labour Law in the Courts. National Judges and the ECJ, Oxford 2001), che ha coinvolto colleghi (e amici) giuslavoristi provenienti da altri paesi europei e dottorandi dell’IUE. Oltre allo scambio intergenerazionale, quella ricerca ha creato nuove reti di comunicazione fra IUE e università nazionali, in una materia non sempre valorizzata in precedenti esperienze.
V.A. Poso Delle molteplici esperienze di insegnamento e ricerca svolte all’estero, quali sono quelle che hanno maggiormente segnato la Sua formazione?
S. Sciarra Non c’è dubbio che l’esperienza di insegnamento presso la Law School della Columbia University di New York è stata per me entusiasmante e mi ha consentito di creare nuove e assai solide amicizie. L’insegnamento era collegato alla Cattedra BNL, assegnata ogni anno a un giurista italiano. L’orgoglio nazionale non poteva essere sottaciuto e l’impegno, proprio per questo si faceva sentire in modo impellente, quasi a voler segnare un solco di continuità con gli italiani che avevano ricoperto quella cattedra in anni precedenti. C’era molto interesse per il diritto del lavoro e per la comparazione, oltre che per il diritto europeo. Ho condiviso un ciclo di seminari con Mark Barenberg e rinsaldato un’amicizia che risaliva a un interessante scambio avuto in anni risalenti con alcuni esponenti dei critical legal studies. Le sponsorizzazioni di insegnamenti all’estero, come è stato per le cattedre BNL, sono foriere di progetti comuni fra Università e di occasioni formative per giovani studiosi, incoraggiati nel sapere che ci può essere una circolazione di idee e che si può creare confronto fuori dall’Italia. Grandi sollecitazioni intellettuali mi sono venute dai colleghi svedesi, con cui ho, tra l’altro, condiviso il controverso dibattito europeo e internazionale suscitato dal caso Laval, deciso dalla Corte di Giustizia nel 2007, che tanto ha inciso sul ripensamento di alcune storiche categorie del diritto del lavoro. Infine non posso non citare il mio meraviglioso soggiorno a Cambridge, come Goodhart Professor in Legal Science. Sono dolcissimi i ricordi: i libri lasciati dai professori che mi avevano preceduta nel Goodhart Lodge in cui abitavo, il giardino che guardavo dal mio studio, le lunghe chiacchierate con Bob Hepple al Clare College, il seminario che ho tenuto con Simon Deakin, le molte sollecitazioni e la solidarietà femminile ricevute da Catherine Barnard, le colte conversazione in perfetto italiano con Alan Dashwood e gli incontri con Eleanor Spaventa. Sono davvero stata molto fortunata.
V.A. Poso Un giurista importante nella Sua formazione è stato Lord Wedderburn of Charlton (Bill per gli amici come Lei), rigoroso interprete del metodo della comparazione e grande studioso del diritto del lavoro e sociale inglese ed europeo, legato al Suo Maestro Gino Giugni da un forte sodalizio intellettuale e da una grande amicizia, scomparso agli inizi del 2012. Due Maestri insostituibili. L’ultimo scritto pubblicato sul Giornale di diritto del Lavoro e di relazioni Industriali ( 2007, n. 2, p. 371 ss. ) << Dopo Giugni e Kahn-Freund, quale strada per il diritto del lavoro comparato?>> ( in omaggio per gli 80 anni di Giugni) affronta i temi del diritto del lavoro nel contesto della globalizzazione e dell’esperienza europea. Quale è stato il Suo rapporto con lui e quanto è importante, ancora oggi, il suo insegnamento?
S. Sciarra Ci sono per ciascuno di noi persone care con cui si continua a dialogare anche dopo la loro scomparsa. Per me Bill è una di queste. Certe volte immagino quale potrebbe essere la sua reazione dopo un caso controverso della Corte di Giustizia – verso cui volgeva così spesso il suo pensiero critico – o verso una presa di posizione dei sindacati italiani, che seguiva da vicino e conosceva così bene, o ancora verso una nuova legge, di cui voleva conoscere i dettagli. Rivedo la sua mano che si riavvia il ciuffo di capelli lungo la fronte, in un gesto abituale per noi suoi ammiratori nei seminari di diritto del lavoro comparato a Pontignano negli anni Ottanta dello scorso secolo(!) e riappare la penna biro con tanti colori, utilizzata per segnare e sottolineare i suoi meticolosi appunti. Bill ha trasmesso a persone della mia generazione passione e senso critico, insieme all’ironia che, nelle menti curiose, si accompagna alla voglia di capire e di apprendere. Il suo metodo nella comparazione giuridica è stato rigoroso e analitico, proprio perché animato dall’intento di comprendere i movimenti sociali, spingendosi oltre il black letter law. La sua profonda conoscenza di altri sistemi ha, in alcuni passaggi, influenzato le scelte del legislatore e le strategie sindacali e ha poi lasciato in lui profonda amarezza per quella che avvertiva come una involuzione del diritto del lavoro inglese.
V.A. Poso Quale è stato il Suo rapporto con Giuseppe Pera, mio Maestro, un Maestro con tanti allievi, anche indiretti, ma senza una “scuola”?
S. Sciarra Quando Giugni mi ha presentata al Professor Pera per la prima volta mi sono sentita raggiunta da uno sguardo severo. Avevo già pubblicato i miei primi articoli, molto influenzati dalle ‘scoperte’ che avevo fatto partecipando con altri alla ricerca sulle ‘prassi aziendali’, diretta da Giugni nell’ambito del progetto CNR sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro. Mi ha suggerito di darmi da fare e scrivere un saggio sulla prescrizione o su qualche altro tema molto tecnico. Un modo elegante per dire che non avevo imboccato la strada giusta. Dunque, lo evitavo nei convegni, intimorita; ma il suo sorriso prorompente e la sua voce inconfondibile, che sembrava sgorgasse dal suo papillon come un segnale combinato di suono e di immagine, hanno prevalso sullo sguardo severo. Ho compreso l’umanità e la simpatia, che trapelavano dai racconti di Alessandro Pizzorusso, suo compagno di passeggiate in montagna. E ora mi torna alla mente con grande emozione una visita a casa sua, programmata in modo un po’ formale per portargli qualche mio scritto, e trasformata in un trionfo di ospitalità sua e di sua moglie. Finalmente avevo conosciuto, nel magico luogo annotato nei suoi libri, San Lorenzo a Vaccoli, l’Autore delle ‘Noterelle’ e il Maestro della ‘scuola pisana’.
V.A. Poso Grazie per questo ricordo del mio Maestro; le Sue parole lo rappresentano per come era, anche nei rapporti con i suoi allievi. Tanto diversi nella formazione e nel carattere, Giugni e Pera sono stati grandi amici, sin da quando, nella primavera del 1953, insieme a Federico Mancini, si sono conosciuti nel convegno fiorentino sul progetto di legge Rubinacci promosso da Giuliano Mazzoni. Una amicizia fortificata dalle successive esperienze nelle quali Giugni ha sempre coinvolto Pera: la formazione politico-amministrativa presso un Centro di Via del Corso a Roma ( frequentato da illustri studiosi come Jemolo, Mortati, Giannini, Guarino, ma anche da giovani promettenti studiosi come Elia, Ungari, Napoleoni); l’inchiesta del 1955 sulla riforma agraria promossa dall’Unesco e commissionata a Manlio Rossi-Doria che porterà Pera e Giugni a Gravina di Puglia, per fare interviste sul campo; la frequentazione sin dal 1965, anno della sua costituzione, dell’Associazione Il Mulino di Bologna. Esperienze che denotano la grande versatilità di Giugni e la sua attenzione, non comune in quei tempi, per la sociologia, la politica e l’economia, che ci sono state sempre raccontate con affetto e riconoscenza (anche per i primi, piccoli, guadagni). << Gino Giugni è il più bravo di tutti noi >>;<
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La ragionevole prudenza della Corte Edu: tra prevedibilità e accessibilità del precetto.
Considerazioni a caldo sul parere della Corte (CEDH 150) del 29.05.2020
di Stefano Giordano
Con parere espresso il 29 maggio 2020, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha esercitato il suo potere consultivo fornendo risposta ad alcuni dei quesiti posti dalla Corte Costituzionale armena. Gli altri, come si vedrà, non sono stati considerati direttamente connessi rispetto all’oggetto della decisione di competenza dei giudici armeni e, pertanto, non sono stati presi in considerazione dalla Corte in quanto estranei allo scopo del parere consultivo.
Si tratta di una prerogativa della Corte di recente introduzione, esercitata per la prima volta in materia penale in questa occasione, introdotta con l’approvazione del Protocollo n° 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che – come sancito all’art. 1 del Protocollo stesso – conferisce alle più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente la facoltà di presentare alla Corte “richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli.”[1]
La ratio di questo nuovo strumento è quella di prevenire possibili conflitti in ordine all’interpretazione dei princìpi sanciti nella Convenzione e costantemente interpretati e applicati dalla Corte di Strasburgo, in modo tale da scongiurare (o comunque contenere) il numero delle pendenze davanti la Corte stessa e, al contempo, favorire l’uniforme interpretazione del diritto convenzionale.
Sommario: - 1. Il contesto storico del caso e la procedura interna - 2. La richiesta di parere e le questioni poste alla Corte - 3. Prevedibilità e accessibilità come requisiti di qualsiasi base legale - 4. La legge penale in senso convenzionale e il principio di legalità - 4.1. Il principio di tassatività e sufficiente determinatezza - 4.2. Il principio di irretroattività e il principio di retroattività della lex mitior - 5. Il parere della Corte - 6. Considerazioni conclusive.
1. Il contesto storico del caso e la procedura interna
Nel luglio del 2018, Robert Kocharyan, il quale era stato dal febbraio 1998 all’aprile del 2008 Presidente delle Repubblica armena, veniva incriminato – insieme ad altri – del reato previsto dall’art. 300.1 § 1 del codice penale armeno: overthrowing the constitutional order (rovesciamento dell’ordine costituzionale)[2].
Le accuse mosse nei suoi confronti facevano riferimento ad eventi che si erano verificati all’inizio del 2008, quando, alla scadenza del suo secondo mandato, si svolsero nuove elezioni. Non essendo Kocharyan rieleggibile per un terzo mandato, le elezioni del 2008 furono comunque vinte dal suo alleato, Serzh Sargsyan, permettendo così di garantire continuità alla linea politica portata avanti dall’ex presidente. Tuttavia, l’opposizione denunciò irregolarità nelle procedure elettorali, chiedendone l’annullamento e dando vita a numerose manifestazioni e proteste pubbliche, alle quali presero parte migliaia di persone. Durante la repressione delle stesse da parte delle forze armate, tra il 1° e 2 di marzo del 2008, nel corso della quale furono arrestate centinaia di persone (tra cui vari membri dell’opposizione[3]), purtroppo rimasero uccise dieci persone (8 civili e 2 militari) e, in conseguenza di ciò, Kocharyan dichiarò uno stato di emergenza della durata di venti giorni, durante i quali venne limitato l’esercizio di una serie di diritti.
Nel maggio del 2019, dunque, il Tribunale di primo grado di Erevan, l’organo giurisdizionale competente a giudicare Kocharyan, decideva di sospendere il procedimento, rimettendo alla Corte costituzionale armena la questione circa la costituzionalità dell’art. 300 § 1 del codice penale del 2009.
Nello specifico, il Tribunale di Erevan domandava se questa disposizione soddisfacesse il requisito della certezza del diritto, alla luce del principio di non retroattività del diritto penale, e se fosse peggiorativa della situazione giuridica dell'interessato rispetto all'articolo 300 (usurpazione del potere) del codice penale in vigore al momento dei fatti asseritamente commessi.
Kocharyan invocava l’intervento della Corte costituzionale due volte, chiedendo di pronunciarsi su questioni simili. Sottolineava, inoltre, l’esistenza di differenze sostanziali tra le due disposizioni in questione.
2. La richiesta di parere e le questioni poste alla Corte
La richiesta di parere consultivo veniva presentata il 2 settembre 2019 dalla Corte costituzionale armena e accettata il 2 ottobre 2019 dal Collegio della Grande Camera. Il 7 ottobre veniva, dunque, istituita una Grande Camera ai sensi dell’articolo 24, (paragrafo 2, lettera h), del regolamento della Corte[4].
La Corte riceveva osservazioni scritte dall’Assemblea nazionale armena, dal sig. Kocharyan, dal governo armeno, dall’associazione “Helsinki Association for Human Rights” e dal sig. Yegoryan, a nome dei familiari delle vittime degli eventi dell’1 e 2 marzo 2008.
Il parere veniva così reso dalla Grande Camera di 17 giudici, composta secondo le regole (sopra richiamate) previste dall’art. 24 del regolamento della Corte.
Le questioni sollevate dalla Corte costituzionale armena erano essenzialmente le seguenti:
a) le nozioni di «diritto» (Droit, Law) ai sensi dell’art. 7 della Convenzione[5] e quella di «legge» che appare in altri articoli della Convenzione, ad esempio negli articoli da 8 a 11, richiedono le medesime condizioni qualitative (precisione, accessibilità, prevedibilità e stabilità)?[6]
b) in caso contrario, quali sono le regole che permettono di effettuare una differenziazione?
una legge penale che, nel definire una fattispecie di reato, fa riferimento ad alcune disposizioni di una norma giuridica avente valore supremo e un livello di astrazione superiore, soddisfa le condizioni di precisione, accessibilità, prevedibilità e stabilità?
c) alla luce del principio di irretroattività della legge penale (art. 7 § 1 della Convenzione), quali sono i criteri da applicare quando si confronta la legge penale in vigore al momento della commissione del reato rispetto a quella successiva modificata, al fine di individuare le somiglianze o differenze fondamentali?
3. Prevedibilità e accessibilità come requisiti di qualsiasi base legale
Prima di passare in rassegna le risposte fornite dalla Corte ai quesiti sopra riportati, è opportuno fare un passo indietro e soffermarsi proprio sull’art. 7 della Convenzione e sui princìpi in esso sanciti.
La nozione di “diritto” (law) utilizzata nell’art. 7 corrisponde a quella di “legge” che compare in altri articoli della Convenzione; essa comprende sia il diritto di origine legislativa che quello di origine giurisprudenziale: entrambi devono possedere i requisiti della accessibilità e della prevedibilità (Kokkinakis c. Grecia §§ 40-41, Cantoni c. Francia § 29, Coëme e altri c. Belgio § 145, E.K. c. Turchia § 51). L’accessibilità (intesa come conoscibilità) e la prevedibilità del comando legale e delle conseguenze normative costituiscono il fuoco della tutela apprestata dall’art. 7 e sono oggetto di costante declinazione da parte della Corte di Strasburgo con riferimento non solo alla disposizione legislativa che prevede il precetto e la sanzione, ma anche alla giurisprudenza nazionale che ne precisa il significato all’atto della sua concreta applicazione, attraverso la formazione di precedenti che orientano il comportamento della giurisprudenza successiva, e sulla base dei quali il destinatario della norma è tenuto a orientare il proprio comportamento[7].
Evidentemente, pertanto, la nozione convenzionale di “base legale” non si sovrappone (alla) – né può confondersi con la – garanzia della riserva di legge prevista in materia penale dalla Costituzione italiana. L’art. 7 della Convenzione non vieta la graduale chiarificazione delle norme in materia di responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC] § 50). L’esistenza di una base legale è strettamente funzionale alla garanzia della prevedibilità, la cui portata dipende in larga misura dal contenuto del testo normativo in questione, dall’àmbito che esso ricopre e dalla qualità dei suoi destinatari. Il requisito della prevedibilità di una legge non conduce a escludere che la persona interessata possa ricorrere alla consulenza di esperti per valutare le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (Achour c. Francia § 54). Concetto, quest’ultimo, che – come vedremo più avanti – verrà ribadito dalla Corte nel parere rilasciato.
4. La legge penale in senso convenzionale e il principio di legalità
La Convenzione, nel modellare la definizione di principio di legalità ai suoi scopi, non può infatti ignorare che fra gli Stati parte soltanto alcuni adottano il modello continentale di “legge”; altri, invece, sono vincolati da una nozione di diritto in senso giurisprudenziale, secondo modelli di common law. Emerge, dunque, una nozione ibrida, anfibia, materiale di precetto penalistico, comprensivo di tutte le norme di comportamento che siano prefigurate in modo da fungere da possibile schema di orientamento per i singoli. Tali norme, da una lato, devono essere certe, chiare, tassative e sufficientemente determinate; dall’altro, devono essere previste in maniera preventiva e devono preesistere alle condotte che tali regole disciplinano.
Il giurista continentale (e probabilmente anche quello anglosassone) storcerà presumibilmente il naso di fronte a un simile Giano bifronte, che cerca di compendiare la certezza della tassatività penalistica di stampo continentale con la fluidità del diritto pretorio basato sul case law; purtuttavia, di fronte all’esigenza, sottesa al diritto convenzionale, di assicurare la positivizzazione di una sorta di minimo comune denominatore di legalità, in grado di non essere estraneo a nessuno dei due – in sé diversi – modelli giuridici succitati, è difficile negare che il sistema eletto è quello senz’altro preferibile.
Un sistema che introduce una riserva di legge senza la necessità della... legge, un principio di legalità in cui si deroga alla riserva di legge per permettere che le altre declinazioni dello stesso principio (la tassatività, la sufficiente determinatezza del precetto penale, l’irretroattività, il divieto di analogia) possano avere diritto di cittadinanza in modelli giuridici di tipo pretorio[8].
La Corte Europea ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale e alla condanna, esistesse una disposizione “legale” – cioè un precetto normativo, di matrice legislativa o giurisprudenziale, che rendesse l’atto punibile – e che la pena imposta non abbia superato i limiti fissati da tale disposizione (Coëme e altri c. Belgio § 14, Achour c. Francia § 43).
4.1. Il principio di tassatività e sufficiente determinatezza
Quanto all’altro aspetto del principio di legalità, quello della determinatezza della fattispecie penale, nel linguaggio della Convenzione quest’ultimo si iscrive in pieno nel principio di legalità e nella garanzia della prevedibilità cui si è fatto cenno.
La legge deve definire chiaramente i reati e le pene; e questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può sapere – a partire dal testo della disposizione pertinente e, se necessario, con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali – quali atti e omissioni implichino la sua responsabilità penale (Kokkinakis c. Grecia § 52, Achour c. Francia § 41, Sud Fondi e altri c. Italia § 107).
La Corte Europea ammette che, anche a causa del carattere generale delle leggi, il testo di queste ultime possa non presentare una precisione assoluta. Una delle tecniche-tipo di regolamentazione consiste nel ricorrere a categorie generali piuttosto che a liste esaustive. Molte leggi, come si è visto, si servono anche di formule più o meno vaghe, la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla attività giudiziaria (Cantoni c. Francia § 31, Kokkinakis c. Grecia § 40).
Pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognerà, pertanto, sempre chiarire i punti oscuri e adattarsi ai cambiamenti di situazione. Inoltre, la certezza, benché fortemente auspicabile, è spesso accompagnata da un’eccessiva rigidità; il diritto deve invece sapersi adattare ai casi mutevoli della vita e quindi la tassatività può anche tollerare il ricorso a elementi normativi o vaghi, che, come tali, saranno oggetto della doverosa interpretazione del giudice.[9]
La funzione decisionale affidata alle giurisdizioni serve precisamente a dissipare i dubbi che potrebbero sussistere per quanto riguarda l’interpretazione delle norme (Kafkaris c. Cipro § 141). Del resto, è patrimonio consolidato della giurisprudenza della Corte che il formante giurisprudenziale contribuisca necessariamente alla progressiva evoluzione del diritto penale (Kruslin c. Francia § 29).
4.2. Il principio di irretroattività e il principio di retroattività della lex mitior
Strettamente connesso al requisito della prevedibilità è il divieto previsto dall’art. 7 di punire un soggetto sulla base di una norma penale entrata in vigore dopo il fatto commesso (Sud Fondi e altri c. Italia § 110). Il principio di irretroattività impone altresì di non interpretare la legge penale in maniera estensiva a svantaggio dell’imputato e di non ricorrere al canone interpretativo dell’analogia (Coëme e altri c. Belgio § 145).
La giurisprudenza europea ha chiarito che la garanzia in questione non si applica ai mutamenti della legislazione penitenziaria (Kafkaris c. Cipro [GC] § 151). Con riguardo alla portata dell’art. 7, di recente si è assistito a un significativo overruling della giurisprudenza nella nota sentenza pilota Scoppola c. Italia.
Sin dal 1978 la Commissione europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto che, a differenza dell’art. 15, par. 1, del Patto delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, l’art. 7 Convenzione non sancisse il diritto di beneficiare dell’applicazione di una pena meno severa prevista da una legge posteriore al reato (X c. Germania (dec.)). E, in effetti, l’art. 7 non fa espressamente menzione dell’obbligo, per gli Stati contraenti, di garantire all’imputato il beneficio di un cambiamento legislativo più favorevole intervenuto dopo la commissione del reato: pertanto, sulla base di un argomento testuale la Commissione aveva rigettato il motivo di ricorso. L’orientamento sopra ricordato è stato fatto proprio dalla Corte Europea (Le Petit c. Regno Unito (dec.) 2000, Zaprianov c. Bulgaria (dec.) 2003).
