ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia Insieme e il valore dell’accoglienza - 4. Approccio Hotspot in Italia ed “habeas corpus” delle persone migranti
di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Approccio Hotspot e violazioni del principio di legalità e della riserva di giurisdizione. - 3. L’approccio Hotspot ai tempi della pandemia da Covid 19: le navi quarantena. - 4. Nuovi sviluppi dell’approccio Hotspot dopo la fine dell’emergenza Covid e la dismissione delle navi quarantena.
1. Introduzione
A maggio del 2015, dopo la fine dell’operazione italiana Mare Nostrum e la strage del 18 aprile di quell’anno, con oltre 1000 vittime [1], la Commissione europea [2] proponeva di sviluppare un sistema di prima accoglienza nei cd. Centri Hotspot, nei paesi che in quel periodo erano più esposti all’arrivo di migranti, dunque in Italia e in Grecia, per identificare con il prelievo delle impronte digitali le persone subito dopo il loro arrivo per ragioni di soccorso o attraverso sbarchi autonomi, prima che proseguissero nella loro fuga in Europa. Si voleva perseguire, in questo modo, il fine di dare attuazione ai programmi di ricollocamento all’interno di altri Stati dell’Unione Europea con il sistema delle quote, ed evitare “movimenti secondari” in un contesto di illegalità. Ma solo una minima parte dei richiedenti asilo, presenti in questi due paesi, veniva poi effettivamente trasferita in un secondo paese di accoglienza. Il Regolamento europeo Dublino III n.604 del 2013 [3], tuttora vigente, consentiva infatti soltanto trasferimenti su base volontaria, quindi nessun governo poteva essere costretto ad accettare il ricollocamento di un determinato numero di richiedenti asilo. Di fatto, dopo la prima identificazione, molti potenziali richiedenti asilo non si fermavano in Italia, ma proseguivano verso altri paesi europei.
Nell’ambito dell’ Agenda europea sulla migrazione del 2015 venivano quindi adottate la Decisione (UE) 2015/1523 del Consiglio del 14 settembre 2015 (GU L 239 del 15.9.2015, pag. 146) e la Decisione (UE) 2015/1601 del Consiglio del 22 settembre 2015 (GU L 248 del 24.9.2015, pag. 80) [4] che istituivano misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia basate sul cd. Approccio Hotspot (Hotspot Approach) [5]. In origine, le due decisioni avevano previsto che 160 000 persone avrebbero dovuto essere ricollocate dall’Italia, dalla Grecia e dall’Ungheria; in seguito la cifra veniva ridotta a 106 000 persone, unicamente dall’Italia e dalla Grecia, che poi però solo in parte e dopo molti mesi, venivano ricollocate in altri paesi europei. In base a queste decisioni, la ricollocazione avrebbe dovuto essere applicata unicamente ai migranti cittadini di paesi per i quali il “tasso di riconoscimento”, in termini di decisioni di concessione della protezione internazionale, fosse [almeno] pari al 75 %, in base agli ultimi dati Eurostat. Era dunque evidente la originaria funzione degli Hotspot, che dovevano servire alla identificazione ed al ricollocamento dei richiedenti asilo in diversi paesi dell’Unione Europea.
Il 23 settembre 2015, al termine del Consiglio europeo, il presidente della Commissione Juncker dava notizia dell’avvio delle operazioni per attivare gli hotspot, nei quali era prevista la presenza di rappresentanti di Frontex, Easo, Europol, ed Eurojust, agenzie che avrebbero dovuto operare non solo per controllare le operazioni di identificazione e le manifestazioni di volontà dei richiedenti asilo, ma anche in funzione anti-crimine ed anti-terrorismo. Di fatto il personale di queste agenzie si avvicendava spesso negli stessi locali, senza che gli immigrati potessero percepire le diverse funzioni alle quali i diversi operatori erano preposti. Poco prima, veniva comunicato dal governo italiano che il centro di identificazione di Lampedusa, già esistente come Centro di identificazione ed espulsione (CIE) e poi come Centro di primo soccorso e accoglienza (CPSA), sarebbe stato attivato in modalità Hotspot. In realtà la situazione a Lampedusa non mutava sostanzialmente, in quanto già dal 2008 il centro di Contrada Imbriacola era stato utilizzato con prevalente funzione di transito e prima identificazione, in base al cd. “sistema Morcone”, che nel giro di qualche giorno, nell’ambito del progetto Praesidium, con la partecipazione di UNHCR, IOM, Croce Rossa e Save The Children, prevedeva una pre-identificazione ed il trasferimento verso altre strutture di accoglienza dislocate in territorio italiano. Dopo la fine di quella breve esperienza di transiti rapidi, per i quali si ricorreva a trasporti aerei, il centro tornava ad essere di fatto un luogo di detenzione a tempo indeterminato, e soprattutto dopo la cd. “emergenza nordafrica” del 2011, toccava livelli di sovraffollamento che determinavano una situazione di forte tensione in tutta l’isola e la parziale distruzione della struttura [6], con punte di presenze oltre il migliaio di persone, che si continuano a registrare ancora oggi [7]
Nella Roadmap italiana presentata il 28 settembre 2015, in attuazione dell'articolo 8.1 della Proposta della Commissione europea e delle correlate Decisioni del Consiglio (2015/1523 e 2015/1601), che istituivano le misure provvisorie in materia di protezione internazionale a beneficio di Italia e Grecia, il Governo italiano si impegnava a mettere in atto il nuovo Approccio «hotspot». La Roadmap individuava i primi quattro porti nei quali si sarebbero aperte o riconvertite strutture Hotspot, Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani, ai quali poi si sarebbe aggiunto Taranto, e e tracciavano le linee fondamentali dell’approccio hotspot (Hotspot Approach), che si sarebbe realizzato con “un piano volto a canalizzare gli arrivi in una serie di porti di sbarco selezionati dove vengono effettuate tutte le procedure previste come lo screening sanitario, la pre-identificazione, la registrazione, il foto-segnalamento e i rilievi dattiloscopici degli stranieri” .
Con la prima circolare del 6 ottobre 2015, dell’allora Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, prefetto Mario Morcone, si precisava che «il meccanismo prevede – a regime – che tutti i migranti sbarchino in uno dei siti hotspot individuati, affinché possano essere garantite nell'arco di 24/48 ore le operazioni di screening sanitario, pre-identificazione (con accertamento di eventuali vulnerabilità), registrazione e fotosegnalamento per ingresso illegale (categoria Eurodac 2)». Successivamente, «sulla base dei relativi esiti, le persone che richiedono la protezione internazionale saranno trasferite nei vari regional hubs presenti sul territorio nazionale; le persone che rientrano nella procedura di ricollocazione saranno trasferite nei regional hubs dedicati; le persone in posizione irregolare e che non richiedono protezione internazionale saranno trasferite nei Centri di Identificazione ed Espulsione».
Il 17 maggio 2016, il Ministero dell’interno, Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione e Dipartimento della Pubblica Sicurezza, pubblicava le Procedure Operative Standard, (SOP) [8] secondo cui «la persona può uscire dall’hotspot solo dopo essere stata foto-segnalata concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono stati completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia». Salvo il verificarsi di afflussi eccezionali che potevano imporre l’adozione di iniziative diverse come il trattenimento prolungato senza alcun accesso alla procedura di asilo, e senza una completa informazione sulla condizione giuridica nella quale venivano a trovarsi le persone dopo l’ingresso nel territorio italiano. Trattenimento che come verificato nel corso degli anni costringeva ad una situazione di promiscuità anche donne, vittime di abusi, minori, soggetti vulnerabili per le torture subite prima dell’arrivo in Italia o per malattie contratte durante il loro viaggio.
La distinzione tra “migranti economici” e richiedenti asilo [9], che di fatto diventava da allora la principale funzione dell’approccio Hotspot, non può competere esclusivamente alle autorità amministrative, sia pure con il concorso dell’UNHCR e dell’Agenzia europea EASO. Il decreto legislativo n. 142/2015 (attuativo della Direttiva 2013/33/UE sull’accoglienza dei richiedenti la protezione internazionale e della Direttiva 2013/32/UE sulle qualifiche della protezione internazionale) definisce come richiedente asilo/protezione internazionale colui che ha “manifestato la volontà di chiedere tale protezione”. Si diventa dunque “richiedenti asilo” per effetto della prima manifestazione di volontà di richiedere protezione, anche se questa verrà formalizzata in seguito.
Le Convenzioni internazionali escludono la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo il cui ingresso non può essere qualificato come “illegale” o “clandestino”. Nessuna norma di fonte europea o vigente nell’ordinamento interno, attribuisce alle forze di polizia la facoltà di distinguere tra richiedenti asilo (inespellibili) e migranti economici irregolari (espellibili), semmai il decreto legislativo n.142 del 2015 conferma proprio il contrario, sicché le procedure indicate nelle circolari sopraindicate, ribadite nelle SOP, possono configurare prassi illegittime di trattenimento, contrarie alla normativa italiana ed europea e dunque possibile fonte d responsabilità civile, penale ed amministrativa. Altro punto molto critico riguarda ancora oggi i minori stranieri non accompagnati, e le procedure sommarie di valutazione dell’età, che si continuano ad utilizzare malgrado i diversi criteri imposti dalla legge Zampa n.47 del 2017 [10].
Nelle disposizioni ministeriali, si precisava che le persone condotte negli Hotspot o ristrette in altre strutture nelle quali si operava con il cd. Approccio Hotspot, sarebbero state sottoposte a limitazioni della loro libertà personale per una durata di tempo assolutamente indeterminata e sostanzialmente rimessa alla discrezionalità delle autorità di polizia. Ed infatti si prevedeva soltanto che “il periodo di permanenza nella struttura,dal momento dell’ingresso, deve essere il più breve possibile, compatibilmente con il quadro normativo vigente” . Sempre secondo le SOP, si prevedeva “per le persone che non abbiano manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale e non abbiano diritto di rimanere sul territorio nazionale, compilazione del foglio notizie previsto nella direttiva rimpatri (cosiddetto“allegato 4”) e successiva emissione dei provvedimenti di respingimento del Questore o Espulsione del Prefetto. Tali provvedimenti, a seconda dei casi, potranno essere eseguiti, ove ne ricorrano le condizioni,i immediatamente, oppure mediante il trasferimento in un CIE o, nel caso di indisponibilità dei posti, mediante l’ordine del Questore a lasciare il territorio nazionale in 7 giorni”. Come si verificava nella maggior parte dei casi, atteso che la capienza complessiva dei CIE (oggi CPR) italiani non ha mai superato il numero di 700-1000 posti, a seconda dei diversi periodi, indipendentemente dai propositi dei governi che si avvicendavano.
La prima attivazione del centro Hotspot di Pozzallo registrava una fase fortemente conflittuale, perché mentre gli altri paesi europei lasciavano ancora aperte possibilità di ingresso ai potenziali richiedenti asilo, in quel tempo soprattutto siriani, le nuove più rigorose prassi di identificazione, con il prelievo forzato delle impronte digitali, creavano in Italia, in base al Regolamento Dublino III, ed al Regolamento EURODAC, le premesse per un respingimento immediato in frontiera o per un loro successivo ritorno nel nostro paese, primo Stato UE di ingresso. Nel corso degli anni la situazione peggiorava ancora per il periodico sovraffollamento della struttura nella quale venivano trattenuti per giorni in condizioni di totale promiscuità numerosi minori non accompagnati [11].
