ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Luigi Cavallaro, Una sentenza memorabile,Cacucci Editore, 2020
Recensione di Paolo Sordi
Con Una sentenza memorabile (Cacucci Editore, 2020, nella Collana Biblioteca di cultura giuridica diretta da Pietro Curzio), Luigi Cavallaro segna un’altra tappa nel suo itinerario di riflessioni sull’Unione Europea, sulle ragioni più profonde della sua costituzione e sui rilevanti problemi che essa pone in rapporto con gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. Riflessioni di cui v’è traccia evidente anche in alcuni suoi scritti apparsi su Questa Rivista (v. «Se pure c’era di questi untori». Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari del 3.4.2020, e La tutela dei diritti a prestazione tra diritto dell’Unione e Costituzione italiana: profili problematici, del 4.10.2019) e che ruotano intorno alla convinzione (supportata da molteplici ed efficaci argomenti) che la sua formazione costituisca uno degli sbocchi di un lungo percorso iniziato negli anni ’60 del secolo scorso diretto a sottomettere i pubblici poteri alle logiche del mercato, percorso indagato nella sua genealogia dallo stesso Cavallaro in Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento nell’Italia contemporanea (Quodlibet, 2015).
Ma se nell’opera da ultimo citata, l’indagine è condotta in severa applicazione delle acquisizioni al pensiero occidentale fornite da discipline quali la filosofia, l’economia e la psicologia (in un orizzonte che spazia da Marx a Keynes, da Freud a Foucault, giusto per citare alcuni dei riferimenti utilizzati dall’A. in quel saggio), il tono dello scritto che qui si recensisce è del tutto diverso, come svelato da Cavallaro già nella scelta del titolo. «Una sentenza memorabile» richiama, infatti, il titolo di un’omonima opera di Sciascia, appartenente alle “inquisizioni” dello scrittore siciliano, modello letterario cui poi l’A. dichiara esplicitamente, nella nota finale al suo scritto, di essersi ispirato.
Oggetto dell’inquisizione è, questa volta, la sentenza del 5 maggio 2020 con cui il Tribunale costituzionale federale tedesco ha definito il procedimento promosso da alcuni cittadini della Germania federale che avevano denunciato come violative dell’identità costituzionale della Legge Fondamentale dello Stato tedesco – perché interferenti con la legge di bilancio approvata dal Parlamento di quello Stato – alcune decisioni con le quali la Banca centrale europea aveva deliberato programmi di acquisto di titoli del debito sovrano. Il Tribunale costituzionale aveva dapprima richiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea una pronuncia pregiudiziale di conformità alle norme dei Trattati in materia di competenze della Banca centrale, chiedendo, in particolare, se le menzionate iniziative della stessa non eccedessero dall’ambito della politica monetaria (attribuzione della Banca centrale), invadendo quella della politica economica (riservata agli Stati membri). La risposta dei giudici di Lussemburgo (espressasi nel senso della correttezza dell’operato della Banca centrale) deve essere parsa particolarmente insoddisfacente a quelli tedeschi, perché questi, non solamente hanno poi finito per dichiarare che il Governo federale e il Bundestag avevano violato la Legge fondamentale tedesca per non aver assunto misure adeguate per contestare la legittimità dei programmi di acquisto di titoli del debito sovrano da parte della Banca centrale, ma ciò hanno fatto premettendo che la vincolatività per i giudici degli Stati membri dell’interpretazione delle norme dei Trattati e degli atti compiuti da organi e istituzioni dell’Unione espressa dalla Corte di giustizia viene meno nei casi in cui quella interpretazione sia oggettivamente arbitraria perché incomprensibile. Secondo il Tribunale costituzionale federale, infatti, in simili ipotesi le decisioni della Corte europea non sono più coperte dal mandato giudiziario conferitole dal Trattato costitutivo dell’Unione (né dall’atto interno di ratifica dello stesso) e pertanto difettano del livello minimo di legittimazione democratica richiesto dalla Legge Fondamentale tedesca per giustificare una valida cessione di sovranità all’Unione europea.
Sentenza, quella del Tribunale costituzionale federale tedesco, ritenuta da Cavallaro “memorabile” perché espressione della piena consapevolezza, da parte dell’alto consesso germanico, delle delicate questioni di ordine costituzionale poste, appunto, dai trattati europei e dal concreto operare delle istituzioni comunitarie (Corte di giustizia e Banca centrale, in particolare) e, al contempo, manifestazione di teutonica risolutezza nella rivelazione dei propri convincimenti.
L’analisi della vicenda processuale e delle motivazioni della pronuncia che l’hanno conclusa costituisce per l’A. l’occasione per chiarire come i Trattati costitutivi dell’Unione siano ispirati al fine essenziale di costituire uno spazio in cui i mercati finanziari possano agire indisturbati, in quanto spazio sottratto all’esercizio dei poteri nei quali si dovrebbe incarnare la sovranità politica degli Stati membri.
E, nel leggere le pagine dedicate a questa analisi, la cifra che ci permettiamo di scorgere è, più che quella di Sciascia, quella di Dickens, scrittore pure citato dall’A. all’inizio del libro tra gli esempi di grande letteratura sorti intorno a casi giudiziari. Come i capolavori del romanziere inglese, nei quali una tagliente analisi sociale era spesso condotta con un sottile e irresistibile umorismo, questo saggio di Luigi Cavallaro è divertente nel senso nel senso più profondo del termine, composto com’è da un susseguirsi di considerazioni “diverse” da quelle che costituiscono la vulgata comune, espresse con toni di irresistibile arguzia e ironia.
Da questo punto di vista, l’apice del saggio, sia sul piano dell’acutezza dell’analisi e della centralità che i suoi esiti assumono nell’ambito del generale discorso condotto nell’opera, sia su quello della pura qualità letteraria, è costituito dalle pagine dedicate al rapido riepilogo della vicenda dell’affermazione di quella che l’A. definisce la duplice impostura fondativa dell’Unione Europea (vale a dire l’assunto secondo cui un’economia di mercato può raggiungere un equilibrio ottimale a condizione che si lasci libero corso alla concorrenza sottratta all’esercizio di poteri pubblici e quello della neutralità della politica monetaria), narrata con un crescendo che assume un tono quasi epico che rende la vicenda accomunabile non solamente a quella pure richiamata dall’A. (le falsificazioni elaborate dall’abate Vella nella Palermo di fine ’700), ma forse addirittura a quella della Donazione di Costantino. Infatti, se la prima procurò al suo artefice soltanto un’effimera fama e un’altrettanto effimera cattedra universitaria, la seconda fu assunta a fondamento di un preciso assetto di rapporti tra soggetti politici (Papi e Imperatori), obiettivo certo maggiormente affine a quello che Cavallaro attribuisce all’impostura di cui egli tratta (anche se il fatto che la Donazione di Costantino fu dimostrata falsa solamente dopo circa sette secoli e quando chi l’aveva strumentalizzata non ne aveva più bisogno – avendo la Chiesa ormai da tempo definitivamente consolidato il proprio potere temporale – potrebbe essere fonte di inquietudine per Cavallaro e così forse spiegare perché Egli abbia preferito accomunare la vicenda della quale si occupa a quella dell’abate Vella, scoperto e imprigionato nel giro di pochi anni…).
Altrettanto illuminanti sono le fulminanti qualificazioni di alcuni dei principali protagonisti della vicenda narrata e delle sue implicazioni. Tali, ad esempio, le definizioni dei rappresentanti delle istituzioni europee come soggetti dal “sembiante asettico” oppure degli entusiasti del diritto europeo come “giuristi dal pensiero essenzialmente teologico” che “elevano sermoni e preghiere affinché giudici supposti onnipotenti li concretizzino”. Ovvero, ancora, la menzione dei commentatori che “non sapendo più che pesci pigliare [...] si son cavati fuori l’immaginifica quanto immaginaria soluzione del ‘dialogo tra le Corti’: che troppo spesso pare un dialogo tra sordi, e semmai conferma le buone ragioni di Tolstoj nel supporre che la Storia fosse simile a un sordo che risponde a domande che nessuno gli sta facendo; e certo nessuno di quei giuristi che, dove mancano i concetti, si provano a rimediare con le parole”.
Se non è possibile resistere all’impulso di sorridere a fronte di tali immagini, pressoché insuperabili nella loro esattezza definitoria, neppure è possibile dimenticare che, al fin fine, siamo di fronte ad un serio problema di democrazia. Volendoci limitare alle due istituzioni europee coinvolte nella vicenda da cui prende spunto il libro di Cavallaro (Banca europea e Corte di giustizia), sembra evidente, da un lato, come l’espulsione dei poteri pubblici dalle dinamiche del mercato significhi privare completamente o quasi i soggetti espressione della volontà popolare della possibilità di dirigere l’economia e, dall’altro, che avallare la crescente influenza (diretta e indiretta) delle decisioni della Corte europea negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri, comporta l’attribuzione alla stessa di un ruolo che, nella tradizione democratica dei Paesi occidentali, è svolto da Corti (quelle che chiamiamo “costituzionali”) comunque immesse nel circuito politico-rappresentativo proprio del Paese cui appartengono, circuito caratterizzato da un dialogo fra attori politici (espressione della volontà popolare) e attori giurisdizionali e dal fatto che l’opera delle Corti costituzionali interne incontra comunque l’estremo limite della possibilità di revisione costituzionale, esercitando la quale i soggetti politici possono, cambiando la Costituzione, contrastare interpretazioni considerate non in linea con la coscienza sociale.
Inquadrando l’analisi giuridica della sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco nell’ambito delle dinamiche economiche e finanziarie che vi sono sottese, l’A. ci ricorda, indirettamente ma chiarissimamente, come, appunto, ci troviamo al cospetto di questioni che sollecitano la tenuta delle regole fondamentali dei regimi democratici. E non è certamente l’ultimo dei tanti meriti di questo divertentissimo libro.
Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU, dopo gli interventi di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare - Bruno Nascimbene - La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto - si arricchisce oggi del contributo di Andreana Esposito, professoressa associata di diritto penale dell'Università della Campania.
La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu
di Andreana Esposito
Sommario: 1. La piramide trasformata. – 2. Un parere consultivo. – 3. I’ll be your mirror.
1. La piramide trasformata.
La vicenda della sparizione del Protocollo n. 16 alla Convenzione edu dall’agenda parlamentare è stata ampiamente ed esaustivamente commentata da chi autorevolmente su questa Rivista mi ha preceduto[1]. Sono, pertanto, sufficienti, solo minime riflessioni iniziali.
Il setting, ossia l’ambientazione, in cui avrebbe dovuto operare il Protocollo 16 è quello di un intricato giardino dai tanti sentieri che si biforcano, espressione di nuovi mondi normativi[2] che hanno scardinato la piramide. L’architettura dei sistemi giuridici non è più legata a un sistema piramidale chiuso, espressione di una idea verticistica del diritto e basata sulla supremazia della legge. La crisi della sovranità nazionale, il moltiplicarsi delle fonti giuridiche, l’emergere di nuovi attori sociali e politici che, sia a livello nazionale sia a livello sovranazionale, affiancano e cooperano con il legislatore hanno trasformato l’intero sistema giuridico, frammentandolo e disperdendolo in un crescente pluralismo.
La piramide è diventata una rete[3], le cui maglie, ora più strette ora più larghe, hanno finito per imbrigliare il giudice nazionale[4]. Anche il ruolo del giudice, in mezzo alle trasformazioni del mondo, come il vecchio Qfwfq di Calvino[5], è stato oggetto di rovesciamento. Lo spazio giuridico rappresentato dalla piramide è definito, logico, preciso, ordinato. Il luogo in cui si trova oggi ad agire il giudice è, al contrario, variegato, ampiamente impreciso, tendente in modo crescente al disordine.