Tuttavia, nel 2009, nel caso Scoppola c. Italia (n. 2), il giudice di Strasburgo ha constatato un’evoluzione in materia negli ordinamenti degli Stati contraenti in generale, sottolineando la fondamentale importanza di interpretare e applicare la Convenzione in modo da renderne le garanzie concrete e effettive, non meramente teoriche ed illusorie. L’approccio dinamico ed evolutivo sposato dalla Corte ai fini dell’interpretazione della Convenzione è promosso allo scopo di non ostacolare ogni riforma o miglioramento del livello di tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione (Stafford c. Regno Unito § 68, Goodwin c. Regno Unito [GC] § 74).
Dal 1978 al momento della decisione in discussione, dunque, si sono registrati importanti sviluppi sul piano internazionale: l’entrata in vigore della Convenzione americana dei diritti dell’uomo, il cui art. 9 sancisce il principio della applicazione delle legge penale più favorevole; la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui art. 49, § 1, precisa che «se, posteriormente a tale reato, la legge prevede una pena più lieve, quest’ultima dovrà essere applicata». La Corte Europea tiene conto anche di alcuni significativi sviluppi giurisprudenziali, ricordando come, nella causa Berlusconi e altri, la Corte di giustizia della Comunità europea abbia ritenuto che questo principio faccia parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
La Corte ricorda, infine, che l’applicabilità della legge penale meno severa è stata iscritta nello statuto della Corte Penale Internazionale e affermata nella giurisprudenza del Tribunale Penale Internazionale per la ex Yugoslavia. Il giudice di Strasburgo, sulla base del consensus formatosi a livello europeo e internazionale, si spinge sino ad affermare che l’applicazione della legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla perpetrazione del reato, può ormai considerarsi un principio fondamentale del diritto penale. Secondo la Corte Europea, è coerente con il principio della preminenza del diritto, di cui l’art. 7 costituisce un elemento essenziale, aspettarsi che il giudice di merito applichi a ogni atto punibile la pena che il legislatore ritiene proporzionata. Infliggere una pena più severa solo perché essa era prevista al momento della perpetrazione del reato si tradurrebbe in una applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo. Ciò equivarrebbe inoltre a ignorare i cambiamenti legislativi favorevoli all’imputato intervenuti prima della sentenza e continuare a infliggere pene che lo Stato e la collettività che esso rappresenta considerano ormai eccessive.
La Corte osserva, infine, che l’obbligo di applicare, tra molte leggi penali, quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato si traduce in una chiarificazione delle norme in materia di successione delle leggi penali, il che soddisfa un altro elemento fondamentale dell’art. 7, ossia quello della prevedibilità delle sanzioni.
Pertanto, oggi l’art. 7, § 1, della Convenzione deve interpretarsi nel senso che esso sancisce espressamente il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa. Questo principio si traduce nella norma secondo cui, quando la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori (adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva) sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato.
In conclusione, i princìpi di accessibilità e prevedibilità così come declinati dalla Corte, hanno una portata applicativa generale, riguardante ogni base legale, mentre gli ulteriori princìpi sopra enunciati trovano applicazione nell’àmbito esclusivo della matière pénal; concetto che, al di là della nomenclatura formale utilizzata negli Stati membri, riguarda tutte le norme giuridiche caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e/o da una dimensione intrinsecamente afflittiva. Così facendo, si permette di ampliare il campo di applicazione ed i margini di operatività delle garanzie riconnesse a tale nozione e, al contempo, di smascherare parecchie ipotesi di c.d. “frode delle etichette”[10]. In questo senso, infatti, è noto che l’approccio della Corte Europea, ai fini definitori della nozione di materia penale[11], sia di natura prettamente sostanzialistica e si contrapponga alla prospettiva dell’ordinamento giuridico penale italiano, rigidamente declinato sul concetto formale di reato e sul principio nominalistico accolto dal codice penale (v. artt. 17, 39 c.p.).
Ai fini dell’individuazione delle norme (effettivamente) penali, la Corte ha fatto quindi leva su autonomi criteri (e sottocriteri) di regola considerati alternativi e non cumulativi, ma spesso apprezzati in maniera congiunta e complessiva. Tali criteri, denominati nella prassi criteri Engel (per effetto, appunto, della più nota delle decisioni in cui essi sono stati elaborati[12]) vengono fondamentalmente distinti in un triplice ordine:
1) la qualificazione della infrazione nel diritto interno (che però ha un valore formale e relativo, a detta della Corte);
2) la natura dell’infrazione o dell’illecito (che fa leva sul carattere e la struttura della norma trasgredita in termini di generalità del precetto e dei destinatari, nonché sulla significatività della trasgressione, anche alla luce di un confronto comparatistico);
3) la natura e la gravità della sanzione, dove l’elemento della gravità incentra l’analisi principalmente su principi contenutistici (per esempio la natura custodiale o meno della sanzione), mentre per natura si intende un concetto imperniato sulla pertinenzialità rispetto ad un fatto di reato, sia alla luce dello scopo (repressivo in caso penale) della sanzione stessa, sia alla luce delle procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione.
5. Il parere della Corte
Tornando all’analisi del parere espresso dalla Corte a fronte dei quesiti posti dalla Corte costituzionale armena, è d’obbligo sottolineare come sia la Corte stessa a rammentare che i pareri che questa è chiamata a esprimere devono essere limitati ai punti che hanno un legame diretto con il contenzioso pendente in corso a livello interno[13].
Inoltre, come avvenuto nel primo parere consultivo reso[14], la Corte esercita la sua facoltà di riformulare i quesiti posti e di riunirli, così come di non rispondere a quelli che non soddisfano i criteri stabiliti nel Protocollo n°16.
Lo scopo del parere consultivo reso dalla Corte, nel caso specifico, è quello di consentire alla Corte costituzionale armena di decidere la questione di costituzionalità dell’art. 300 § 1 del codice penale del 2009, alla luce dei parametri posti dall’art. 7 della Convenzione. Specificando che, tuttavia, spetterà poi al Tribunale di Erevan il compito di applicare al caso concreto la risposta che verrà data dalla Corte costituzionale.
Per quanto concerne la prima e la seconda questione (a e b, ut supra), la Corte non ravvisa alcun legame diretto tra le domande e il procedimento contro il sig. Kocharyan; ritiene del tutto improprio e inconferente – rispetto al caso di specie – il riferimento agli articoli da 8 a 11 della Convenzione, così come non comprende quali questioni, legate a tale contesto di discussione, la Corte Costituzionale intendesse decidere con l’aiuto del parere della Corte.
In questo senso, la Corte puntualizza come qualsiasi risposta alla prima e alla seconda questione sarebbe di natura puramente teorica e generale e, dunque, del tutto sganciata dalla ratio e finalità del parere consultivo. Pertanto, la Corte ritiene di non rispondere al primo e al secondo quesito, in quanto ritenuti non conformi ai presupposti stabiliti dall’art. 1 del Protocollo n° 16[15], né riformulabili in maniera tale da consentire alla Corte stessa di esercitare la sua funzione consultiva in maniera effettiva e conforme al suo scopo.
La terza questione (c) fa riferimento al fatto che il sig. Kocharyan è stato accusato di un reato definito attraverso la tecnica della blanket reference o legislation by reference (quella che, nell’ordinamento giuridico italiano, è conosciuta come «legge penale in bianco»).
Nel nostro ordinamento giuridico, assai discussa è stata la compatibilità delle norme penali in bianco con il principio della riserva di legge in materia penale, sancito all’art. 25 della Costituzione. Il ricorso a tale tecnica normativa, pacificamente accolto nel nostro ordinamento nell’ipotesi di rinvio ad altre norme di legge, secondo dottrina minoritaria è stato ritenuto in contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale nel caso in cui il precetto venisse integrato da un provvedimento amministrativo (cfr., ad esempio, l’art. 650 c.p.)[16]; mentre nella maggior parte dei casi è stata ritenuta compatibile con la riserva di legge, sebbene sulla base di teorie differenti. Un primo indirizzo sostiene che la riserva di legge non sarebbe violata, purché il provvedimento amministrativo richiamato trovi il suo fondamento in una legge[17]. Un secondo indirizzo, rifacendosi alla teoria della disobbedienza come tale, fondata sull’assunto che i precetti penali non pongono regole concrete di condotta, ritiene che l’art. 650 c.p. enunci un generico dovere di obbedienza ai provvedimenti legalmente dati dall’Autorità, sicché il provvedimento amministrativo inosservato non integrerebbe il precetto penale della contravvenzione in esame, non violando così il principio di riserva di legge[18]. Infine, un ultimo indirizzo considera compatibile l’art. 650 c.p. con il predetto principio, a condizione che i provvedimenti amministrativi, richiamati dalla legge penale, siano individuali e concreti, in quanto solo in questo caso il provvedimento non integrerebbe la norma penale, facendo salva la riserva di legge[19].
Nel caso in disamina, invero, non si pone alcun problema di compatibilità rispetto al principio della riserva di legge, essendo le norme richiamate addirittura di rango costituzionale. Tutt’al più si porrà la questione circa la compatibilità con il principio di prevedibilità e accessibilità di cui all’art. 7 della Convenzione.
Nello specifico, l’art. 300 § 1 fa rinvio – nella sua determinazione precettiva – agli artt. da 1 a 5 e 6 § 1 della Costituzione Armena.
Secondo la Corte costituzionale armena, le norme costituzionali a cui rinvia l’art. 300 del codice penale hanno forza superiore nella gerarchia delle fonti normative e, al contempo, sono formulate con un maggiore livello di astrattezza rispetto al Codice Penale.
Sostanzialmente, è proprio la Corte Costituzionale a domandarsi se tale situazione sia compatibile con l’art. 7 della Convenzione, ed in particolare con i requisiti di chiarezza e prevedibilità, che ne costituiscono i corollari.
La Corte, sul punto, si esprime nel senso che il ricorso alla tecnica della legislation by reference nel diritto penale non è di per sé incompatibile con l’articolo 7.
Del resto, come sottolinea la stessa Corte nel parere, questa tecnica normativa risulta ampiamente utilizzata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa per definire quei reati che, nel nostro codice penale (al Titolo I, Libro Secondo) vengono rubricati come delitti contro la personalità dello stato (criminal offences against the constitutional order).
Secondo la Corte, le due previsioni normative – la norma incriminatrice e quella a cui essa fa rinvio – lette congiuntamente, devono consentire al cittadino, anche eventualmente attraverso il ricorso a una consulenza legale, di determinare quale comportamento può avere rilevanza penale. Principio, questo, che deve operare anche nel caso in cui la norma a cui si rinvia sia di rango gerarchico superiore.
In questo senso, precisa la Corte, il modo più efficace per garantire il rispetto degli standard convenzionali di chiarezza e prevedibilità in questo o in casi analoghi, è far sì che il rinvio sia esplicito e che la norma incriminatrice (di rinvio) definisca gli elementi costitutivi del reato e, al contempo, che la fonte secondaria non finisca per ampliare la portata dell’incriminazione originariamente prevista.
Sarà compito del Giudice nazionale, in forza del principio di sussidiarietà che regola l’intero apparato convenzionale, applicare tali principi al caso concreto e valutare se la rilevanza penale delle condotte sia sufficientemente chiara e prevedibile.
Per quanto riguarda l’ultimo quesito (d) posto alla Corte, è bene tener presente come il sig. Kocharyan sia stato accusato sulla base di una disposizione del Codice Penale entrata in vigore dopo gli eventi in questione, quando invece era vigente una sua precedente formulazione.
La Corte Costituzionale, ritenendo che le due norme presentassero differenze significative in relazione alla definizione del reato di “rovesciamento dell’ordine costituzionale”, ha chiesto alla Corte quali criteri dell’art. 7 utilizzare per comparare la norma in vigore al presunto tempus commissi delicti e quella successivamente modificata.
La Corte ha osservato – attraverso un raffronto comparatistico – che molti Stati membri utilizzano, ai fini dell’esame del principio di irretroattività della legge penale, il principio di concretisation (valutazione in concreto), che consiste nel tenere conto delle circostanze particolari del caso concreto al fine di valutare se la legge introdotta dopo la commissione del reato sia più o meno favorevole rispetto a quella in vigore al momento del fatto.
Tale principio, peraltro, si riflette fortemente sulla giurisprudenza della Corte, la quale è granitica nel ribadire che l’art. 7 della Convenzione vieta assolutamente l’applicazione retroattiva della legge penale meno favorevole per l’indagato/imputato, mentre – al contempo – permette (anzi, favorisce) l’applicazione retroattiva della lex mitior.[20]
Pertanto, la Corte ha ritenuto che alla domanda se l’applicazione dell’art. 300 § 1 del Codice Penale del 2009 nel caso del sig. Kocharyan violasse il principio di irretroattività previsto all’art. 7 della Convenzione, non possa darsi una risposta in abstracto.
Al contrario, l’articolo 7 richiede sempre una valutazione in concreto, sulla base delle specifiche circostanze del caso.
Sarà compito delle corti nazionali, di volta in volta, valutare le conseguenze giuridiche derivanti dall’applicazione dell’una e dell’altra norma incriminatrice, alla luce delle azioni o omissioni contestate all’accusato e di tutte le circostanze particolari del caso concreto.
In particolare, i tribunali nazionali dovranno stabilire se tutti gli elementi costitutivi del reato e le altre condizioni per l’incriminazione – come stabiliti dal codice penale in vigore al momento dei fatti – siano stati accertati e rispettati. In caso contrario, l’art. 300.1 del 2009 non potrà essere considerato più favorevole e, pertanto, non potrà essere applicato nel caso di specie. Allo stesso modo, la nuova disposizione non dovrà essere applicata al caso concreto se i giudici interni dovessero stabilire che l’applicazione di quest’ultima disposizione determinerebbe conseguenze più gravi per l’imputato rispetto all’applicazione del vecchio articolo 300 del codice penale.
In conclusione, i giudici nazionali devono quindi tenere conto di tutte le circostanze particolari del caso concreto (concretisation) per determinare se, ai fini dell’Articolo 7 della Convenzione, una legge adottata dopo la commissione dell’asserito reato sia più o meno favorevole per l’accusato rispetto alla legge in vigore al tempo dei fatti. Se la legge successiva è più severa, quest’ultima non può essere applicata.
Peraltro, tali princìpi di fatto coincidono con quelli sanciti all’art. 2 del nostro codice codice penale[21].
6. Considerazioni conclusive
La Corte, a ben vedere, adotta nel caso di specie un approccio particolarmente prudente. Un self-restraint dettato dalla volontà/necessità di non travalicare il proprio àmbito di “competenza” e di tenere, al contrario, ben saldo il principio di sussidiarietà della propria “giurisdizione”[22].
Del resto, appare piuttosto evidente come le questioni sollevate dalla Corte costituzionale armena si inseriscano nel solco di un complesso procedimento giudiziario dai forti connotati politici; ragion per cui, prudentemente, la Corte si limita a riaffermare nel parere princìpi ormai ben consolidati nella sua giurisprudenza e patrimonio ormai acquisito del diritto convenzionale.
La Corte, dunque, sembra cogliere l’occasione per ricordare all’Armenia (così come a tutti i paesi facenti parte del Consiglio d’Europa) che i diritti garantiti dalla Convenzione sono patrimonio innanzitutto dei singoli Paesi contraenti e che il loro rispetto dev’essere prerogativa dei giudici nazionali; solo in via del tutto sussidiaria, la Corte può intervenire e, se ne ricorrono i presupposti, accertare la violazione di diritti e adottare le misure atte a porvi rimedio. Al pari, il nuovo strumento consultivo introdotto dal Protocollo n° 16 non potrà essere utilizzato dagli stati contraenti al fine di “scaricare” sulla Corte delicate questioni relative al diritto interno, che necessariamente dovranno essere valutate dai giudici interni, bilanciando i diversi interessi coinvolti. Circostanza, questa, che invero pare essersi verificata proprio nel caso in commento.
Quel che la Corte ha particolare cura di sottolineare, nella stesura del parere, è comunque l’importanza del principio di concretizzazione.
Coerentemente all’approccio sostanzialistico tipico della Corte, viene ancora una volta sottolineata l’assoluta centralità del caso: luogo nel quale si intrecciano il fatto e il diritto e dal quale può estrapolarsi il principio e la corretta regola ermeneutica.
Ed è il Giudice del caso concreto (il giudice interno) che ha il compito, quale garante dei diritti (siano essi di matrice nazionale o convenzionale), di verificare quale sia la risposta che ne garantisce il rispetto. Il giudice nazionale, primo custode della Convenzione, nel suo operare, non potrà comunque discostarsi dall’interpretazione eminente che della Convenzione stessa offre la Corte di Strasburgo, così come stabilito a chiare lettere all’art. 32 della stessa.
Così, tornando al caso in disamina, ai fini di valutare quale sia la norma che produce effetti più favorevoli all’imputato, ci si dovrà sganciare necessariamente dalle etichette formali proprie delle norme giuridiche (law in the books), per concentrarsi invece su quelli che sono gli effetti prodotti dall’applicazione effettiva della norma (law in action). È come la disposizione “vive” e viene interpretata e applicata nella prassi – non già come la disposizione potrebbe essere (anche legittimamente) interpretata – a creare in capo all’individuo affidamenti che l’ordinamento ha poi il dovere di proteggere.[23]
Ancora una volta, in ogni caso, la Corte sembra porre l’attenzione su un concetto di prevedibilità in senso oggettivo e impersonale[24], sganciato da qualsiasi connotazione soggettiva del destinatario della norma giuridica. Un concetto di prevedibilità quale contrassegno della tipicità che è connesso, ma ben distinto da quello fatto proprio dalla Corte Costituzionale, con la celebre pronuncia n. 364/88, che lo colloca sul piano dell’eventuale difetto di colpevolezza (in senso normativo).[25]
A differenza di quanto sostenuto in talune opinabili sentenze penali italiane[26], quando la Corte si muove sul piano del sistema ordinamentale interno, ciò che rileva per essa è il concetto di accessibilità del precetto e prevedibilità declinati in termini generali e obiettivi e, dunque, impersonali[27].
il medesimo principio pare attagliarsi perfettamente al caso oggetto del parere della Corte, in cui nessuna attenzione viene posta sulle caratteristiche e conoscenze personali del sig. Kocharyan, quanto piuttosto sulla “qualità” della norma, sulla sua prevedibilità e accessibilità.
Il compito del giudice nazionale (in questo caso i giudici di merito armeni) sarà quello di valutare se l’art. 300 §1 del codice penale armeno fosse una norma incriminatrice dotata di sufficiente determinatezza/tipicità; se il fatto punito dalla norma fosse oggettivamente chiaro e prevedibile; se la precedente formulazione della norma fosse o meno in grado di produrre effetti più favorevoli per il sig. Kocharyan rispetto a quella successiva. Infine, applicare la legge penale, tra le due, in concreto più favorevole per l’imputato.
Avendo, pertanto, la pronuncia in commento carattere sistemico, essa è destinata a produrre effetti indiretti erga alios (altri potenziali destinatari della norma), indicando canoni ermeneutici che incidono sulla struttura oggettiva della tipicità e determinatezza della norma incriminatrice.
[1] L’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo n°16, per una serie di ragioni analizzate in maniera commendevole da R. Conti, “Chi ha paura del Protocollo 16 – e perché?”, in Sistema Penale, 27 dicembre 2019.
[2] Article 300 – Usurping state power
1. Actions directed towards violent takeover of the State power or towards its violent retaining in breach of the Constitution of the Republic of Armenia, as well as actions directed towards violent overturning of the constitutional order of Republic of Armenia or towards violent infringement of the territorial integrity of the Republic of Armenia shall be punishable by deprivation of liberty for a term of ten to fifteen years.
2. The person having voluntarily informed the governmental bodies about the actions mentioned in this Article shall be released from criminal liability if in result of measures taken pursuant to such informing the implementation of the respective actions has been prevented.
[3] Tra questi, anche Nikol Pashinyan, l’attuale primo ministro armeno, il quale fu uno dei principali promotori delle manifestazioni e che, accusato di avere causato disordini di piazza, fu arrestato e detenuto fino al 2011.
[4] Rule 24, § 2, lett. (h) “In examining a request for an advisory opinion under Protocol No. 16 to the Convention, the Grand Chamber shall be constituted in accordance with the provision of paragraph 2 (a), (b) and (e) of this Rule.”