I principali porti di sbarco nei quali veniva introdotto l’approccio Hotspot, oltre Lampedusa e Pozzallo (Ragusa), erano Augusta (Siracusa), e Porto Empedocle (Agrigento), Trapani, Messina. In alcuni di questi porti, come a Catania e ad Augusta, si arrivava ad applicare le procedure Hotspot direttamente sulle banchine, con il prelievo immediato delle impronte digitali in aree attrezzate con tende, dove veniva anche effettuata la selezione tra i cd. migranti economici ed i richiedenti asilo. L’Hotspot di Porto Empedocle non veniva istituito stabilmente, anche se, al momento dell’arrivo in porto, una parte dei migranti, riconosciuta meritevole di accedere alla procedura per il riconoscimento di uno status di protezione, veniva trasferita verso l’HUB regionale per l’accoglienza di Siculiana (Agrigento). Negli anni di maggiori arrivi di migranti in Sicilia si è giunti a praticare l’Approccio Hotspot persino all’interno del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Mineo, in una area delimitata nella quale venivano o isolate le persone appena sbarcate e trasferite nel centro, ma ancora in attesa di una compiuta identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali. Il centro di accoglienza straordinaria di Messina, ubicato in una vecchia caserma dismessa dall’esercito, in condizioni di estrema fatiscenza, ha funzionato a tratti secondo le modalità dell’approccio Hotspot, ed è stato recentemente riaperto. Nel centro rimanevano trattenuti per mesi numerosi richiedenti asilo già selezionati per la relocation, in attesa che i paesi di destinazione ne accettassero il trasferimento. L’approccio Hotspot è stato utilizzato da tempo anche nel centro di Crotone in Calabria, da dove si registrano frequenti casi di uscita con provvedimenti di respingimento differito, con l’intimazione a lasciare entro 7 giorni il territorio nazionale (foglio di via) [12].
Il centro adibito ad Hotspot, attivato in Puglia, a Taranto, a partire dal mese di marzo del 2106, è stato invece utilizzato anche per operazioni di respingimento differito e di espulsione con accompagnamento forzato di categorie assai eterogenee di migranti, alcuni appena sbarcati, altri rastrellati sul territorio in condizioni di irregolarità. La stessa struttura si rivela ancora oggi di importanza strategica in quanto il governo sta indirizzando proprio verso Taranto parte delle navi delle ONG che, malgrado tutti gli ostacoli frapposti ai soccorsi umanitari, continuano a salvare vite umane nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Anche in questo Hotspot, di recente, vengono denunciate, dai sindacati di polizia, situazioni di sovraffollamento e di degrado che si sono aggravate durante l’estate del 2022 [13]. Nonostante vari tentativi di trovare le basi legali per il funzionamento di queste strutture continuavano a mancare norme specifiche di legge che disciplinassero il funzionamento degli Hotspot e lo stato giuridico delle persone che vi venivano accolte. Secondo la Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza istituita alla Camera nella XVII legislatura, che nel 2017 ha approvato una Relazione sul sistema di identificazione e di prima accoglienza nell'ambito dei centri hotspot [14] l'applicazione dell'approccio hotspot in Italia presentava numerose criticità, che si possono riscontrare ancora oggi, per la insufficiente capacità di accoglienza dei centri rispetto al numero di persone che facevano ingresso per ragioni di soccorso o in modo autonomo nel territorio nazionale, e soprattutto a causa delle incerte basi legali che si potevano ricavare dalla normativa allora in vigore.
2. Approccio Hotspot e violazioni del principio di legalità e della riserva di giurisdizione
In assenza di una qualsiasi previsione normativa a livello europeo e nazionale, lacuna colmata solo in parte nel 2017. il regime dei centri hotspot, e la condizione giuridica delle persone che vi venivano trattenute [15], sono rimaste affidate alle decisioni dell’esecutivo, in particolare del ministero dell’interno, ed alla discrezionalità amministrativa degli organi periferici, le prefetture, che ne determinavano modalità di funzionamento e regolamenti convenzionali con gli enti gestori, e che pure avrebbero dovuto espletare attività di controllo sull’erogazione dei servizi da parte degli stessi enti [16]. Dopo il decreto legge n. 13 del febbraio 2017, convertito nella legge n. 46/17 (Minniti-Orlando) che per la prima volta faceva un parziale riferimento ai centri Hotspot [17], richiamati all’art. 10 ter [18], la legge n. 132/2018 (primo Decreto sicurezza Salvini) ha introdotto disposizioni ancora oggi in vigore, che fanno riferimento al trattenimento nei diversi centri adibiti all’approccio Hotspot, stabilendo che il richiedente protezione internazionale può essere altresì trattenuto, presso i punti di crisi, come il legislatore definisce gli hotspot, istituiti nei centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) o nei Centri governativi di prima accoglienza (CPA) di cui all’art. 9 d. lgs. 142/2015, per la determinazione o la verifica dell’identità o della nazionalità. In questo modo si stabiliva una estensione generalizzata dell’approccio Hotspot a tutti i centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), e di prima acoglienza (CPA), già disciplinati in precedenza soltanto dall’ articolo 23 del Regolamento di attuazione n.394 del 1999 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98. Non risultava però alcuna disposizione specifica riguardo alla convalida del trattenimento oltre le 48 ore, sulla comunicazione della misura limitativa della libertà personale all’autorità giudiziaria, e sullo status giuridico delle persone “ospiti” dei centri, come si cercava di dire con un eufemismo che tendeva a nascondere la condizione di vera e propria detenzione amministrativa che si realizzava all’interno di queste strutture.
Con il Decreto legge sicurezza n.113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 del 2018 [19], si è verificato un ampliamento delle strutture che potevano essere utilizzate con approccio Hotspot, per realizzare una limitazione della libertà personale dei migranti in attesa che fossero completate le procedure di pre-identificazione e foto-segnalamento, che si potevano così realizzare fino al tempo limite di 30 giorni non solo nei centri qualificati come Hotspot, ma anche in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” o “in locali idonei presso l’ufficio di frontiera”, se non all’interno dei CPR ( Centri per i rimpatri), fino al 2017 chiamati CIE ( centri di identificazione ed espulsione) [20]. Nulla si prevedeva invece per le persone internate in un Centro adibito ad Hotspot che non fossero (ancora) destinatarie di un provvedimento di espulsione con accompagnamento forzato, e restava del tutto discrezionale la scelta dell’accompagnamento forzato nei casi più numerosi di respingimento differito. Sul punto esprimeva ancora una volta perplessità il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, nella Relazione presentata al Parlamento per l’anno 2019 [21].
Con il Decreto legge 130 del 2020 si sono previste procedure accelerate per le domande di protezione internazionale presentate da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli. In tali casi la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, aggiungendo che tali zone sono individuate con decreto del Ministro dell'interno. Lo stesso decreto prevedeva una ulteriore integrazione dell'articolo 10-ter, comma 3, del T.U. n. 286 del 1998, aggiungendo la previsione secondo cui “lo straniero è tempestivamente informato dei diritti e delle facolta' derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola”.
L’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione non indicava comunque criteri certi per stabilire se la permanenza nei punti di crisi, altrimenti definiti Centri di prima accoglienza/Hotspot, dovesse avvenire in strutture aperte, dalle quali lo straniero avrebbe potuto allontanarsi, oppure in luoghi chiusi, ove, quindi, si sarebbe attuata un’autentica ipotesi di privazione della libertà personale, come si verificava nella prassi più diffusa. Le prassi si orientavano in senso molto diverso, anche in relazione ai criteri di gestione dei centri ed alla loro ubicazione. A Lampedusa, come a Messina, si riscontrava una totale limitazione della libertà personale a tempo indeterminato, mentre in altre strutture, ad esempio a Pozzallo ed a Crotone, dopo la prima identificazione ed il rilascio delle impronte digitali, era consentita l’uscita giornaliera dal centro e molte persone potevano allontanarsi proseguendo il loro percorso verso il Nord-Europa.
Secondo il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che presentava una Relazione il 21 marzo 2017 [22], “la natura giuridica degli hotspot rimane poco chiara, mancando una previsione normativa specifica e la relativa disciplina, poiché tale non può essere considerato – quando trattasi di privazione della libertà – il documento Standard Operating Procedures (SOPs) redatto dal Ministero dell’interno con il contributo della Commissione europea né possono esserlo le circolari amministrative. Nel documento si legge che una persona può uscire dalla struttura solo dopo essere stata foto-segnalata, concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono state completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia. Il tempo di permanenza è dunque indeterminato e rimesso di fatto allo svolgersi della procedura di foto-segnalamento e di rilevamento delle impronte”. Si verificava dunque una situazione potenzialmente in violazione dell’art.13 della Costituzione italiana, e dell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche perché nel corso del tempo la durata del trattenimento, prima finalizzato al prelievo delle impronte ed alla ricollocazione, risultava sempre più prolungata al fine di eseguire trasferimenti nei centri di detenzione amministrativa, notoriamente carenti di disponibilità di posti, o per dare tempo alle autorità di polizia per eseguire respingimenti differiti con accompagnamento forzato in frontiera.
Come si osservava in un Parere del 25 novembre 2018 [23] dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), “la norma non sembra prevedere il procedimento di convalida per il trattenimento negli Hotspot, ma esso deve ritenersi applicabile anche a tale fase del trattenimento, pena la manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art 13 della Costituzione” [24]. L’originaria funzione di identificazione ai fini di un successivo trasferimento verso centri di accoglienza per richiedenti asilo in Italia, o addirittura verso altri paesi europei, è diventata così marginale rispetto alla funzione di limitazione della libertà personale dei migranti trattenuti che venivano sempre più spesso qualificati come “migranti economici”, anche attraverso formulari subdoli che dovevano essere compilati in prossimità dello sbarco. Tra le domande alle quali si doveva rispondere obbligatoriamente ne contenevano una relativa alla volontà di svolgere attività lavorativa, che traeva in inganno, perché anche i richiedenti asilo manifestavano volontà di lavorare, ma questo precludeva loro l’accesso alla procedura, quando la risposta non veniva fornita direttamente da parte di operatori del centro, con l’apposizione di una crocetta in un piccolo quadratino, alla fine del cd. “foglio notizie”. Per coloro che venivano qualificati come migranti economici scattavano i provvedimenti di respingimento differito, ex articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, come integrato dalla legge Bossi-Fini del 2002, e in assenza di posti nei Centri per il rimpatrio (allora chiamati CIE, centri di identificazione ed espulsione) restavano per settimane, talvolta addirittura mesi, chiusi all’interno degli Hotspot, se non venivano rimessi immediatamente in libertà con il cd. “foglio di via” contenente il provvedimento di respingimento differito con l’intimazione a lasciare entro sette giorni il territorio nazionale. Si realizzava così, e si può verificare ancora oggi, all’interno degli Hotspot , e delle altre strutture utilizzate con l’Approccio Hotspot, una limitazione della libertà personale al di fuori di una espressa previsione di legge, ben oltre i rigorosi limiti stabiliti dall’art. 13 della Costituzione [25] e dall’art. 5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [26], con violazione della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Già la Consulta nel 2001 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento ed allontanamento forzato dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Secondo la sentenza della Corte Costituzionale del 2001 (n.105) che pure dichiarava infondata la questione di costituzionalità relativa alla norma che prevedeva il trattenimento (detenzione amministrativa) nei CPTA (centri di permanenza temporanea e assistenza), come allora venivano definiti gli attuali CPR (centri per il rimpatrio) “Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione” [27].