In questo nuovo scenario, la positività del diritto - simboleggiata dalla piramide[6] - scivola a possibilità[7] interpretativa in cui i diversi produttori di diritto devono adottare una modalità collaborativa di comprensione[8] e di attribuzione di senso condiviso al diritto quale si forma oggi anche grazie all’influenza e all’azione del mondo normativo convenzionale.
È in questo ambito di cooperazione alla produzione del diritto che si sarebbe dovuto collocare il nuovo strumento individuato dalla Conferenza di Brighton[9]: un parere consultivo destinato a realizzare una sorta di nomofilachia preventiva in grado di integrare il corpus giurisprudenziale della Convenzione[10]. Il parere consultivo della Corte edu è teso a favorire un rapporto dialogico – già esistente sia pure contrastato e disordinato - con le giurisdizioni nazionali, coinvolte ancora più attivamente nella formazione del diritto (anche convenzionale).
Si tratta, in definitiva, di un tassello ulteriore di un processo di costruzione cooperativa del tessuto giuridico già in atto e che, seppur fondato sulla centralità interpretativa affidata alla Corte europea, prevede poi l’attivo coinvolgimento del giudice nazionale nell’adozione e nella, necessaria, rielaborazione della regola giuridica eventualmente indicata dal giudice sovranazionale.
Ripensando alla mancata ratifica del Protocollo 16, mi torna alla mente il mondo dello specchio di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò[11]: attraverso lo specchio, che una Alice cresciuta e non più bambina oltrepassa, si approda a una realtà rovesciata e tuttavia ordinata, disciplinata dalla regola della riflessività: la torta è mangiata prima di essere divisa, la sanzione penale si sconta prima che il processo venga celebrato e che il crimine venga eventualmente realizzato, si festeggiano i non compleanni, le poesie si leggono da destra verso sinistra, per avvicinarsi a un oggetto o a una persona bisogna allontanarsene e camminare nella direzione opposta, la memoria va verso il futuro e non verso il passato. Come è stato osservato[12], nel mondo riflesso oltre lo specchio il rovesciamento, da intendersi quale inversione della regola, per ipotesi, valida nel mondo al di qua dello specchio, è sinonimo di razionalità: il rovesciamento è una regola che si arroga il privilegio della razionalità[13]. Nel vagare in una dimensione complessa, fondata sulla regola dell’inversione, Alice deve necessariamente agire razionalmente e quindi riflettere attentamente prima di muoversi sulla scacchiera per poter avanzare così da diventare Regina.
Nell’opera di Caroll “riflettere” ha un duplice significato. Indica, in primo luogo, la trasformazione di ciò che appare riflesso nel mondo dello specchio, il ribaltamento delle modalità di agire proprie di quella realtà. In secondo luogo, si riferisce alla necessità di agire razionalmente, pensare con attenzione secondo la logica dell’inversione – vale a dire, del mondo in cui si opera – per potersi muovere[14].
Il paradigma del rovesciamento e, quindi, della riflessività del diritto, può essere applicato al parere consultivo che attraverso il Protocollo 16 si presenta come momento di condivisione nella costruzione di una regola di diritto, cui si giunge mediante l’interazione dei soggetti coinvolti. Lungi dal costituire il “cavallo di Troia”[15] immaginato per soffocare la sovranità degli Stati, ulteriore momento di colonizzazione dei diritti nazionali a opera dei diritti umani (come se questi ultimi non fossero universali e quindi comuni[16]), il parere consultivo è una fase (eventuale e facoltativa, e tuttavia, di facilitazione) di un processo di elaborazione razionale della realtà giuridica. È uno strumento fornito al giudice nazionale per ridurre – organizzare – la complessità reticolare in cui è costretto ad agire.
Immerso in un mondo giuridico impreciso e sempre più disordinato e caotico, connotato da molteplici possibilità interpretative, l’interprete interno è obbligato a usare questa complessità stabilendo aperte e dialoganti relazioni con gli altri attori e partecipando attivamente ai processi di formazione del diritto.
Il parere consultivo del Protocollo 16 agevola questo compito di collaborazione e cooperazione riflettendo, da un lato, il mondo del diritto convenzionale e, dall’altro lato, facendo riflettere i giudici nazionali.
Vediamo come agisce la riflessività del Protocollo 16.
2. Un parere consultivo
Il 29 maggio 2020 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha adottato, su richiesta della Corte costituzionale armena, il suo secondo parere pregiudiziale ai sensi del Protocollo n. 16[17]. Le questioni poste dai giudici rimettenti avevano a oggetto la compatibilità con l’art. 7 della Convenzione del ricorso alla tecnica normativa per relationem in ambito penale e del principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole. Si tratta, come è noto, di temi rientranti in un ambito in cui il mondo convenzionale al di là dello specchio ha riflesso molteplicità e fluidità, laddove il mondo giuridico al di qua dello specchio risultava incentrato su stabilità e solidità.
Determinatezza delle incriminazioni penali, irretroattività del reato e delle pene e applicabilità della legge penale più favorevole sono principi che si presentano trasformati nel diritto convenzionale, collocandosi in un orizzonte che si è spostato dal piano della “certezza del diritto” a quello della “certezza dei diritti”[18].
È noto: la legalità convenzionale è speculare a quella nazionale.
La prima è indifferente al momento genetico della potestà punitiva, è interessata al diritto in una accezione sostanziale e non formale. La seconda è fondata sulla riserva di legge, è legicentrica[19].
La legalità convenzionale si fonda su concetti fluidi, quale quello di materia penale, nozione dalla configurazione sfumata, costruita attraverso la contaminazione tra più elementi. La legalità nazionale si salda alla solidità (dura lex sed lex) e alla stabilità.
Nella legalità convenzionale, centrale alla creazione del diritto è l’intervento giurisprudenziale. Nella legalità nazionale è, forse oggi con minore consistenza, il legislatore l’architrave del sistema delle fonti.
La legalità del mondo al di la dello specchio è dinamica, mira alla prevedibilità. È una legalità raggiunta che guarda al risultato definitorio ottenuto dalla giurisprudenza nell’applicazione di una norma. La legalità del mondo al di qua dello specchio è statica, tende alla certezza. È una legalità offerta, incentrata sulla capacità selettiva di una norma incriminatrice, sulla sua idoneità a individuare astrattamente gli elementi del fatto tipico.
In presenza di questa specularità, il giudice costituzionale armeno si rivolge ai giudici convenzionali.
Quattro erano in punti in cui si articolava la richiesta. Con i primi tre quesiti si interrogava la Corte europea circa i confini dei requisiti di precisione, accessibilità, prevedibilità e stabilità, e si chiedeva (prime due domande), da un lato, se le nozioni di ‘diritto’, di cui all’art. 7 della Convenzione, e quella di ‘legge’, contenuta in altre disposizioni della Convenzione, avessero lo stesso contenuto; e dall’altro lato (terza domanda), se il concetto di norma etero-integrata in riferimento a disposizioni giuridiche di rango supremo (la Costituzione) e con «un niveau supérieur d’abstraction» fosse compatibile con quelle caratteristiche. Infine, con la quarta domanda, alla Corte era chiesto di indicare, alla luce del principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 7 della Convenzione, quali fossero «les critères à appliquer pour comparer la loi pénale telle qu’elle était en vigueur au moment de la commission de l’infraction et la loi pénale telle que modifiée».
Senza voler approfondire tutti gli aspetti di questo parere, limito le mie osservazioni all’idea di riflessività come in precedenza delineata.
Dopo aver lasciato cadere i primi due quesiti per carenza di collegamento diretto con il procedimento nazionale[20], i giudici europei si sono soffermati sulle ultime questioni sollevate, concernenti l’uso della tecnica legislativa par référence e la portata del principio di non retroattività.
La struttura del parere riflette le modalità con cui i giudici europei hanno operato nella elaborazione delle indicazioni dal fornire agli interpreti nazionali. Così, sfogliando le pagine dell’Avis, apprendiamo che la Corte europea, nella costruzione del tessuto normativo su cui fondare le sue conclusioni, ha volto, innanzitutto, lo sguardo agli ordinamenti nazionali, quello armeno certo, ma non solo.
Si leggono così, dopo le note di diritto interno pertinente (parr. 23 – 28), gli elementi di diritto comparato (parr. 29 – 40) i quali hanno, anche, valenza costitutiva della correttezza (e legittimità) dei provvedimenti europei. Il diritto nazionale entra così nel processo decisionale europeo.
Successivamente, focalizzandosi sul primo dei due aspetti sollevati, costruendo la base su cui rendere il parere, la motivazione dei giudici europei proietta nel mondo al di là dello specchio la dimensione dinamica, di legalità raggiunta, del principio del nullum crimen sine lege declinato dalla sua giurisprudenza. Mostrando la propria consolidata giurisprudenza[21], i giudici ricordano come la legalità convenzionale sia incentrata principalmente su una nozione di legge materiale la cui prevedibilità deve essere valutata. È l’aspetto della conoscibilità della norma penale a essere rilevante, conoscibilità intesa come accessibilità della disposizione incriminatrice e prevedibilità delle sue conseguenze sanzionatorie. Pertanto, è consentito un graduale chiarimento della norma penale attraverso l’interpretazione del giudice, anche quando il giudice nazionale interpreti e applichi una certa norma per la prima volta[22]. Chiariti i principi applicabili, la Corte analizza la prima questione ammessa: la compatibilità con l’art. 7 della Convenzione della norma penale etero-integrata sia nel caso di riferimenti a previsioni normative poste al di fuori del diritto penale in generale, sia nel caso di riferimenti a norme di rango costituzionale. Sono la determinatezza e la prevedibilità della norma risultante dalla combinazione della norma penale e di quella costituzionale a dover essere assicurate[23]. L’uso della legislazione par référence non si pone pertanto di per sé in contrasto con la legalità convenzionale purché il risultato normativo sia conforme ai requisiti generali di qualità della legge, sia, in altri termini, sufficientemente preciso, accessibile e prevedibile nella sua applicazione. Questa conclusione, ricordano i giudici[24], è convalidata dall’indagine comparativa preliminarmente eseguita. Infine, sebbene la Corte riconosca che, come sottolineato dal giudice richiedente, una norma costituzionale può spesso assumere un maggiore livello di astrazione, ciò di per sé non rende la tecnica legislativa in contrasto con l’art. 7 della Convenzione. Se il riferimento è esplicito e non estende la portata della fattispecie incriminatrice, la tecnica è ammissibile.
Il parere su questo primo punto si chiude con un rinvio al giudice nazionale: è lui, in ogni caso, a dover compiere una adeguata valutazione caso per caso del rispetto di tali indicazioni. Il giudice nazionale dovrà quindi riprendere la regola individuata e trasferirla nel proprio mondo.
Ultimo aspetto affrontato dalla Corte concerne l’ampiezza del principio di irretroattività della norma penale. Di nuovo è la sua consolidata giurisprudenza a essere richiamata[25] secondo cui l’art. 7 della Convenzione vieta incondizionatamente l’applicazione retroattiva della norma penale più sfavorevole per l’accusato, applicandosi tale principio sia alla definizione del reato che alla pena prevista. Al contrario, la norma penale più favorevole può essere applicata retroattivamente. Guardando al caso di specie, la Corte rileva, riprendendo quanto dedotto dalla Corte costituzionale armena, che le disposizioni incriminatrici succedutesi nel tempo[26] hanno determinato il fenomeno della successione di leggi penali modificative. È poi notato – sempre dialogando con i giudici armeni il cui detto è riportato – che l’ipotesi delittuosa entrata in vigore successivamente ai fatti, rispetto alla descrizione incriminatrice prevista dalla disposizione vigente al momento dei fatti, opera da un lato un restringimento della tipicità, limitata ai casi di eliminazione de facto di specifici diritti costituzionali e, dall’altro lato, un ampiamento del penalmente rilevante, non richiedendo più l’elemento della violenza richiesto invece dal previgente art. 300 c.p. Quanto ai criteri in base ai quale effettuare la scelta della norma più favorevole da applicare al caso in esame, la Corte osserva come debba procedersi a una valutazione attenta al caso concreto. Non è quindi la comparazione tra le norme astratte in successione temporale a poter portare alla individuazione della fattispecie più favorevole. Deve aversi, al contrario, riguardo alle conseguenze concrete che derivano dall’applicazione dell’una o dell’altra previsione normativa. Valutazione in concreto che spetta al giudice nazionale. Tocca a lui verificare l’effetto delle modifiche in termini di concreta afflittività, applicando le considerazioni esposte dalla Corte europea: se il risultato della applicazione della legge posteriore è una ricaduta peggiorativa sulla sfera giuridico-penale del singolo, questa non può essere applicata.