[5] Articolo 7 – Nulla poena sine lege
1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
[6] Si tenga presente come tale distinzione linguistica ha una sua ragion d’essere esclusivamente nell’àmbito dei paesi di civil law, mentre perde del tutto di significato nei Paesi di origine anglosassone fondati sul sistema di common law (dove, infatti, scompare qualsiasi forma di distinzione). A conferma di ciò, è sufficiente leggere il testo ufficiale in lingua inglese della Corte, oggetto del presente commento, che testualmente così recita, con riferimento al primo quesito: “does the concept of ‘law’ under Article 7 of the Convention and referred to in other Articles of the Convention, for instance, in Articles 8-11, have the same degree of qualitative requirements (certainty, accessibility, foreseeability and stability)?”; a differenza di quanto avviene nella traduzione francese, dove invece viene espressamente marcata la differenza tra i due termini: “la notion de «droit» au sens de l’article 7 de la Convention et celle de «loi» qui figure dans d’autres articles de la Convention […]”
[7] Viganò, Il principio della prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 12 ss. In questo senso, cfr. anche ordinanza di rimessione alle SS.UU. n. 21767/2019, nella quale la Suprema Corte ben sottolinea come “la Corte EDU ha evidenziato che la sentenza di condanna pronunciata nei confronti del Contrada si era basata su una giurisprudenza consolidatasi in malam partem successivamente ai fatti ascritti e che questi all’epoca della loro commissione non erano (in termini generali e non soggettivi) sufficientemente chiari e prevedibili e che il ricorrente non poteva quindi conoscere la pena ad essi correlata.” Contra, cfr. Cass., Sez. I, n. 8661, del 12.01.2018; Cass., sez. I, n. 36505, del 12.06.2018; Cass., Sez. I, n. 15574, del 19.02.2019; queste pronunce pongono l’accento sull’errato presupposto sul quale sarebbe incorsa la Corte nella pronuncia n. 3 (Contrada c. Italia), ovvero la qualificazione del “concorso esterno in associazione mafiosa” come reato di creazione giurisprudenziale, denotando, in questo modo, una mancata comprensione in tali sentenze – da parte della Suprema Corte – della questione centrale cui la Corte di Strasburgo volge l’attenzione: la prevedibilità in senso oggettivo, sia che il reato abbia origine normativa o invece giurisprudenziale (distinzione, per la Corte, del tutto irrilevante). Sul punto, cfr. Massaro, Determinatezza della norma penale e calcolabilità giuridica, Napoli, 2020, p. 259, secondo la quale il concetto di “infraction d’origine jurisprudentielle è solo fumo negli occhi destinato a svanire nel tempo di un repentino battito di ciglia”.
[8] Ci si permetta di richiamare il nostro Giordano, “il «concorso esterno» al vaglio della Corte Edu: prime riflessioni sulla sentenza Contrada contro Italia”, in Archivio Penale, 2015.
[9] Così, in dottrina, sugli elementi vaghi e la compatibilità con il principio di determinatezza, Pagliaro, Princìpi di diritto penale, parte generale, Milano, 2000, p. 50 e ss.
[10] Sul punto, ci sia consentito un richiamo al nostro Giordano, Principio di legalità europeo e applicabilità retroattiva dei «punitive damages» in via transitoria: una “svista” del legislatore?, in Arch. pen., 2016.
[11] Sulla definizione in senso sostanziale del concetto di norma penale cfr. Manes, La lunga marcia della Convenzione europea ed i “nuovi” vincoli per l’ordinamento (e per il giudice) penale interno, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di Manes, Zagrebelsky, Milano, 2011, 34 ss.
[12] Sentenza Engel e altri contro Paesi Bassi, caso n. 5100/71.
[13] Protocollo n° 16, Articolo 1
1. Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente, designate conformemente all’articolo 10, possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli.
2. La giurisdizione che presenta la domanda può chiedere un parere consultivo solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essa.
3. La giurisdizione che presenta la domanda deve motivare la richiesta di parere e produrre gli elementi pertinenti inerenti al contesto giuridico e fattuale della causa pendente.
[14] ECHR 132 – 10.04.2019. Parere consultivo reso dalla Corte, in materia civile, su richiesta della Corte di Cassazione francese. Il Parere oggetto del presente commento, come già detto, costituisce il primo espresso dalla Corte in materia penale.
[15] V. nota n. 6.
[16] Carboni, L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, Milano, 1970, 7.
[17] Vallini, Clonazione e fecondazione assistita: ordinanze ministeriali contingibili e urgenti e nozione di “provvedimento” nell’art. 650 c.p., in Leg. pen. 1997, 880.
[18] Marinucci-Dolcini, Codice penale commentato, Assago, 2011, 6616.
[19] Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 317; Romano M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, 37-38)
[20] La Corte fa riferimento a diversi casi che hanno riguardato la riqualificazione giuridica delle accuse formulate, sulla base di una versione modificata del Codice Penale (G. v. France, Ould Dah v. France, Berardi and Mularoni v. San Marino, and Rohlena v. the Czech Republic), o sul principio di irretroattività delle sanzioni (Maktouf and Damjanović v. Bosnia and Herzegovina). In entrambi i casi la Corte ha posto l’attenzione alle specifiche circostanze del caso concreto, ma non ha tenuto conto delle classificazioni formali o delle denominazioni date ai reati in base al diritto interno.
[21] Sulla natura sostanzialmente costituzionale dei primi tre commi dell’art. 2 c.p., cfr. Pagliaro, Princìpi, cit., p. 114 e ss.
[22] In questa direzione appare orientata la stesura del Protocollo n° 16, nel cui preambolo si legge: “[…]Considerato che l’estensione della competenza della Corte a emettere pareri consultivi permetterà alla Corte di interagire maggiormente con le autorità nazionali consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione, conformemente al principio di sussidiarietà […]”.
[23] Viganò, Il principio, cit., 12 ss.
[24] Sul punto, cfr. Donini, Il Caso Contrada e la Corte EDU. La responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, in RIDPP, 2016, 346 ss.
[25] In questo senso, risulta inconferente ed ultroneo il passaggio della sentenza delle SS.UU. n. 8544/2020, che invece ascrive il concetto di prevedibilità proprio al piano del difetto di colpevolezza in senso soggettivo (“ignoranza inevitabile della legge penale ex art. 5 c.p.). Sulla concezione normativa della colpevolezza, cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1999, 274 ss.
[26] Cfr. SS.UU. cit.
[27] Su una possibile lettura oggettiva dell’art. 5 c.p., cfr. Massaro, Determinatezza, cit., p. 166 e ss.
Chiovenda e il computer. Il processo “da remoto” e la teoria dell’azione
di Paolo Spaziani
[in copertina Chiovenda, acquerello, di Paolo Spaziani]
Il c.d. processo civile “da remoto”, previsto dalla normativa emergenziale introdotta in questi tempi di pandemia per ridurre il rischio del contagio, può trasformarsi da istituto temporaneo ed eccezionale in modalità ordinaria di celebrazione del giudizio civile? Nel presente scritto si cerca di immaginare come avrebbe risposto a questa domanda Giuseppe Chiovenda, avuto riguardo alle implicazioni derivanti da una sua dolorosa esperienza personale di studioso (la perdita di un manoscritto) e al concetto di tutela giurisdizionale desumibile dal suo sistema scientifico, fondato sulle teorie dell’azione e del rapporto giuridico processuale.
Sommario: 1. Chiovenda, il manoscritto perduto e il processo telematico – 2. Il processo “da remoto” e la teoria chiovendiana dell’azione – 3. La tutela giurisdizionale come “bene” giuridico – 4. Gli attributi ontologici della tutela giurisdizionale come “bene” giuridico. Il processo “da remoto” come “non processo”.
1. Chiovenda, il manoscritto perduto e il processo telematico
Giuseppe Chiovenda diede alle stampe la prima edizione dei Principii di diritto processuale civile nel 1906, la seconda nel 1908 e la terza nel 1912-1923.
Precisamente, le prime 4 “puntate” della terza edizione furono pubblicate tra il 1912 e il 1913; la quinta “puntata”, con l’Indice e la Prefazione, divenuta famosissima, fu pubblicata nel 1923, allorché uscì il libro nella sua completezza, con il sottotitolo Le azioni. Il processo di cognizione.
Già da queste poche notazioni sulla cronologia dell’opera e sul sottotitolo, che ne riflette il contenuto, emergono due circostanze che incuriosiscono immediatamente il lettore.
Si tratta di due circostanze apparentemente distinte ma in realtà strettamente collegate tra loro.
La prima è quella relativa al notevole intervallo temporale (oltre dieci anni) che intercorre tra la pubblicazione delle prime quattro “puntate” e la pubblicazione della quinta.
La seconda è quella relativa alla mancanza, nell’opera, della trattazione relativa al processo di esecuzione.
Su questa seconda circostanza si è soffermato l’ultimo, grande e affezionatissimo discepolo del maestro di Premosello, Virgilio Andrioli.
Andrioli racconta che Chiovenda aveva bensì redatto, sin dal 1915, anche la parte relativa al processo di esecuzione, ma che, sfortunatamente, il manoscritto contenente questa trattazione era stato da lui smarrito, nel dicembre di quell’anno, alla stazione ferroviaria di Milano[1].
Pur non essendovi motivo di dubitare della buona fede di Andrioli, l’episodio da lui raccontato, che non trova riscontri in successive ricerche, sembra piuttosto inverosimile.
In primo luogo, lo stesso Chiovenda, nel 1923, dettando la Prefazione alla terza edizione dei Principii, pubblicata secondo l’articolazione sopra ricordata, non avrebbe accennato affatto ad una presunta lacuna dell’opera dovuta alla mancanza della trattazione relativa al processo di esecuzione, ma, al contrario, avrebbe avuto modo di precisare che tale trattazione, la quale evidentemente egli considerava estranea al sistema delineato nei Principii, avrebbe dovuto formare oggetto di un separato, futuro volume[2].
In secondo luogo, è quanto meno plausibile che Chiovenda, se effettivamente avesse già completato, all’età di 43 anni, una trattazione sistematica del processo di esecuzione, avrebbe verosimilmente trovato il tempo di riscrivere il libro prima di morire, all’età di 65 anni. È un fatto, invece, che egli, dal 1915 al 1937, non si sarebbe mai occupato dell’esecuzione forzata, in funzione di una trattazione completa ed analitica degli istituti che la riguardano[3].
In terzo luogo, l’episodio del presunto smarrimento del manoscritto sul processo esecutivo mal si concilia con un diverso episodio, raccontato da un altro grande processualista, Franco Cipriani.
Cipriani, premesso di avere conosciuto, nell’anno 1990, l’ultima figlia di Chiovenda, la signora Beatrice Chiovenda Canestro[4], ricorda che quella, dopo averlo accolto «con squisita cortesia» nella sua villa alle porte di Roma[5], gli aveva fatto successivamente l’onore di riceverlo anche nella casa avita di Premosello ove, in un armadio chiuso da più di trent’anni, erano conservate tutte le carte paterne[6].
Nell’occasione – continua Cipriani – egli non solo aveva avuto l’opportunità, riaprendo quell’armadio ed esaminando quelle carte, di rinvenire la famosa lettera di Francesco Carnelutti dell’8 settembre 1923, contenente la proposta di fondare quella Rivista di procedura civile[7] che Chiovenda avrebbe voluto chiamare Rivista di diritto processuale civile e che, dal 1946, avrebbe assunto il nome di Rivista di diritto processuale[8]; ma aveva avuto anche l’opportunità di chiedere alla signora Beatrice notizie più precise sullo smarrimento, da parte del padre, di quel manoscritto sul processo esecutivo di cui aveva parlato Virgilio Andrioli[9].
Ebbene – precisa al riguardo Cipriani – a questa domanda la signora Beatrice aveva risposto che il padre non aveva smarrito alcun manoscritto, ma aveva invece subìto il furto di una valigia contenente il manoscritto di un libro che aveva poi riscritto[10].
La signora Beatrice non aveva saputo indicare l’oggetto del libro, né l’anno del furto, ma, poiché si ricordava benissimo della disperazione del padre («è come se avessi perso un figlio»), aveva escluso che l’episodio risalisse al 1915, quando ella era ancora molto piccola, concludendo che doveva essersi verificato alcuni anni più tardi, verosimilmente tra il 1919 e il 1920[11].
Qualche tempo dopo questo colloquio – prosegue Cipriani – la signora Beatrice aveva fatto nuova luce sull’episodio, dopo aver ritrovato, tra le carte paterne, un piccolo libro mastro sulle entrate e sulle uscite familiari.
Nella prima pagina di questo piccolo libro mastro era infatti scritto: «1920. Il presente continua il registro contenuto nella valigia rubatami a Milano il 15 settembre 1920».
Nelle pagine successive, poi, si leggevano, l’una dopo l’altra, le seguenti annotazioni:
- «15 settembre 1920: ritorno da Lodi a Milano per ricerche furto valigia. £ 700»;
- «16 settembre 1920: Corriere della Sera per smarrimento valigia. £ 54,60»;
- «18 settembre 1920: Bologna-Milano-Como alla ricerca della valigia rubatami. £ 600»;
- «28 settembre 1920: a Gino Marazza rimborso per manifesti valigia. £ 55,10».
Avute queste notizie – conclude Cipriani – gli era stato facile accertare che Chiovenda aveva fatto pubblicare un annuncio sul Corriere della Sera del 17 dicembre 1920, con cui aveva promesso di pagare la ricompensa di £ 1.000 a chi avesse consegnato al portiere di Via Cusani 4 a Milano (lo stabile in cui abitava il suo giovane amico, Avv. Achille Marazza, futuro ministro del lavoro nel VI governo De Gasperi), i libri e le carte contenute nella valigia rubata[12].
Alla luce delle informazioni fornite dalla signora Beatrice a Cipriani e delle ulteriori ricerche da quegli effettuate, può ritenersi accertato che Chiovenda, diversamente da quanto riferito da Andrioli, non aveva smarrito, nel 1915, il manoscritto contenente la trattazione del processo esecutivo, ma aveva perduto, nel 1920, a seguito del furto della valigia ove era contenuto, il manoscritto di un libro che aveva poi riscritto.
Si trattava, verosimilmente, della parte finale dei Principii, quella che sarebbe stata contenuta nella quinta “puntata”, il che spiega il sofferto ritardo con cui Chiovenda diede alle stampe l’ultima parte della sua mirabile opera, il cui disegno generale potè essere completato soltanto nel 1923, a distanza di oltre un decennio dalla pubblicazione delle prime quattro “puntate”[13].
Orbene, chiunque abbia provato personalmente esperienze simili, sa che la perdita di un manoscritto è la « più grande sventura che possa capitare ad uno studioso»[14], specie quando si tratti di uno scritto che è parte di un’opera più ampia e che, pertanto, per un verso, non può essere, semplicemente, abbandonato (come Chiovenda avrebbe potuto fare se si fosse trattato del libro sull’esecuzione forzata) senza compromettere la parte di opera fortunatamente conservata, mentre, per altro verso, non può essere neppure, agevolmente e pianamente, riscritto, poiché deve inserirsi nel sistema di cui quell’opera è espressione; sicché la “riscrittura” presuppone uno sforzo intellettuale che, in quanto già precedentemente avvenuto e, per così dire, “consumato” nella psiche dell’autore, molto difficilmente, e comunque a prezzo di estrema fatica e di intensa sofferenza, può essere replicato alle stesse condizioni e con il medesimo rigore concettuale.
Si spiegano dunque lo sforzo profuso e le numerose iniziative assunte dal maestro di Premosello, tra il settembre e il dicembre del 1920, nella ricerca dell’opera smarrita, prima di rassegnarsi alla sua definitiva perdita, nonché la scelta di non badare a spese (1000 Lire nel 1920 era una somma veramente ragguardevole) pur di rientrane in possesso.
In questa situazione, si può facilmente immaginare l’opinione che avrebbe avuto Chiovenda del computer, se avesse saputo della meravigliosa capacità di questa macchina di consentire, attraverso la memorizzazione e il salvataggio dei files, l’agevole e sicura conservazione delle opere dell’ingegno umano in un ideale ambiente immateriale, evitando i rischi connessi allo smarrimento o alla sottrazione del tradizionale, fragile supporto materiale di natura cartacea.
La considerazione di Chiovenda per il computer e le sue risorse, alla luce della sventura vissuta, sarebbe stata altissima.
Egli non solo ne avrebbe promosso l’uso nell’attività scientifica e professionale, ma avrebbe trovato modo di farne virtuosa applicazione nella teoria e, soprattutto, nella pratica del processo.
Si può persino immaginare che la stessa prima disposizione (la norma-manifesto) del suo famoso Progetto di riforma del procedimento civile, elaborato nell’ambito della I sottocommissione della Commissione reale per il dopo guerra, licenziato il 30 giugno 1919 e pubblicato nel 1920[15], non sarebbe stata intitolata soltanto alla oralità e alla concentrazione processuale[16], ma sarebbe stata intitolata alla oralità, alla concentrazione processuale e all’informatizzazione, considerata sotto il triplice profilo della creazione di archivi informatici di giurisprudenza, legislazione e dottrina (c.d. informatizzazione degli strumenti di ricerca), della utilizzazione, in funzione probatoria, di scritture formate e sottoscritte in forma elettronica (c.d. documento informatico con firma elettronica o digitale) e della telematizzazione dei servizi di cancelleria, delle comunicazioni e delle notificazioni, nonché della digitalizzazione e standardizzazione degli atti processuali, fossero essi atti di parte o provvedimenti del giudice (c.d. processo telematico).
Insomma, si può essere ragionevolmente certi, avuto riguardo alla dolorosa vicenda della perdita del manoscritto, che se Chiovenda avesse potuto anche lontanamente immaginare i benefici connessi all’informatizzazione, la sua appassionata e lunga ‹‹propaganda››[17] per la riforma del processo civile, sarebbe stata spesa, oltre che a favore dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione processuale, anche a favore dell’immediata introduzione del processo telematico, quale progetto vertente alla realizzazione di un sistema informatico di automatizzazione dei flussi informativi tra i soggetti del giudizio che, senza incidere sulla struttura processuale (adempimenti, termini, contenuto degli atti, criteri di allegazione e prova), rendesse più sicuro, agile e tempestivo il sistema di scambio degli atti, sulla base di una previa equiparazione normativa dei documenti informatici e telematici a quelli tradizionali.
2. Il processo “da remoto” e la teoria chiovendiana dell’azione
Sotto ben altra luce Chiovenda avrebbe invece verosimilmente veduto il c.d. processo “da remoto”, che, diversamente dal telematico, non costituisce un progetto volto a migliorare l’efficienza del giudizio, ma uno strumento introdotto in questi tempi di pandemia dalla legislazione emergenziale, al fine di contemperare l’esigenza di trattazione dei processi non rinviabili con quella di evitare gli assembramenti di persone cui darebbe vita la loro celebrazione secondo le forme ordinarie.
Quale strumento finalizzato a rispondere alle eccezionali esigenze poste dalla situazione di emergenza sanitaria, il c.d. processo “da remoto” è, dunque, destinato a durare per il limitato periodo di tale emergenza, mentre il c.d. processo telematico è destinato ad essere introdotto “a regime”, sul rilievo che il processo, come tutte le attività umane, deve potere essere migliorato nella sua funzionalità, attraverso l’utilizzo delle risorse che il progresso tecnologico e scientifico mette oggi a disposizione.
Del processo “da remoto” si sono occupati i decreti-legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito nella l. 24 aprile 2020, n.27) e 30 aprile 2020, n. 28 (convertito nella l. 25 giugno 2020, n.70).
Questi decreti-legge, continuando nel solco tracciato dal primo provvedimento emergenziale (il d.l. 8 marzo 2020, n.11) hanno distinto due fasi temporali: la prima (il cui dies ad quem, inizialmente fissato al 15 aprile 2020, è stato poi prorogato all’11 maggio 2020), contraddistinta dal rinvio d’ufficio, con specifiche eccezioni, delle udienze nei procedimenti pendenti in tutti gli uffici giudiziari, nonché dalla sospensione, per il periodo di durata della fase medesima, dei termini per il compimento di qualsiasi atto del procedimento; la seconda (il cui dies ad quem, dapprima fissato al 30 giugno 2020, è stato poi prorogato al 31 luglio e infine riportato nuovamente al 30 giugno 2020), contraddistinta dal rinvio discrezionale con determinazioni rimesse ai capi degli uffici giudiziari.
Con riguardo alla prima fase, è stata prevista eccezionalmente la celebrazione dei soli procedimenti in cui sia urgente ed indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona, dei procedimenti in materia di assegno di mantenimento, di assegno divorzile e alimentare, dei procedimenti relativi a stranieri, minori, incapaci o in materia di famiglia, parentela, matrimonio o affinità, e, in genere, di ogni procedimento la cui ritardata trattazione possa causare grave pregiudizio alle parti (art.83, comma 3, lett. a), d.l. n. 18 del 2020).
Con riguardo alla seconda fase, è stata prevista la celebrazione dei soli procedimenti per la cui trattazione i capi degli uffici non abbiano discrezionalmente stabilito un rinvio a data successiva alla fine del periodo emergenziale (art.83, comma 7, lett. g), d.l. n. 18 del 2020).
Sia in relazione alla prima fase (per le udienze relative ai procedimenti non differibili) che in relazione alla seconda fase (per le udienze relative ai procedimenti non discrezionalmente rinviati) è stata prevista la possibilità che l’udienza sia svolta mediante collegamenti “da remoto” individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, a condizione che non sia richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, e purché sia salvaguardato il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (art.83, comma 7, lett. f), d.l. n. 18/2020).