In molti casi persone destinatarie di provvedimenti di respingimento differito sono rimaste all’interno di centri Hotspot fino all’esecuzione dell’accompagnamento forzato in frontiera, ed il provvedimento adottato dal questore a loro carico è stato notificato poche ore prima dell’imbarco sull’aereo che li avrebbe riportati in patria sotto scorta della polizia italiana, con una evidente lesione del diritto di difesa, riconosciuto, oltre che dall’art. 24 della Costituzione e dall’art.13 della CEDU, anche dall’art. 14 del Regolamento frontiere Schengen, 2016/399/UE, che in tutti i casi di respingimento prevede espressamente la possibilità di fare ricorso. Anche se la norma stabilisce che il ricorso non ha effetto sospensivo, non sembra ammissibile che lo stesso ricorso risulti “ineffettivo”, svuotato di qualsiasi efficacia, perché l’esercizio effettivo del diritto di difesa è spesso impedito dalla natura dei luoghi e dalla condizione di trattenimento, mentre i tempi di esecuzione dell’accompagnamento forzato risultano più veloci dell’intervento dell’autorità giudiziaria. L’art. 13 della CEDU stabilisce al riguardo il diritto a un ricorso effettivo dinanzi ad un' istanza nazionale a ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla Convenzione siano stati violati. Ma gli Hotspot italiani, sotto questo profilo, sembrano realizzare quasi una condizione di extraterritorialità, come se non fossero soggetti ad alcuna giurisdizione, come se le persone trattenute per settimane si trovassero sospese in un limbo nel quale la loro condizione giuridica ( e materiale) restava stabilita, luogo per luogo, giorno dopo giorno, esclusivamente in base a regolamenti amministrativi ed a provvedimenti di polizia.
3. L’approccio Hotspot ai tempi della pandemia da Covid 19: le navi quarantena
L’emergenza da Covid-19 ha inciso in modo sostanziale sulle prassi adottate dalle autorità italiane per garantire un porto sicuro di sbarco ai naufraghi soccorsi in mare, o arrivati autonomamente a Lampedusa e in altri luoghi delle coste italiane. Il 7 aprile 2020 il Ministro delle infrastrutture e trasporti, di concerto con quello degli esteri, della sanità e degli interni, adottava il Decreto interministeriale (n.150) con il quale si definivano i porti italiani “non sicuri” per le navi battenti bandiera estera e per tutta la durata dello stato di emergenza sanitaria deliberato il 31 gennaio 2020. Il provvedimento veniva giustificato nella parte motiva n relazione alla salvaguardia della “funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19”. E quindi, “in considerazione della situazione di emergenza connessa alla diffusione del coronavirus e dell’attuale situazione di criticità dei servizi sanitari regionali e all’impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Codiv-19, non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di [tali] luoghi sicuri”. Era dunque possibile “in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e salvataggio marittimo”, impedire l’ingresso nei porti italiani “per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana» (art. 1). Un provvedimento in linea con il decreto sicurezza bis n.53 imposto da Salvini nel 2019 per limitare le attività di ricerca e salvataggio elle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo centrale. In base al decreto del Capo Dipartimento della Protezione Civile n.1287 del 12 aprile 2020, “con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro)» si prevedeva che «il soggetto attuatore, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della salute, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria” [28].Si verificavano anche casi nei quali venivano trattenuti indebitamente minori non accompagnati ed addirittura venivano imbarcate sulle navi quarantena persone già sbarcate a terra ed ospitate in un centro di accoglienza, ma poi risultate positive ad un successivo tampone per COVID 19. La morte di alcuni giovani, anche di minore età, trattenuti per giorni a bordo di queste navi, segnava tragicamente una esperienza che, soprattutto per il protrarsi dello stato di emergenza sanitaria, avrebbe dovuto essere chiusa nel più breve tempo possibile e sostituita da un sistema di prima accoglienza a terra. Le morti di Abou Diakite, di Bilal Ben Masoud e di Abdallah Said, dopo il loro trattenimento a bordo delle navi quarantena, sono rimaste senza giustizia e pesano come un macigno sull’esperienza della prima accoglienza a bordo di navi traghetto, utilizzate durante l’emergenza pandemia come parte integrante dell’approccio Hotspot [29]. Nel caso dell’isola di Lampedusa il ricorso alle navi quarantena colmava anche l’assenza di mazzi navali per i trasferimenti dal centro di Contrada Imbriacola ad altri centri di accoglienza ubicati nel territorio nazionale. Sempre nel 2020 ’si verificava l’ennesima “riconversione” del Centro di prima accoglienza(Hotspot di Trapani-Milo, chiuso formalmente dal mese di febbraio di quell'anno, in centro di detenzione (CPR). Un piccolo centro con funzioni Hotspot veniva allestito anche a Pantelleria, nella ex caserma Barone [30].
4. Nuovi sviluppi dell’approccio Hotspot dopo la fine dell’emergenza Covid e la dismissione delle navi quarantena
Dal primo giugno 2022 si è posto fine al noleggio delle navi traghetto utilizzate come hotspot per la prima accoglienza, al fine di garantire un periodo di sorveglianza sanitaria in quarantena. Tutti i naufraghi soccorsi dalle ONG, e quelli molto più numerosi, (oltre l’87 per cento) salvati dalla Guardia costiera o dalla Guardia di finanza, o arrivati in autonomia, sono stati accolti così, dopo lo sbarco, in centri di prima accoglienza/hotspot ubicati esclusivamente a terra. Ad oggi sono aperti in Italia sei centri con funzioni Hotspot, a Lampedusa, Trapani, Pozzallo, Messina, Crotone e Taranto. Si tratta di strutture molto diverse tra loro, comunque la diversificazione dei porti di destinazione e dei place of sadety, imposti dal ministero dell’interno, determina la possibilità di operare secondo l’approccio hotspot in numerose altre città italiane, da ultimo anche a Livorno, a Salerno ed a Ravenna. L’intensificarsi degli sbarchi autonomi nell’isola di Pantelleria ha determinato il ricorso ad un approccio Hotspot anche nella piccola isola al centro del Canale di Sicilia, in una struttura, una vecchia caserma, che da sempre si è rivelata del tutto inadatta, anche in vista del trasferimento dei migranti nell’’hotspot di Trapani (Milo), ubicato peraltro all’interno di un CPR (centro per i rimpatri). Ma anche dove non si verificano “sbarchi autonomi”, come a Taranto, la situazione degli Hotspot rimane sempre al limite del collasso [31]. Dal Viminale, con il nuovo governo Meloni, sono arrivate soltanto proposte di ripristino dei cd. Decreti sicurezza adottati nel 2018 e nel 2019, e fantomatici auspici rivolti alla istituzione di centri Hotspot al di fuori dell’Unione Europea, nei paesi di transito, che però non hanno mai dato la loro disponibilità ad accettare nel loro territorio questo tipo di strutture detentive, e che peraltro non sono firmatari della Convenzione di Ginevra sui rifugiati ( come la Libia) o non vi danno una effettiva attuazione, come l’ Egitto, la Tunisia e l’Algeria [32].
Rimane ancora operativa la previsione del Decreto sicurezza n.113, convertito nella legge n.132 del 2018, che introduceva la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di un provvedimento di allontanamento in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” previsione che non veniva abrogata né modificata dal successivo Decreto Legge n. 130/2020, convertito con modifiche nella Legge n. 173/2020. A seconda della nazionalità, basti pensare ai tunisini, si sono verificati numerosi casi di migranti appena sbarcati a Lampedusa e destinatari di un provvedimento di respingimento notificato dalla questura di Agrigento subito dopo il trasferimento a Porto Empedocle. La criticità più grave che purtroppo si continua a riprodurre, anche negli Hotspot e nei centri di prima accoglienza, riguarda la sostanziale privazione della libertà personale che comporta la detenzione amministrativa al di fuori delle strutture definite come Centri per il rimpatrio (CPR), riservati ai destinatari dei provvedimenti di respingimento o di espulsione. Le persone trattenute nei centri di prima accoglienza o negli Hotspot, in molti casi, vi rimangono ancora oggi più a lungo dei quattro giorni previsti dalla Costituzione (art.13) per la convalida giurisdizionale delle misure amministrative di limitazione della libertà personale, senza alcun diritto di difesa, e spesso senza alcuna possibilità di accedere alla procedura di asilo [33]. I Rapporti delle Organizzazioni non governative che hanno potuto visitare più recentemente i centri di detenzione amministrativa in frontiera e le strutture Hotspot descrivono una realtà ben lontana dalle previsioni di legge e dalle prescrizioni amministrative imposte ai gestori dei centri. Tutto sembra affidato alla discrezionalità amministrativa delle autorità di polizia e delle prefetture. Dopo il ritiro delle navi quarantena e la fine dello stato di emergenza derivante dalla pandemia la situazione sembra ancora peggiorata, e però viene occultata attraverso l’uso mediatico di veri e propri argomenti di distrazione di massa come gli attacchi contro le ONG che farebbero da “spola” con i trafficanti nel trasporto dei migranti da una sponda all’altra del Mediterraneo [34] . Una menzogna smentita in tutte le sedi giudiziarie nelle quali si sono archiviati i procedimenti penali contro rappresentanti delle ONG, ma utile a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica, e l’impegno delle autorità politiche, dai gravissimi problemi, non solo gestionali, ma anche di rispetto dei più elementari diritti umani e del principio di legalità costituzionale, che caratterizzano ancora oggi i centri con funzioni Hotspot in Italia.
Il sovraffollamento dei centri nei quali si pratica l’approccio Hotspot, a fronte di un incremento consistente degli arrivi via mare, oltre 100.000 nel 2022, deriva soprattutto dalla cronica mancanza di posti nei diversi sistemi di accoglienza italiani. Rispetto a 160.000 posti offerti fino al 2017 da centri di diversa natura e denominazione, oggi si può stimare che siano rimasti attivi effettivamente non più di 90.000 posti, compresi quelli recentemente attivati per i profughi ucraini. Per chi arriva attraverso le frontiere marittime l’accoglienza, dopo la fase del trattenimento negli Hotspot o nei centri di transito, prosegue nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS) gestiti dalle prefetture. Ma per molti l'Italia è solo un paese di transito. La “guerra” ai soccorsi umanitari ed ai migranti, la deriva populista del nostro paese, la pesante discriminazione subita anche dai richiedenti asilo, i tempi delle procedure, inducono a lasciare prima possibile il nostro paese, magari con un "foglio di via" in mano. Che poi non è un lasciapassare per l'Europa, ma un provvedimento di respingimento differito che, se registrato nelle banche dati Eurodac (Regolamento UE n,603/2013,) pregiudica la possibilità di ottenere asilo in altri paesi europei. Manca una corretta informazione allo sbarco, e le autorità di polizia pensano solo di "liberarsi" dei migranti che non possono accogliere nei centri hotspot e nel sistema nazionale di accoglienza ed integrazione SAI (ex SPRAR). Un disastro umanitario poco visibile, che va affrontato con una svolta decisa.