Ai fini che in questa sede interessano, in entrambe le questioni i giudici europei rimandano alla Corte nazionale la conversione concreta delle linee guida fornite. Il parere riflette le regole giuridiche individuate dai giudici europei e si apre alle riflessioni dei giudici interni. Spetta a loro ragionare sulle mosse da compiere per risolvere il caso di specie sottoposto alla loro attenzione. Attraverso una pratica di cooperazione e coordinamento, si trovano nella condizione di poter autonomamente individuare la prosecuzione del cammino iniziato nel mondo convenzionale, potendo, vista la non vincolatività del parere, anche discostarsene.
Proprio come Alice che segue, per avanzare sulla scacchiera, le regole della simmetria rovesciata del mondo in cui si muove, il giudice nazionale deve ordinare secondo la razionalità e la ragionevolezza, del proprio ordinamento, il diritto prodotto in sede sovranazionale e ciò, sempre in un’ottica di innalzamento delle tutele, così da avanzare sulla scacchiera dei diritti. Nel suo agire, potrà tenere in conto quelle acquisizioni, destinate a essere trasformate per operare nell’ordinamento nazionale.
3.I’ll be your mirror[27]
La lettura del parere reso ai giudici armeni ci consente alcune considerazioni di riepilogo.
Il parere consultivo (non vincolante) sull’interpretazione o sull’applicazione della Convenzione edu che le alte giurisdizioni nazionali (Corte costituzionale e Corte di cassazione) possono chiedere alla Corte europea è espressione del principio di sussidiarietà. Si legge nel preambolo che l’estensione della competenza della Corte a emettere tali pareri[28] consentirà ai giudici di Strasburgo di «interagire maggiormente con le autorità nazionali consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione»[29]. Si tratta, lo si è visto, di uno strumento che tende a facilitare il dialogo tra i giudici nazionali e la Corte edu spingendo gli uni e gli altri ad abbandonare la loro origine individualistica per diventare altro. Il giudice nazionale che avrà attivato il procedimento consultivo, come Alice, attraverso un gioco di specchi, si trova nella posizione di chi ricerca e costruisce la regola giuridica da applicare al caso concreto riflettendo, vale a dire, partecipando attivamente e razionalmente al processo di formazione della regola.
Il parere consultivo ha, in questa dinamica collaborativa, in primo luogo, la funzione di riflettere l’ordinamento della Convenzione; proietta verso gli ordinamenti nazionali i valori, le aspettative normative, i diritti della realtà convenzionale. In questa prima accezione, funge da specchio che riflette.
In secondo luogo, il parere di cui al Protocollo 16 consente al giudice di partecipare al processo formativo di una regola nel momento in cui questa sta per essere immessa nell’ordinamento nazionale. È allora un dispositivo che offre la possibilità di ragionare sulle proprie mosse in modo da individuare la regola più razionale: una regola, vale a dire, che pur riflettendo la realtà normativa da cui origina, è, tuttavia, poi riformulata, adattata al contesto giuridico, particolare e generale[30] in cui è destinata a dover operare.
Riflettendo sulla motivazione dell’atto del giudice sovranazionale, l’interprete nazionale non manifesta una passiva adesione; al contrario, aprendosi alla cooperazione, sperimenta la validità di una interpretazione inserendola nel proprio processo deliberativo, nel segno che può essere, a seconda dei casi, della continuità o dell’innovazione.
Tale strumento interpretativo e applicativo esalta, allora, la circolarità della produzione normativa che parte dalla Corte europea e si muove verso gli altri attori e viceversa: ciascun attore fornisce agli altri elementi da decodificare e da reinterpretare, in accordo con il proprio punto di vista[31].
Ancora una volta, è Alice a tornare in mente.
Parlando con la Regina Bianca, Alice apprende che il Messaggero del Re si trova in prigione. La Regina le spiega, quindi, che il «processo comincerà soltanto mercoledì prossimo, e naturalmente il delitto viene per ultimo». Al che Alice obietta che non le sembra un modo corretto di procedere in quanto il delitto potrebbe non essere mai commesso, e che al contrario «sarebbe meglio se (il Messaggero) non fosse mai stato punito». Piccata, la Regina bianca le chiede:
«Sei mai stata punita?»
«Solo per delle malefatte» rispose Alice.
«E dopo ti sei sentita meglio, lo so!» esclamò la Regina in tono trionfante.
«Sì, ma io avevo fatto le cose per le quali venivo punita» disse Alice «c’è una bella differenza».
Interagendo con la Regina, Alice è costretta a riflettere sul giusto rapporto tra reato e pena. Ed è nel momento in cui comprende la consequenzialità tra commissione del reato e inflizione della punizione che riesce ad avanzare sullo scacchiere nella direzione dell’ottava casella che le consentirà di divenire Regina. Attraverso il confronto e l’interazione, fedele ai propri principi, Alice avanza.
È la riflessione che le consente di fare la mossa giusta, consentendo, all’interno di un gioco relazione, di operare una razionale trasformazione.
Analogo processo riflessivo impone al giudice nazionale il meccanismo consultivo di cui al Protocollo 16: attraverso la ponderazione e valutazione di quanto proveniente dal mondo rovesciato della Convenzione (perché non ordinato secondo la logica della piramide kelseniana), le parole del giudice interno prendono forma secondo un disegno proteso, sperabilmente, verso l’innalzamento delle garanzie[32]. Così, nel parere che si è in precedenza analizzato, non sono i giudici europei ad avere l’ultima parola, spettando, al contrario, al giudice nazionale riprendere le regole giuridiche individuate (la legislazione par réferénce è ammissibile se non incide sulla qualità del risultato legislativo; in caso di successione di norme penali nel tempo, la legge più favorevole va individuata in concreto avendo riguardo al risultato della sua applicazione) per calarle nel caso in esame ed, eventualmente, farne patrimonio conoscitivo da immettere nel proprio ordinamento. Il risultato che così si consegue è, in ogni caso, espressione di una scelta del giudice nazionale, che non rifiuta il confronto e l’interazione con i giudici sovranazionali, pur mantenendo una piena autonomia. Sarà lui, se del caso, l’attore della trasformazione del diritto nazionale.
La riflessività del Protocollo 16 sta, in definitiva, in ciò: nella partecipazione alla costruzione di un processo di formazione del diritto attraverso la cooperazione e la collaborazione dei diversi attori. Non c’è, quindi, un signore della parola[33] nel Protocollo 16; ci sono, al contrario, costruttori del diritto.
[1] Si tratta di una serie di autorevoli interventi, iniziati con l’editoriale del 12 ottobre 2020, L’estremo saluto al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU; a seguire: A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, 22 ottobre 2020; C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, 3 novembre 2020; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, 18 novembre 2020; C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, 28 novembre 2020; E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16, 8 dicembre 2020; P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16,17 dicembre 2020; S. Bartole, Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, 13 gennaio 2021; B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, 29 gennaio 2021. Sempre su questa Rivista, in un contesto più ampio, R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021, in particolare par. 9.
[2] P. Mittica, Attraversare il silenzio. I presupposti impliciti del diritto, in Sociologia del diritto, 2, 55 - 76.
[3] Diverse le immagine usate per rappresentare un sistema giuridico caratterizzato in senso pluralistico: arcipelago, G. Timsit, Archipel de la norme, Presses Universitaires de France, 1997; G. Zaccaria, Trasformazione e riarticolazione delle fonti del diritto oggi, in Ragion Pratica, 22, 2004, 93 – 120; edificio barocco, G. Silvestri, “Questa o quella per me pari sono… ” Disinvoltura e irrequietezza nella legislazione italiana sulle fonti del diritto , in AAVV, Le fonti del diritto, oggi, giornate di studio in onore di Alessandro Pizzorusso, Plus, 2006.
[4] Su “il giudice nella rete” anche a proposito del Protocollo n. 16, in questa Rivista, C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 cit. 3, che ricorda come la rete normativa sia da riferire, soprattutto, a F. Ost, Il ruolo del giudice. Verso delle nuove fedeltà)? in Rassegna forense, 2013, 701. Senza voler richiamare la oramai sterminata bibliografica in materia, in particolare con riguardo alle modifiche indotte dall’apertura degli ordinamenti nazionali a quelli sovranazionali, nella letteratura penalistica, tra gli altri, V. del Tufo, La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ed il ruolo del giudice nazionale tra interpretazione conforme e rinvio alla Corte Costituzionale, in Foro Napoletano, n. 1, 2018; M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla giurisprudenza – fonte, Giuffrè, 2011, p. 43 e ss.; Id., Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, 2004, Giuffrè, 145 ss.; V. Manes, Metodi e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Dir. pen. cont., (web), 9 luglio 2012, anche in Arch. pen., n. 1/2012; sulla de-gerarchizzazione delle fonti, C. E. Paliero, Il diritto liquido. Pensieri post-delmasiani sulla dialettica delle fonti penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, p. 1099 e ss.
[5] I. Calvino, Le cosmicomiche, Zio acquatico, Einaudi, 1965, p. 83. Qfwfq è il protagonista della raccolta di racconti di Italo Calvino intitolata Cosmicomiche, che indossa tutte le vesti evolutive possibili e immaginabili. Nel racconto Lo zio acquatico, Qfwfq reagisce nel seguente modo all’abbandono della fidanzata L11: «Fu una batosta dura per me. Ma poi, che farci? Continuai la mia strada, in mezzo alle trasformazioni del mondo, anch’io trasformandomi».
[6] C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 cit.p. 3, scrive la piramide simboleggia l’ossessione (kelseniana) per l’ordine.
[7] N. Irti, Diritto senza verità, Laterza, 2011.
[8] Prendo in prestito il concetto di interpretazione dalla ermeneutica, secondo cui l’interpretazione indica una precisa modalità dell’approccio conoscitivo: essere una attività rivolta alla comprensione, così F. Viola, Il diritto come arte della convivenza civile, in Rivista di filosofia del diritto, fascicolo 1, 2015, p. 64.
[9] La Conferenza di Brighton del 19 - 20 aprile 2012, riprendendo e rafforzando quanto già dichiarato nella Conferenza sul futuro della Corte tenutasi a Izmir il 26 e 27 aprile 2011, si è conclusa con un invito al Comitato dei Ministri di adottare un Protocollo facoltativo che prevedesse “un ulteriore potere della Corte….di emettere su esplicita richiesta, pareri consultivi sull’interpretazione della Convenzione nell’ambito di una specifica causa a livello nazionale”.
[10] In questo senso, P. de Sena, Caratteri e prospettive del Protocollo 16 nel prisma dell’esperienza del sistema interamericano di protezione dei diritti dell’uomo, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 593 e ss., specificamente 602.
[11] Seguito, come è noto, di Alice nel Paese delle meraviglie, fu scritto da Lewis Caroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dogson, pubblicato il 27 dicembre del 1871 (anche se indicato come edito nel 1872).