Nelle more della conversione del d.l. n.18 del 2020, questa norma, non ostante il suo carattere eccezionale, è stata interpretata in senso estensivo.
Si è infatti osservato che il termine udienza è stato evidentemente utilizzato in un accezione ampia, comprensiva non solo dell’udienza in senso proprio (vale a dire l’udienza pubblica tenuta con la partecipazione dei difensori ed, eventualmente, del pubblico ministero), ma anche della camera di consiglio non partecipata, istituto che, a seguito della riforma disposta con d.l. 31 agosto 2016, n.168 (convertito nella l. 25 ottobre 2016, n.197), ha acquistato particolare importanza nel giudizio di legittimità, nell’ambito del quale ha assunto la denominazione di adunanza camerale (artt. 380 bis e 380 bis.1 c.p.c.).
Si è dunque affermato che la norma emergenziale dovrebbe oggi poter consentire una celebrazione dell’adunanza camerale nella quale «uno o più tra i componenti del collegio giudicante risultino assenti dall’aula e dalla sala della camera di consiglio, trovandosi in collegamento audiovisivo o anche solo audio da remoto»[18].
Questa possibilità, nel silenzio del legislatore, troverebbe tuttavia conferma sia nei principi generali che in norme specifiche.
I principi generali sarebbero quello della libertà delle forme (art.121 c.p.c.) e quello della sanatoria della nullità per il raggiungimento dello scopo (art.156, terzo comma, c.p.c.)[19].
Le norme specifiche sarebbero quelle, contenute nello stesso d.l. n.18 del 2020, previste per la giustizia amministrativa e contabile, le quali stabiliscono che «il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto›› e che ‹‹il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge» (artt.84, comma 6, e 85 d.l. n.18 del 2020).
Queste norme, si osserva, dovrebbero essere analogicamente applicate alle udienze e alle camere di consiglio della Corte di cassazione, «non rinvenendosi ragione di sorta per giustificare un collegamento da remoto dei componenti del collegio giudicante nell’ambito del processo amministrativo o contabile, con esclusione invece dei processi civili ovvero di quelli tributari»[20].
Alla tesi secondo la quale l’art.83, comma 7, lett. f), d.l. n. 18/2020, sarebbe suscettibile di interpretazione estensiva è stato obiettato che tale possibilità risulterebbe invece preclusa all’esito della conversione del successivo d.l. n. 28/2020, recante disposizioni di coordinamento e integrative della disciplina posta dal decreto-legge precedente (art.3).
Poiché infatti la legge di conversione del d.l. n. 28 del 2020 (l. n.70/2020) ha modificato la lett. c) del comma 1 dell’art.3 di quest’ultimo decreto-legge (a sua volta modificativo della lett. f) del comma 7 dell’art.83 del d.l. n. 18/2020), stabilendo che «il luogo posto nell’ufficio giudiziario da cui il magistrato si collega con gli avvocati, le parti ed il personale addetto è considerato aula d’udienza a tutti gli effetti di legge», sarebbe evidente che la norma non ha ad oggetto la camera di consiglio non partecipata, ma esclusivamente l’udienza in senso stretto[21], ammettendo la presenza “da remoto” per le parti, i difensori e gli altri soggetti del processo, ma non anche per il giudice, il cui eroico presidio dell’ufficio sembrerebbe l’ultima concessione che il progresso tecnologico lascia all’udienza tradizionale, quale luogo reale di incontro, nel palazzo di giustizia, tra i protagonisti del giudizio.
Il problema della possibilità dell’interpretazione estensiva dell’art.83 comma 7, lett. f), d.l. n.18/2020, è stato superato in sede di conversione del decreto-legge, atteso che la l. n. 27 del 2020 ha introdotto, nello stesso art.83, il comma 12 quinquies, secondo cui «dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera dì consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge»[22].
Restano invece le suggestioni interpretative suscitate dalla predicata applicazione analogica dalle disposizioni del medesimo decreto-legge dettate in tema di giustizia amministrativa e contabile (artt.84, comma 6, e 85), le quali assumono un rilievo particolarmente importante, poiché, diversamente da quelle dettate in tema di giustizia civile e penale, sono prive di una previsione volta a circoscriverne temporalmente l’efficacia, sicché esse evocano la possibilità che l’udienza “da remoto” si affranchi dal carattere di istituto processuale temporaneo e straordinario, funzionale a sopperire alle contingenti esigenze dell’emergenza sanitaria, per ergersi a modalità ordinaria di celebrazione del giudizio.
La plausibilità dell’introduzione “a regime” di una modalità di celebrazione dell’udienza civile mediante collegamenti “da remoto” tra i diversi soggetti del processo potrebbe essere fondata anche sui già richiamati principi della libertà delle forme e della sanatoria per raggiungimento dello scopo[23]: se infatti la tecnologia offre la possibilità di avere una presenza virtuale dei protagonisti dell’udienza civile del tutto sovrapponibile alla presenza fisica, non si vede perché non si debba poter preconizzare una “smaterializzazione” di questo momento del giudizio, evidentemente non più indispensabile ai fini dell’esercizio dei diritti delle parti e dei poteri del giudice e, più in generale, ai fini della proficua interlocuzione tra i soggetti processuali.
Anche sotto tali diversi profili, è stato peraltro osservato, restrittivamente, che, a rigore, il principio della libertà delle forme non dovrebbe poter essere invocato in funzione della “liberalizzazione” delle modalità di svolgimento dell’udienza o della camera di consiglio, poiché queste non sono annoverabili tra gli “atti processuali”», a cui è circoscritta l’operatività del principio, trattandosi piuttosto di ‹‹riferimenti di luogo e di tempo organicamente predisposti alla stregua di mezzo per il compimento di “atti”››[24].
Del pari, la formale mancanza di una ‹‹determinazione di durata›› per la misura dettata in tema di giustizia amministrativa non potrebbe indurre il dubbio che il suo confine applicativo trascenda il periodo di emergenza sanitaria, trovando essa la propria ‹‹ratio›› proprio in tale emergenza[25].
A prescindere dalla interpretazione estensiva od analogica delle norme contenute nei provvedimenti emergenziali, nonché dal riferimento ai principi contenuti nel codice di procedura civile, la stessa opinione restrittiva assume, tuttavia, che la modalità “da remoto” di celebrazione del processo civile sia ormai «entrata nel sistema», talché essa potrebbe essere utilizzata, verificandosene la necessità, anche per rispondere ad esigenze diverse da quelle poste dalla pandemia da coronavirus[26].
Deve dunque riconoscersi, in termini generali, che la legislazione emergenziale ha costituito l’occasio legis per un’apertura del dibattito processualistico ad un utilizzo del collegamento “da remoto” e del convegno “virtuale” dei soggetti del processo, quale possibile modalità ordinaria di celebrazione delle udienze e delle camere di consiglio.
Un’apertura che viene compiuta con prudenza[27] e con la consapevolezza dei limiti, normativi e materiali, di questo sistema[28]; e pur tuttavia, un’apertura, che potrebbe determinare l’inizio di una vera e propria rivoluzione nelle modalità di celebrazione del processo civile[29].
Viene dunque da chiedersi cosa avrebbe pensato di questa possibile rivoluzione Giuseppe Chiovenda, tenuto conto che egli, come abbiamo sopra immaginato, avrebbe senz’altro apprezzato i benefici della tecnologia e dell’informatica, ove funzionali al miglioramento della efficienza del giudizio.
Il sistema chiovendiano, come è noto, ruota intorno a due capisaldi concettuali: il concetto dell’azione, «intesa come l’autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l’attuazione della legge in proprio favore»; e il concetto del rapporto giuridico processuale, «o sia di quel rapporto giuridico che nasce tra le parti e gli organi giurisdizionali dalla domanda giudiziale indipendentemente dall’esser questa fondata o no»[30].
Strutturalmente, il rapporto giuridico processuale è un rapporto trilaterale, poiché si instaura tra il soggetto che propone la domanda di tutela giurisdizionale (l’attore), il soggetto nei cui confronti la domanda è proposta (convenuto) e il soggetto che deve rendere la tutela (il giudice).
Oggetto del rapporto è il diritto dell’attore ad ottenere dal giudice la tutela giurisdizionale e la soggezione del convenuto all’esercizio di questa tutela.
Si instaura, dunque, nel processo, un rapporto giuridico del tutto analogo a quello che si rinviene nel diritto sostanziale, inteso in senso soggettivo: un rapporto, cioè, fondato sulla relazione strumentale tra un soggetto attivo (titolare di una situazione giuridica soggettiva di vantaggio) e un soggetto passivo (titolare di una situazione giuridica soggettiva di svantaggio).
La relazione tra la situazione di vantaggio e quella di svantaggio è di carattere strumentale poiché entrambi, nell’ambito di un meccanismo che ne prevede l’operatività secondo modalità reciprocamente contrarie, sono tuttavia finalizzate alla realizzazione di un medesimo interesse.
Questo interesse, che costituisce il fine della giurisdizione, si identifica con l’attuazione della legge: esso ha carattere pubblico, in quanto interesse superindividuale che trascende quello privato dell’attore che invoca la tutela giurisdizionale.
Nella funzione pubblicistica della giurisdizione, che trova il suo fine nell’interesse statuale all’attuazione della legge, è stata ravvisata la peculiare innovazione del sistema chiovendiano[31].
In verità, già Calamandrei, nel 1937, pur riconoscendo alla nuova scuola chiovendiana il merito di avere illuminato «l’aspetto di ordine pubblico» delle norme del processo, tuttavia osserva che la nuova concezione del diritto processuale, quale «ramo autonomo del diritto pubblico che, regolando nella giurisdizione una delle funzioni della sovranità, tocca i fondamenti stessi dello Stato››, ha avuto un «precursore» in Lodovico Mortara.
È al Mortara, secondo Calamandrei, che si deve quella «collocazione del processo civile nel più vasto quadro del diritto pubblico» e «quella riaffermazione della importanza costituzionale» della giurisdizione che avrebbe condotto ad individuarne il fondamento non più nella finalità privatistica di «far vincere le cause ai litiganti» ma in quella pubblicistica di affermare la volontà dello Stato attraverso l’attuazione del diritto obiettivo[32].
La situazione giuridica soggettiva di vantaggio, che costituisce il profilo attivo del rapporto giuridico processuale, prende il nome di azione.
Veniamo dunque al secondo – e principale – caposaldo concettuale del sistema chiovendiano.
Anche con riferimento ad esso, si è individuato nella scuola chiovendiana una peculiare innovazione – forse la più importante – rispetto all’insegnamento della dottrina tradizionale.
Si ricorda infatti, agevolmente, che per questa dottrina – ancora oggi identificata con la scuola dei ‹‹grandi “proceduristi” di matrice francese ed esegetica››, contrapposta a quella dei ‹‹“processualisti” di stampo tedesco e sistematico››[33], di cui Chiovenda sarebbe stato l’‹‹iniziatore e Maestro››[34] – l’azione giudiziaria non era una situazione soggettiva autonoma ma integrava la rappresentazione dinamica del medesimo diritto sostanziale di cui si chiedeva la tutela in giudizio.
Precisamente, secondo colui che dei proceduristi prechiovendiani è considerato il più autorevole esponente, Luigi Mattirolo, l’azione giudiziaria non era altro che il diritto sostanziale ‹‹alla seconda potenza››: dunque, non era un istituto autonomo ma rappresentava semplicemente ‹‹la qualità propria del diritto di potere invocare a sua tutela le garantie giudiziarie››[35].
Alla tradizionale impostazione che escludeva l’autonomia dell’azione rispetto al diritto fatto valere in giudizio aveva aderito lo stesso Chiovenda allorché aveva, per la prima volta, trattato ex professo il tema nella “voce” Azione del Dizionario pratico del diritto privato diretto dal suo maestro Vittorio Scialoja. Nell’occasione, l’ancora giovane autore aveva scritto che ‹‹in realtà l’azione, o diritto di far valere il diritto, non è che il diritto stesso fatto valere, il diritto in un nuovo aspetto o in una nuova fase, passato dallo stato di riposo allo stato di combattimento››[36].
La concezione dell’azione quale posizione soggettiva autonoma dal diritto sostanziale esercitato in giudizio, viene per la prima volta esposta dal maestro di Premosello nella celeberrima prolusione letta dalla cattedra della facoltà giuridica bolognese il 3 febbraio 1903[37], che, non a caso, è considerato il giorno della fondazione[38] o, secondo taluno[39], la data di nascita della nuova scienza del diritto processuale civile.
Anche sotto questo profilo, tuttavia, il sistema chiovendiano deve ritenersi tutt’altro che innovativo, poiché quella stessa concezione, che Chiovenda raccoglie dalla dottrina tedesca[40], in Italia non solo era stata anticipata, ancora una volta, da Lodovico Mortara[41], ma era già ‹‹chiarissima››[42] anche a Domenico Viti[43], che pure ‹‹era un processualista vecchio stile››[44].
Del resto, nella teoria chiovendiana, l’azione, pur essendo concettualmente autonoma e diversa dal diritto soggettivo sostanziale, sussiste solo nell’ipotesi in cui la domanda risulti fondata e deve dunque distinguersi dalla mera possibilità di agire, che ne integrerebbe una condizione[45].
In altre parole, l’autonomia dell’azione non ne comporta anche l’astrattezza, talché essa può ritenersi esistente solo in concreto, vale a dire in presenza del diritto soggettivo sostanziale di cui si invoca la tutela.
Questo diritto, dunque, pur non confondendosi con l’azione, ne condiziona comunque la sussistenza, potendosi riconoscere il diritto di agire soltanto a chi ha avuto ragione (azione in senso concreto – diritto ad un provvedimento sul merito di carattere favorevole) e non, più in generale, a chi abbia solo affermato di avere ragione (azione in senso astratto – diritto ad un provvedimento sul merito, non importa se favorevole o sfavorevole)[46].
La vera peculiarità del sistema chiovendiano non sta allora né nella ribadita funzione pubblicistica della giurisdizione civile né nel riaffermato carattere dell’autonomia (che non si accompagna ancora al riconoscimento pure di quello dell’astrattezza) dell’azione; essa peculiarità si rinviene, invece, piuttosto nella risposta data alla questione di fondo affrontata nella celebre prolusione bolognese.
Questa questione, donde scaturisce il titolo stesso della famosa lezione tenuta in quella storica data, riguarda non tanto i caratteri specifici dell’azione quanto piuttosto quelli derivantile dalla sua appartenenza all’ambito dei diritti soggettivi.
La questione fondamentale, in altre parole, è quella relativa alla collocazione dell’azione nel sistema dei diritti e alle conseguenze di tale collocazione.
L’adesione alla tesi dell’autonomia comportava automaticamente il riconoscimento all’azione della dignità di diritto soggettivo a sé stante: se infatti l’azione non va confusa con il diritto sostanziale, vuol dire che è un diritto autonomo, distinto da quello.
La configurazione dell’azione giudiziaria quale diritto a sé stante determinava, peraltro, sul piano dogmatico, una difficoltà apparentemente insormontabile, che solo Chiovenda, tra i processualisti del suo tempo, ha la lucidità di avvertire e il genio di risolvere.
Nella dottrina classica, la nozione di diritto soggettivo[47] era connessa inestricabilmente a quella di interesse.
Il concetto di interesse veniva, a sua volta, legato a quello di bisogno e veniva rappresentato graficamente come una linea di tensione che, dipartendosi da una persona o soggetto (inteso, appunto come centro autonomo di interessi) si puntualizzava su una cosa od oggetto (inteso, appunto, come bene della vita, idoneo a soddisfare un bisogno umano e, quindi a realizzare l’interesse).
Posto dinanzi alle innumerevoli linee di tensione intercorrenti tra le persone e i beni idonei a soddisfare i loro bisogni, l’ordinamento giuridico, inteso in senso soggettivo, svolgeva, nell’ambito di questa concezione, il compito fondamentale di selezionare gli interessi, discriminandoli tra interessi meritevoli di tutela e interessi immeritevoli di tutela.
Mentre rispetto a questi ultimi non apprestava alcuna protezione, lasciandoli nudi interessi, rispetto ai primi attribuiva poteri, doveri e facoltà strumentali a consentirne la realizzazione.
Quando, nella valutazione effettuata dall’ordinamento, l’interesse meritava la massima tutela possibile, lo strumento attribuito raggiungeva la dimensione del diritto soggettivo, il quale rappresentava, dunque, il massimo, tra i poteri concessi dall’ordinamento ad un soggetto, per la tutela di un proprio interesse.
Chiovenda avverte chiaramente la difficoltà dogmatica di adattare al diritto soggettivo di azione questo sistema, non apparendo esso compatibile con l’idea della funzione pubblicistica della giurisdizione.
Se infatti l’oggetto di questa non va ricercato nella ripartizione della ragione e del torto tra i litiganti, ma nell’affermazione della volontà dello stato attraverso l’attuazione del diritto oggettivo, sembra evidente che l’esercizio del diritto di azione non verta alla realizzazione di un interesse privatistico (e cioè all’apprensione, per il soggetto attivo, di un bene della vita, con sacrificio del soggetto passivo) ma esclusivamente a rendere possibile lo svolgimento di un potere sovrano.
Chiovenda comprende, pertanto, che la collocazione dell’azione nel sistema dei diritti esigeva la configurazione di una nuova categoria di diritti soggettivi, nella quale potessero trovare contemperamento ed armonizzazione due concetti apparentemente inconciliabili.
Occorreva, cioè, che l’esercizio dell’azione permettesse, ad un tempo, l’apprensione di un bene giuridico idoneo al soddisfacimento di un bisogno privato (nel che si sarebbe realizzata l’essenza del diritto soggettivo quale potere dato dall’ordinamento per la tutela di un interesse) e l’affermazione della volontà dello Stato mediante l’attuazione del diritto obiettivo (nel che si sarebbe realizzata l’essenza della giurisdizione quale funzione pubblica, espressione della sovranità statuale).
Si trattava, quindi, di individuare una categoria di diritti nei quali l’interesse privato, coincidendo con quello pubblico all’attuazione della legge, potesse essere soddisfatto attraverso un meccanismo simile a quello in cui si estrinseca il potere autoritativo statuale.
Un meccanismo, precisamente, che, per un verso, non subordinasse la conservazione del bene della vita già presente nella sfera giuridica del titolare del diritto, all’osservanza di un dovere negativo di astensione da parte di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, secondo la modalità di esercizio e di realizzazione dei diritti assoluti; ma che, per altro verso, neppure prevedesse il conseguimento del bene della vita costituente il punto di riferimento oggettivo dell’interesse del privato, mediante l’attribuzione al soggetto passivo di un dovere positivo di cooperazione, secondo la diversa modalità operativa dei diritti relativi.
Occorreva invece riconoscere, al soggetto passivo del rapporto processuale, chiamato dinanzi al giudice, una situazione di soggezione del tutto assimilabile a quella di colui che viene attinto da un provvedimento autoritativo costituente espressione di una potestà pubblica; e, correlativamente, di individuare, nel soggetto attivo del medesimo rapporto, il potere giuridico di suscitare, con la vocatio in ius, l’attuazione della legge in proprio favore.
Nell’ “attuazione della legge” si sarebbe realizzata la funzione pubblicistica dell’azione quale mezzo attraverso il quale, sia pure su impulso del privato, si afferma tuttavia la volontà dello Stato per mezzo degli organi giurisdizionali.
Nell’attuazione della legge “in proprio favore” se ne sarebbe invece realizzata la funzione privatistica, quale diritto soggettivo strumentale al soddisfacimento dell’interesse all’apprensione di quel bene della vita che è la tutela giurisdizionale.
Rifiutata, dunque l’idea, largamente condivisa nella dottrina tedesca, secondo cui questo diritto dovesse essere diretto contro lo Stato, Chiovenda configura l’azione come un diritto contro l’avversario,[48], cui viene quindi riconosciuta la titolarità della correlativa situazione passiva di soggezione e, dopo averne ritenuto inappropriata la qualificazione di diritto facoltativo[49], sceglie di denominarlo, con felice ed incisiva espressione, diritto potestativo, dando così prova, non solo (e non tanto) della sua capacità di coniare nuovi termini giuridici[50], ma anche (e principalmente) della sua mirabile e feconda capacità di elaborazione sistematica.
3. La tutela giurisdizionale come “bene” giuridico
Con la creazione della figura del diritto potestativo Chiovenda raggiunge la quadratura del cerchio: quella di conciliare la funzione pubblicistica della giurisdizione, quale luogo di esercizio di una potestà sovrana, con la funzione privatistica del diritto soggettivo, quale potere concesso dall’ordinamento ad un soggetto per la tutela dell’intesse alla conservazione (diritto assoluto) o al conseguimento (diritto relativo) di un bene della vita idoneo a soddisfare un bisogno umano.
Sotto questo profilo, sia detto per inciso, la configurazione dell’azione quale diritto potestativo contro l’avversario si mostrava felice anche sul piano descrittivo e classificatorio, poiché la circostanza che esso fosse diretto (non alla conservazione, erga omnes, di un bene già presente nella sfera giuridica del titolare, ma) al conseguimento, erga unum, di un bene ancora estraneo alla detta sfera giuridica, consentiva di mantenere la summa divisio dei diritti soggettivi in diritti assoluti e diritti relativi.