All’interno dei centri Hotspot, o nelle altre strutture nelle quali si proceda con questo approccio, occorrerebbe stabilire criteri certi per i casi di temporanea limitazione della libertà personale, un ritorno al principio di legalità ed al rispetto dell’habeas corpus di tutte le persone “comunque presenti nel territorio nazionale”, base del riconoscimento dei diritti fondamentali ai quali fa espresso richiamo l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998. Tutti i migranti, come stabilito dalla legge, dovrebbero ricevere informazioni circa i loro diritti, compreso quello di poter richiedere protezione internazionale, in forma e lingua per loro effettivamente comprensibili. Le procedure di identificazione e registrazione vanno svolte nel pieno rispetto dei diritti umani, senza alcuna forma di costrizione fisica e senza un trattenimento amministrativo prolungato, quando si renda necessario, oltre i limiti delle 48 ore per la comunicazione all’autorità giudiziaria e le successive 48 ore per la convalida. Nessun migrante deve essere respinto o espulso senza che il suo caso sia stato valutato singolarmente, considerato che nessuna norma attribuisce alle forze dell’ordine la facoltà di distinguere un richiedente protezione internazionale da un migrante cosiddetto economico. Nessuna persona può essere trattenuto nei centri di accoglienza a tempo indeterminato al solo fine di essere identificato e vanno comunque garantiti specifici percorsi protetti destinati alle categorie più vulnerabili, come donne, minori e vittime di tortura. Occorre ripristinare i controlli giurisdizionali sul trattenimento all’interno di tutte le strutture destinate al cd. Approcio Hotspot, fino ad oggi disciplinate esclusivamente in base alla normativa adottata in via amministrativa. Perché l’umanità indistinta che viene ammassata nei centri Hotspot non corrisponde esclusivamente a numeri da smaltire, ma contiene la somma di migliaia di vite spezzate e di sofferenze personali che vanno considerate con maggiore rispetto fin dal primo ingresso nel territorio italiano, non solo per quello che riguarda la loro attuale condizione giuridica e di fatto, ma anche nella prospettiva di un futuro dignitoso e nella legalità che non può essere negato.
[1] Vedi in https://www.open.online/2018/12/20/le-vittime-del-naufragio-del-18-aprile-2015-nel-canale-di-sicilia-erano-1100/
[2] Consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0240&from=es
[3] Vedi in https://eur-lex.europa.eu/IT/legal-content/summary/eu-asylum-policy-eu-country-responsible-for-examining-applications.html
[4] Consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32015D1601&from=IT
[5] G. Campesi, L’approccio Hotspot e il prezzo della coercizione, in https://www.rivistailmulino.it/a/l-approccio-hotspot-e-il-prezzo-della-coercizione
[6] Vedi la cronaca di quei giorni in https://stranieriinitalia.it/attualita/lampedusa-immigrati-in-rivolta-incendiato-il-centro-daccoglienza/
[7] R. Bottazzo, L’emergenza creata a Lampedusa aiuta a legittimare rimpatri e accordi dalla dubbia legittimità, in https://www.meltingpot.org/2022/07/lemergenza-creata-a-lampedusa-aiuta-a-legittimare-rimpatri-e-accordi-dalla-dubbia-legittimita/
[8] Vedi le Procedure operative standard (SOP) in http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/hotspot
[9] F. Vassallo Paleologo, Migranti economici e richiedenti asilo : una distinzione per escludere. Quali tutele per i veri migranti economici ? in https://www.a-dif.org/2017/06/04/migranti-economici-e-richiedenti-asilo-una-distinzione-per-escludere-quali-tutele-per-i-veri-migranti-economici/
[10] Vedi in https://www.avvisopubblico.it/home/home/cosa-facciamo/informare/osservatorio-parlamentare/attivita-legislativa/leggi-approvate/legge-n-47-del-2017-misure-di-protezione-dei-minori-stranieri-non-accompagnati/
[11] D. Aliprandi, Hotspot, strutture al collasso. A Pozzallo rinchiusi 180 minori, in https://www.ildubbio.news/carcere/hotspot-strutture-al-collasso-a-pozzallo-rinchiusi-180-minori-elr0vezd
[12] Vedi al riguardo, con riferimento alla situazione di sovraffollamento che si verifica ancora alla fine del 2022, https://www.lanuovacalabria.it/hotspot-di-crotone-al-collasso-quasi-mille-migranti-in-24-ore-e-casi-di-scabbia
[13] ASGI, Minori stranieri trattenuti illegalmente nel’hotspot di Taranto,:la CEDU chiede chiarimenti al governo italiano, in https://www.meltingpot.org/2018/02/minori-stranieri-trattenuti-illegalmente-nellhotspot-di-taranto-la-cedu-chiede-chiarimenti-al-governo-italiano/
[14] Vedi la Relazione della Commissione di inchiesta in https://www.camera.it/leg17/491?idLegislatura=17&categoria=022bis&tipologiaDoc=documento&numero=008&doc=intero ed anche la Relazione di minoranza Palazzotto, in ADIF, https://www.a-dif.org/2016/11/04/una-relazione-scomoda-sullapproccio-hotspot/
[15] C. Ruggiero, Le linee di tendenza della crimmigration nel sistema penale italiano dal “decreto Minniti” al “decreto sicurezza-bis”, in https://archiviopenale.it/le-linee-di-tendenza-della-crimmigration-nel-sistema-penale-italiano-dal-decreto-minniti-al-decreto-sicurezza-bis/articoli/25922
[16] Con particolare riferimento al centro Hotspot di Taranto si rinvia al rapporto dell’Autorità anti-corruzione (ANAC), reperibile in https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?id=28d2eda50a7780423adfc664d78c8915 con riferimento al centro Hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa si rinvia a http://www.prefettura.it/agrigento/contenuti/Procedura_aperta_affidamento_gestione_e_funzionamento_centro_accoglienza_hotspot_lampedusa_ag_2020-9458799.htm
[17] Vedi C. Leone, La disciplina degli hotspot nel nuovo art.10 ter del d.lgs.286/98: un occasione mancata, in https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-2017-n-2/73-la-disciplina-degli-hotspot-nel-nuovo-art-10-ter-del-d-lgs-286-98-un-occasione-mancata
[18] L’art. 10 ter del T.U. n.286/98, introdotto nel 2017, è l’unica norma del Testo Unico sull’immigrazione che fa espressamente riferimento all’approccio Hotspot. Si stabilisce che “Lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l'informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell'Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito. In base alla stessa norma “Il rifiuto reiterato dello straniero di sottoporsi ai rilievi di cui ai commi 1 e 2 configura rischio di fuga ai fini del trattenimento nei centri di cui all'articolo 14. Il trattenimento è disposto caso per caso, con provvedimento del questore, e conserva la sua efficacia per una durata massima di trenta giorni dalla sua adozione, salvo che non cessino prima le esigenze per le quali è stato disposto. Si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 14, commi 2, 3 e 4. Se il trattenimento è disposto nei confronti di un richiedente protezione internazionale, come definita dall'articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, è competente alla convalida il Tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea. Lo straniero è tempestivamente informato dei diritti e delle facoltà derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola.
[19] Vedi in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/10/04/18G00140/sg
[20] Per gli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione, con accompagnamento forzato, secondo il nuovo articolo 13 comma 5 bis del T.U. immigrazione 286/98,“il questore comunica immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l'accompagnamento alla frontiera. L'esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida. L'udienza per la convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito”
[21] La relazione del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale presentata al Parlamento per l’anno 2019 è consultabile in https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/00059ffe970d21856c9d52871fb31fe7.pdf
[22] Vedi in in https://www.penalecontemporaneo.it/upload/PALMA_Relazione_2017.pdf
[23] https://www.associazionemagistrati.it/allegati/parere-commissioni-civile-e-penale-su-dl-sicurezza-25nov18.pdf
[24] Nel parere dell’ANM si osservava anche che “Desta perplessità la previsione di un trattenimento che può arrivare anche fino a 7 mesi per i soli fini identificativi. Se è vero che l’art 8 della direttiva UE 2013/33 (c.d. “direttiva accoglienza”) stabilisce che tale forma di trattenimento può essere adottata nei confronti dei richiedenti asilo”, la stessa norma dispone, però, che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente” e stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto caso per caso in circostanze eccezionali e solo ove non sia possibile applicare misure meno afflittive. Si aggiunge, poi, che la possibilità che il trattenimento possa avvenire in “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza”, sembra costituire violazione dell’art. 10 della direttiva accoglienza (2013/33/UE) che prevede che il trattenimento possa di regola avvenire in appositi centri di trattenimento, ove, sempre in forza del medesimo art. 10, possano accedere, senza limitazioni, rappresentanti dell’UNHCR, familiari del richiedente, avvocati, consulenti e rappresentati delle ONG, accessi questi ultimi che paiono non compatibili con le attività che ordinariamente si svolgono nei locali nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. Le esigenze sopra descritte, derivanti da obblighi di legge, non vengono soddisfatte dall’aggiunta – contenuta nella parte finale del comma 1 dell’art 4, nel testo licenziato al Senato della legge di conversione – del periodo “Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti, garantiscono condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona”, integrando queste ultime la pre -condizione minima di qualsiasi restrizione della libertà personale che, però, non garantisce il rispetto degli ulteriori diritti fondamentali, come sopra richiamati”.
[25] In base all’art. 13 della Costituzione italiana, “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
[26] A. Mangiaracina, Hotspots e diritti: un binomio possibile?, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/5098-hotspots-e-diritti-un-binomio-possibile
[27] Si deve ricordare, dopo anni di interpretazioni assai contrastanti da parte degli uffici di polizia, la fondamentale sentenza a Sezioni unite della Corte di Cassazione, n. 15115 del 17 giugno 2013, secondo cui “il provvedimento del questore diretto al respingimento incide su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo: l’atto è infatti correlato all’accertamento positivo di circostanze - preupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge (art. 10, co. 1 e 2, T.U.) ed all’accertamento negativo della insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale...pertanto, in mancanza di norma derogatrice che assegni al giudice amministrativo la cognizione dell’impugnazione dei respingimenti, deve trovare applicazione il criterio generale secondo cui la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, proprio in ragione dell’inesistenza di margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell’amministrazione, spetta al giudice ordinario”
[28] Secondo l’art. 1, comma primo, del decreto “Per assicurare il rispetto delle misure di isolamento fiduciario e di quarantena adottate per contrastare la diffusione epidemiologica da COVID-19, anche nei riguardi delle persone soccorse in mare, ovvero giunte sul territorio nazionale a seguito di sbarchi autonomi, è nominato Soggetto attuatore, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, dell’ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile n. 630 del 3 febbraio 2020, il Capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, che si avvale della Croce Rossa Italiana quale struttura operativa del Servizio nazionale ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1. Il Soggetto attuatore, previo assenso del Capo del Dipartimento della protezione civile, provvede all’assistenza alloggiativa e alla sorveglianza sanitaria delle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro) ai sensi del decreto interministeriale citato in premessa e di quelle giunte sul territorio nazionale in modo autonomo. Con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro) il Soggetto attuatore, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della salute, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria. Per le attività finalizzate all’individuazione delle suddette navi e dell’attività istruttoria di natura tecnico-amministrativa ai fini delle procedure di affidamento dei contratti pubblici il Soggetto attuatore provvede per il tramite delle strutture del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti anche in house. Relativamente ai migranti che giungono sul territorio nazionale in modo autonomo il Soggetto attuatore individua, sentite le Regioni competenti e le autorità sanitarie locali, per il tramite delle prefetture competenti, altre aree o strutture da adibire ad alloggi per il periodo di sorveglianza sanitaria previsto dalle vigenti disposizioni, avvalendosi delle prefetture medesime che procedono alla stipula di contratti per il trattamento di vitto, alloggio e dei servizi eventualmente necessari, per le persone soccorse ovvero, in caso di mancanza di accordo, ad attivare le procedure di cui all’articolo 6, comma 7 del decreto legge n. 18 del 2020. Nel caso in cui non sia possibile individuare le predette strutture sul territorio, il soggetto attuatore provvede alla sistemazione dei migranti ai fini dell’isolamento fiduciario e di quarantena anche sulle predette navi.