[12] F. Scamardella, Ragionando sul diritto: Alice e il gioco degli specchi, Law and Literature – ISLL , 2009, 2.
[13] Così, M. Graffi nell’introduzione all’edizione italiana del libro di Caroll, 2007, Garzanti, 25.
[14] Così, F. Scamardella, Ragionando sul diritto, 2.
[15] Così, A. Ruggeri, Prot. 16 cit. 2.
[16] Sul punto C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 cit. 2.
[17] Corte europea dei diritti umani, parere consultivo del 29 maggio 2020, richiesta n. P16-2019-001. In particolare, quanto ai quesiti posti alla Corte di Strasburgo cfr. par. 11 del parere. Sul parere, cfr. la motivata scheda di sintesi, C. Milo, Il secondo parere consultivo della Corte EDU: applicazioni dell’art. 7 della Convenzione, in Giurisprudenza italiana, luglio 2020, 1592 e ss.; anche, S. Giordano, La ragionevole prudenza della Corte edu: tra prevedibilità e accessibilità del precetto. Considerazioni a caldo sul parere della Corte (CEDH 150) del 29.05.2020, in questa Rivista, 10 settembre 2020.
Alla data attuale, la Corte europea ha adottato due pareri consultivi: il primo, in data 10 aprile 2019, su richiesta della Corte di cassazione francese; il secondo, in data 29 maggio 2020, su richiesta dalla Corte costituzionale armena. È pendente una rimessione alla Corte. Il 25 gennaio 2021, il panel di 5 giudici ha accolto la richiesta presentata, il 5 novembre 2020, dalla Corte suprema amministrativa della Lituania, attribuendogli il numero P16 – 20202 – 002. La questione verte sul rifiuto della commissione elettorale lituana di consentire la candidatura di un ex deputato poi destituito. L Corte suprema amministrativa chiede ai giudici europei la corretta interpretazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 1 che assicura il diritto a libere elezioni.
È stata invece dichiarata inammissibile, in data 1° marzo 2021, la richiesta della Corte suprema slovacca, presentata il 19 novembre 2020 relativa alla indipendenza del meccanismo interno di accertamento della responsabilità di agenti di polizia. La scarna motivazione, quale si legge nel comunicato stampa, è, ancora una volta, illuminante sulla riflessività del rinvio: i giudici europei motivano la loro decisione in base a un precedente avis d’harmonisation reso dalla Corte rimettente che rifletterebbe l’inutilità dell’intervento della corte sovranazionale. Gli aspetti sollevati dalla Corte slovacca, dicono i giudici europei, did not concern an issue on which the requesting court would need the Court’s guidance to be able to ensure respect for Convention rights when determining the case pending before it. È il principio di sussidiarietà a portare a questa non decisione in uno spirito di collaborazione e di rispetto reciproco.
[18] Si tratta di espressione usata da A. Ruggeri, La cedevolezza della cosa giudicata all’impatto con la Convenzione europea dei diritti umani…ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in Legislazione penale, 2011, 481 e ss.
[19] M. Vogliotti, voce Legalità, in Enc. Dir., Annali IX, Milano, 2013, 373.
[20] Corte europea, parere consultivo, n. P16-2019-001, cit. parr. 53 – 56.
[21] Corte europea, GC, Del Rio Prada c. Spagna, sentenza del 21 ottobre 2013 e Rohlena c. Repubblica Ceca, sentenza del 27 gennaio 2015.
[22] Corte europea diritti umani, Jorgic c. Germania, sentenza del 12 luglio 2007.
[23] Corte europea diritti umani, Kuolelis e altri c. Lituania, sentenza del 19 febbraio 2008; Haarde c. Islanda, sentenza del 23 novembre 2017.
[24] Corte europea, parere consultivo, n. P16-2019-001, cit. par. 71.
[25] Corte europea, GC, Scoppola c. Italia (n. 2), sentenza del 17 settembre 2009.
[26] Art. 300 c.p. Usurpazione di potere, in vigore all’epoca dei fatti, e il successivo art. 300.1 Rovesciamento dell’ordine democratico, entrato in vigore nel 2009. I fatti addebitati all’imputato risalivano al 2008.
[27] Si tratta di una citazione dalla canzone I’ll be your mirror, scritta da Lou Reed e David Lang e cantata dalla cantante Nico, del gruppo Velvet Undergroud.
[28] Nel preambolo si parla di “estensione” in quanto la nuova competenza si affianca a quella già prevista ai sensi dell’art. 47 della Convenzione che consente al Comitato dei Ministri di attivare la richiesta di parere.
[29] È intuitivo che allo scopo reso esplicito nel preambolo si aggiunge un intento deflattivo, confidando nel fatto che la procedura consultiva possa nel lungo periodo portare a una riduzione del carico di lavoro della Corte.
[30] La Corte ha espressamente attribuito ai propri pareri consultivi un ulteriore importante scopo, quello «de fournir aux juridictions nationales des orientations sur des questions de principe relatives à la Convention applicables dans des cas similaires»; così par. 26 in fine, del primo parere reso, Corte europea dei diritti umani, parere consultivo del 10 aprile 2019, richiesta n. P16 – 2018 – 001. È così riconosciuta ai pareri pregiudiziali una funzione erga omnes e un’efficacia sostanziale erga omnes. Un’efficacia vale a dire, destinata ad andare oltre il singolo caso da cui la richiesta di parere trae origine, per estendersi a tutti i casi in cui lo stesso problema giuridico oggetto del parere si presenti dinanzi ai giudici nazionali, in particolare ai giudici dello Stato di appartenenza della giurisdizione richiedente. In questo senso in letteratura, V. Cannizzaro, Pareri consultivi ed altre forme di cooperazione giudiziaria nella tutela dei diritti fondamentali: verso un modello integrato?, in La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, E. Lamarque (a cura di),Giappichelli, 2015, 79-89, in particolare 82; L.A. Sicilianos, L’élargissement de la compétence consultative de la Cour européenne des droits de l’homme – À propos du Protocole n° 16 à la Convention européenne des droits de l’homme, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, 2014, 9-29, specialmente 27-28; P. Pirrone, I primi parere pregiudiziali della Corte europea dei diritti umani: aspetti procedurali, in Diritti umani e diritto internazionale, 14, 2020, 531 – 548, in particolare, 533 e ss.
[31] È rilevante sottolineare come il giudice nazionale, vincolato a presentare questioni di compatibilità a Convenzione rilevanti per risolvere una controversia sottoposta al suo esame, deve, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo 16, adeguatamente motivare la propria richiesta e anche «produrre gli elementi pertinenti inerenti al contesto giuridico e fattuale della causa pendente». Nel rapporto esplicativo è specificato che i giudici nazionali devono chiarire l’oggetto del procedimento interno e le risultanze rilevanti dei fatti acquisiti nel corso dello stesso, le norme di legge interne, la precisazione dei diritti che si ritengono violati, una sintesi delle osservazioni delle parti e le considerazioni del giudice remittente. In tal modo, il giudice europeo è costretto a guardare oltre il proprio confine, e dovrà riflettere anche sul diritto che sta importando per poter procedere nel senso di una decisione consapevole e aperta, protesa, sul contesto normativo e fattuale da cui origina e in cui tornerà il suo intervento.
[32] È il principio di apertura dei principi e diritti fondamentali che porta, scrive A. Ruggeri, Protocollo 16 e identità costituzionale in Rivista di diritti comparati on line, 7 gennaio 2020 p. 5, l’ordinamento interno ad aprirsi “ad ordinamenti e sistemi normativi, quale quello eurounitario e quello convenzionale, allo stesso tempo in cui questi si aprono al primo, tutti accomunati e governati da un autentico metaprincipio che è quello della massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali”. Si afferma, quindi, che in tanto quella giurisprudenza possa avere ingresso nel nostro sistema ordinamentale in quanto da ciò derivi un guadagno per i diritti costituzionali. Il metaprincipio della massima tutela possibile costituisce, in definitiva, la valvola attraverso cui il diritto convenzionale può farsi diritto nazionale e viceversa. Contra, R. Bin, Critica della teoria dei diritti, FrancoAngeli, 2018, pp. 63 e ss. Sempre A. Ruggeri, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU (a prima lettura di Corte Cost. nn. 311 e 317 del 2009) in www.forumcostituzionale.it, del 22 dicembre 2009, ricorda come nell’ipotesi in cui la giurisprudenza convenzionale, in un caso specifico e a proposito di un dato bilanciamento tra diritti entrambi fondamentali, assicuri una protezione ai diritti in questione più intensa rispetto a quella offerta dalla Carta costituzionale, è possibile, se non doveroso, per la Corte costituzionale fare proprio il livello di tutela (appunto, “più intensa”) offerto a livello sovranazionale, mirando alla massima espansione delle garanzie e “accantonando”, nella fattispecie, la disposizione costituzionale rilevante. Contra, ancora una volta, R. Bin, L’interpretazione conforme. Due o tre cose che so di lei, in www.rivistaAIC.it, fasc. n. 1/2015, pp. 2 e ss., secondo cui i diritti tendono a essere “a somma zero”, nel senso che l’aumento di tutela assicurato a un diritto comporta inevitabilmente una diminuzione per un altro (lo stesso concetto di “bilanciamento” è espressione, a suo dire, di questo dato della gestione giudiziaria dei diritti).
[33] Il riferimento è al personaggio Humpty Dumpty che Alice incontrò in Attraverso lo specchio, protagonista di uno dei dialoghi più celebri del romanzo sul significato delle parole.
Ancora un ricordo del prof. Marongiu
di Andrea Venegoni
Sarà la lettura dei bei contributi degli amici Alberto Marcheselli Il Professor Gianni Marongiu di Alberto Marcheselli e Roberto Succio Omaggio al Prof.Marongiu, padre nobile dello Statuto dei contribuenti, sarà che sono tornato da poco dal rendergli l'ultimo saluto in una chiesa strapiena anche in tempo di Covid, ma anch'io non mi sono potuto esimere dallo scrivere due righe per salutare il prof. Gianni Marongiu che ci ha lasciato all'inizio di questa settimana.
Il pensiero che più mi è stato ricorrente in questi ultimi giorni è come la sua figura abbia in qualche modo attraversato buona parte della mia vita professionale, senza che a ciò sia corrisposto un legame particolarmente stretto a livello personale.
Certo, svelo subito al lettore che è il professore con il quale mi sono laureato all'Università di Genova, e che era uno dei titolari dello studio nel quale, prima di passare il concorso, ho svolto la pratica forense per ben tre anni, tra il 1988 ed il 1990. Una figura, quindi, che non mi è stata del tutto indifferente.
Ma, più che parlare di episodi specifici che poco interesserebbero chi legge, mi urge condividere lo stupore che non smette mai di cogliermi quando penso come, ancora oggi, il mio presente professionale affondi le sue radici in quel passato ormai lontano, come se tutto, in questi anni di vita lavorativa con esperienze variegate, fosse stato legato da un invisible filo rosso della cui esistenza non mi ero reso conto e di cui, invece, stavo seguendo il percorso.
A parte, infatti, l'ovvia constatazione per cui, da quando sono arrivato in Cassazione, mi sono ritrovato ad occuparmi di diritto tributario, e cioè della materia in cui 33 anni fa mi sono laureato e di cui si occupava lo studio in cui ho fatto pratica, materia che – peraltro – come sanno gli attenti studiosi di questi argomenti, non era estranea neppure alla mia precedente esperienza presso l'Olaf (a conferma del fatto che interessi finanziari dell'Unione Europea, diritto penale europeo per la lotta alle frodi e diritto tributario non sono affatto campi distinti, ma facce della stessa medaglia), la continuità la ritrovo nell'atteggiamento, anche mentale, e nel modo di avvicinarmi alle norme ed ai principi giuridici che cerco di avere ancora oggi quando affronto un caso.