L’azione, infatti, date le sue caratteristiche, si prestava agevolmente ad essere ricompresa nella seconda categoria, differenziandosi dal tradizionale archetipo dei diritti relativi (il credito) solo per le modalità di conseguimento del bene giuridico, che non presupponeva la realizzazione di una pretesa, attraverso la spontanea cooperazione del debitore o la coercizione della sua volontà, ma il mero esercizio di un potere unilaterale, cui seguiva una modificazione giuridica alla quale il soggetto passivo, con la chiamata in giudizio, era semplicemente assoggettato.
In tal modo, tra l’altro, si ricomponeva la simmetria del sistema, poiché anche il genus dei diritti relativi risultava suddiviso in due species (quella dei diritti di credito e quella dei diritti potestativi) alla stessa stregua del genus dei diritti assoluti, tradizionalmente articolato nelle due species dei diritti reali e dei diritti della personalità.
A questa ricostruzione del pensiero chiovendiano, che non ambisce ad assumere i caratteri indiscutibili del dogma, si potrebbe ragionevolmente obiettare che il maestro di Premosello non ha mai parlato, esplicitamente, della tutela giurisdizionale come di un bene giuridico.
L’obiezione sembrerebbe cogliere nel segno, specie se si torni ancora a riflettere sulla circostanza che nella concezione chiovendiana l’azione, come situazione soggettiva, presenta bensì il carattere dell’autonomia, ma non anche quello dell’astrattezza.
Se Chiovenda avesse chiaramente individuato nella tutela giurisdizionale un bene giuridico ulteriore e diverso rispetto a quello costituente il punto di riferimento del diritto soggettivo sostanziale, avrebbe ammesso la sussistenza del diritto di azione a prescindere dalla fondatezza della domanda.
Invece Chiovenda, pur rendendosi conto che la prestazione oggetto del rapporto processuale è soggettivamente distinta da quella che forma oggetto del rapporto sostanziale (in quanto resa non dal soggetto passivo di questo rapporto ma dall’organo dello Stato istituzionalmente preposto a fornire la tutela giuridizionale), non si spinge tuttavia a porne in luce anche la differenza oggettiva, fondata sul riconoscimento di una specifica utilità giuridica alla prestazione oggetto del diritto di azione (consistente nella tutela giurisdizionale di merito, indipendentemente dall’accoglimento o meno della domanda), distinta da quella della prestazione dovuta dal soggetto passivo del rapporto sostanziale, nella quale soltanto sembrava sostanziarsi il soddisfacimento del bisogno umano posto a fondamento dell’interesse tutelato.
Le ragioni per le quali Chiovenda evita di prendere specifica posizione su questo punto sono probabilmente due.
In primo luogo, la teoria dei beni giuridici, appartenendo, ratione materiae, al diritto sostanziale, sembrava esulare dalle competenze del processualista, il quale, una volta riconosciuta l’autonomia del diritto di azione rispetto al diritto soggettivo sostanziale – ed una volta provveduto alla sistematizzazione di tale diritto nell’ambito dei diritti soggettivi – poteva ritenersi soddisfatto, senza avvertire la necessità di dovere ulteriormente indagare sulla questione se il punto di riferimento oggettivo dell’interesse tutelato attraverso questo diritto (la tutela giurisdizionale) fosse suscettibile di essere qualificato come bene giuridico idoneo di per sé a fornire una utilità capace di soddisfare un bisogno umano o se, essendo sprovvista di tale utilità, poteva servire tale bisogno solo se avesse consentito effettivamente (e dunque, fondatamente) l’apprensione del bene finale avuto di mira con l’esercizio del diritto soggettivo sostanziale per cui quella tutela era stata invocata.
In secondo luogo, nell’ambito della scienza del diritto privato sostanziale, la teoria dei beni avrebbe vissuto proprio in quei decenni un vero e proprio sconvolgimento che avrebbe determinato la sostituzione delle certezze poste a fondamento del codice civile del 1865 (imperniato sulla centralità del diritto di proprietà) con le incertezze desumibili dalla disciplina del nuovo codice civile del 1942, fondato sulla centralità dell’impresa.
Nel codice civile del 1865, la nozione di bene giuridico era indissolubilmente legata ai due concetti della materialità e dell’idoneità a formare oggetto di proprietà (art.406 c.c. 1865).
Il carattere della materialità – in forza del quale solo le cose potevano essere considerate beni – non appariva compatibile con l’evoluzione dei rapporti economici e giuridici da una dimensione statica (fondata sul rapporto tra il proprietario e i suoi beni, mobili e, soprattutto, immobili) ad una dimensione dinamica, fondata sull’esercizio dell’attività produttiva e, più in generale, sullo svolgimento di relazioni commerciali sempre più intense.
La legislazione speciale[51], introdotta nel periodo di transizione tra i vecchi codici civile e di commercio e il nuovo codice recante una disciplina unificata nel senso della commercializzazione del diritto privato[52], poneva in luce l’esistenza di beni immateriali, ossia di utilità che, pur non essendo cose, erano tuttavia in grado di soddisfare bisogni umani, e dunque di porsi come punto di riferimento oggettivo di interessi privati che l’ordinamento poteva reputare meritevoli di tutela.
Il legislatore del 1942, avvertendo il limite della nozione contenuta nell’art.406 del codice del 1865, avrebbe eliminato il riferimento al diritto di proprietà, ma non sarebbe riuscito ad allontanarsi dalla tradizionale concezione materialistica che faceva coincidere il concetto di bene giuridico con quello di cosa.
Ne sarebbe derivato il recepimento, all’inizio del Libro III del nuovo codice civile, di una nozione incompleta e contraddittoria di bene giuridico, insufficiente a ricomprendere la più ampia fenomenologia che si riscontrava nel vivo delle relazioni economiche e che sarebbe stata in parte recepita dallo stesso codice nel Libro IV, attraverso la tipizzazione delle più rilevanti fattispecie contrattuali.
Mentre in queste figure negoziali sarebbero state rappresentate relazioni economico-giuridiche in cui il punto di riferimento oggettivo dell’interesse delle parti era costituito da utilità immateriali, quali, ad es. un’attività (art. 1703 c.c.) o un risultato (art.1655 c.c.), la nozione di bene, pur allargata a ricomprendere l’oggetto di tutti i diritti e non solo di quello di proprietà, avrebbe continuato ad essere circoscritta alle sole cose materiali (art.810 c.c.).
Gli inconvenienti di questa contraddizione sarebbero emersi nitidamente all’esito della redazione, nello stesso Libro IV, della disciplina generale del contratto e delle obbligazioni, con implicazioni negative che ancora oggi producono indesiderate conseguenze sul piano della coerenza sistematica e della correttezza applicativa.
La mancanza di una soddisfacente nozione di bene giuridico nel Libro III, avrebbe indotto il legislatore ad omettere, nella parte del Libro IV dedicata ai requisiti costitutivi del contratto (art.1325 ss. c.c.), la definizione di quello, tra i predetti requisiti, che avrebbe dovuto indicare il punto di riferimento oggettivo degli interessi perseguiti dalle parti del rapporto negoziale.
In tal modo, la nozione di oggetto del contratto, accolta dal nuovo codice, sarebbe risultata bensì rigorosamente delimitata con riguardo ai suoi necessari attributi (art.1346 c.c.) ma non anche definita quanto alla sua essenza, con risultati deprecabili, sul piano dell’unità concettuale complessiva del sistema, desumibili dal mancato raccordo – e spesso persino dalla reciproca contraddittorietà – tra le singole norme.
Accade così che lo sconcertato interprete, nel leggere la disciplina della vendita, ancora oggi debba notare come l’oggetto di questo contratto venga identificato con il trasferimento della proprietà di una cosa o di un altro diritto (art.1470 c.c.), il che sembra provare un po’ troppo, poiché il trasferimento è l’effetto della vendita e non può evidentemente costituirne l’oggetto.
Del resto, se non si dubita che l’oggetto della vendita di cose future sia, appunto, la ‹‹cosa futura›› (art.1472 c.c.), non si vede perché l’oggetto della vendita di cose presenti non debba essere la cosa presente.
Peraltro, nella disciplina generale dell’oggetto del contratto, le ‹‹cose future›› vengono piuttosto identificate con l’oggetto della prestazione, la quale viene a sua volta identificata con l’oggetto del contratto (art.1348 c.c.).
Ma, invece, nella disciplina generale dell’obbligazione, la prestazione viene identificata, più generalmente, con l’oggetto dell’obbligazione (art.1174 c.c.), e non del contratto, che dell’obbligazione costituisce una delle possibili fonti (art.1173 c.c.).
In una situazione nella quale l’evoluzione dei rapporti giuridici ed economici metteva in luce l’insufficienza della tradizionale nozione di bene giuridico legata ai concetti della materialità e della proprietà – e, tuttavia, la scienza giuridica del diritto sostanziale non riusciva (ed non sarebbe riuscita neppure in sede di redazione del nuovo codice civile) ad elaborare una nozione nuova e coerente, idonea a ricomprendere tutte le utilità immateriali costituenti possibili punti di riferimento di altrettanti interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico –, si può comprendere la scelta di un processualista come Chiovenda di evitare di attribuire apertis verbis alla tutela giurisdizionale, in sede di elaborazione della teoria del diritto potestativo di azione, la dignità di bene giuridico immateriale a sé stante, e di continuare invece a subordinare l’esistenza di questo diritto all’accertamento di quello avente ad oggetto il bene materiale per il conseguimento o la conservazione del quale la predetta tutela era stata invocata.
La mancata affermazione esplicita del carattere di bene giuridico immateriale della tutela giurisdizionale non vuol dire, tuttavia, che nel pensiero del maestro di Premosello essa non sia effettivamente percepita come tale.
Tale percezione risulta, anzi, evidente se si tenga presente, come ci ha ricordato un altro insigne maestro, Andrea Proto Pisani[53], che nel sistema chiovendiano assume preminente importanza la classificazione delle ‹‹varie specie di tutela giurisdizionale›› in tutela ‹‹di condanna, d’accertamento, di costituzione››, nonché la corrispondenza tra queste e le diverse specie di diritti soggettivi, tra cui spicca la figura del diritto potestativo, il quale può essere oggetto della tutela di accertamento e – soprattutto – di quella costitutiva ma ‹‹non mai›› di quella di condanna, in quanto ‹‹potere›› che ‹‹non richiede condotta altrui››.
Vi è dunque un’utilità dell’azione (ontologicamente diversa nelle diverse modalità funzionali di tutela giurisdizionale), distinta rispetto a quella del bene che costituisce il punto di riferimento dell’interesse sostanziale.
Il riconoscimento della dignità di bene giuridico alla tutela giurisdizionale in quanto tale emerge, inoltre, direi in modo definitivo e incontestabile, dal ritenuto carattere generale della tutela di mero accertamento, di cui lo stesso Proto Pisani ricorda il rilievo sistematico.
Secondo Proto Pisani, proprio il riconoscimento, nel pensiero chiovendiano, di una portata generale alla tutela di accertamento (portata generale negata, invece, anche autorevolmente, dalla dottrina del tempo[54]) costituisce, infatti, il ‹‹punto cardine dell’analisi diretta ad affermare l’autonomia del diritto di azione rispetto al diritto soggettivo sostanziale››, essendo fondato su una condizione di fatto (il c.d. “vanto” o la c.d. “contestazione”) ‹‹tale che senza l’immediato accertamento negativo o positivo l’attore ne risentirebbe danno››[55].
4. Gli attributi ontologici della tutela giurisdizionale come “bene” giuridico. Il processo da remoto come “non processo”
L’evidente, ancorché implicita, qualificazione della tutela giurisdizionale quale bene giuridico immateriale a sé stante, emerge, infine, dall’affermazione dei suoi attributi o connotati ontologici, indispensabili in funzione del raggiungimento dell’obiettivo (l’attuazione della legge in proprio favore) per il quale il diritto potestativo di azione è conferito.
Si è già evidenziato che il primo dei 204 articoli del Progetto di riforma del processo civile, elaborato da Chiovenda nell’ambito dei lavori della I sottocommissione della Commissione reale per il dopo guerra, era intitolato all’oralità e alla concentrazione processuale.
Più precisamente, in questo progetto, il processo civile è costruito intorno ai principi dell’oralità, della concentrazione processuale, dell’immediatezza e dell’identità fisica del magistrato durante tutto il corso della lite di primo grado[56].
In base al principio dell’oralità, il processo deve trovare il suo momento centrale nel dibattimento orale in udienza, ove si devono succedere, l’una dopo l’altra, le fasi di trattazione, di assunzione delle prove e di discussione.
L’assunzione delle prove si deve svolgere sotto il controllo e l’impulso continuo del giudice, cui è attribuito il potere di intervenire, anche in modo penetrante, senza formalità, per stimolare le parti e i testimoni, nonché di assumere ogni autonoma iniziativa per il chiarimento dei fatti e l’acquisizione della verità[57].
Per il principio della concentrazione, l’udienza deve essere tendenzialmente unica, rimanendo tuttavia salva sia la possibilità di rinviare al primo giorno seguente non festivo in ragione dell’ora tarda (art.58) sia la possibilità delle parti di allegare l’impedimento a comparire ovvero ad iniziare o proseguire il dibattimento (art.61).
Il principio dell’identità fisica del giudice presuppone la diretta ed immediata percezione da parte del giudice dell’attività che viene svolta in sua presenza, la mancanza della quale costituisce causa di invalidazione dell’istruttoria e presupposto della sua rinnovazione.
Infine, per il principio dell’immediatezza, la deliberazione della sentenza deve avvenire subito dopo la chiusura della trattazione.
L’attuazione di questi principi, come sarebbe dimostrato dalla disciplina processuale austriaca che ad essi si ispira e che costituisce il modello al quale occorre tendere[58], è essenziale in funzione della rapidità dell’accertamento giudiziale e dell’efficiente e tempestivo raggiungimento della finalità del processo,
Questa attuazione, peraltro, è a sua volta subordinata all’osservanza di un ulteriore principio che costituisce il presupposto dell’operatività di tutti gli altri.
Occorre, precisamente, che al rispetto del principio della immediatezza in senso oggettivo (che esprime l’esigenza che il provvedimento giudiziale segua, senza soluzione di continuità, la trattazione processuale della causa e sia emesso proprio e solo dal giudice che ad essa abbia presenziato) si accompagni il rispetto del principio dell’immediatezza in senso soggettivo (il quale esprime la necessità di assicurare il contatto diretto, in situazione di prossimità, tra il giudice e gli altri soggetti del processo e l’immediata percezione da parte del primo dell’attività posta in essere dai secondi[59]).
In altre parole, le attività consistenti nell’interrogatorio delle parti, negli interventi in funzione di stimolo o di impulso verso le parti o gli ausiliari del giudice, nel tentativo di conciliazione o di soluzione concordata della controversia, nelle iniziative a chiarimento di circostanze oscure in funzione della ricerca delle verità e infine – e soprattutto – quelle concernenti l’assunzione delle prove costituende orali e l’ascolto della discussione e delle conclusioni delle parti, possono essere proficuamente svolte soltanto nel rispetto dell’immediatezza e cioè, non solo nella reciproca vicinanza, ma sulla base di quel contatto diretto e immediato che solo la prossimità materiale in un unico locale circoscritto e reale (l’aula d’udienza) può assicurare.
Gli attributi dell’immediatezza, della oralità e della concentrazione non costituiscono meri elementi strutturali del processo chiovendiano, ma costituiscono attributi ontologici della tutela giurisdizionale, come bene giuridico, quale emerge dal sistema complessivo del maestro di Premosello.
In difetto di tali connotati, per Chiovenda non sarebbe dunque ontologicamente concepibile la tutela giurisdizionale, poiché essa non potrebbe assumere la dignità di bene giuridico costituente punto di riferimento oggettivo del diritto potestativo di azione e risulterebbe inidonea al raggiungimento della finalità della giurisdizione.
Il diritto di azione verrebbe così svuotato di ogni contenuto, poiché non sarebbe possibile, attraverso il suo esercizio, conseguire l’obiettivo per il quale risulta conferito dall’ordinamento, consistente, obiettivamente, nell’attuazione della legge e, subiettivamente, nell’ottenimento di un provvedimento sul merito della domanda.
Se volessimo, oggi, contemperare il concetto chiovendiano di tutela giurisdizionale quale “bene” giuridico, nel senso che si è cercato di precisare, con la prescrizione costituzionale in tema di giusto processo (art.111 Cost.), potremmo dire che, in funzione della giustizia del processo, a Chiovenda non basterebbe che siano assicurate l’autonomia, l’indipendenza e la posizione di terzietà e di equiditanza del giudice; che alle parti sia garantita la piena esplicazione del diritto di difesa e di quello al contraddittorio; che i testimoni siano preservati da intimidazioni o suggestioni. Egli pretenderebbe, altresì, che l’incontro di tutti questi soggetti nella celebrazione di quel momento processuale fondamentale che è l’udienza, avvenisse nel rispetto di quei principi ontologicamente legati all’essenza stessa della giurisdizione, i quali presuppongono il contatto diretto e immediato dei soggetti processuali in posizione di prossimità.
Il processo da remoto, quale processo fondato su una modalità di celebrazione dell’udienza alternativa alla relazione di prossimità tra i vari soggetti del giudizio, non sarebbe, pertanto, nella concezione chiovendiana, un processo imperfetto o sbagliato ma sarebbe un “non processo”, perché precluderebbe in radice la possibilità di svolgere la funzione istituzionale della giurisdizione e di raggiungerne il fine.
[1] V. Andrioli, in Riv. dir. proc., 1986,700.
[2] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, VIII e XI: ‹‹Uscirà quanto prima, in separato volume, la dottrina dei rapporti processuali di esecuzione e di conservazione››.
[3] Il procedimento di esecuzione non è trattato né nei Principii né nelle Istituzioni, ove del resto, secondo A. Proto Pisani, in Foro it., 1973, V, 209, Chiovenda neppure ‹‹ebbe il tempo di sistemare … la materia trattata nell’ultima parte dei Principii››.
[4] Cfr. F. Cipriani, Quel lieto evento di tanti anni fa (una visita a Premosello Chiovenda), in Riv. dir. proc., 1991, 225 ss., nonché in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 265 ss., donde saranno tratte le successive citazioni.
[5] F. Cipriani, ult. cit., 266.
[6] F. Cipriani, ult. cit., 268.
[7] F. Cipriani, ult. cit., 270, 277, 278.
[8] Sul tema v., da ultimo, B. Cavallone, Una fondazione asimmetrica (un carteggio inedito dell’autunno del 1923), in Riv. dir. proc., 2018, 611 ss.
[9] F. Cipriani, Alla scoperta di Giuseppe Chiovenda, in Chiovenda, Scritti ossolani, Anzola d’Ossola, 1992, 11 ss., nonché in Scritti in onore dei Patres, cit., 287 ss., donde saranno tratte le successive citazioni.
[10] F. Cipriani, ult. cit., 290.
[11] F. Cipriani, ult. cit., 290-291.
[12] F. Cipriani, ult. cit., 291.
[13] Una conferma indiretta del fatto che la quinta “puntata” dei Principii, uscita nel 1923, corrispondeva alla sostanziale e sofferta riscrittura del manoscritto perduto nel 1920, può trarsi dalla circostanza che essa, pur essendo dedicata ai procedimenti speciali, non faceva alcuna menzione di quello monitorio, appena introdotto dalla legge 9 luglio 1922, n. 1035 (frutto del genio di Lodovico Mortara), mentre si soffermava ancora sulla autorizzazione maritale, abrogata dallo stesso Mortara, in qualità di ministro della giustizia, con la legge 19 luglio 1919, n.1176.
[14] Così proprio F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, p. 220, nota 33.
[15]G. Chiovenda (a cura di), La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione per il dopo guerra (Relazione e testo annotato), Napoli, 1920.
La Commissione Reale per il dopo guerra fu istituita, su iniziativa del Sen. Vittorio Scialoja, con legge 21 marzo 1918, n. 361, per proporre i provvedimenti necessari a risolvere i problemi giuridici ed economici del Paese dopo la fine della prima guerra mondiale. Essa si divise in due sottocommissioni, la prima per i problemi giuridici, la seconda per quelli economici. La I sottocommissione, presieduta dallo stesso Scialoja, di cui Chiovenda era devoto discepolo, si divise a sua volta in Sezioni e l’VIII Sezione, incaricata delle riforme del diritto privato, si ripartì ancora in tre Gruppi, il primo per il codice civile, il secondo per il codice di commercio e il terzo per il codice di procedura civile. Chiovenda assunse la presidenza del terzo gruppo, che si avvalse anche del contributo del giovane Enrico Redenti, anche egli legato a Scialoja per essere allievo di Vincenzo Simoncelli, che di Scialoja era stato non solo fedele discepolo (la sua sorprendete chiamata sulla cattedra di procedura civile dell’Università di Roma era stata l’arma con cui Scialoja aveva chiuso le porte del più importante ateneo italiano a Lodovico Mortara) ma anche collega fidatissimo (erano contitolari del celebre studio legale Scialoja-Simoncelli) e genero carissimo (ne aveva sposato la figlia Giulia), e che purtroppo era scomparso, prematuramente e dolorosamente, nel 1917. Con il placet di Scialoja, il terzo gruppo lavorò alacremente tra il settembre 1918 e il giugno 1919 (cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 197, il quale riferisce di averne ritrovato i verbali delle riunioni tra le carte di Chiovenda a Premosello), allorché vide la luce il progetto per la riforma del procedimento civile, che lo stesso Chiovenda avrebbe illustrato il 21 dicembre successivo allo scialojano circolo giuridico di Roma, dolendosi che il il Prof. Vittorio Scialoja, all’epoca ministro degli esteri, non fosse potuto intervenire, pur essendo stato, ‹‹come presidente della sottocommissione per gli studi giuridici, l’instancabile organizzatore ed eccitatore del lavoro››.