[29] Y. Accardo, Così si muore sulle navi quarantena. La storia del diciassettenne Abdallah Said, in https://www.lasciatecientrare.it/cosi-si-muore-sulle-navi-quarantena-la-storia-del-diciassettenne-abdallah-said/
[30] ASGI, Pantelleria e Lampedusa: le criticità dell’approccio Hotspot, in https://www.meltingpot.org/2022/10/pantelleria-e-lampedusa-le-criticita-dellapproccio-hotspot/
[31] Si rinvia al Comunicato stampa del SAP (Sindacato autonomo di polizia) nei primi giorni di agosto del 2022, in https://www.corriereditaranto.it/2022/08/05/taranto-hotspot-e-criticita/
[32] Si vedano al riguardo le dichiarazioni dell’on. Molteni, sottosegretario al Ministero dell’interno, nella passata legislatura, in https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/taranto/1357311/migranti-molteni-situazione-in-hotspot-taranto-complessa.html
[33] Secondo la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale, “Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto.”
[34] Come è stato sostenuto in diverse occasioni dal ministro dell’interno Piantedosi, anche attraverso i social, vedi al riguardo, https://twitter.com/i/web/status/1609006568930148352
Interrogando ChatGPT sulla nuova disciplina del 425 cod. proc. pen.
di Giuseppe Sepe
Ho provato, con un po’ di curiosità e divertimento, a interrogare ChatGpt (un prototipo di chatbot basato su intelligenza artificiale e machine learning sviluppato da OpenAI) su questioni di diritto processuale penale. Lo scopo era verificare se l’agente artificiale fosse informato sulla nuova regola di giudizio del 425 cpp introdotta dalla riforma Cartabia. Le risposte dell’agente sono state all’inizio deludenti. In particolare, al di là di una infarinatura generale sulle novità introdotte dal Dlgs. 150/2022, il Chatbot non mi è parso in grado di cogliere appieno la novità delle modifiche del 425 cpp né di avere chiari i concetti fondamentali. Tanto che, inizialmente, nel paragonare la sentenza di non luogo a procedere all’archiviazione ha sostenuto che questa viene disposta dal P.M. autonomamente. Incalzato da altre domande, però, ha fornito una risposta interessante alla domanda sul nuovo parametro di giudizio previsto dal 425 cpp, come novellato (in calce, il testo dell’intervista).
È evidente che gli errori commessi (da bocciatura all’esame) dipendono da una non adeguata formazione del chatbot in campo giuridico e, specificatamente, in materia di diritto italiano. Si tratta di una lacuna tutto sommato non grave, considerata la vastità del sapere e la settorialità del dato specialistico oggetto della intervista. La cosa più notevole, però, è che il chatbot è in grado di imparare dal dialogo con gli utenti e ciò, pur considerato il rischio di apprendere informazioni erronee, gli consente di ampliare le conoscenze in maniera esponenziale. Se pensiamo ai milioni di utenti che entrano in contatto con l’applicazione e agli investimenti (pari a 10 miliardi di dollari che, in questi giorni, Microsoft ha annunciato di voler impiegare in questa specifica app), possiamo renderci conto della potenzialità futura di un simile strumento. Peraltro non l’unico (va citato qui, per par condicio, Sparrow, l’intelligenza artificiale di Google).
Ma davvero tutto ciò potrà servire a qualcosa in campo giuridico?
Per il momento mi paiono decisamente premature, e probabilmente nemmeno auspicabili, le previsioni di Richard Susskind (nel libro: l’avvocato di domani, 2019, Guerini Next) secondo cui ben presto la “macchina” ci offrirà il “ragionamento” attraverso il quale arrivare a una decisione. E noi dovremo solo “scegliere” la tesi che più ci soddisfa. Se davvero si arrivasse a questo, infatti, si aprirebbe immediatamente dopo la questione relativa “a che cosa servono più i giudici…”.
Tuttavia, l’idea di avvalersi dell’AI per le ricerche in campo giuridico, -cioè come una sorta di assistente virtuale in grado di identificare, all’istante, le normative che disciplinano un determinato istituto, di scandagliare la dottrina e la giurisprudenza per trovare i precedenti – è certamente più interessante e “alla portata”. Quando noi giudici svolgiamo una ricerca di giurisprudenza, ricorriamo a un sistema un pochino rudimentale immettendo nel Ced della Cassazione (o altro datawarehouse) alcune parole chiave per ottenere risultati le cui massime contengano quei termini. Siamo in grado di affinare la ricerca e riuscire, con un po’ di fortuna e di fatica, a trovare ciò che ci interessa leggere e studiare.
Un sistema di intelligenza artificiale potrebbe, tuttavia, assisterci in questo compito con più efficacia, abbreviando i tempi di ricerca e interpretando la nostra richiesta in maniera più specifica e fruttuosa. Per esempio un assistente potrebbe trovare i precedenti e classificarli in ordine di tempo e di significato offrendosi una risposta del genere: “ho trovato 10 sentenze della corte di legittimità che si occupano dell’argomento specifico, dal 2008 al 2022. Vi era stato un contrasto di opinioni tra la prima e la terza sezione della Suprema Corte, poi composto, nel 2020, dalle Sezioni Unite. Le successive sentenze risultano conformi al principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite…”. Sembra chiaro che una risposta del genere (ammesso che sia affidabile, v. infra) consentirebbe al giudice di partire immediatamente dall’esame del principio di diritto, già sapendo che le successive decisioni non lo hanno ulteriormente messo in discussione.
Potrà obiettarsi che una “sintesi” del genere la si potrebbe cercare, e trovare, su un qualsiasi testo o manuale giuridico. E’ facile replicare che un qualsiasi testo “invecchia” in fretta se non è aggiornato. Mentre un assistente virtuale si aggiorna in tempo reale.
L’obiezione più rilevante, in realtà, è di tipo teorico e concerne quella che Amedeo Santosuosso (nel libro: “intelligenza artificiale e diritto”, 2020, Mondadori) chiama la metafora della “scatola nera” (black box) secondo cui i sistemi di deep learning sarebbero dei contenitori all’interno dei quali non si può guardare e non sarebbe quindi possibile “controllare come l’algoritmo raggiunga il risultato che raggiunge”. Questo implicherebbe una “difficoltà di conoscenza e ricostruzione delle decisioni” che potrebbe ostacolare (mia considerazione) il formarsi di un sentimento di “fiducia” verso le risposte fornite dalle macchine e quindi comprometterne l’impiego. Una simile obiezione, quale che ne sia il fondamento, non sembra irresistibile. E’infatti possibile immaginare un batteria di “test” di validazione dei risultati conseguiti dal sistema di intelligenza artificiale al fine di verificarne, in concreto, l’affidabilità. Sarà cioè necessario sottoporre l’agente di intelligenza artificiale a un test di “competenza” in grado di validare i risultati e renderli utilizzabili a fini di supporto, conoscitivo, del lavoro giudiziario.
Si aprono dunque scenari affascinanti o al contrario preoccupanti.
È prevedibile che i sistemi di intelligenza artificiale, alimentati da enormi quantitativi di dati e documenti, diventeranno sempre migliori dei precedenti. I confini etici, giuridici, e di opportunità del ricorso, nel mondo giudiziario, alla intelligenza artificiale dovranno essere normati nel dettaglio.
Di seguito l’“intervista” al Bot.
Parla del 425 cpp e non luogo a procedere
Il 425 cpp è un articolo del Codice di procedura penale italiano che riguarda il non luogo a procedere. Il non luogo a procedere è una decisione presa dal giudice che significa che non vi sono sufficienti prove per procedere con un processo penale. Ciò può accadere per diverse ragioni, ad esempio perché le prove sono state raccolte illegalmente o perché non c'è abbastanza evidenza per dimostrare la colpevolezza dell'imputato. L'articolo 425 cpp stabilisce che il giudice può dichiarare un non luogo a procedere in qualsiasi momento del procedimento penale, anche prima dell'inizio del processo, se ritiene che non vi siano sufficienti prove per continuare.
Differenza con l’archiviazione
L'archiviazione è una decisione presa dal Pubblico Ministero o dalla polizia giudiziaria che significa che non ci sono abbastanza prove per procedere con un'indagine penale. In altre parole, non ci sono ragioni sufficienti per continuare a indagare su un determinato caso. La decisione di archiviare un caso può essere presa a varie fasi dell'indagine, prima che venga formalmente aperto un procedimento penale.
Il non luogo a procedere, invece, è una decisione presa dal giudice, che significa che non vi sono sufficienti prove per procedere con un processo penale. La decisione di dichiarare un non luogo a procedere può essere presa solo dopo che un procedimento penale è stato formalmente aperto.
In sintesi l'archiviazione è una decisione del PM o della Polizia Giudiziaria, mentre il non luogo a procedere è una decisione del giudice.
In realtà non è così, perché l’archiviazione è decisa dal giudice su richiesta del Pm
Mi scuso per l'errore nelle informazioni fornite in precedenza. L'archiviazione può essere effettivamente decisa dal giudice su richiesta del Pubblico Ministero o della Polizia giudiziaria, o anche d'ufficio. In ogni caso, l'archiviazione è una decisione che mette fine all'indagine penale, poiché non ci sono ragioni sufficienti per continuare ad indagare su un determinato caso. In generale, si può dire che l'archiviazione rappresenta una sorta di "chiusura anticipata" del caso, mentre il non luogo a procedere è una decisione che può essere presa solo dopo che un procedimento penale è stato formalmente aperto.
Cosa è cambiato dopo la riforma Cartabia relativamente alla sentenza di non luogo a procedere?
La riforma del processo penale, varata nel 2018, ha apportato alcune modifiche alla disciplina del non luogo a procedere.
In particolare, è stato introdotto l'obbligo per il giudice di motivare in modo dettagliato la decisione di dichiarare un non luogo a procedere. Ciò significa che il giudice deve spiegare chiaramente le ragioni per cui ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per procedere con il processo.
Inoltre, è stato previsto che, in caso di dichiarazione di non luogo a procedere, il Pubblico Ministero possa presentare un appello contro la decisione, al fine di ottenere una revisione della valutazione delle prove da parte di una corte d'appello.
Inoltre, è stata introdotta la possibilità di utilizzare il non luogo a procedere come mezzo per evitare la prescrizione dei reati, solo se il giudice ha accertato l'esistenza di una penale responsabilità, l'esistenza del dolo o colpa e l'esistenza di un nesso causale tra condotta e evento, nel caso in cui non ci sono le condizioni per procedere con il processo.
In generale, la riforma ha inteso garantire maggiore trasparenza e prevedibilità nella decisione di dichiarare un non luogo a procedere, e ha rafforzato la possibilità di ricorso contro tale decisione.
In realtà la riforma Cartabia è del 2022. Cosa è cambiato nel 425 c.p.p.?
Mi scuso per l'errore nella data di riforma fornita in precedenza. La riforma del processo penale, varata nel 2022, ha apportato alcune modifiche alla disciplina del non luogo a procedere.
In particolare, è stato introdotto l'obbligo per il giudice di motivare in modo dettagliato la decisione di dichiarare un non luogo a procedere. Ciò significa che il giudice deve spiegare chiaramente le ragioni per cui ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per procedere con il processo.