La mente non può non volare, al riguardo, alle celeberrime riunioni del lunedi sera della rivista “Diritto e pratica tributaria”, in cui un gruppo di giovani poco più che ventenni, sul finire degli anni '80, si ritrovava nella sala riunioni dello studio e dove ciascuno, di fronte ai tre professori dall'altra parte del tavolo, che incutevano un certo timore reverenziale, doveva esporre e sintetizzare alcune sentenze scelte della Corte di Cassazione o di merito, per valutare la redazione di una nota a sentenza da pubblicare. Oggi mi rendo conto che, se tuttora cerco di avere un approccio di estremo rigore nell'affrontare le tematiche e sento la necessità di cogliere immediatamente il cuore del problema - ammesso che ci riesca con tutti i miei limiti - la formazione e l'insegnamento sono venuti certamente da lì, dove la finzione e l'approssimazione non erano ammesse, dove le domande a sorpresa dei professori (la più classica delle quali, apparentemente innocua, ma in realtà per noi insidiosissima e carica di signficato sul rapporto tra fattispecie concreta e principio, suonava “ma il fatto com'era?”) erano una palestra al ragionamento giuridico, all'esposizione sintetica, alla valorizzazione dei principi, in cui l'allenamento era costante.
Sentire, poi, come loro, ed il prof. Marongiu in particolare con la sua brillantezza oratoria, da una sentenza “partivano” fino ad arrivare a parlare dei massimi sistemi del diritto tributario era un'esperienza che, come detto, ricordo ancora oggi con ammirazione e meraviglia.
Più passa il tempo e più mi rendo conto che le riunioni del lunedi sera di “Diritto e pratica tributaria” hanno rappresentato tanto per me: hanno fatto nascere amicizie tra noi, giovani del gruppo, rimaste tutta la vita, ci hanno messo a contatto, neo laureati, con altri partecipanti già affermati nel mondo del lavoro e ci hanno permesso di sedere, per un breve tratto, alla tavola del sapere con i professori dello studio, colossi del diritto tributario - che tutta Italia, e non solo, invidiava a Genova -, nella speranza di poter raccogliere e trattenere qualche briciola.
Il prof. Marongiu era uno di loro, ed anche per questo, oggi, lo ringrazio.
Il "nuovo" delitto di traffico di influenze: un bilancio esegetico due anni dopo l'introduzione
di Andrea Apollonio
Quando l'art. 346-bis afferma che il pubblico ufficiale deve prospetticamente agire "in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri" non vuole e non può riferirsi esclusivamente ad ipotesi di corruzione impropria di cui all'art. 318: limitare il raggio operativo della norma alle ipotesi corruttive è operazione ermeneutica che non trova un riscontro preciso nel dato di legge e contrasta gli obiettivi politico-criminali della c.d. "spazzacorrotti". Il legislatore del 2019 ha poi, in questa prospettiva, riproposto il tema dell'incriminazione delle attività di lobbying: consapevole delle strade interpretative che gli operatori avrebbero potuto imboccare.
Sommario: 1. La riforma del 2019 - 2. Il contenuto antigiuridico della norma - 3. L'oggetto della mediazione - 4. Il caso delle attività di lobbying - 5. Un primo bilancio esegetico, due anni dopo.
1. La riforma del 2019
La legge 9 gennaio 2019, n. 3 recante "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici" (legge c.d. "spazzacorrotti") con formula tranciante rimodulava i rapporti tra millantato credito e traffico di influenze illecite. A fronte dell'abrogazione dell'art. 346, che prevedeva l'ipotesi "storica" di millantato credito[1], veniva stuccato il tenore letterale dell'art. 346-bis, di modo da inglobarvi[2], almeno nelle intenzioni, la condotta dell'espunto delitto finitimo e da renderlo più aderente allo spirito della riforma del 2012[3]: adesso, la clausola di sussidiarietà non si limita a tangere gli artt. 319 e 319-ter, ma abbraccia l'intero ventaglio dei reati di corruzione; lo sfruttamento di relazioni esistenti con un p.u. o i.p.s. si tramuta nello sfruttamento o nel vanto di relazioni esistenti o asserite; il vantaggio patrimoniale viene trasfuso nell' onnicomprensiva utilità; l'atto contrario ai doveri di ufficio o l'omissione o ritardo di un atto dell'ufficio, al cui compimento la mediazione tende o dovrebbe tendere diviene un più ampio riferimento all' esercizio delle funzioni.
Nel "nuovo" delitto di traffico di influenze rimangono ferme le appendici circostanziali della condotta e sopratutto la previsione incriminatrice per chi "indebitamente dà o promette denaro o altra utilità": ciò vuol dire che, mentre prima la condotta di millantato credito intendeva il privato quale soggetto passivo e dunque vittima del reato, oggi - con il nuovo tratteggio dell'art. 346-bis - tale posizione viene ad essere punita.
Nessun accenno, invece, viene fatto al peculiare modus agendi di cui all'art. 346 co. 2: al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che non sussiste continuità normativa tra questo reato e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis, in quanto in quest'ultima fattispecie non risulta ricompresa la condotta di chi, mediante raggiri o artifici, riceve o si fa dare o promettere danaro o altra utilità, col pretesto di dovere comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo comunque remunerare; condotta che, in altro ramo dell'ordinamento penale, integra, invece, il delitto di cui all'art. 640, co. 1[4].
Può quindi affermarsi che la riforma del 2019 ha definitivamente spurgato la figura ex art. 346-bis da ogni residuo di tutela del privato tratto in inganno, di contro assumendo una più univoca posizione rispetto al bene giuridico protetto: essendo il reato di nuovo conio espressamente sussidiario delle varie ipotesi corruttive[5], questo si palesa quale avamposto del primario interesse dell'imparzialità e dell'efficienza della P.A., che appunto rispetto ai reati corruttivi vede la sua massima lesione.
2. Il contenuto antigiuridico della norma
Come visto, il nucleo del reato punisce la condotta del dare o promettere al trafficante o ad altri denaro o altra utilità[6] quale "prezzo della propria mediazione illecita" verso un pubblico agente. Denaro o altra utilità indebita, specifica la norma. Cosicché oggi il delitto di cui all'art. 346-bis esprime un disvalore polarizzato su una doppia nota di illiceità speciale; un eccesso di tipizzazione che potrebbe far pensare ad una illiceità riguardante non solo la dazione (d'altronde già qualificata in un senso antigiuridico) ma anche l'essenza stessa della mediazione, ovverosia lo scopo dell'attività di influenza[7]. Di più: potrebbe dirsi, osservato il nuovo assetto della norma, che l'illiceità riguarda principalmente la mediazione (recte: il suo oggetto).
In altri termini, il carattere dell'illiceità, che riempie di disvalore il fatto e, in ultima analisi, integra il reato, andrebbe oggi appuntato sulla mediazione, a poco o nulla rilevando la natura della dazione: potrebbe dirsi che se non è dovuta (al netto, s'intende, dei casi di indebito civilistico) ciò discende dal fine dell'accordo, ed è su questo che andrebbe incentrata l'analisi; potrebbe dirsi che se la dazione è dovuta, ed è quindi da riferire a rapporti ex lege o ex contractu tra privato e mediatore, se il pagamento trae la propria ragion d'essere all'interno di questo rapporto, non potrà essere finalizzato al compimento di un reato, o comunque di un'attività illecita. Ciò vale per la mediazione onerosa, in cui l'utilità viene richiesta per compensare il mediatore "come prezzo della propria mediazione illecita"; vale a fortiori, per la mediazione gratuita, in cui la somma viene asseritamente destinata - fin da subito - al pubblico funzionario: infatti, in questo caso il carattere indebito della dazione (al funzionario) non può che discendere dall'illiceità del fine - almeno ai sensi dell'art. 318, che sanziona l'esercizio delle funzioni o dei poteri a fronte di qualsivoglia remunerazione - e quindi dall'avere, come obiettivo, il compimento di un reato che comporta il pagamento di un "prezzo".
La duplice sottolineatura testuale in punto di antigiuridicità[8] - "indebitamente fa dare o promettere"; "mediazione illecita" - indubbiamente crea l' effetto di un gioco ottico tra le numerosi pareti a specchio di una norma che sconta, in effetti, un'eccessiva tipizzazione: l'indebita dazione (al trafficante, per lui stesso o per remunerare il funzionario) è generalmente il riverbero di una mediazione illecita rispetto al fine (che il trafficante prospetta al privato in cambio appunto di un prezzo[9]); efficacemente, potrebbe dirsi che la mediazione è illecita in quanto illecita la condotta a cui tende: senza alcuna necessità di risalire, a monte, alla natura della dazione[10].
Tuttavia, prima di poter condividere la tesi per cui l'avverbio "indebitamente" sarebbe del tutto pleonastico, giacché "se la prestazione oggetto di pagamento è una mediazione illecita non può che essere indebito il pagamento"[11], nel prosieguo dell'indagine occorrerà verificare se la caratura indebita del pagamento (al mediatore[12]) possa in qualche misura - e in talune ipotesi - surrogare la prospettazione, nell'ambito del pactum sceleris, di fatti non costituenti reato; e rendere per questa via illecita la mediazione.
Appare a questo punto necessario scandagliare i possibili oggetti della mediazione, da enuclearsi direttamente dal corpo dell'art. 346-bis.
Una delle modifiche di maggior rilievo approntate dal legislatore del 2019 riguarda proprio la prospettazione della condotta del pubblico agente per come emerge dal patto stipulato tra privato e mediatore: il passaggio dal "compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio" al mero "esercizio delle funzioni" del funzionario: è questo l' obiettivo che oggi si pongono, o devono porsi, i paciscenti.
Ed invero, la precedente formulazione aveva dato la stura ad una serie di congetture ermeneutiche, sopratutto in materia di concorso di reati: si era ad esempio affermato che la mancanza del richiamo ad una condotta che evocasse l'art. 318, in uno con la specificazione che il denaro è dato o promesso al fine di mediare con - o remunerare il - pubblico ufficiale per un atto contrario ai doveri di ufficio, in assenza di sussidiarietà espressa avrebbe potuto determinare il concorso con la fattispecie della corruzione per l'esercizio della funzione[13]: ciò, a riprova del fatto che la figura della mediazione forgiata nel 2012 fosse strettamente agganciata a specifiche ipotesi di reato-fine, nonché sussidiaria di altrettante, specifiche ipotesi delittuose.
Dopo l' incisiva revisione testuale del 2019, può ben dirsi che la c.d. "spazzacorrotti" ha apportato un diverso contenuto tipico della fattispecie[14]. Non è quindi più necessario che la prestazione del p.u. o dell' i.p.s. (obiettivo ultimo della mediazione) si riferisca ad un atto individuato o individuabile, contrario o meno ai doveri dell'ufficio, da omettere o da compiere; la mediazione deve essere effettuata in ragione delle funzioni esercitate dal pubblico agente[15]: una dicitura che chiaramente ricomprende tutte le ipotesi dell'ampio ventaglio delle corruzioni presenti nel codice dopo il 2012; potendole persino travalicare.