Sul progetto, che recava ben 204 articoli, nonché sulla celeberrima relazione di accompagnamento, si tornerà, infra, nel par.4.
[16] L’art.1 del progetto chiovendiano del 1919-1920, recante la rubrica ‹‹Oralità e concentrazione processuale››, disponeva che ‹‹le cause si trattano oralmente all’udienza …››.
[17] Il termine “propaganda”, quasi a mo’ di refrain, veniva ripetutamente utilizzato dallo stesso Chiovenda, sia negli scritti che negli interventi orali, per promuovere la riforma del processo civile all’insegna dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione: cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 129, il quale riferisce che verosimilmente la “propaganda” era iniziata l’11 marzo 1906, nell’ambito di una conferenza tenuta al circolo giuridico di Napoli. Sempre secondo F. Cipriani, ult. cit., 255, l’ultimo scritto di Chiovenda sull’oralità si identificherebbe con il saggio comparso sul primo numero della Rivista di diritto processuale civile, nel gennaio del 1924, recante il titolo L’oralità e la prova.
[18] G. Fichera, La Cassazione civile e il Covid-19: ex malo bonum?, in Il Caso.it, 23 marzo 2020, 11; Id., L’adunanza camerale distanziata protocollata, in Il Caso.it, 20 aprile 2020, 4.
[19] G. Fichera, La Cassazione civile, cit., 10; Id., L’adunanza camerale, cit., 5.
[20] G. Fichera, La Cassazione civile, cit., 12; Id., L’adunanza camerale, cit., 5.
[21] F. Terrusi, La Corte di cassazione ai tempi del Coronavirus, ovvero per una nomofilachia processuale solidale, in A. Didone e F. De Santis (a cura di), Il processo civile solidale dopo la pandemia, Milano, 2020, 44 e ss., particolarmente 56.
[22] Cfr. F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 56; G. Fichera, L’adunanza camerale, cit., 6.
[23] L’evocazione del principio della libertà delle forme si ritrova anche in A. Pepe, La giustizia civile ai tempi del coronavirus, in IlCaso.it, 2020, 6.
In generale, sul tema dell’adunanza cameale civile di legittimità nel rapporto tra disciplina ordinaria e disciplina emergenziale, cfr. R. Frasca, Note sull’adunanza camerale civile in Cassazione al lume della disciplina delle forme del processo ed ora in tempi di coronavirus, in GiustiziaInsieme.it, 2020.
[24] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 58-59.
[25] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 59.
[26] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 60-61.
[27] F. Terrusi, La Corte di cassazione, cit., 61.
[28] G. Fichera, La Cassazione civile, cit., 13 ss.; Id., L’adunanza camerale, cit., 6 ss.
[29] L’art.83 del d.l. n. 18/2020 è stato modificato dall’art.221 d.l. 19 maggio 2020 n.34 (c.d. decreto-rilancio). Quest’ultima norma, a sua volta modificata dalla legge di conversione (l. 17 luglio 2020, n.77), disciplina le modalità di trattazione dei processi civili nel periodo 30 giugno 30 ottobre 2020, consentendo, per un verso, la partecipazione “da remoto” all’udienza delle parti e dei difensori su istanza dell’interessato (art.221, comma 6) e, per altro verso, lo svolgimento con tale modalità dell’udienza stessa, previo consenso preventivo delle parti, allorché non sia richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, e purché l’udienza sia tenuta con la presenza del giudice nell’ufficio giudiziario e con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (art. 221, comma 7).
[30] G. Chiovenda, Principii, cit., IX.
[31] Cfr., sia pure in senso critico, S. Satta, Gli orientamenti pubblicistici della scienza del processo, in Riv. dir. proc. civ.,1937, I, 32 ss., nonché S. Satta, Orientamenti e disorientamenti nella scienza del processo, in Foro it., 1937, IV, 276 ss. In senso ricognitivo v. G. Tarello, Chiovenda, Giuseppe, in Dizionario Biografico Treccani, XXV, per il quale la dottrina chiovendiana «rovesciava l’idea liberale (secondo cui il processo civile è l’attività giurisdizionale pubblica al servizio dei privati) in senso autoritario (per cui anche nel processo civile l’interesse privato, con l’azione, adempie ad una funzione pubblica promuovendo, con l’attuazione della legge, un interesse dello Stato)».
[32] P. Calamandrei, Lodovico Mortara, già in Riv. dir. civ., 1937, 466, e poi in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156 ss.
[33] Così B. Cavallone, Una fondazione asimmetrica, cit., 616.
[34] Così L. Mortara, Lettera, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anno del suo insegnamento, Padova, 1927, XIII.
[35] L. Mattirolo, Istituzioni di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1899, 7.
[36] G. Chiovenda, Azione, voce del Dizionario pratico del diritto privato, ora in G. Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), a cura di A. Proto Pisani, III, Milano, 1993, 3 ss., particolarmente 5.
[37] G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, Bologna, 1903, pp.128.
[38] Cfr. F. Carnelutti, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 298, secondo cui il ‹‹discorso sull’azione›› tenuto a Bologna è ‹‹il manifesto della nuova scuola››; analogamente E.T. Liebman, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. comm., 1938, I, 94, che identifica la prolusione tenuta dalla cattedra dell’Alma Mater con il ‹‹vero manifesto programmatico del nuovo indirizzo di studi››.
[39] V., in particolare, S. Satta, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, 29, nonché Id., La dottrina del diritto processuale civile (scritto nel 1974 ma pubblicato) in Riv. dir. proc., 1992, 703, il quale, attraverso la metafora del c.d. ‹‹mutamento di sesso››, ipotizza una trasformazione della disciplina da mera pratica (‹‹procedura civile››) a scienza vera e propria (‹‹diritto processuale civile››), individuandone ‹‹l’avvento›› o ‹‹addirittura la data di nascita›› nel giorno 3 febbraio 1903.
[40] Per il rilievo che la tesi dell’autonomia dell’azione viene affermata da Chiovenda ‹‹sulle orme di Adolph Wach››, cfr. F. Cipriani, Il 3 febbraio 1903 tra mito e realtà, in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, p.253.
[41] Cfr. L. Mortara, Manuale della procedura civile, I Torino, 1897, p.14, secondo cui l’azione è ‹‹il diritto di provocare l’esercizio dell’autorità giurisdizionale dello stato contro le violazioni che stimiamo patite da un nostro diritto subiettivo››.
[42] Così F. Cipriani, ult. cit., 253, nota 10.
[43] Cfr., sul tema, il perspicuo ed illuminante saggio di G. Monteleone, Domenico Viti e l’eredità scientifica di Giuseppe Chiovenda, in Giur. it., 1997, IV, 89 ss..
[44] Così F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 92.
[45] G. Chiovenda, L’azione, cit., 10: ‹‹La mera possibilità, capacità, libertà d’agire che spetta a tutti i cittadini, non per sé un diritto … ma piuttosto una condizione del diritto d’agire››.
[46] Cfr., incisivamente, G. Chiovenda, L’azione, cit., 19: ‹‹La domanda infondata è per sé atto lesivo dell’ordinamento››.
[47] C.M. Bianca, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1 e ss.; W. Cesarini Sforza, Diritto soggettivo, in Enc. dir., XII, 1964, 659 e ss.; V. Frosini, Diritto soggettivo, in Nuov. dig. it., V, 1047 e ss.. C. Maiorca, Diritto soggettivo, in Enc. giur. Treccani, XI, 1989.
[48] G. Chiovenda, L’azione, cit., 9, 11 e 14.
[49] Più che nell’esercizio di una facoltà l’esercizio dell’azione si traduce in quello di una potestà, poiché ‹‹ha per contenuto un puro potere giuridico e non un dovere altrui››: così G. Chiovenda, L’azione, cit., 20.
[50] Su tale capacità si soffermerà, non senza un pizzico di civetteria, lo stesso Chiovenda, quando, ormai maturo dominus del diritto processuale civile italiano, detterà, nel 1923, la celebre prefazione ai suoi Principii: cfr. G. Chiovenda, Principii, cit., XIII.
[51] Si allude, in particolare, al R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 e alla L. 22 aprile 1941, n. 633, i quali rappresentano forse i primi esempi positivi volti a sganciare il concetto di bene da quello di cosa, mediante il riconoscimento della dignità di beni (evidentemente, immateriali), rispettivamente, alle invenzioni industriali (protette con il diritto di brevetto) e alle opere dell’ingegno (protette con il diritto di autore).
[52]L’espressione viene largamente utilizzata dalla dottrina civilistica, in particolare da quella commercialistica, per evidenziare la tendenza del legislatore del 1942 ad attribuire prevalenza, nel nuovo codice unificato, alla disciplina contenuta nel previgente codice di commercio del 1882, anziché a quella contenuta nel previgente codice civile del 1865. Sul tema v., per tutti, G. Levi, La commercializzazione del diritto privato: il senso dell’unificazione, Milano, 1996.
[53] A. Proto Pisani, Ricordando Giuseppe Chiovenda: le note alla ‹‹Azione nel sistema dei diritti›› del 1903, in Foro it., 2003, V, 61 e ss.
[54] Lo stesso Chiovenda, nel dettare la Prefazione alla terza edizione del Trattato delle prove di Lessona, pubblicata a cura del figlio Silvio, dopo la morte prematura dell’autore, ricorderà che tra gli ‹‹argomenti›› con cui era ‹‹fecondo discorrere›› con il prefato, vi era quello dell’azione di accertamento ‹‹come figura generale del nostro diritto››, che Lessona non ammetteva, ritenendo che contro il “vanto” altrui la legge italiana non consentisse altra azione che quella risarcitoria: cfr. G. Chiovenda, Prefazione, in C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, terza ed., III e V, a cura di S. Lessona, Firenze, 1922-1924, 3 ss..
[55] A. Proto Pisani, ult. cit.
[56] G. Chiovenda, Relazione sulla proposta di riforma, in La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione per il dopo guerra, cit., 19.
[57] Cfr. M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal 700 ad oggi, Bologna, 1982, 197.
[58] Cfr. G. Chiovenda, Relazione, cit., 19, ove si sostiene, anche attraverso l’allegazione di dati statistici, che in Austria il 45% delle cause viene deciso in un mese, il 35% in tre mesi, il 15% in sei mesi, il 4% in un anno e solo l’1% in più di un anno. Va qui rilevato che per Chiovenda (e in generale per la nuova scuola “sistematica”, che attribuiva importanza fondamentale all’indagine storica e all’insegnamento della dottrina tedesca), l’ordinamento processuale austriaco rappresentava un esempio da seguire. Chiovenda, in particolare, aveva manifestato il suo ammirato interesse per la riforma predisposta in Austria da Franz Klein (entrata in vigore il 1° gennaio 1898) sin dalla prolusione al corso di libera docenza tenuto a Roma, nel 1901 (cfr. G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto (1901), in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma, 1931, p. 353 ss.).
[59] Già nel 1911, Chiovenda aveva parlato di ‹‹rapporto immediato tra giudici e le persone le cui dichiarazioni sono chiamati ad apprezzare››: cfr. G. Chiovenda, La riforma del procedimento civile, in Saggi, cit., 1993, 296.
“ELI Principles for the Covid 19 Crisis”: argini e contrappesi contro l’abuso dello stato di eccezione entro lo spazio giuridico europeo
di Enrico Camilleri
Sommario: 1. Premessa - 2. Gli ELI Principles for the Covid 19 Crisis: le ragioni di un decalogo per lo spazio giuridico europeo - 3. La struttura dei Principles - 4. I Principi di più marcato rilievo privatistico - 5. Stato di eccezione/emergenza e ordine giuridico europeo.
1. Premessa
Il carattere estremo che è proprio di uno scenario pandemico assegna di necessità alla scienza medica un ruolo di primo piano, nel discorso pubblico come nel supporto tecnico al decisore politico. Altrettanto necessario appare tuttavia anche il concorso di altre competenze ed energie intellettuali, a partire da quelle del giurista, cui tocca in special modo l’elaborazione di proposte su temi certo collaterali alla emergenza sanitaria in sé ma non per questo di secondaria importanza: si pensi a disuguaglianze, ricadute delle misure straordinarie su diritti e libertà individuali, preservazione dello stato di diritto, tanto per stare a un inventario minimo.
Prendendo le mosse dalle “disuguaglianze” socio-economiche, ad esempio, è proprio la storia ad indicarne il nesso con epidemie/pandemie, se è vero che alla maggiore letalità di queste ultime ha fatto spesso seguito un effetto di tendenziale livellamento delle prime, conseguito per via di uno shock comparabile per intensità a quello di cui si incaricano normalmente altri “cavalieri dell’Apocalisse” quali guerre, rivoluzioni o carestie[1].
Più frequente è però il palesarsi di un nesso pandemia – disuguaglianza che veda l’una fungere da fattore moltiplicatore dell’altra, anziché da suo freno. Confinato l’esito “redistributivo” ai soli casi limite più catastrofici, almeno di norma un evento pandemico finisce in altri termini con l’acuire - nel breve/medio termine - il divario nella distribuzione delle risorse e della ricchezza in genere, producendo ripercussioni economiche che impattano in misura più severa sulle fasce della popolazione in condizioni di maggiore vulnerabilità.
Non meno significative sono, d’altra parte, le ricadute che una emergenza sanitaria come quella in corso presenta a carico vuoi di prerogative individuali, vuoi dello stato di salute delle istituzioni democratiche.
Qui, invero, il conforto delle serie storiche e dell’analogia con situazioni e soluzioni già sperimentate in passato si fa più relativo, se non altro in quanto la frontiera di salvaguardia giuridica della Persona e dei suoi attributi, oltre che di evoluzione e consolidamento della rule of law non appare, almeno in thesi, già prima raggiunta a livello globale.
Può in ogni caso affermarsi come, quanto più seria sia avvertita la minaccia per la salute pubblica, tanto più pervasive e drastiche tendono ad essere le misure che i governi sono indotti ad adottare [2]. Per poco che ciò abbia luogo ecco allora imporsi la necessità di fissare o comunque rinsaldare gli argini e i contrappesi propri della democrazia liberale, pena lo scivolamento verso le pericolose distorsioni che sempre si celano dietro l’usbergo dello “stato di eccezione”; oggi invocato a tutela della salute pubblica, seppure terminologicamente dissimulato come “stato di emergenza”[3], ieri esplicitamente proclamato in guisa di état de siège (fictif ou politique), secondo il decreto napoleonico del 24 dicembre 1811, di Kriegszustand, secondo la costituzione bismarkiana (art. 68) o più genericamente di “minaccia alla sicurezza pubblica e all’ordine”, secondo la ormai nota formulazione dell’art 48 della Costituzione di Weimar[4].
2. Gli ELI Principles for the Covid 19 Crisis: le ragioni di un decalogo per lo spazio giuridico europeo
A questi temi, pur variamente declinati, è dedicato il documento “ELI Principles for the Covid 19 Crisis”, pubblicato nel mese di maggio di quest’anno dall’European Law Institute, prestigiosa organizzazione indipendente con sede a Vienna, creata per promuovere la ricerca, formulare raccomandazioni e fornire orientamenti pratici nel campo dello spazio giuridico europeo[5].
Si tratta di una “lista” di 15 Principi, concepiti a mo’ di ideale sestante di valori democratici ad uso di Stati e altre Istituzioni politiche, preceduti da un eloquente Preambolo che esplicita le premesse “teoriche” dell’iniziativa. Su tutte, la preoccupazione che le misure eccezionali adottate a livello nazionale per far fronte al dilagare del Covid-19, foriere come sono di inevitabili molteplici restrizioni a carico di diritti fondamentali e non solo, possano esorbitare dalla cornice dei principi democratici e di legalità: “It is in the greatest interest of society” – si legge infatti nel Preambolo -“that these measures against Covid-19 are imposed and enforced within the framework of established democratic principles and the rule of law”.
Da qui appunto l’auspicio che Parlamenti e Corti non patiscano altre limitazioni alla propria azione che quelle strettamente necessarie al contenimento della diffusione del virus e, in ogni caso, limitazioni “subject to democratic control”. Sul fronte economico e sociale, invece, si muove dalla presa d’atto che disposizioni quali quelle di distanziamento sociale, interdittive di determinate attività o comunque d’ostacolo alla ordinaria mobilità delle persone, fatalmente impattino sulle relazioni d’affari, oltre che sui livelli occupazionali, così da richiedere contrappesi orientati ad una gestione di sopravvenienze sperequative (hardship) che sia il più possibile conforme ai principi di solidarietà e correttezza.
Ad una illustrazione di massima dell’impianto dei Principles dedicheremo le brevi note che seguono.
Mette però conto svolgere preliminarmente almeno due considerazioni di carattere generale, la prima delle quali attiene al “taglio” del documento, costituito appunto da un elenco di Principi, per così dire, di “sistema”. Taglio scontato ove si pensi ai propositi che ispirano l’iniziativa dell’ELI, cui si addice giusto un decalogo di indicazioni generali, quantunque precisamente connotate.
Resta nondimeno che un “decalogo” il quale, ad onta del preciso suo baricentro tematico (l’emergenza da COVID-19), quasi ricalchi la parte “nobile” di un testo costituzionale avanzato, con sporgenze sia sul fronte dei rapporti sociali che delle relazioni economiche, come minimo spicca per contrasto rispetto al profluvio di norme, spesso secondarie e prive di forza di legge, che in molti Paesi – a partire dal nostro, con l’abusato e improprio strumento del DPCM - hanno sin qui scandito la metrica delle varie fasi dell’emergenza; norme sovente connotate da un livello eccessivo di dettaglio precettivo e non di rado apparse quasi avulse, quando non schiettamente in contrasto, rispetto al quadro dei principi che siamo soliti indicare come fondativi dell’ordinamento[6].
La seconda considerazione concerne invece la stessa utilità/necessità di un testo come quello in esame, in rapporto alle finalità per cui è stato redatto. Guardando ad esso da un’angolazione interna all’Unione europea si potrebbe, almeno sulle prime, essere tentati di liquidarlo come ridondante rispetto al diritto vigente e dunque piuttosto rivolto a realtà nazionali altre da quelle già riconducibili al perimetro dell’Unione; ciò, a cagione della (supposta) saldezza e condivisione dei principi che sono alla base dei Trattati europei, oltre che delle stesse Costituzioni nazionali dei Paesi membri.
Una valutazione del genere non tarderebbe, tuttavia, a rivelarsi superficiale e verrebbe presto smentita dal concorso di più elementi.
Va innanzitutto ricordato come, specie in relazione a molti Paesi dell’Europa orientale (Polonia e Ungheria in testa), si parli ormai da tempo di autentica regressione democratica, di deriva illiberale e deviazione dallo Stato di diritto[7]; senza dire delle analisi più radicali che descrivono addirittura un processo involutivo a carico dell’intera architettura europea[8].
Centrale è, inoltre, la circostanza che, almeno a far data dal Trattato di Lisbona del 2007, rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, indipendenza e imparzialità della magistratura, controllo giurisdizionale effettivo e uguaglianza davanti alla legge sono assurti al rango di valori fondativi dell’ordinamento giuridico dell’Unione, comuni agli Stati membri[9]. Già in larga misura richiamati nel secondo e nel quarto Considerando del Preambolo al Trattato UE, essi sono poi espressamente enunciati all’articolo 2 e indirettamente evocati agli artt. 7, comma 1 e 49, comma 1 del dello stesso TUE, come la Corte di Giustizia ha in più occasioni affermato[10].
Ebbene, nonostante questo accresciuto rango e l’implicito riconoscimento di una loro maggior carica assiologica rispetto ad altri hallmarks del processo di integrazione - su tutti il funzionamento concorrenziale dei mercati - quei valori non possono dirsi di indiscussa osservanza su base continentale. Lo conferma ancora una volta la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, costretta a rimarcarne la efficacia diretta, nonché ad annettere alla loro salvaguardia la medesima importanza riservata usualmente all’applicazione uniforme del diritto euro-unitario e al c.d. effetto utile[11].