Inoltre, è stato previsto che, in caso di dichiarazione di non luogo a procedere, il Pubblico Ministero possa presentare un appello contro la decisione, al fine di ottenere una revisione della valutazione delle prove da parte di una corte d'appello.
Inoltre, è stata introdotta la possibilità di utilizzare il non luogo a procedere come mezzo per evitare la prescrizione dei reati, solo se il giudice ha accertato l'esistenza di una penale responsabilità, l'esistenza del dolo o colpa e l'esistenza di un nesso causale tra condotta e evento, nel caso in cui non ci sono le condizioni per procedere con il processo.
In generale, la riforma ha inteso garantire maggiore trasparenza e prevedibilità nella decisione di dichiarare un non luogo a procedere, e ha rafforzato la possibilità di ricorso contro tale decisione.
Sì, ma qual è il parametro di giudizio che il giudice deve rispettare per prosciogliere l’imputato?
Il parametro di giudizio che il giudice deve rispettare per dichiarare un non luogo a procedere è l'esistenza di prove sufficienti per procedere con il processo penale. Ciò significa che il giudice deve valutare se ci sono ragioni sufficienti per ritenere che l'imputato sia colpevole del reato che gli viene contestato.
Per valutare l'esistenza di prove sufficienti, il giudice deve tener conto di tutte le prove raccolte nel corso dell'indagine, compresi gli elementi a favore e contro l'imputato.
Il giudice deve valutare se le prove raccolte sono attendibili e pertinenti, se sono state raccolte in modo legale, e se consentono di stabilire con certezza la colpevolezza dell'imputato. In caso contrario, il giudice dovrà dichiarare il non luogo a procedere.
Inoltre, per evitare la prescrizione del reato, il giudice deve accertare l'esistenza di una penale responsabilità, l'esistenza del dolo o colpa e l'esistenza di un nesso causale tra condotta e evento.
Sei quindi d’accordo sul fatto che il giudice svolge una prognosi di colpevolezza?
La valutazione dell'esistenza di prove sufficienti per procedere con un processo penale può essere vista come una sorta di prognosi di colpevolezza, poiché il giudice deve valutare se ci sono ragioni sufficienti per ritenere che l'imputato sia colpevole del reato contestato. Tuttavia, è importante precisare che la valutazione del giudice non è una sentenza di colpevolezza, ma una decisione che riguarda la procedibilità del caso.
Inoltre, la valutazione del giudice deve essere basata esclusivamente sulle prove raccolte e sulle circostanze del caso, e non deve essere influenzata da pregiudizi o considerazioni personali. In ogni caso, l'imputato non è considerato colpevole fino a quando non viene condannato in un processo penale regolare e che abbia rispettato i diritti di difesa.
Ok grazie
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Il problema dei LEP nell’autonomia differenziata. Una spiegazione della differenza [i]
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. LEP e autonomia differenziata nella legge di bilancio (2023) - 2. La riduzione dei LEP nell’autonomia differenziata - 3. I LEP come limiti dell’autonomia - 4. Una possibile spiegazione dell’autonomia differenziata alla luce dell’ordinamento giuridico generale.
1. LEA e autonomia differenziata nella legge di bilancio (2023)
Sul nascere del 2023, saltando ogni progetto di riforma, l’autonomia differenziata diventa diritto positivo e trova una sua prima realizzazione nella legge di bilancio: l’art. 1, comma 791, della legge 29 dicembre 2022 n. 197, con un accostamento inedito, stabilisce che il riconoscimento dell’autonomia è vincolato ai LEP, i livelli essenziali delle prestazioni[ii].
La norma, precisamente, stabilisce che la “attribuzione” dell’autonomia differenziata sia “subordinata” alla “determinazione” dei LEP. Ne disegna quindi una disciplina specifica: la determinazione dei livelli è resa al fine esplicito di dare “completa attuazione” all’art. 116 Cost. e assume la forma giuridica di un DPCM, con un iter formativo simile a quello dei LEA (commi 792-795).
È dunque chiaro che si tratta di una prima disciplina dell’autonomia differenziata e, altresì, che LEP e autonomia differenziata sono ormai congiunti sul piano della legge ordinaria, in una relazione reciproca e vincolata, per cui l’autonomia non può configurarsi senza i LEP e i livelli servono a disegnare la differenza insita nell’autonomia dell’art. 116 Cost.
Questo vincolo, nel comma 791, è poi istituito anche per dichiarati motivi di “spesa”: la norma qualifica i LEP come “soglia della spesa” che vale come “nucleo invalicabile” nella erogazione delle prestazioni “fondamentali”. Il livello essenziale funzionerà dunque come limite finanziario, espressione manifesta del vincolo di bilancio (artt. 81 e 97 Cost.).
Si delinea quindi un sistema compiuto e singolare: la determinazione dei livelli viene attratta nell’autonomia differenziata, come sua premessa, in funzione dell’interesse finanziario e sotto forma di DPCM.
Tutto questo fa intravedere subito una conseguenza: la definizione dei LEP si riduce a un’entità particolare e non generale. Non è un principio. Rischia così di perdere il suo significato costituzionale di garanzia, che è insito nell’art. 117 lett. m) Cost.
Il che desta qualche preoccupazione[iii]. Vediamo allora da vicino questo sistema della riduzione, in tre aspetti, al fine di suggerire una soluzione di principio, che dia un contributo alla definizione dell’autonomia differenziata[iv].
2. La riduzione dei LEP nel sistema dell’autonomia
La prima e fondamentale riduzione è nel fatto che la determinazione dei LEP è attratta nell’autonomia differenziata e quindi è espressione di un’autonomia che, testualmente, è “ulteriore” e “particolare” (art. 116 Cost.). Nelle dottrine del diritto costituzionale, il significato di “particolare” e di “ulteriore” è dibattuto e si discute se l’autonomia differenziata somigli all’autonomia ordinaria o a quella speciale; senza prendere partito per l’una o per l’altra, si sceglie un’autorevolissima ricostruzione[v], che si volge a spiegare l’autonomia dell’art. 116 Cost. in un punto esatto, quello dell’effetto traslativo del potere, che, ai sensi dell’art. 116 Cost., opera secondo una clausola di “asimmetria”, diversamente dall’art. 117 Cost. Difatti, nell’art. 117 Cost. la devoluzione delle materie concorrenti è simmetrica: suppone una perdita della competenza statale e un correlativo acquisto della competenza regionale, sicché quanto è devoluto alla regione corrisponde meglio al potere da esercitare, come competenza più adeguata, ma, nella sostanza, il tutto resta omogeneo, per l’ordine degli interessi trasversali e condivisibili che ormai è sotteso all’art. 117 Cost., e così l’esercizio del potere regionale non è diverso da quello statale ed è a titolo derivativo (e forse è anche reversibile) [vi]. Al contrario, l’autonomia differenziata è “ulteriore” e “particolare”: questo significa che ogni suo effetto nasce dall’art. 116 Cost., è a titolo originario ed asimmetrico e quindi determinerà quanto devoluto dando vita a un diverso potere regionale, il cui esercizio soddisfa esigenze diverse da quelle dello Stato e funziona con la logica della “regola speciale e della “deroga” [vii].
Se a questo si aggiunge che nella legge di bilancio i LEP sono emanati sotto forma di DPCM e sono trattati come i LEA, e che per tradizione giurisprudenziale i LEA sono soggetti a lettura restrittiva, il gioco della determinazione si stringe molto. E’ questo il secondo aspetto della riduzione.
Difatti, uno dei maggiori problemi che storicamente emergono nella giurisprudenza del nostro giudice è che nel sindacato sul DPCM che fissa i LEA, e che poi si riflette sulle autonomie, i livelli essenziali non sono suscettibili di interpretazione estensiva. In quel sindacato, in fondo, si tratta di leggere il nomenclatore delle prestazioni e di intenderne l’estensione, secondo le voci che compongono l’elenco. L’interpretazione di queste voci segue sempre un’ispirazione letterale e riduttiva. Per esempio, nella voce “malattia mentale” non rientra l’Alzheimer, che, secondo il Consiglio di Stato, è una malattia che può avere manifestazioni psichiatriche, ma che ha una causa organica e degenerativa (Cons. St. sez. III n. 604/2015); ne viene dunque un effetto di esclusione[viii]. Per arrivare a questo risultato, sul piano dell’interpretazione, il giudice dice che i LEA non sono suscettibili di interpretazione estensiva e che, viceversa, sono soggetti a interpretazione letterale, con divieto di analogia.
Sorvolando per un momento sulla causa di questo ragionamento e seguendo il filo degli effetti, questa lettura interpretativa si vede anche nella giurisprudenza più recente. Per esempio, in Cons. St., Sez. III, 15 febbraio 2021 n. 1309, si dice che la prestazione dei farmaci chimici non si può estendere ai farmaci biomedici, per un divieto di analogia [ix]; similmente in Tar Lazio sez. III quater, 22 dicembre 2022 n. 17330, in cui si discute della estensione della voce “Crioconservazione dei gameti”: il nomenclatore prevede la conservazione solo dei gameti maschili e non di quelli femminili e così il giudice nega l’estensione agli ovociti, ribadendo che i LEA sono soggetti a interpretazione letterale e aggiungendo che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo non può valutare l’estensione della prestazione in nessun modo, neanche alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, che si addice alla legge e non al DPCM. Il potere amministrativo insito nel DPCM, infatti, è “espressione di un’ampia discrezionalità amministrativa” (giurisprudenza consolidata).
Questa discrezionalità si riconosce soprattutto nel taglio della spesa – e questo è il terzo e ultimo aspetto della riduzione-, e difatti il gioco della determinazione dei livelli si stringe ancora se si considera il fatto che in giurisprudenza l’interpretazione restrittiva dei LEA ha causa dichiarata nel vincolo di bilancio[x]. Non a caso nel comma 791 i LEP sono configurati come “soglia di spesa invalicabile”; e non a caso l’art. 116 Cost. richiama l’art. 119 Cost. Il vincolo di bilancio diventa principio anche qui, finendo per chiudere tutta la determinazione dei livelli in senso riduttivo.
Questa sistemazione corrente dei LEA, quasi inevitabile per i LEP, è molto discutibile. Un segno diverso e recente è nella giurisprudenza della Corte costituzionale: la legge regionale della Puglia n. 6 del 2019 aveva inteso in senso restrittivo la voce “malattia mentale” del DPCM, restringendola alla sola “demenza senile”, ma, con la sentenza n. 72/2020, la Corte ha stabilito che in materia di LEA l’interpretazione restrittiva non è possibile. Questo per un motivo di principio: dietro i LEA ci sono i diritti fondamentali.
3. I LEP come limiti dell’autonomia
Quello dell’ordinamento generale sembra il punto di partenza corretto, che potrebbe suggerire una soluzione anche per la definizione dell’autonomia differenziata. Dal suo sistema viene fuori questa domanda: perché i livelli delle prestazioni essenziali non sono percepiti come un’entità generale e tendono a essere ridotti, specie sul piano dell’interpretazione letterale?
In termini di interpretazione dell’ordinamento, la risposta è semplice: i livelli essenziali sono l’eccezione e non sono la regola. Non sono principi, ma sono un’entità particolare e per questo non si estendono. Il che, in termini di interessi, manifesta il fatto che qui l’interesse primario è l’interesse pubblico al vincolo di bilancio. Tutto questo spiega il fatto che in giurisprudenza la lettura riduttiva dei livelli abbia la forza di ridurre i diritti fondamentali e di trasformarli in diritti finanziariamente condizionati[xi].