L'oggetto della mediazione è dunque, adesso, quella condotta che - per riprendere il dato testuale della clausola di sussidiarietà - sostanzia i "casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'art. 322-bis", ma va ben oltre, attesa l'ampia sfera semantica della locuzione, che chiude il nucleo del reato, "in relazione alle funzioni o ai poteri": è da considerarsi ogni altra condotta di reato che potrebbe essere perpetrata dal pubblico agente, appunto nell'esercizio delle funzioni o dei suoi poteri, con la differenza che, se tale condotta non è richiamata nella clausola di sussidiarietà, si potrà avere, come sopra si è detto, un concorso di reati. La soluzione concorsuale appare invero percorribile, in particolare, qualora il traffico di influenze sia posto in sequenza con reati sanzionati con pene analoghe o inferiori, come l'omissione d'atti d'ufficio o l'abuso d'ufficio[16]; diversamente, potrebbe apparire ragionevole la consunzione dell'art. 346-bis ove questa fattispecie fosse prodromica a reati più gravemente sanzionati, come - oltre a quelli indicati nella clausola di riserva - l'art. 353 o 353-bis: tipi penali che possono pur sempre essere integrati nell'esercizio delle funzioni del pubblico agente (cfr. art. 353, co. 2) e che, anzi, in questa ipotesi raggiungono il picco del disvalore.
Al riguardo va anche osservato che la legge del 2019 non si è prodigata di inserire l'istigazione alla corruzione nella cerchia dei reati contemplati nella clausola di sussidiarietà: ciò invero potrebbe aprire la strada all'ipotesi di un concorso tra questo reato e il traffico di influenze illecite, se non fosse che si tratta di una chiara ipotesi di sussidiarietà tacita, che il legislatore ha mancato di esprimere. E' infatti evidente che, al pari delle fattispecie consumate (e richiamate), il disvalore della condotta istigatrice (gravemente sanzionata allorché riprende la propria cornice edittale dai reati corruttivi di cui è appendice) esaurisce quello del delitto-mezzo, arrivato ad un ulteriore stadio di escrescenza delittuosa[17].
3. L'oggetto della mediazione
La mediazione, si è fin qui detto, è illecita in quanto illecita la condotta a cui tende. Tale assunto andrebbe inteso nel suo senso finalistico più ampio: quando l'art. 346-bis afferma che il p.u. o l'i.p.s. deve prospetticamente agire "in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri", consentendo per questa via la consumazione del reato, non vuole e non può riferirsi esclusivamente ad ipotesi di corruzione impropria di cui all'art. 318[18].
Limitare infatti il raggio operativo della norma ad ipotesi corruttive ex art. 318, oppure, come recita il co. 4, "se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio" (limitare insomma, a conti fatti, l'obiettivo del mediatore ad ipotesi di reato ben determinate, ovverosia gli artt. 318, 319, 319-ter, 328), è operazione ermeneutica che non trova un riscontro preciso nel dato di legge. E' vero che chi remunera per l'esercizio delle funzioni o dei poteri ricade indubbiamente, per ciò solo, nell'alveo testuale dell'art. 318, ma non bisogna dimenticare che questa fattispecie contempla, quale perno della condotta, una dazione indebita, per sé o per un terzo; invece, come si è ricordato, l'art. 346-bis prevede il caso (principale) della mediazione onerosa, in cui l'utilità viene richiesta per compensare il mediatore, "come prezzo della propria mediazione illecita", facendo rimanere in ombra il meccanismo di prezzolamento del p.u. o dell' i.p.s. Di talché, il caso in cui il mediatore abbia in animo - con intendimento condiviso con il privato che ha pagato per la mediazione - di avvicinarsi al pubblico funzionario a mani vuote può essere sussunto, in assenza di preclusioni testuali, nell'art. 346-bis.
Quindi se il mediatore è compensato (d'altro canto: se non lo fosse, se non si registrasse alcun pagamento nell'ingranaggio del rapporto privato-mediatore-agente pubblico, sarebbe da escludersi l'integrazione del reato), ma la riserva mentale del patto non contempla anche la remunerazione del funzionario pubblico, che pure dovrà agire nell'eserczio delle funzioni o dei suoi poteri (e magari può agire, "interessarsi" a titolo gratuito, d'amicizia o in base ad altro movente morale), non può dirsi integrato l'art. 318: rimarrebbero però in piedi le altre fattispecie che vedono l'agente muoversi all'interno dei propri poteri. E non a caso, verrebbe da dire, il legislatore contempla tra le circostanze aggravanti la finalità che conduce ad una fattispecie che nulla c'entra con la meccanica corruttiva, che è l'omissione d'atti d'ufficio.
Arrivati a questo punto, si può essere più precisi e dire che la mediazione per essere illecita deve avere un oggetto illecito rinvenibile in un circuito ampio ma predefinito: deve trattarsi di una condotta di reato posta in essere da un p.u. o da un i.p.s. che agisce in relazione alle sue funzioni o ai suoi poteri, e rientrare tra quei tipi penali che ledono il corretto andamento della P.A., trasfondendosi quindi in uno dei reati previsti dal Titolo II del secondo libro del codice penale. Un tale criterio selettivo discende non soltanto dall'essere la norma chiara nell'individuare i soggetti target nei "pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio o in uno dei soggetti indicati nell'art. 322-bis", che devono agire "in relazione all'esercizio delle funzioni o dei poteri", ma sopratutto dall'essere - dopo l'inclusione del millantato credito ad eccezione dell'ipotesi truffaldina di cui al secondo comma dell'art. 346 abrogato - saldamente collocata tra i delitti contro la P.A. e dall'avere, quale precipua ed espressa finalità di tutela, quella di fronteggiare fenomeni - non solo corruttivi - che minano l'imparzialità e l'efficienza dell'Amministrazione punendo talune condotte prodromiche.
In quest'ordine di idee, la clausola di sussidiarietà assume un valore non incriminatrice, individuando cioè expressis verbis i soli fatti per cui la mediazione può dirsi illecita, bensì di disciplina: selettiva soltanto rispetto ad ipotesi di concorso nel reato. Non sarebbe corretto vederci un'ulteriore intenzione del legislatore: una qualsivoglia funzione d'orientamento del tipo penale, con selezione a monte dei reati verso cui il mediatore è sospinto.
Cosicché, reati come l'omissione d'atti d'ufficio o l'abuso d'ufficio - sanzionati meno gravemente - non solo possono essere oggetto della mediazione illecita perché posti in essere dal pubblico agente in relazione all'esercizio delle funzioni ma, se configurati, potranno concorrere con l'art. 346-bis; invece quelli corruttivi, ivi compresa i'istigazione alla corruzione, se configurati, prevarranno sul traffico di influenze, per espressa previsione di legge.
Nondimeno, neppure può escludersi - perché non ostacolata da alcun dato testuale - l'ipotesi interpretativa che, l'avere il legislatore del 2019 più genericamente connesso la mediazione all'esercizio delle funzioni o dei poteri di un agente pubblico, senza individuare i fatti di reato cui si punta, lasci in piedi la fattispecie concreta in cui il mediatore e il privato si prospettano un'influenza sull'agente pubblico priva di rilevanza penale; spingendo l'interprete a ricavare aliunde l'illiceità della mediazione.
Se, per intenderci, il fatto a cui si punta, l'esercizio delle funzioni che si mira ad influenzare, rimane sprovvisto di compenso (non potendo quindi integrare l'art. 318) e non sostanzia altre fattispecie di reato contro la P.A., e sia - magari - relativo ad attività pubbliche discrezionali che non scivolano verso il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio (si pensi a chi esercita poteri decisionali a fini pubblicistici in organi istituzionali), a quel punto, in assenza di un fatto illecito a valle (seppure sempre prospettato e non praticato), l'interprete dovrà tornare a monte e, ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 346-bis, verificare se la dazione, che è pur sempre elemento costitutivo del reato, risulti o meno indebita.
4. Il caso delle attività di lobbying
Come si è appena detto, la nuova formulazione, contemplando l'ipotesi del mero esercizio delle funzioni o dei poteri, anche senza alcuna remunerazione (non essendosi la legge soffermata su questo punto)[19], arriva ad abbracciare la pattuizione di fatti, di "influenze", anche non costituenti reato.
É, un esempio tra tutti, il caso delle attività di lobbying: delle attività dei "gruppi di pressione", che fungono da collettori delle istanze dei consociati o di singoli gruppi o soggetti, presso il decisore pubblico che esercita le sue prerogative[20]; e in questo "processo per mezzo del quale i rappresentanti di gruppi d’interesse, agendo da intermediari, portano a conoscenza dei legislatori, dei decision makers, i desideri dei loro gruppi"[21], che di norma non prevede uno scambio di prestazioni utilitaristiche in senso stretto, in assenza di riferimenti legislativi chiari, alquanto nebulosi appaiono i confini di possibili fattispecie di reato.
E' un tema che la riforma c.d. "spazzacorrotti" ripropone con forza: va infatti ricordato che tanto la menzione dell’art. 318 nella clausola di riserva, quanto il riferimento all’esercizio della funzione, inizialmente compresi nel progetto della riforma del 2012, nell'ultimo passaggio parlamentare erano stati espunti al precipuo scopo di non dilatare eccessivamente il raggio d’azione dell’art. 346-bis. Si era infatti ritenuto che l’ancoraggio della mediazione illecita al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio da parte del soggetto qualificato assicurasse alla fattispecie un accettabile grado di precisione, scongiurando, al tempo stesso, il rischio di incriminare legittime attività di lobbying[22]. Il legislatore del 2019 ha dunque riproposto la tematica con cognizione di causa: consapevole delle strade interpretative che gli operatori avrebbero potuto imboccare.
Va però aggiunto che il dato di legge presenta, come già presentava nel 2012, un criterio d'orientamento utile: quello che fa leva proprio sull’utilizzo congiunto delle espressioni "indebitamente" e "illecita", contenute nella formula incriminatrice, le quali verrebbero ad assumere, almeno in talune ipotesi, un peso determinante nella tipizzazione del fatto. Si potrebbero evocare casi in cui il mediatore ottenga un pagamento indebito per il compimento di un'attività che, almeno rispetto al soggetto qualificato, risulti di per sé lecita: si pensi all’azione, appunto, di soggetti che agiscano per conto di portatori di interessi particolari, a favore dell’introduzione o, viceversa, dell' abrogazione di leggi.
In questa ipotesi, del tutto rispondente all'esercizio di attività di lobbying, l'unica strada per ritenere illecita la mediazione, sussistendo un oggetto lecito della mediazione, porta ad osservare da vicino il pagamento effettuato al mediatore: soltanto ove questo risultasse indebito, senza alcuna aderenza ad attività professionali disciplinate e da retribuirsi regolarmente, non versandosi quindi nel caso di una mediazione professionale lecita, perché riconosciuta da specifiche disposizioni di legge, per l'effetto la mediazione potrà essere qualificata illecita ed integrare, sussistendo tutti gli altri elementi costitutivi, il reato di cui all'art. 346-bis.
Ma non solo. Riesumare, nel processo logico-analitico di imputazione del fatto, e di configurazione del reato, la natura indebita della dazione a fronte dell'accertamento che il pagamento al mediatore non si riferiva ad altro che alla mediazione stessa, al di fuori di rapporti professionali o d'altra lecita natura, permetterebbe anche di superare le difficoltà dettate dalla mera proiezione del tipo di influenza, della riserva mentale sul fatto tipico target: talvolta difficile, a queste condizioni, appurare se si tratti di un fatto di reato. Difficoltà accentuata dal consentire, la struttura del delitto de quo, che la dazione sia destinata al solo mediatore, allungando un'ombra probatoria sul modo in cui l'agente qualificato verrà influenzato, rimanendo così incerta la sussistenza del reato-fine[23].
La clausola di illiceità speciale collegata al pagamento - la "dazione indebita" - assume quindi un carattere sussidiario che, in ipotesi particolari quali quelle - di grande rilevanza pratica - appena esplorate, permettono di affermare l'illiceità della mediazione anche laddove la stessa non abbia di mira fatti costituenti reato.
5. Un primo bilancio esegetico, due anni dopo
Sui punti che sono stati rapidamente esplorati, sulle problematiche che direttamente derivano dalla riforma del 2019, sembra ancora non rinvenirsi una giurisprudenza di legittimità che possa orientare l'interprete. A maggior ragione, trascorsi due anni dall'introduzione della "nuova" fattispecie di cui all'art. 346-bis, occorre fornire elementi esegetici utili; se non altro volti a dimostrare che l'art. 346-bis riesce a dire molto più di quanto possa ricavarsi da un'analisi superficiale del testo.