Lo conferma in secondo luogo la elaborazione della systemic deficiencies doctrine, dispositivo teorico per distinguere sporadiche violazioni di (o minacce a) diritti fondamentali da parte di norme municipali, rispetto a forme più pervasive e gravi di “breach of law”, le quali tradiscano il fallimento o comunque l’insufficienza dei contrappesi interni al singolo sistema nazionale e minaccino dunque di mettere capo a conflitti inter-sistemici[12]. E lo conferma, infine, la proposta della Commissione europea di un “Regolamento sulla tutela del bilancio dell'Unione in caso di carenze generalizzate riguardanti lo Stato di diritto negli Stati membri [13], il cui Considerando n. 3 emblematicamente recita che “Lo Stato di diritto è una condizione sine qua non per la tutela degli altri valori fondamentali su cui si fonda l'Unione, quali la libertà, la democrazia, l'uguaglianza e il rispetto dei diritti umani”.
Ultimo - non certo però per importanza - è poi il dato costituito dalla cronaca dei mesi scorsi, che ha visto riesplodere ad esempio un “caso Ungheria” proprio in relazione al proclamato stato di emergenza (potenzialmente a tempo indeterminato) per far fronte alla emergenza sanitaria, alla conseguente assunzione di pieni poteri da parte del Primo ministro Orbán e alla sospensione dell’attività parlamentare; o che ha fatto registrare non poche critiche e censure nei riguardi di svariati passaggi politico-istituzionali della gestione della crisi da parte di più di un governo nazionale, a partire dal nostro.
Tutto ciò considerato, dunque, neppure il perimetro dell’Unione europea può a ben vedere intendersi immune rispetto ai rischi di “regressioni democratiche”, per citare ancora la icastica espressione impiegata da Rupnik per descrivere lo stato in cui versano molti Paesi membri del quadrante Est; non a caso, del resto, è stato lo stesso Commissario europeo alla Giustizia a dichiarare essere intendimento della Commissione quello della difesa dello stato di diritto “durante e dopo la crisi” sanitaria, aggiungendo che il tema “è diventato negli anni una vera preoccupazione del Consiglio europeo, alla stregua delle questioni economiche o di bilancio pubblico”[14].
3. La struttura dei Principles
Una disamina dei Principles dell’ELI può essere condotta seguendo due schemi possibili; l’uno, costituito da una lettura d’insieme e dalla estrapolazione qua e là di spunti critici o ipotesi di lavoro, magari de lege ferenda; l’altro invece tutto centrato sulla specola dell’esperienza nazionale, posto che ciascuna delle indicazioni che compongono il decalogo suggerisce valutazioni in controluce delle diverse opzioni di policy e/o disposizioni municipali.
L’economia di questa note non consente per vero che di coltivare il primo approccio, sicché ci si limiterà solo a qualche incursione nel diritto italiano, in corrispondenza di quei passaggi del “decalogo” che appaiono più ricchi di suggestioni, vuoi in ordine a provvedimenti già varati, vuoi a provvedimenti che si rende opportuno varare, specie in relazione a classi di fattispecie che appaiono bisognose di soluzioni più funzionali di quelle già disponibili de iure condito.
Fatta questa breve premessa metodologica, può dirsi subito che i “Principles for the Covid 19 crisis” presentano una struttura scomponibile per blocchi tematici, il primo dei quali (costituito dai Principles 1 e 2) si presenta come di più ampia prospettiva e maggiore tensione ideale.
Il decalogo si apre infatti (Principle 1) con un richiamo a valori, principi e libertà fondamentali, enunciati a più livelli della gerarchia delle fonti del diritto dell’UE e non (TUE, TFUE, Carta europea dei Diritti, ECHR) e la cui preservazione è posta quale necessità non derogabile, fatte salve le circostanziate compressioni dettate dalle esigenze di contenimento della pandemia, in ogni caso ammissibili solo se ed in quanto adeguate, proporzionate, delimitate temporalmente e sottoposte comunque al vaglio di Parlamento e magistratura. Nessuna limitazione, quand’anche conforme alle condizioni di massima appena indicate, è invece ritenuta legittimamente configurabile in tema di libertà di espressione, libertà di stampa e accesso degli individui alla tutela giurisdizionale.
Segue, quindi, il Principio n. 2, dedicato alla non discriminazione.
Vi si afferma opportunamente come la crisi da Covid-19 non possa costituire occasione o giustificazione per discriminare gli individui in base alla loro nazionalità o ad altri “criteri”, né tantomeno per avallare applicazioni discriminatorie di specifiche misure emergenziali. Rilievo a sé è dedicato, poi, al “divieto” di discriminazioni nella erogazione di prestazioni sanitarie, come nella fornitura di beni e servizi che, normalmente di largo accesso, rischino di divenire risorse scarse in tempo di crisi.
Basti pensare a quei beni maggiormente connessi con la sfera della salute individuale, i quali hanno fatto registrare, specie nelle fasi iniziali dello scoppio della emergenza, severi squilibri tra domanda e offerta a livello mondiale: dalle banali ma indispensabili mascherine, fino a beni di maggior valore e contenuto tecnologico, quali i ventilatori polmonari. Le une e gli altri sono stati infatti non solo oggetto di fallimenti di mercato, a partire da pratiche commerciali abusive lungo la filiera distributiva, ma soprattutto di tentazioni “nazionalistiche” da parte di singoli governi, propensi a favorire il prioritario soddisfacimento della propria domanda interna, in spregio palese delle regole stesse del mercato unico europeo oltre che dei valori solidaristici e, appunto, del divieto di discriminazioni di ogni sorta, a partire da quelle legate alla nazionalità.
Un secondo nucleo tematico omogeneo è riconducibile ai capisaldi della democrazia liberale e dello stato di diritto; esso è costituito dai Principi 3, 4 e 5, rispettivamente dedicati a “Democracy”, “Lawmaking” e “Justice System”.
Con particolare enfasi è intanto sottolineato come l’emergenza in atto, in nessun caso e per nessuna ragione, possa legittimare misure che, anche al di là delle intenzioni perseguite, rischino di esitare uno scenario di tipo repressivo o autoritario, con indebolimento delle Istituzioni democratiche e preclusione del diritto dei cittadini ad un governo democratico. Ai Parlamenti deve essere preservata pienezza di attribuzioni e prerogative, oltre che demandato il controllo sulle iniziative di maggior rilievo assunte dai governi; inoltre, le elezioni durante la fase dell’emergenza è raccomandato si tengano solo a condizione del pieno rispetto delle procedure che ne presidiano il carattere libero e democratico. Il ruolo del Parlamento è, ancora, richiamato in ordine alla produzione normativa, laddove è infatti sottolineata (Principle n. 4) la necessità che i governi non abusino degli strumenti tipici della normazione d’urgenza, specie al fine di assicurarsi specifici privilegi o anche solo l’ampliamento dei propri poteri e soprattutto che rimettano quanto prima possibile al fisiologico vaglio (e dibattito) parlamentare quei provvedimenti che sia stato necessario adottare in condizioni emergenziali ma che si reputi poi utile mantenere anche oltre il venir meno delle originarie ragioni di urgenza che ne hanno dettato l’emanazione.
E’ inoltre ribadita la necessità che tutte le fonti del diritto, quantunque varate in fase emergenziale, soddisfino comunque un criterio di conformità alla Costituzione, al diritto della UE nonché alle altre fonti di rango superiore, specie in merito alla tutela dei diritti fondamentali.
Quanto all’amministrazione della giustizia (Principle 5), si sottolinea come l’emergenza non ne possa legittimare sospensioni di sorta; la funzione giurisdizionale dovrebbe, in altri termini, venire comunque assicurata, con ogni mezzo tecnico a disposizione (inclusi gli strumenti di collegamento da remoto) e il più possibile con regolarità, essendo peraltro avvertito come precipuo compito degli Stati quello di assicurare la sospensione o la estensione dei termini di prescrizione dei diritti, di modo che chi intenda conseguirne la tutela giurisdizionale non patisca gli effetti negativi di una ridotta attività delle Corti o di una limitata possibilità di adirle.
Proseguendo con l’analisi sommaria del documento possono, ancora, isolarsi i Principles 6, 7 e 8, dedicati a specifici diritti e libertà individuali; segnatamente, alla tutela della privacy, nel segno della minima invasività e proporzionalità degli accessi a dati personali dei singoli che si impongano sull’altare della salute pubblica, nonché alla eccezionalità delle misure che determinino chiusure dei confini e che limitino i movimenti di beni e servizi all’interno della UE.
Seguono quindi le previsioni che potrebbero dirsi rivolte alle ricadute della pandemia sul tessuto sociale (Principles 9 e 11) ed economico (Principles 9, 10,12,13 e14), in relazione alle quali emerge una forte intonazione solidaristica ed una coerenza di fondo con il paradigma dell’economia sociale di mercato.
Esclusivamente di ambito sociale è, così, la proiezione del Principle 11, dedicato all’Istruzione: vi viene espresso l’auspicio che le attività educative proseguano con la massima continuità possibile, anche sfruttando gli strumenti per l’insegnamento e le verifiche di apprendimento a distanza, avendo cura in particolare di prevenire il manifestarsi su questo cruciale terreno di ricadute discriminatorie del c.d. digital divide.
Idealmente a metà tra la dimensione dei rapporti sociali e di quelli economici si colloca diversamente il Principio n. 9, intitolato “Employment and the economy”. Per suo tramite, a valle di misure emergenziali (a partire da quella più radicale di lockdown) che abbiano danneggiato imprese e lavoratori, è promossa l’attuazione di interventi pubblici di sostegno, purché compatibili con la disciplina europea sugli Aiuti di Stato e particolarmente orientati a ridurre la perdita di posti di lavoro[15]. Coerentemente è poi suggerito (comma 4) di adottare legislazioni nazionali che, a fronte dei sostegni economici concessi, inducano le stesse imprese beneficiarie a non corrispondere dividendi agli azionisti o bonus e altri benefit finanziari per il management.
Di esclusiva pertinenza al campo delle relazioni di mercato sono viceversa i Principi 10, 12, 13 e 14, i quali presentano anzi una caratura schiettamente privatistica e sui cui ci si soffermerà nel paragrafo seguente.
A chiusura del decalogo è invece posto il Principio n. 15, contenente l’importante indicazione sul ritorno alla normalità. Un monito, a ben vedere, rivolto ai governi nazionali, invitati a rendere note quanto prima possibile le tappe successive che scandiranno la revoca delle misure emergenziali e il pieno ripristino della rule of law, con l’auspicio comunque di un attento monitoraggio da parte delle istituzioni dell’Unione europea.
4. I Principi di più marcato rilievo privatistico
Come anticipato, i Principi nn. 10,12,13 e 14 attengono alle relazioni intersoggettive di marca patrimoniale.
Il Principio n. 10, intitolato Continuity of Relationships at a distance, è volto a preservare condizioni minime di possibilità e continuità delle relazioni contrattuali, attraverso l’impiego di strumenti tecnici di comunicazione a distanza.
Nel dettaglio, il primo comma è incentrato sulla conclusione dei contratti, nonché sulla possibilità di compiere gli atti ad essa prodromici, a tale scopo raccomandando il varo di strumenti legislativi adeguati, anche in ordine all’esercizio da remoto delle funzioni notarili; il comma secondo, da leggere peraltro in stretto raccordo con il successivo Principle 13, è riservato invece alla preservazione della possibilità di adempimento delle obbligazioni contrattuali.
Nel presupposto che le misure c.d. di distanziamento sociale possano di fatto impedire l’esecuzione dei contratti in essere, viene caldeggiata una disciplina nazionale che non solo favorisca, ove possibile, adempimenti “a distanza”, ma che soprattutto impronti a proporzionalità le limitazioni alle ordinarie interazioni soggettive.
Seguono quindi i Principi 12 (Moratorium on regular payments) e 13 (Force majeure and hardship), senza dubbio tra i più densi di significato e spunti, almeno sul piano civilistico; essi toccano infatti tanto il debito privato (anche di natura fiscale) e la sua gestione, quanto il governo delle relazioni contrattuali interessate da uno stravolgimento dell’economia dell’affare.
La prima “disposizione” propugna la mitigazione degli effetti più dirompenti della crisi a carico del tessuto economico, mediante moratoria dei pagamenti scaduti o in scadenza, specie per debiti fiscali, affitti e mutui; una vera e propria sospensione dei termini di esigibilità dei relativi crediti, da associare all’invarianza degli importi dovuti, non suscettibili infatti di ulteriori incrementi per interessi in pendenza della moratoria stessa, nonché alla correlativa sospensione del decorso prescrizionale.
Sono inoltre suggeriti provvedimenti municipali di interruzione delle procedure esecutive e/o di insolvenza, in presenza di sofferenze di cassa o crisi di liquidità, strettamente correlate alla emergenza pandemica. Infine, con un esplicito richiamo al principio di solidarietà sociale, è ipotizzato il varo di misure orientate alla esdebitazione parziale o totale.
Si tratta certo di linee di azione dal forte connotato emergenziale, come tali invero già rintracciabili nella legislazione di molti Stati dell’Unione[16]. Non tutte le normative interne possono però dirsi appieno coerenti con il “compasso allargato” che ispira la proposta dell’European Law Institute.
Stando al caso italiano, ad esempio, il riferimento più immediato va al D.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”), poi convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 7, i cui articoli 54 e 56 hanno disposto, rispettivamente, un più esteso accesso al c.d. Fondo Gasparrini[17] per i debitori coinvolti in rapporti di mutuo per l’acquisto di prima casa, nonché la sospensione (fino al 30 settembre) delle rate a scadere relative a i rapporti di credito ad esecuzione periodica che vedano micro imprese o piccole imprese in posizione debitoria verso banche o altri intermediari finanziari ovvero, ancora, la proroga (parimenti al 30 settembre 2020) degli altri rapporti di credito[18] di cui sempre piccole e micro imprese siano parte.
Senonché, basterà rilevare come, in relazione a quanto disposto dall’art 56, spicchi la preservata feneratizietà dei rapporti, anche durante il periodo di moratoria[19]; mentre l’articolo 54 - che pure mette capo ad una deroga estensiva dei requisiti di accesso allo strumento già istituito e normato dai commi 475-480 della l. 244/2007 – con il prevedere che il Fondo di solidarietà, su richiesta del mutuatario, provveda al pagamento degli interessi compensativi “nella misura pari al 50% degli interessi maturati sul debito residuo durante il periodo di sospensione”, lascia residuare quanto meno l’incertezza circa l’esaurirsi o meno delle spettanze della banca.
Si aggiunga poi come nessuna previsione è stata dedicata, nel provvedimento richiamato come in altri successivi, ai rapporti locatizi, quanto meno nel senso di una esplicita moratoria – s’intende, a certe precise condizioni - sul debito pecuniario dei conduttori, tanto nei rapporti di tipo abitativo che di tipo commerciale.
Sempre rimanendo alla prospettiva domestica, mette infine conto rilevare come il riferimento alle misure esdebitative rimandi certo ad istituti e rimedi già presenti nell’ arsenale legislativo - dal sovraindebitamento del consumatore alle disposizioni contenute nel nuovo Codice della crisi di impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), di ormai imminente entrata in vigore – nonché agli ulteriori che scaturiranno dal recepimento della Direttiva UE n. 1023/2019[20].
Difficile però non scorgere nella indicazione conclusiva del Principle 12 anche la stura all’avvio di un più ambizioso ripensamento della gestione del debito privato e dei rapporti obbligatori in genere, proiettato al di là delle stesse contingenze pandemiche e sviluppato lungo tracce ormai sempre più pronunciate nel sistema, quali il temperamento del principio di “indistruttibilità” dell’obbligazione pecuniaria e di sua insensibilità alla sopravvenuta impotenza finanziaria del debitore, nonché il diverso atteggiarsi della garanzia patrimoniale[21]. Nella medesima direzione, del resto, sebbene in traiettoria macroeconomica, militano recenti, autorevoli interventi, a partire da quello di Mario Draghi nell’ormai celebre intervista al Financial Times[22], in cui l’ex Presidente della BCE ha preconizzato l’innalzamento permanente dei livelli di debito pubblico, accompagnato però proprio da una massiccia cancellazione dei debiti privati.
Passando, poi, alla lettura del Principle 13, esso fornisce indicazioni – per quanto generali – concernenti il diritto dei contratti, precisamente nel segno della previsione o della più puntuale valorizzazione di tecniche rimediali orientate alla gestione di situazioni di impossibilità sopravvenuta delle prestazioni, di forza maggiore o di eccessiva onerosità sopravvenuta.
In presenza di adempimenti contrattuali che l’emergenza Covid-19 precluda temporaneamente o definitivamente, anche solo per factum principis, le disposizioni nazionali in tema, appunto, di impossibilità sopravvenuta o forza maggiore devono risultare effettive e assicurare soluzioni ragionevoli sul piano della ottimale distribuzione del rischio e del rispetto del principio di buona fede.
A fronte di prestazioni divenute eccessivamente onerose viene, poi, propugnata la valorizzazione o in ogni caso la introduzione di tecniche di rinegoziazione del contratto, nel segno del principio di buona fede, mentre è l’ossequio al principio di solidarietà sociale ad essere invocato ai fini di una distribuzione (tra le parti) dei rischi legati allo scioglimento di contratti, ivi comprese ad es. le cancellazioni di prenotazioni di viaggio.
Anche tali previsioni suggeriscono, per vero, una pur sommaria incursione nel diritto italiano, ove i dispositivi rimediali, codicistici e non, compongono un quadro di tutele sì di buon livello ma a ben vedere non ancora ottimale, per lo meno rispetto alle sfide poste dall’emergenza pandemica.
Se si pensa alle tecniche di reazione /gestione delle sopravvenienze, rinvenibili tanto nella disciplina delle obbligazioni in generale (art 1256 cod. civ.), quanto soprattutto in quella generale del contratto (artt. 1463, 1464 e 1467 cod. civ.), non tarda infatti ad emergere la netta propensione del sistema verso esiti piuttosto liquidatori (risoluzione) che manutentivi (rinegoziazione) del rapporto, questi ultimi essendo di norma asimmetricamente affidati alla scelta del solo contraente contro cui sia domandata la risoluzione (con l’offerta di riconduzione ad equità ex art. 1467, comma 3, cod. civ.), mentre conformati in senso “bilaterale” solo entro gli angusti margini del regime di singoli tipi contrattuali (si pensi all’articolo 1664 cod. civ., dettato in tema di appalto).
Con particolare riguardo alle sopravvenienze sperequative del contratto può quindi senz’altro denunciarsi la carenza, nel sistema, di una chiara e generale previsione che orienti (rectius, vincoli) i contraenti verso una rinegoziazione del rapporto secondo buona fede[23]; non solo, peraltro, in relazione alle classiche sperequazioni “eccessive”, bensì anche a quelle semplicemente “significative”, tra cui rientrano di certo quelle legate a eventi imprevedibili ed eccezionali che abbiano sensibilmente mutato l’economia dell’affare a detrimento di una soltanto delle parti, tenuta a prestazioni per l’appunto divenute ben più onerose del previsto. Al vuoto legislativo potrebbe però sopperire un auspicabilmente breve iter legislativo di riforma del codice civile, avviato mesi addietro con il DDL di delega al Governo (DDL Senato 1151) e recante fra l’altro la proposta di inserimento di un nuovo art 1468 bis, concernente giusto il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretenderne la rinegoziazione secondo buona fede[24].
In disparte dalla prospettiva della rinegoziazione degli squilibri sopravvenuti (anche solo significativi), l’emergenza ha peraltro messo in esponente la questione delle interferenze esterne che, specie le misure per il contrato alla diffusione del Covid-19, possono generare a carico dell’attività esecutiva, preservata sì in astratto possibile ma al prezzo di uno sforzo irragionevole del debitore.
Il legislatore italiano ha qui provato ad abbozzare una risposta in sede di “legislazione d’emergenza”; tale è in particolare comma 6 bis dell’art. 3 del d.l. 23 febbraio, n. 6, inserito ad opera dell’art. 91, comma 1°, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, poi convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto e' sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilita' del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La disposizione, nondimeno, pur chiaramente orientata alla esenzione di ogni responsabilità del debitore che si renda inadempiente in ragione dei sacrifici/costi irragionevoli che avrebbe viceversa dovuto affrontare per eseguire correttamente e tempestivamente la prestazione, si segnala per il carattere equivoco quando non lacunoso del suo testo. Basti dire, nel primo senso, del fuorviante richiamo all’articolo 1223 c.c., che ratione materiae parrebbe militare piuttosto nel senso di una limitazione che non di una esenzione della responsabilità; nella seconda prospettiva, invece, può sottolinearsi la omessa menzione di possibili condotte “reattive” da parte del creditore insoddisfatto in contratti sinallagmatici, a partire dalla possibilità o meno che questi si avvalga della exceptio inadimpleti contractus [25].
Resta, a questo punto da dire brevemente del Principio n. 14 (Exemption of liability for simple negligence), il quale prefigura la opportunità di una sorta di scudo civilistico – per lo meno fino alle soglie della colpa grave - per gli operatori sanitari che prestino servizio la propria attività a beneficio di pazienti Covid, rispetto ai rischi che eventi avversi lascino emergere profili di loro responsabilità civile. Una opzione, questa, già oggetto di dibattito anche nel nostro Paese ed in specie non troppo distante da alcune tra le proposte più meditate che sono state formulate nei mesi scorsi, tra cui quella di riassorbire entro la nozione di “speciale difficoltà” ex art 2236 c.c. anche la assenza di specifiche linee guida validate da precedenti esperienze cliniche e di ponderare un recupero dell’art 3 della legge 189/2012[26].