Infine, tutta questa riduzione si rafforza se è calata nell’autonomia differenziata, che, come visto, è “ulteriore” e “particolare” e quindi obbedisce alla logica della regola speciale (secondo la clausola di asimmetria vista sopra).
A questo punto il gioco della riduzione è molto evidente. Ma il risultato finale non convince.
Si riprende qui l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 72/2020), segnalandone il risultato diverso e opposto, che la Corte riconosce alla forza giuridica dei LEA dello Stato: i livelli sono da considerare ai sensi dell’art. 117 lett. m), per cui sono essenziali e dunque “entrano immediatamente nell’ordinamento regionale”. E non sono derogabili.
Oltre questo minimo, inderogabile e garantito, si potrà svolgere l’autonomia differenziata, che, appunto, nell’art. 116 Cost. è “ulteriore”. Tuttavia, per la Corte costituzionale, resta fermo un fatto giuridico primario: i livelli di assistenza dello Stato non sono modificabili e quindi, per la regione, rappresentano i limiti della sua autonomia. In altre parole, i livelli sono espressione dell’ordinamento generale. Ma, in fondo, anche l’autonomia differenziata lo è. Come ogni autonomia, deriva dall’ordinamento generale [xii].
4. Una possibile spiegazione dell’autonomia differenziata alla luce dell’ordinamento giuridico generale.
In questa luce, ai LEP e all’autonomia differenziata può venire una possibilità di spiegazione in più, se i due termini si inquadrano nella teoria dell’ordinamento generale. Va fatta una breve premessa, sul modo di agire dell’ordinamento generale[xiii]. Qui l’ordinamento generale è l’ordinamento costituzionale, visto come ordinamento di tutti i soggetti giuridici e, poi, assunto nella visione del rapporto tra due ordinamenti: fondativo e derivativo quello della prima parte della Costituzione, particolare e derivato quello delle autonomie, nella seconda parte. L’autonomia differenziata, come ogni autonomia, deriva dalla prima parte della Costituzione e assorbe i limiti che quella le imprime come limiti interni, come i suoi limiti: ovvero “le sue esigenze”, ex art. 5 Cost. [xiv]. In questa luce, nella prima parte della Costituzione, riprendendo la formula della sentenza n. 72/2020, i livelli “entrano immediatamente” nell’ordinamento regionale, perché esprimono il “nucleo irriducibile” del diritto alla salute, ovvero la persona (artt. 2 e 3 Cost.). Qui i livelli essenziali rappresentano il nucleo irriducibile del soggetto, ovvero, l’espressione essenziale della soggettività. Ogni soggetto, nell’ordinamento generale, è ben riconoscibile: la persona per le esigenze essenziali (art. 2) e la regione come soggetto che ha le “sue esigenze” (art. 5).
Da tutto questo viene una conseguenza. I livelli essenziali entrano nella soggettività della regione come “sue esigenze” (art. 5 Cost.): di sé stessa e dei suoi cittadini.
Per questo, i livelli essenziali sono della persona e sono dell’autonomia della regione e per questo “entrano immediatamente” nell’ordinamento regionale (C. cost. n. 72/2020). Sono il riflesso della soggettività essenziale, vista secondo l’ordinamento generale e nella prima parte della Costituzione. Oltre l’essenziale, nella seconda parte della Costituzione, la soggettività diventa autonomia differenziabile e appunto nell’art. 116 Cost. è “ulteriore”.
Per tutto questo, nell’ambito dell’ordinamento generale, nell’indivisibilità della Repubblica, l’autonomia differenziata esprime sé stessa e i suoi cittadini e ha molto a che fare con l’identità di una Regione. Ne riflette il sostrato antropologico, sociale ed economico, anche nel dibattito politico; qui l’autonomia differenziata viene fuori in modo violento e, in un senso non volgare, quasi nella forma di entità esistenziale, che si manifesta non solo come bisogno (costo standard), ma come capacità autonoma di fare (fabbisogno). La sua differenza non deve essere irriducibile, ma deve essere un’utile differenza.
Per questo pensiamo, in conclusione, che la regione differenziata, che sviluppa la sua autonomia oltre l’essenziale (art. 5 Cost.) e in un modo “ulteriore” (art. 116 Cost.), potrebbe differenziarsi divenendo non solo la più competitiva nel prendere le materie ma la più virtuosa nelle prestazioni, facendo qualcosa di più per sé e per gli altri, anche facendo uso di quei “tributi propri” che l’art. 119 Cost., prevede e che forse non sono mai stati istituiti. Il contesto è dunque più grande ed è quello della solidarietà e della coesione politico-sociale, a prescindere dalla materia devoluta[xv]. Per questo, in conclusione, come hanno fatto gli altri relatori, si passa a usare una metafora finale, e una in particolare, quella di un’autorevole Relatrice, che ha evocato la bellissima fata Morgana e la materia[xvi]. Così, se l’autonomia differenziata si spoglia della materia, come la fata Morgana si spoglia della sua fatale immagine, l’autonomia si mette a nudo davanti a tutti e si rivela come fabbisogno, che non è standard ma è fabbisogno di sé e quindi è immagine della sua capacità, di se stessa davanti a tutti e per tutti, e allora il discorso dell’ordinamento si fa semplice ed è quello della famiglia e della figlia più sveglia che vuole andarsene di casa (nella leggenda la fata Morgana voleva scappare dalle sue otto sorelle): Morgana esce di casa e i genitori continuano a darle la paga settimanale, ma a fine mese l’affitto non lo chiede a mamma e papà e se lo paga da sé; così, forse, alla fine della storia, Morgana finirà per condividere l’affitto anche con le altre sorelle, non solo in termini di costi ma anche di spazi e di possibilità.
[i] L’articolo riproduce l’intervento, con aggiunte al testo e alcune note, fatto il 9 gennaio 2023 in Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma, seminario che inaugura i Lunedì di Giustiziainsieme, una serie ideata dalla Direzione della Rivista e coordinata dal Prof. Enrico Zampetti.
[ii] Il testo dell’art. 1 comma 791 è il seguente : “Ai fini della completa attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione e del pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni, il presente comma e i commi da 792 a 798 disciplinano la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, quale soglia di spesa costituzionalmente necessaria che costituisce nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, per favorire un'equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza, approvato con il decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° luglio 2021, n. 101, e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali e quale condizione per l'attribuzione di ulteriori funzioni. L'attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili, ai sensi del comma 793, lettera c), del presente articolo, ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, e' consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP)”.
[iii] Questo fenomeno della riduzione potrebbe riflettersi nel futuro delle attività di determinazione - conferenze varie, intese, aggiornamenti.
[iv] Si riceve qui l’indicazione di F. FRANCARIO, Riflessioni a margine di un dibattito sul metodo giuridico, in Giustiziainsieme, 16 gennaio 2023: il compito specifico del giurista accademico è quello della ricostruzione dei principi; quelli impliciti in una certa materia, che, poi, si presentano come l’architettura di un determinato istituto.
[v] A. D’ATENA, Dove vanno le regioni?, AIC., 2022, n. 4, 1 ss.
[vi] Riaffiora qui l’idea di fondo insita nella categoria generale dell’autonomia pubblica, ovvero l’idea che gli interessi dello Stato insiti nella materia trasferita non siano danneggiati o perduti nel trasferimento, ma siano curati meglio dal soggetto autonomo, avvantaggiandosi della sua cooperazione - cfr. SANTI ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 2 edizione, 1946, 298. Il sottinteso è che quel che si trasferisce è un interesse condiviso e non irriducibile; e non a caso la maggior parte delle materie devolubili appartiene alla potestà concorrente.
[vii] Così A. D’ATENA, Dove vanno le regioni?, AIC., 2… cit., 1, spec. nota 1. Con l’effetto ulteriore di rendere nullo ogni legge statale sopravvenuta che di quel contenuto disponga.
[viii] Cfr. Cons. St., III, n. 604 del 2015: “La questione non può essere risolta dal giudice in via meramente interpretativa, assimilando i malati di Alzheimer alla disciplina dei malati psichiatrici prevista dallo stesso d.P.C.M. 29 novembre 2001 - come ha ritenuto di fare il TAR - dal momento che la questione risulta quanto mai dibattuta nelle sedi competenti, che non sono ancora giunte ad una definizione. Pertanto anche in materia di Alzheimer non emergono elementi che accreditino la esistenza di uno specifico livello essenziale nel senso indicato dal TAR, distinto dagli anziani non autosufficienti, pur restando ferma per tutta questa vasta categoria di assistiti la necessità di approfondire la problematica delle prestazioni ad alta intensità come esposto alla fine del successivo punto…”.
[ix] E’ diversa la condizione di fatto e la ratio della disposizione, e quindi “la disciplina prevista per tale tipologia di pazienti non può estendersi, analogicamente, ai c.d. drug naive.” (così Cons. St., III, 15- 2- 2021 n. 1309).
[x] Per tutti v. Cons. St., III, 15- 2- 2021 n. 1309 in materia di riduzione dei LEA: “Nel nostro ordinamento, risulta ormai costituzionalizzato il principio del c.d. equilibrio di bilancio, introdotto nell’art. 81 della Costituzione dall’art. 1 della Legge Costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, entrato in vigore il primo gennaio del 2014 (sul punto T.A.R. Milano, sez. I, 14 dicembre 2018, n. 2798; da ultimo, TAR Piemonte, Sez. I, 14 luglio 2020 n. 465)”.
[xi] Emblematico è Cons. St., III, 15- 2- 2021 n. 1309: “E’ bene ricordare, infatti, che secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale il diritto alla salute è finanziariamente condizionato (cfr. sentenze n. 355/1993, 267/1998, 509/2000, 248/2011) (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. III, n. 4347/2017); questa Sezione ha già ritenuto che l’art. 32 Cost. non comporta l’obbligo per il SSR di fornire tutti i prodotti esistenti sul mercato per la cura di una determinata patologia: ciò che l’ordinamento garantisce è che la prescrizione sia funzionale alla necessità terapeutica, ma senza che il sistema sanitario sia gravato da oneri aggiuntivi conseguenti alle dinamiche di mercato (Cons. Stato, Sez. III, 30/1/2019 n. 759)”.
[xii] Cfr. L. RONCHETTI, L’autonomia e le sue esigenze, Milano, 2018.
[xiii] Cfr. ALB. ROMANO, Autonomia nel diritto pubblico, Dig. Disc. pubbl., Torino, 1987, II, 30 ss.
[xiv] Cfr. L. RONCHETTI, L’autonomia e le sue esigenze, … cit., spec. 265 ss.
[xv] Cfr. F. MANGANARO; Politiche di coesione, in: B. G. Mattarella M. Ramajoli, Enciclopedia del Diritto - Funzioni amministrative, Milano, 2022.
[xvi] Si allude all’intervento della Prof.ssa Chiara Cacciavillani.
Recensione di Costantino De Robbio a “I rematori di Mitilene” di Andrea Koveos
Se esiste un minimo comun denominatore che lega oggi gli abitanti di quel topos, culturale più che geografico, che impropriamente chiamiamo “occidente”…questo minimo comun denominatore è dato dall’eredità immensa ed eterna di un popolo di pastori che, da una penisola fino a quel momento ai margini delle correnti della storia, in modo quasi magico hanno sviluppato in un tempo relativamente breve un tale numero di idee da essere ancora oggi, per certi versi, all’avanguardia.