Questo, oggi, non è la semplice risultante del "vecchio" art. 346-bis con l'inclusione della condotta del millantato credito (ad eccezione del co. 2) e il rimessaggio della clausola di sussidiarietà - sostituita con altra più ricca, comprensiva dei reati "di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e [dei] reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis" - e dell'obiettivo della mediazione, che oggi può interessare anche la corruzione per l'esercizio della funzione; norma accompagnata da inutili superfetazioni quali potrebbero apparire le due note d'illiceità speciale. L'art. 346-bis è invece, il frutto di una più complessa operazione legislativa elaborata nell'ambito di un disegno riformista che, condivisibili o meno, ha obiettivi di politica criminale ben chiari.
È stato anzitutto evidenziato quanto ampio sia il ventaglio dei possibili oggetti della mediazione, la cui estensione supera quello dei reati direttamente o indirettamente evocati nel testo per abbracciare altre fattispecie contro la P.A., fino a lambire fatti non costituenti reato (è il caso delle attività di lobbying; è, anche, l'ipotesi in cui la riserva mentale dei paciscenti, anche solo per indeterminatezza, non conduca alla prova degli elementi costitutivi di un fatto tipico): in questi casi, la natura indebita del pagamento, nota testuale superflua solo in apparenza, assume carattere sussidiario nella struttura del reato supplendo alla mancanza di illiceità nella mediazione avendo riguardo all'obiettivo della stessa; in questi casi, la mediazione risulterà illecita se il pagamento (la dazione o la promessa) è stato indebito[24]. Non si spiegherebbe altrimenti la complessiva formulazione testuale dell'art. 346-bis.
Un tale approdo ermenutico è altresì confortato da una lettura storica e sistematica della norma. Come si è visto, la fattispecie-madre di cui all'art. 346 non faceva riferimento ad un compenso indebito, né ad una mediazione illecita. D'altra parte queste note di illiceità speciale non erano necessarie perché quella dell'agente era un'attività vantata, truffaldina; millantata, appunto, che già di per sé gettava discredito sulla P.A. Si avvertì l'esigenza di inserirle nel testo di legge quando le reali relazioni con il pubblico agente furono innalzate al rango di presupposto del reato[25], con l'art. 346-bis, assieme all'intento di bonificare quelle condotte prodromiche al contatto e al rapporto tendenzialmente delittuoso con il funzionario. Mutando le finalità di tutela mutava anche la struttura del reato e ne veniva raffinata la tipicità.
A ben vedere, quest'operazione di arricchimento testuale non avrebbe oggi alcun significato se il legislatore del 2019 avesse specificato (come in parte aveva specificato il legislatore del 2012) che sono soggette a pena solo quelle mediazioni prodromiche a fatti di corruzione espressamente individuati: in tal caso, la mediazione sarebbe di per sé illecita (perché tesa alla perpetrazione di fatti di reato) e, conseguentemente, il pagamento al mediatore (per lui stesso, per il pubblico agente o per entrambi) sarebbe in ogni caso indebito. Invece, il legislatore del 2012 prima, del 2019 poi, ha introdotto - e mantenuto - questi connotati perché, evidentemente, molto più ampio doveva essere il raggio d'azione della norma: ampiezza punitiva prima contenuta e poi sprigionata con la c.d. "spazzacorrotti".
Come si è osservato, i lavori parlamentari dell'art. 346-bis, prima formulazione, mostrano che la norma in un primo tempo mirava all'esercizio delle funzioni del pubblico funzionario, e che solo la preoccupazione di una indiscriminata punizione delle attività di mediazione rispetto a fatti non costituenti reato ha portato il Parlamento ad individuare modalità stringenti di selezione del fatto tipico. Ciò invero dimostra come la lunga evoluzione che ha condotto all'introduzione dell'art. 346-bis di nuovo conio, con la contestuale abrogazione dell'art. 346, si annodi a un disegno di politica criminale aderente alla tramutazione criminologica della figura del "faccendiere": figura che non è solo un possibile corruttore o istigatore, ma risponde anche a dinamiche diverse: ad altri obiettivi di reato o, altrimenti, a forme di pressione - in sé non necessariamente costituenti reato - nei processi deliberativi e decisionali le quali, però, possono costituire un vulnus rilevante al corretto e imparziale andamento degli stessi.
L'evoluzione socio-criminale della figura del faccendiere[26], per come emerge anche da numerose inchieste giudiziarie degli ultimi anni, ha condotto il legislatore a ritenere non più procastinabile la distinzione tra faccendiere-millantatore e vero faccendiere (figure espressioni di identico disvalore e di identica immagine di turbamento del buon andamento dell'Amministrazione)[27], ad innalzare notevolmente i massimi edittali di pena e, di conseguenza, ad ampliare per tabulas gli scopi che costui si prefigge: il Parlamento ha potuto quindi conformare in un senso più ampio il tipo di reato - consentendo che il nucleo di disvalore fosse costituito principalmente dalla mediazione illecita, ed in via sussidiaria dalla dazione indebita - consapevole anche del fatto che la norma (già) presentava una sorta di clausola di salvaguardia rispetto a ipotesi punitive indiscriminate, costituita appunto dalla doppia nota di illiceità.
Ebbene, non ampliare l'esegesi, il raggio operativo della norma fino alle latitudini toccate in quest'indagine, vorrebbe dire ignorare la portata della modifica del 2019 la quale, va ricordato, si inserisce in una più ampia riforma che va a colpire tutti i fenomeni che possono in qualche modo alterare il buon andamento e l'imparzialità della P.A.[28]. Osservate da questa prospettiva, le interpretazioni fornite appaiono ossequiose di precise scelte di politica criminale, volte a scongiurare anzitutto quegli accordi finalizzati ad altri accordi: i primi, sono pur sempre l'anticamera della corruzione del pubblico funzionario; ma anche a disincentivare ogni forma di pressione sui processi di pubblico interesse.
Vero è, anche, che questa riforma ha messo a nudo le gravi carenze normative in materia di lobbying: il legislatore del 2019, intervenuto decisamente sul piano punitivo, ha mancato di regolamentare, in parallelo, un aspetto della vita politico-amministrativa dal peso non irrilevante, tanto da essere espressamente riconosciuto e disciplinato da taluni organi rappresentativi[29].
In definitiva, nonostante gli spunti interpretativi che qui si è cercato di elaborare, a due anni dalla riforma del reato, il rischio è che sia ancora la nebulosa disciplina legislativa sul lobbying - di fatto inesistente su un piano generale - a non permettere una valutazione esatta in ordine al carattere indebito dell'utilità versata dal privato e, specularmente, a determinare notevoli incertezze rispetto all'eventuale inquadramento nel reato di traffico illecito di influenze.
[1] Era punito chi, "millantando credito presso un pubblico ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato".
[2] La Cassazione ha affermato, con riguardo a tale aspetto, che "sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che in quest'ultima fattispecie risultano attualmente ricomprese le condotte di chi, vantando un'influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione" (Cass., Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 17980, dep. 30 aprile 2019 - rv. 275730).
[3] Riforma che prendeva atto della profonda metamorfosi del fenomeno corruttivo: ove la corruzione, un tempo "pulviscolare", diviene "sistemica" (Vannucci, Alle radici della corruzione sistematica, in La corruzione a due anni dalla "Riforma Severino", a cura di Borsari, Padova, 2014, p. 34). Così recitava la norma prima del 2019: "Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale".
[4] Come di recente ha ribadito la giurisprudenza: cfr. Cass., Sez. VI, 18 settembre 2019, n. 5221, dep. 7 febbraio 2020 - rv. 278451. Non avendo quindi il legislatore riprodotto nel corpo del nuovo reato il termine "pretesto" o altro equipollente contenuto nella formalmente abrogata ipotesi del millantato credito, non integrandosi il nuovo reato mediante artifici o raggiri di alcun tipo (tanto da rendere possibile l'incriminazione del - già - soggetto passivo), si configura il peculiare fenomeno successorio dell' abrogatio sine abolitione, nel senso che - rimanendo sullo sfondo il generale delitto di truffa - la formale abrogazione dell'art. 346 non avrebbe comportato in realtà alcun fenomeno abolitivo (Gambardella, L'incorporazione del delitto di millantato credito in quello di traffico di influenze illecite ha determinato una limitata discontinuità normativa, facendo riespandere il delitto di truffa, in Cass. pen., 2020, p. 1542).
[5] Giusta la clausola di riserva che funge da incipit della norma: "fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'art. 322-bis". Vd. diffusamente De Simone, La nuova disciplina del traffico di influenze illecite, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2019, p. 531 ss.
[6] Il legislatore è infatti andato oltre la ristretta nozione di vantaggio patrimoniale prima presente nel testo, venendo in tal modo superata la discrasia - che era stata subito segnalata dalla dottrina (Brunelli, Le disposizioni penali nella legge contro la corruzione. Un primo commento, 5 dicembre 2012, in Federalismi (web), p. 19) - tra la controprestazione tipica dei reati di corruzione (in cui è ricompresa ogni altra utilità, anche umana, quale ad es. il favore sessuale) e la precedente formulazione dell'art. 346-bis. Vd. anche Grossi, Il delitto di traffico di influenze, in Reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia. Trattato teorico-pratico di diritto penale, a cura di Catenacci, Torino, 2016, p. 259.
[7] Ha inizialmente avanzato questa ipotesi Cingari, La riforma del delitto di traffico di influenze illecite e l’incerto destino del millantato credito, in Dir. pen. proc., 2019, 6, p. 753.
[8] Pulitanò, Illiceità espressa ed illiceità speciale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, p. 65 ss.
[9] Va infatti ricordato che il pactum sceleris tra il mediatore e il privato può essere riferito soltanto a condotte future, perché rispetto ad azioni già compiute l'intesa diverrebbe un post-factum. E' proprio in virtù di questo aspetto - la corruzione non si deve realizzare, nemmeno nella forma dell'istigazione - che la dottrina ravvisa, in ogni caso, una componente lato sensu ingannatoria della condotta: ed infatti, a fronte della prestazione utilitaristica o della sua promessa non corrisponde un effettivo impegno assunto dal mediatore, vuoi per la carenza di intenzione nel portare a compimento la promessa illecita, vuoi per la superficialità - o addirittura l'inesistenza - della relazione con il pubblico agente (Consulich, Millantato credito e traffico di influenze illecite, cit., p. 623; cfr. anche Valentini, Dentro lo scrigno del legislatore penale. Alcune disincantate osservazioni sulla recente legge anti-corruzione, in Dir. pen. cont., 2, 2013, p. 124).
[10] Da questa prospettiva si può ben comprendere quanto importante sia, ai fini della configurazione del reato de quo, appurare quale sia la prestazione oggetto del pagamento. Ove tale finalità non fosse appurata, il reato non si configurerebbe, dal momento che la precisa individuazione del fine della condotta è, al pari degli altri, elemento costitutivo del reato; e, d'altra parte, com'è stato correttamente rilevato, la mancanza di proiezione esterna priverebbe l’accordo di quel minimo coefficiente di offensività, che giustifica la rilevanza penale del fatto (Hayo, L'incerta e sfuggente tipicità del traffico di influenze illecite, in Arch. Pen., 3, 2019, p. 19).