5. Stato di eccezione/emergenza e ordine giuridico europeo
Abbozzata così una sintetica disamina del decalogo ELI, non resta che svolgere qualche breve considerazione conclusiva.
Lungo l’ideale percorso che dal richiamo ai valori fondamentali si snoda, come descritto, fino alle ipotesi di scudo civilistico per gli operatori sanitari, si coglie intanto una rappresentazione quasi plastica del carattere proteiforme della crisi generata da questa pandemia, la quale nel breve volgere di pochi mesi ha trasceso la dimensione primigenia di “semplice” minaccia globale alla salute pubblica.
La prospettiva della diffusione del contagio ha costituito e costituisce infatti l’innesco di un perverso effetto domino che in virtù delle contromisure che sollecita/impone ai governi di adottare, ridonda in multiple linee di faglia, che bisecano la sfera individuale come quella sociale, il piano economico come quello politico. Quanto dire di una moltiplicazione dei fronti di crisi e di una estensione del delle minacce da contenere, non più solo circoscritti alla vita dei singoli ma alle stesse loro condizioni di vita, materiali e non.
Le plurime emergenze in atto non sono però ugualmente percepite, né contrastate; ad “emergenze dichiarate”, che polarizzano l’interesse dell’opinione pubblica, se ne affiancano altrettante meno avvertite e financo latenti.
Appartengono senz’altro al primo gruppo quelle che interessano il tessuto sociale ed economico, sotto forma di perdita di posti di lavoro, crisi d’impresa, crisi del debito privato, limitato accesso all’istruzione. Ad esse si è indirizzata di necessità la più parte dei provvedimenti “emergenziali” di governi e autorità pubbliche, come è ad esempio bene sintetizzato in un passaggio delle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, presentate lo scorso 29 maggio: “Il Governo italiano si è mosso secondo le medesime priorità che hanno guidato gli interventi a livello internazionale, concentrandosi sulla capacità di risposta del settore sanitario e sugli aiuti ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese” [27].
Per poco che assuma però un ruolo eminente nella gestione di quelle che abbiamo per comodità definito “emergenze dichiarate”, l’esecutivo si fa in pari tempo, oltre che propulsore di iniziative e contromisure più o meno efficaci e tempestive, altresì virtuale epicentro di un’onda d’urto che minaccia i “check and balances” della democrazia liberale. E sta per l’appunto in ciò l’emergenza sottotraccia, la quale attiene alla tenuta di valori fondamentali quali diritti e libertà della Persona, stato di diritto, separazione dei poteri, indipendenza della magistratura.
La proclamazione di uno stato di emergenza, in altri termini, non solo dilata lo spettro dell’azione governativa ma di essa modifica la cifra, facendone azione solitaria, tendenzialmente affrancata dal contrappunto parlamentare come dal controllo giurisdizionale. Ciò invera una lacerazione nella trama del tessuto democratico, importa sovrapposizione tra potere esecutivo e legislativo ma soprattutto produce quel fenomeno che è stato bene descritto come di separazione della forza di legge dalla legge[28]: quanto dire degli stilemi più classici e sinistri dello stato di eccezione, veste giuridica formale dello stato di necessità.
Senonché, lo spazio giuridico europeo non tollera né una versione schmittiana dello stato di eccezione, quale decisione che soverchia (e sospende) la norma, l’una e l’altra assunte pur sempre quali espressioni di sovranità; né tantomeno la diversa prospettazione che vi scorge un’essenza non giuridica e la qualifica come “anomia che risulta dalla sospensione del diritto”[29]. Entro quel perimetro, insieme istituzionale e geografico, può darsi al più una editio minor dello stato di eccezione, ossia una deviazione circostanziata e temporalmente limitata dal corso normale dell’ordinamento, non semplicemente interna ad un Rahmenordnung bensì irregimentata entro uno Stufenbau, al cui vertice devono permanere saldi i valori fondativi dell’Unione europea, comuni agli Stati membri.
Questo è ciò che i Principles dell’ELI hanno l’ambizione di esplicitare, ma si tratta a ben vedere piuttosto di una pagina da scrivere che una di una dinamica già acclarata. Nécessité fait loi: resta qui racchiusa la minaccia del disordine e di uno sviluppo regressivo da cui l’ordine giuridico europeo deve riuscire completamente a emanciparsi.
[1] Cfr. W. Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, Bologna, 2017, spec. 391 e ss. In particolare nelle società agrarie del passato, questo esito finale di livellamento delle diseguaglianze passava anche per un drastico freno alla crescita della popolazione, secondo il modello dei “freni positivi” (checks), teorizzato da Malthus: cfr. T. Malthus, An Essay on the Principle of Population, London, 1798, 12 e ss.
[2] E’ questo il “paradigma di governo” icasticamente definito come “biosicurezza”: cfr. già P. Zylberman, Tempètes microbiennes : Essai sur la politique de sécurité sanitaire dans le monde transatlantique, Parigi, 2013, passim.cfr. altresì G. Agamben, Lo stato di eccezione, 2003, 11.
[3] Cfr. Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020. Sulla inconsistenza del distinguo tra “stato di emergenza” e “stato di eccezione” si vedano le acute considerazioni di G. Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, Quodlibet 30 luglio 2020, disponibile all’indirizzo https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-stato-di-eccezione-e-stato-di-emergenza
[4] Imprescindibile, in proposito, ancora il rinvio a G. Agamben, Lo stato di eccezione, cit., passim ma spec. 21 e ss. Cfr. altresì A.Wirsching, Weimar, cent’anni dopo. La storia e l’eredità: bilancio di un’esperienza controversa, Roma, 2019, 38 e ss.
[5] Il testo è reperibile sul sito web dell’ELI, (https://www.europeanlawinstitute.eu/news-events/news-contd/news/eli-publishes-principles-for-the-covid-19 crisis/?tx_news_pi1%5Bcontroller%5D=News&tx_news_pi1%5Baction%5D=detail&cHash=32885703f7c5c5e3a1b4f6753c6c73e2). Per la traduzione italiana cfr. P. Sirena, I Principi dello European Law Institute sulla Pandemia di Covid 19, in Riv. Dir. Civ., 4/2020, 891 e ss.
[6] Basta al riguardo fare riferimento ai reiterati interventi critici di Sabino Cassese, in ordine al carattere improprio dello strumento del DPCM, nonché, da ultimo, in ordine sulla stessa iniziativa di protrarre lo stato di emergenza: cfr. https://www.corriere.it/politica/20_luglio_28/cassese-governo-basta-forzature-si-torni-normalita-c9b3027c-d10a-11ea-b3cf-26aaa2253468.shtml
[7] J. Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Roma 2019, 211 -214 e ss.
[8] Così in particolare J. Zielonka, Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale, Bari, 2018, passim.
[9] Cfr Bonelli, From a Community of Law to a Union of values, 13 EU Courts (2017), 793.
[10] Cfr Kadi e Al Barakaat International Foundation/Consiglio e Commissione, C‑402/05 P e C‑415/05 P, parr. 303 e 304. cfr. altresì C-621/18, parr. 62-63 Andy Wightman versus Secretary of State for Exiting the European Union.
[11] Cfr. ad esempio Corte di Giustizia Case C- 284/16 Slowakische Republik V. Achmea BV, par 34.
[12] Cfr A. Von Bogdandy, Principles of a systemic deficiencies doctrine: how to protect checks and balances in the Member States, Common Market Law Review, 57 (2020), 705 e ss. ma spec 715 e ss.
[13] COM (2018) 324 final.
[14] Cfr. l’intervista rilasciata da Didier Reynders a Beda Romano per Il Sole 24 Ore, apparsa sul quotidiano di venerdì 15 maggio 2020, p. 25.
[15] Evidente appare, al riguardo, l’adesione paradigma dell’economia sociale di mercato (peraltro espressamente evocato dall’art. 3 TUE) e, con esso, a quella dose di politicità (e dunque di flessibilità) che costituisce passato e presente del diritto della concorrenza in ambito comunitario, all’insegna di un bilanciamento costante tra efficienza economica ed interessi di carattere più generale: cfr. M. Libertini, voce Concorrenza, in Enc. Dir., Ann. III, Milano 2010, 189 e ss; D. Zimmer, Consumer welfare, economic freedom and the moral quality of competition law: comments on Gregory Werden and Victor Vanberg, in J. Drexl – W. Kerber- R. Podszun (edited by), Competition Policy and the Economic Approach. Foundations and Limitations, Cheltenham, 2011, 72 e ss., ma spec. 77-78.
[16] Si pensi, ad esempio, al novellato § 240 della Legge introduttiva al codice civile tedesco (EGBGB) ovvero, per quanto riguarda la Spagna, al Real Decreto-ley 11/2020, del 31 marzo 2020, “por el que se adoptan medidas urgentes complementarias en el a´mbito social y econo´mico para hacer frente al COVID-19”.
[17] Fondo di solidarietà per i mutui per l'acquisto della prima casa.
[18] Aperture di credito a revoca, prestiti accordati a fronte di anticipi su crediti esistenti al 29 febbraio 2020 e prestiti non rateali con scadenza contrattuale prima del 30 settembre 2020.
[19] In argomento si veda M.R. Maugeri, L’emergenza Covid-19 e la sospensione dei mutui per l’acquisto della prima casa, in Giustiziacivile.com, 22 aprile 2020. Si veda altresì l’orientamento del Collegio di Coordinamento dell’ABF, seppur riferito ai provvedimenti di moratoria dei pagamenti, dettati ex lege in relazione agli eventi sismici concernenti l’Abruzzo e l’Emilia-Romagna: Coll. di Coord., decisione n. 210/2020.
[20] Segnatamente il “quadro di ristrutturazione preventiva”, previsto dall’articolo 5.
[21] Si vedano, nella medesima direzione, gli spunti di riflessione proposti da Roppo in V. Roppo e R. Natoli, Contratto e Covid-19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza, in questa Rivista, 10, disponibile all’indirizzo https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1033-contratto-e-covid-19-dall-emergenza-sanitaria-all-emergenza-economica-di-vincenzo-roppo-e-roberto-natoli.
[22] Intervista del 25 marzo 2020, ancora disponibile sul sito web del quotidiano all’indirizzo https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b
[23] Non già inferibile dal sistema, per lo meno negli stringenti termini di “obbligo”, come pure opinato da alcuni Autori: si vedano in proposito le condivisibili considerazioni critiche di F. Benatti, Contratto e Covid: possibili scenari, in Banca Borsa Titoli di credito, n. 2/2020, 198 e ss., ma spec. 207 e ss. Una panoramica ad ampio spettro circa le ricadute dell’emergenza sanitaria sul terreno delle relazioni di mercato in generale è quella offerta da V. Roppo e R. Natoli, Contratto e Covid-19. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza, cit.
[24] Si vedano, sul punto, gli spunti contenuti nel documento intitolato “Una riflessione ed una proposta per la migliore tutela dei soggetti pregiudicati dagli effetti della pandemia”, 4 e ss. , elaborato dall’Associazione Civilisti Italiani e reperibile sul sito web della stessa Associazione (https://www.civilistiitaliani.eu/images/notizie/Una_riflessione_ed_una_proposta_per_la_migliore_tutela_dei_soggetti_pregiudicati_dagli_effetti_della_pandemia.pdf)
[25] Cfr. per tutti A.M. Benedetti, Il rapporto obbligatorio al tempo dell’isolamento: brevi note sul decreto Cura-Italia, I Contratti, 2020, p. 213 ss.; G. De Cristofaro, Rispetto delle misure di contenimento adottate per contrastare la diffusione del virus Covid-19 ed esonero del debitore da responsabilità per inadempimento, NLCC, 3/2020, 571 e ss. Appaiono viceversa improntate a maggiore linearità ed efficienza le disposizioni adottate in relazione a titoli di viaggio e pacchetti turistici (cfr. art 28 D.L. 9/2020), nonché al “Rimborso dei contratti di soggiorno e risoluzione dei contratti di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura” (art 88, DL 18/2020, conv. con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27). Con particolare riguardo agli interventi “emergenziali” dedicati al trasporto aereo si rinvia agli approfondimenti critici di A. Palmigiano, Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo e dei pacchetti turistici, e Id., Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo, apparsi entrambi su questa Rivista e consultabili rispettivamente agli indirizzi www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/919-emergenza-coronavirus-le-tutele-nel-settore-del-trasporto-aereo-e-dei-pacchetti-turistici e https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1150-emergenza-coronavirus-le-tutele-nel-settore-del-trasporto-aereo-di-alessandro-palmigiano
[26] Si veda, in tal senso, il documento “Una riflessione ed una proposta per la migliore tutela dei soggetti pregiudicati dagli effetti della pandemia”, pp. 2-3, elaborato dall’Associazione Civilisti Italiani , reperibile sul sito web della stessa Associazione (https://www.civilistiitaliani.eu/images/notizie/Una_riflessione_ed_una_proposta_per_la_migliore_tutela_dei_soggetti_pregiudicati_dagli_effetti_della_pandemia.pdf)
[27] Cfr. Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, Relazione annuale 2019, p. 8
[28] Cfr. ancora G. Agamben, Lo stato di eccezione, cit., 51-52.
[29] Cfr. Agamben, op. ult. cit., 66. Lo stesso A. (33-34) mostra efficacemente i limiti delle teorie più classiche che riducono la disputa sullo stato di eccezione ad una semplice questione “topografica”, al suo collocarsi cioè all’interno o all’esterno dell’ordinamento.
Recensione di Christine von Borries a INVISIBILI di Caroline Criado Perez
Questo saggio illustra, dati alla mano, le disuguaglianze e ingiustizie che subiscono ancora oggi nel campo del lavoro, della cura della famiglia, della carriera, della medicina e in tanti altri, le donne. Di come le evidenti differenze biologiche e culturali, il numero di ore che la donna dedica alla cura della casa, del compagno o marito e dei figli, diventano dei gap incolmabili per trovare e mantenere un lavoro. Per la possibilità di fare carriera al pari dei colleghi uomini, per ottenere salari, contributi e pensioni analoghe.
E mentre le donne spendono dalle 3 alle 6 ore giornaliere in questi compiti non retribuiti, diventano parallelamente invisibili agli occhi della società. Da qui il titolo del libro. La scrittrice utilizzando dati scientifici, ricerche e statistiche, spesso troppo carenti e incomplete quando si tratta di esaminare il mondo femminile, affronta in modo oggettivo ma anche spiritoso i tanti campi in cui le donne subiscono trattamenti diversi.
La difficoltà di donne con pari capacità e livello culturale rispetto agli uomini nel fare carriera viene attribuita dall’autrice al fatto che spesso chi decide sulle promozioni sono uomini. Che stabiliscono meriti e regole su loro misura. Una delle frasi emblematiche del libro è che spesso i bisogni delle donne non vengono considerati né riconosciuti, perché per riconoscere un bisogno bisogna provarlo. Ad esempio una startup composta da donne che proponeva un nuovo modello di Tiralatte innovativo con un enorme potenziale di guadagno (al mondo ne esiste uno solo poco efficiente, doloroso e scomodo) non ha trovato finanziatori – che sono quasi sempre uomini – perché non ne hanno compreso l’utilità.
Il libro offre numerosi spunti ed esempi.
Dai trasporti pubblici pensati spesso da uomini e che quindi si attagliano soprattutto alle loro esigenze. Anche se è l’uomo che spesso usufruisce dell’unica macchina familiare. Normalmente l’uomo esce di casa per andare al lavoro e ritorna. Mentre la donna fa un percorso totalmente diverso dato che deve accompagnare uno o più figli a scuola, fare la spesa, andare al lavoro, e nel pomeriggio portare i figli alle loro attività. Di qui l’esigenza di cambiare il percorso medio in molti paesi che va dalla periferia al centro, aggiungendo percorsi circolari e far sì che un biglietto non valga per un’unica corsa ma consenta di prendere più mezzi.
Durante la maternità, in molti paesi del mondo, non vengono pagati né lo stipendio né i contributi dopo uno/due mesi dal parto con conseguente necessità per la maggior parte delle donne di tornare presto al lavoro o di licenziarsi per potere accudire i figli. Non vengono ancora oggi studiati gli effetti di sostanze chimiche sulle lavoratrici donne, spesso lavoratrici autonome. Ad esempio dei prodotti cosmetici usati dalle estetiste o dei prodotti utilizzati nelle industrie in cui si fabbricano oggetti plastici. Anche se la scienza medica ha dimostrato che le caratteristiche fisiche della donna la espongono ad un maggiore assorbimento di alcuni tipi di sostanze cancerogene con conseguenti gravi patologie.
In alcune nazioni , ad esempio in India, mancano bagni pubblici. Così le donne sono costrette a fare i propri bisogni all’aperto con conseguenti incremento esponenziale di molestie e violenze sessuali. Che spesso non vengono denunciate, sia che avvengano all’aperto, ma anche sugli autobus o sui posti di lavoro perché non sono sempre adeguatamente perseguiti. Sarebbe facile e anche economico adottare degli accorgimenti per evitare che tanti di questi episodi avvengano.
Una delle prove più lampanti delle sperequazioni nella carriera, riguarda la New York Philharmonic Orchestra di Philadelphia. Fino agli anni Settanta era in gran parte composta da uomini. Fino a che, a seguito di un ricorso proposto da alcune donne escluse, si è adottata la audizione al buio. I candidati suonano nascosti da un paravento. Da allora si è arrivati a una composizione paritaria tra entrambi i sessi.
Ancora oggi l’essere donna rende più difficile il superamento dei concorsi universitari. Laddove si è adottatala la tecnica del doppio anonimato, di chi partecipa al concorso e di chi corregge le prove scritte, i risultati sono molto più equilibrati.
Le tute indossate dai militari e dei ricercatori che si recano ad esempio in zone dalle temperature molto rigide sono state progettate per un uomo di corporatura media. Con il risultato che per fare i propri bisogni fisiologici la donna deve sfilarsi totalmente la tuta. Lo stesso vale per la forma degli zaini e degli scarponi, che non tengono minimamente conto delle evidenti differenze della corporature femminile. Con conseguenti disagi e a volte lesioni.
Viene smontato il luogo comune che la donna ci mette più tempo in bagno e che per questo nei bagni pubblici si creano le code. Se volete scoprire il perché leggetelo.
Apprendiamo di come in campo medico i libri di istruzione superiore dedicano pochissime pagine al corpo femminile e la maggior parte a quello maschile. Il dramma è che anche nella ricerca sono soprattutto cellule maschili e successivamente topi maschi e uomini a fare da cavia per testare i medicinali. Che di conseguenza funzionano soprattutto per gli uomini e molto meno per le donne. Che hanno un organismo differente. Donne che spesso hanno anche sintomi diversi, ad esempio dell’infarto, che spesso non vengono riconosciuti tempestivamente dai medici. Malattie che necessitano di cure e di una dieta diversa. Nonostante ciò, molte aziende farmaceutiche ancora oggi non sono obbligate a dare conto di come e su chi testano i loro farmaci. Farmaci che quindi non faranno lo stesso effetto se assunti da donne.
Un altro capitolo parla di musica. Di come la tastiera del pianoforte sia stata ideata e creata per una mano maschile di almeno 22,5 cm. Una donna media ce l’ha più piccola e quindi per allenarsi si sottopone a sforzi e tensioni maggiori. Con conseguente stress tra sforzo e possibili lesioni. Nei concorsi di Pianoforte vincono spesso gli uomini e le poche donne che hanno la mano grande. Fino a che è un pianista, Christopher Donison, di corporatura minuta ha inventato una tastiera adatta a chi ha mani piccole. Che ancora oggi è vista con sospetto nonostante sia stata inventata da un uomo!
Noi donne magistrato siamo certamente una categoria privilegiata rispetto a tante altre lavoratrici o casalinghe. Se guardiamo però a come sono occupati i posti semi direttivi e direttivi, ci accorgiamo di quanto sia ancora lungo il percorso che abbiamo davanti. E allora ben venga l’informazione, una maggiore consapevolezza sia degli uomini che delle donne e anche le tanto vituperate quote di genere. Finché saranno necessarie a ripristinare un equilibrio.
Non sono necessarie solo nel paese più paritario al mondo: l’Islanda. Paese unico per eguaglianza dei diritti e della rappresentanza femminile in ogni tipo di carriera. Dove più volte e per anni ci sono state Prime Ministre donna.
Per scuotere le coscienze il 24 ottobre del 74 fu proclamato il primo sciopero generale femminile. Tutte le donne del paese incrociarono le braccia e uscirono per strada per protestare.
E per vari giorni non lavorarono, non pulirono, non cucinarono, non accudirono i figli e i mariti. Farete un regalo a voi stessi se dedicherete qualche ora di tempo a leggere questo libro straordinario che strappa veli ancora oggi troppo pesanti che oscurano la vista sulla realtà.
Realtà che per essere cambiata deve essere prima conosciuta.
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