[11] Consulich, Millantato credito e traffico di influenze illecite, cit., p. 626, secondo cui l'avverbio "indebitamente" che compare nell'incriminazione non costituisce un elemento di illiceità speciale, ma un elemento indicativo di una mera illiceità espressa. Da altra voce dottrinale era stato osservato che le espressioni verbali "indebitamente" e "mediazione illecita" "non fondano un’illiceità speciale, poiché nulla aggiungono ai connotati di illiceità che connotano il modello legale": VENEZIANI, Lobbismo e diritto penale. Il traffico di influenze illecite, in Cass. pen., 2016, p. 1301.
[12] Poiché, come detto, prospettare il pagamento del funzionario per l'esercizio delle funzioni implica dirigersi verso un fatto di reato: che si configura, in linea con la giurisprudenza sull'art. 318, per effetto del mero divieto di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum che prescinde dalla giudizio di conformità o meno ai doveri d'ufficio della condotta posta in essere in adempimento dell'accordo corruttivo (Cass., Sez. VI, 2 luglio 2018, n. 40347, dep. 11 settembre 2018 - rv. 273792).Si veda, in dottrina, PADOVANI, La messa a ‘libro paga’ del pubblico ufficiale ricade nel nuovo testo di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, n. 48
[13] Così Andreazza-Pistorelli, Una prima lettura della l. 6 novembre 2012, n. 190, in Dir. pen. cont. (web), 20 novembre 2012, p. 14.
[14] Ovverosia un ampliamento considerevole del recinto applicativo: in questo senso non può condividersi l'opinione dottrinale per cui tale modifica sia stata volta giusto a "semplificare l'applicazione della fattispecie" (Merlo, Traffico di influenze illecite e millantato credito: successione di leggi o abrogazione parziale? in Foro It., 2020, c. 665).
[15] "L’oggetto dell’accordo non consiste più nel compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o nell’omissione o nel ritardo di un atto del suo ufficio, ma riguarda l’esercizio delle funzioni o dei poteri" (Maiello, Sulla discontinuità normativa tra la millanteria corruttiva e il traffico di influenze illecite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1504).
[16] Il co. 4 della norma richiama d'altronde, espressamente, l'omissione d'atti d'ufficio: "Le pene sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all'esercizio di attività giudiziarie, o per remunerare il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio". E' utile evidenziare che mentre l'omissione d'atti d'ufficio è reato sanzionato con pena fino a due anni, e l'abuso d'ufficio con pena fino a quattro anni, la c.d. "spazzacorrotti" è intervenuta sull'art. 346-bis anche innalzando la cornice edittale a quattro anni e sei mesi.
[17] In questo senso Valentini, Dentro lo scrigno del legislatore penale, cit., p. 119; Hayo, L'incerta e sfuggente tipicità, cit., p. 22; CONSULICH, Millantato credito e traffico di influenze illecite, cit. p. 211; contra MASSARO, Il traffico di influenze illecite, in Trasparenza nella P.A. e norme anticorruzione: dalla prevenzione alla repressione, a cura di Massaro, Roma, 2017, p. 97, che ammette la possibilità del concorso.
[18] Hayo, L'incerta e sfuggente tipicità , cit., p. 20 assume, ad es., una impostazione teleologica che va ben oltre le ipotesi di reato (tipizzate?): andrebbe infatti verificato che la finalità di influenza non sia al contempo finalità di distorsione: "È evidente che il cliente attende un risultato di favore dall’opera del mediatore; fin quando questo risultato non reca nocumento alla par condicio civium, non pare che l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione siano vulnerate" (idibem). Sarebbe dunque il concreto risultato perseguito dai paciscenti a dover guidare l'interprete verso soluzioni scriminanti o di configurazione del fatto.
[19] E' il caso, come si è visto, della mediazione onerosa, con il compenso previsto per il solo mediatore. In tal caso, come correttamente rileva Mongillo, Profili penale della rappresentanza di interessi: il traffico di influenze illecite nell'ordinamento italiano, in Dallo Stato all'Individuo, 1-2, 2016, pp. 96-97, l’utilità corrisposta dall’“acquirente” dell’influenza non è diretta, neppure in parte, a retribuire il pubblico agente, bensì costituisce il prezzo per l’intercessione del “venditore”. Cosicché, "la mediazione "perturbatrice" [sarebbe] tesa a distorcere le decisioni della pubblica autorità; non necessariamente a corrompere, come nell’altra tipologia materiale".
[20] Anche in letteratura viene posto in evidenza come l’attività di lobbying sia ormai una delle tipiche forme attraverso le quali i portatori d’interessi – e in particolare di quelli di natura economica e sociale – si rapportano con i decisori pubblici in modo da arricchirne il processo istruttorio della decisione pubblica (cfr. David, La regolazione regionale del lobbying attraverso il prisma della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, in Ist. Fed., 2018, p. 631 ss.
[21] Pasquino, Gruppi di pressione (voce), in Dizionario di politica, a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino, Milano, 2004, p. 468 ss.
[22] Sul punto si vedano, per tutti, SEVERINO, La nuova legge anticorruzione, cit., 7 ss.; ROMANO, Legge anticorruzione, cit., 1405. Ed infatti, proprio il riferimento al solo atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio consentiva di escludere la rilevanza penale delle attività dei "gruppi di pressione", che fungono da collettori delle istanze dei consociati o di singoli gruppi o soggetti, presso il decisore pubblico che esercita le sue prerogative (così Petrillo, Lobbying e decisione pubblica. Profili costituzionali comparati, in Dir. pen. cont., 3, 2018, p. 191). In questo senso, il legislatore del 2012 avrebbe introdotto una serie di "indicatori di tipicità" finalizzati a superare i dubbi sulla determinatezza della fattispecie (Merenda, Traffico di influenze illecite. Nuova fattispecie e nuovi interrogativi, in Dir. pen. cont., 2, 2013, p. 5; Ponteprino, La nuova "versione" del traffico di influenze illecite: luci e ombre della riforma "spazzacorrotti", in Sistema penale, 12, 2019, p. 110).
[23] Al di là del lobbying, che va ad incidere su processi decisionali "generali e astratti", si pensi all'ipotesi "individuale e particolare", tanto comune quanto biasimevole, della "parolina" in forma di raccomandazione, per una pratica, un esame, un concorso: forma di influenza che può non costituire reato, neppure a titolo di istigazione, in mancanza di remunerazione. Per l'integrazione del reato-mezzo di cui all'art. 346-bis, sarebbe allora necessario verificare se il pagamento del privato verso il trafficante affinché si occupi di influenzare in questo senso l'agente qualificato, sia una reale forma di contro-partita, e non sia dovuto, non trovando alcuna forma di legittimazione.
[24] Avvalora questa ricostruzione quanto viene indicato nella Relazione al d.d.l. "spazzacorrotti" (richiamata in Merlo, Traffico di influenze illecite e millantato credito, cit., c. 665), secondo cui "il disvalore del fatto sta nell'acquisto stesso di una mediazione "illecita", condotta di per sé meritevole di sanzione, in quanto potenzialmente suscettibile di produrre influenze distorsive della funzione pubblica".
[25] Ciò ha permesso una ricostruzione del traffico di influenze quale reato di pericolo concreto: sul punto Cucinotta, Sul concetto di influenza illecita, in Dir. pen. proc., 2018, p. 1051 ss. Ed infatti, l’insussistenza di un rapporto quantitativamente “apprezzabile” precluderebbe l’integrazione del delitto de quo, risolvendosi in un’ipotesi di reato impossibile per inidoneità dell’azione ex art. 49 c.p.: in questi termini Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e di corruzione, in Arch. Pen., 2012, 3, p. 793.
[26] Su tale figura si sofferma, anche con validi spunti criminologici, Maiello, Sulla discontinuità normativa tra la millanteria corruttiva e il traffico di influenze illecite, cit., p. 1501 ss., ove si prospetta che nella figura del faccendiere vi sia, per così dire, una sorta di abuso di qualità: "Tale elemento va considerato intrinseco al tipo di cui al 346-bis c.p.".
[27] Manes, Corruzione senza tipicità, cit., p. 1135; in questo senso si esprime anche Astorina Marino, L’unificazione di traffico di influenze e millantato credito: una crasi mal riuscita, in Sistema Penale (web), 26 maggio 2020, p. 12.
[28] Riforma che più di ogni altra appare valorizzata dalle sollecitazioni comunitarie tese a tutelare la correttezza della “concorrenza” e, rispetto all'andamento della P.A., della par condicio civium: cfr. Melchionda, La nuova dimensione tipica del delitto di "corruzione tra privati" dopo la riforma "spazzacorrotti": l'esito di una metamorfosi ancora viziata ed incompiuta, in Sistema Penale, 12, 2019, p. 58; ed anche Seminara, Indebita percezione di erogazioni, appropriazione indebita e corruzione privata, in Dir. pen. e proc., 2019, p. 503. Valutando quindi l'art. 97 Cost. anche in termini di efficienza (come già dottrina pubblicistica si era procurata di fare ben prima di tale riforma: cfr. Spasiano, L’organizzazione comunale: paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995, p. 234 ss.), è questa particolare angolatura del bene giuridico ad essere, più di altre, inciso dalla fattispecie di cui all'art. 346-bis.
[29] Il riferimento è alla "Disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera dei deputati", approvata dall’Ufficio di presidenza il 9 febbraio 2017, che regolamenta la sola attività di rappresentanza di interessi svolta nei confronti dei membri della Camera dei deputati e presso le sue sedi, esaminata in prima battuta da Carloni, Regolazione delle lobbying e politiche anticorruzione, in Riv. Trim. Dir. Pub., 2017, 2, p. 371, nonché richiamata da Ponteprino, La nuova "versione" del traffico di influenze illecite, cit., p. 111.
Il Professor Gianni Marongiu
di Alberto Marcheselli
Celebrare la memoria del Professor Gianni Marongiu è cosa, a un tempo, facilissima e difficilissima.
Facilissima perché sono molte, e note, le evenienze eminenti della sua vita pubblica, difficilissima perché parole adeguate non sembrano soccorrere.
È noto della bibliografia del Professor Marongiu che è stato il primo laureato del Professor Victor Uckmar, che fu giovanissimo e brillantissimo libero docente, che fu uno dei padri del diritto costituzionale tributario, avvocato brillantissimo, uomo dalla inesauribile e alta passione civile, tenace ispiratore e realizzatore dello Statuto del Contribuente e, poi, pioniere e conquistatore della Storia del Diritto Tributario italiano.
Ma, per me, il Professor Marongiu “in purezza” è stato altro: un ricordo che, come diceva Marcel Proust, è un Paradiso dal quale non si può essere scacciati. Il docente che, sul palcoscenico di via Balbi a Genova, dava vita, negli anni 80 e 90, a quella che non è enfasi, ma necessità, definire una vera e propria Magia. Gianni Marongiu, in effetti, era anche un Mago e un Artista. In sella al cavallo di una logica inesorabile e armato dalla spada della sua voce dal timbro inconfondibile, di purissimo metallo, conduceva i suoi studenti nell’agone delle questione giuridiche tributarie con l’intensità di un dramma appassionante.
E, soprattutto, c’era il “Momento Marongiu”, quei minuti, a volte solo secondi, nei quali lo studente, in una domanda, una risposta, uno sguardo, una frase, a lezione, all’esame, o in uno dei rilassati ricevimenti del sabato mattina in via Bacigalupo, sentiva di essere finito nella fucina rovente del suo pensiero, per uscirne plasmato come giovane metallo, o avvertiva di aver ricevuto nelle proprie vele il sostegno, potente, del suo vento intellettuale. Aveva un momento di attenzione creativa per tutti e siamo in tantissimi ad aver visto la traiettoria della propria vita modificata dal Professore.
Ho esordito dicendo che le parole sono difficilissime, in realtà, alla fine me ne sovvengono di facilissime, e credo perfette, lette in un piccolo cimitero di montagna: “un Maestro attinge alla eternità, non puoi mai dire dove la sua influenza si arresterà”.
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