Ai greci dobbiamo, tra l’altro, l’invenzione della storia, della filosofia, del teatro, delle tragedie e delle commedie, e il vertice di tutti i tempi nelle arti figurative…nonché (capacità che forse riassume tutte quelle che ho elencato finora) l’attitudine a farsi domande ed alzare la testa verso il cielo; in sostanza quella caparbia tendenza dell’uomo di negare la sua natura animale per cercare di tendere verso l’eterno.
Nessuno lo sa meglio di Andrea Koveos, metà greco e metà romano, che porta già nei suoi geni la memoria dei due popoli antichi che passandosi il testimone hanno accompagnato la nostra cultura dai primi balbettii infantili all’età adulta.
Non stupisce dunque che l’autore subisca da sempre il fascino di questa millenaria eredità, e che abbia dedicato al mondo degli antichi Greci tanta parte della sua ricerca letteraria: dopo il bel libro di racconti sugli animali dell’epica omerica, in questa nuova fatica Koveos ha rivolto la sua attenzione al romanzo storico.
In particolare, ha ripescato dall’immenso materiale lasciatoci da Tucidide e Senofonte intorno alla guerra del Peloponneso un episodio apparentemente minore ma denso di significato: la ribellione degli abitanti di Mitilene alla signoria della città di Atene e, dopo la capitolazione della città insorta, il processo agli sconfitti e le singolari vicende delle due condanne, contraddittorie tra loro, che furono loro inflitte dall’assemblea dei vincitori.
Il romanzo ripercorre infatti, sulle orme di Tucidide, la discussione che aveva portato in un primo momento alla terribile delibera degli ateniesi di giustiziare tutti gli uomini dell’isola ribelle, ridurre in schiavitù donne e bambini e radere al suolo gli edifici e il successivo ripensamento dei medesimi cittadini ateniesi, che poche ore dopo (a mente fredda, se così si può dire) sentirono l’impulso di rivedersi per ridiscutere la decisione e, trovandola troppo crudele, la sostituirono con quella (pur sempre terribile ma meno assoluta) di giustiziare solo i mille uomini direttamente coinvolti nella ribellione.
Al di là dell’appassionante ricostruzione della corsa contro il tempo che la trireme partita da Atene per comunicare la seconda e più favorevole decisione compie in mare all’inseguimento dell’imbarcazione partita il giorno prima per eseguire la sentenza di sterminio, magistralmente incentrata sulla figura del comandante della barca inseguitrice, lo scritto di Andrea Koveos ci consente una serie di riflessioni che riguardano l’essenza del concetto di giustizia e ci porta al centro ideale della coscienza di chi giudica.
Il primo e più pressante interrogativo che sorge alla mente di un occidentale moderno (in questo, per fortuna, molto distante dai suoi progenitori greci, per i quali la questione non si è nemmeno posta) è il seguente: è giusto condannare a morte un uomo?
Qui si è trattato peraltro non di uno ma di mille uomini, numero così esorbitante da essere inconcepibile per la nostra mente: pensiamo per un attimo ai gesti, alla violenza, alla fatica fisica e all’abominio mentale che ci vogliono per ripetere l’esecuzione di un uomo per decine, centinaia di volte, fino a mille… e al tempo materiale, e allo spazio fisico, al sangue delle vittime, e al sudore dei carnefici.
Esiste un crimine così efferato da reclamare una punizione del genere? Eppure, dalla penna di Tucidide (e, in sua vece, da quella del suo epigono moderno Andrea Koveos) apprendiamo con un senso di sgomento che tutti i protagonisti della vicenda consideravano questa reazione “mite”, e non solo a confronto con quella ancora più crudele, ma per una ragione assai più banale: essa soddisfaceva il concetto antico di giustizia, secondo cui a un’offesa si poteva (era giusto) replicare con un’offesa di pari forza, per ripristinare l’equilibrio violato.
E dunque, poiché la ribellione degli abitanti di Mitilene aveva messo in pericolo la vita degli ateniesi, la repressione della ribellione portava in sé l’attentato alla vita dei ribelli.
Oggi la giustizia ha fatto, da questo punto di vista, enormi passi avanti.
Non solo la condanna a morte è stata bandita dagli ordinamenti giuridici della stragrande maggioranza dei paesi, ma nel concetto stesso di sanzione penale sono entrati elementi di rieducazione sociale, reinserimento, riparazione che hanno affiancato e in un certo senso annacquato quello originario di vendetta e punizione.
Da questo punto di vista, il libro di Andrea Koveos ci serve da monito per non dimenticare da dove siamo partiti e per sfuggire alla tentazione sempre ricorrenre di voltarsi indietro per tornare a concezioni più primitive e ingiuste del diritto penale.
Ma altri, e forse più intriganti, interrogativi ci derivano dalla lettura del libro, se si considera la natura “politica” del processo, come emerge dalle parole dei suoi protagonisti.
A ben vedere, infatti, appare chiaro che le due condanne esprimono due diversi usi politici del processo: secondo i fautori del primo e più severo pronunciamento, la sentenza doveva avere non solo il compito di punire i colpevoli di tradimento, ma anche il non secondario scopo di servire da monito per tutti gli altri alleati affinché fossero dissuasi dal seguirne l’esempio. Colpirne uno per educarne cento, insomma.
Non a caso Cleone, il grande accusatore (il Pubblico Ministero, diremmo noi oggi), così conclude la sua requisitoria: “Tutte le volte che il malvagio flagello della ribellione si insinua in uno dei membri della lega di Delo, occorre agire in fretta ed evitare che il cattivo esempio possa penetrare in tutte le altre città dell’alleanza.”.
Pertanto, non ci si può limitare ad eliminare fisicamente i responsabili dell’attentato alla sicurezza della città di Atene.
La deportazione di tutti i maschi dell’isola, la riduzione in schiavitù di donne e bambini, la distruzione degli edifici sono atti che esulano da ogni concetto di proporzione e di sanzione che sono propri della giustizia e implicano rappresaglia, umiliazione e repressione generalizzata del dissenso.
Sarebbe bello dire anche in questo caso che si tratta di concetti assai distanti dagli ordinamenti moderni, ma è nella memoria di tutti gli italiani (e non solo) che pochi, pochissimi anni fa a Roma gli oppressori nazisti hanno eseguito la condanna a morte di dieci cittadini scelti casualmente come rappresaglia per ciascuno dei soldati morti in un attentato…
Condanne a morte indiscriminate per reazione al dissenso, rappresaglie indiscriminate contro cittadini estranei ad ogni contestazione di reato al fine di intimidazione e monito, accadono ancora oggi ogni giorno, ed è per questo che la lettura del processo agli abitanti di Mitilene non si lasciano liquidare con un’alzata di spalle e la superficiale considerazione di chi guarda all’evento da lontano.
L’ultimo e più affascinante interrogativo del romanzo riguarda la apparente singolarità di una doppia sentenza sullo stesso crimine.
È giusta una sentenza pronunciata nell’immediatezza dei fatti o è meglio una giustizia resa “a freddo” (senza arrivare ovviamente agli estremi di alcuni notori esempi di giustizia nostrana, resi a distanza di decenni dai fatti e dunque sostanzialmente inutili)?
“A caldo” si rischia di fare errori dettati dall’emotività; e l’emotività va poco d’accordo con la giustizia.
Anche il generale che parla per ultimo, a difesa degli accusati, lo ricorda sottolineando che non ha nulla in contrario con la condanna, ma ne contesta la troppa rapidità dicendo “Signori giudici e signori dell’assemblea, decisione come questa va attuata con estrema cautela, per evitare che ci si possa pentire quando è troppo tardi.”.
Nel romanzo di Andrea Koveos emerge con chiarezza quale sia il nemico delle decisioni prese sull’onda dell’emotività: il pregiudizio, che porta al paradosso che i giurati ateniesi non ascoltano non solo gli argomenti della difesa ma nemmeno quelli dell’accusa, perché la loro mente è assorbita interamente dal giudizio già formatosi e non dà spazio ad alcuna forma di contraddittorio: “Ho ascoltato con attenzione l’arringa dell’illustre Cleone, ma l’atmosfera che si respira oggi qui è talmente intrisa di odio e rivendicazione che sono convinto che in pochi hanno ascoltato davvero il suo intervento. In più non abbiamo sentito cosa hanno da dire a loro discolpa i rivoltosi”.
Inoltre, a caldo si rischia di dimenticare che dietro ogni vicenda processuale c’è una storia umana (o come in questo caso, tante), ci sono carne, sangue, affetti, baci rubati per sempre in nome dell’applicazione di un sillogismo giusto ma a tratti inumano.
Per questo emotività e giustizia a volte divergono e tante volte le sentenze sembrano “ingiuste”.
E anche per questo una condanna sulla quale non sono ammessi ripensamenti nemmeno dopo tanto tempo, una condanna immediatamente definitiva, che non tiene conto del percorso del tempo sulla carne delle vittime e dei rei, le prime possibilmente inclini al perdono, i secondi che inevitabilmente diventano diversi da quelli che hanno sbagliato (nessuno si bagna due volte nello stesso fiume) è sbagliata per definizione.
Una condanna a morte (ma anche un ergastolo senza possibilità di modifica, tanto per rimanere a un argomento attualissimo) è sbagliata sempre.
Una condanna a morte eseguita immediatamente lo è ancora di più.
È in nome di questo principio di buon senso, di civiltà, di umanità, che si gonfiarono i muscoli dei rematori greci secoli fa, in una rincorsa per superare e neutralizzare una giustizia arcaica, brutale, fondata sulla paura.
Giustizia Insieme e il valore dell’accoglienza - 5. Immigrazione e accoglienza: il ruolo delle organizzazioni della società civile
Intervista di Michela Petrini a Daniela Pompei, Responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati
1. L’immigrazione costituisce oramai da anni un settore regolamentato da normative di carattere nazionale e sovranazionale, nel quale, tuttavia, un ruolo da protagonista è svolto anche dalle Organizzazioni della società civile (OSC), che mettono a disposizione mezzi e risorse, economiche e personali, per incentivare e realizzare un virtuoso modello di accoglienza ed integrazione .
In questo contesto, quali sono state le ragioni e quale è stato il contributo fornito dalla Comunità di Sant’Egidio nella cooperazione per la gestione dei flussi migratori? Da quanto tempo vi occupate di immigrazione e quali sono i progetti ai quali avete aderito?
La Comunità di Sant’Egidio ha iniziato la sua presenza accanto agli immigrati all’inizio degli anni ‘ 80 quando la presenza straniera in Italia era ancora molto ridotta, e in assenza di qualsiasi quadro normativo di riferimento se non alcune circolari del Ministero del Lavoro e le vecchie disposizioni del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. Solo nel 1986 fu adottato un primo intervento normativo che regolò i soli aspetti delle attività lavorative e che per la prima volta prevedeva un provvedimento di regolarizzazione. Nel 1982 inizia la Scuola di lingua e cultura Italiana della Comunità di Sant’Egidio rivolta ai migranti attraverso la quale è stata elaborata una specifica modalità di insegnamento della lingua correlata ai contesti di vita e di lavoro degli immigrati. Negli anni immediatamente successivi la Comunità di Sant’Egidio ha aperto i servizi di prima accoglienza che ci hanno messo a contatto diretto anche con i rifugiati, di fatto e non ancora di diritto visto che allora la Convenzione di Ginevra era fortemente limitata dalla clausola di riserva geografica. Ospitammo nel 1988 in una delle nostre case Jerry Essan Masllo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno nell’agosto del 1989. Fu proprio la sua morte all’origine di quel movimento della società civile che portò all’emanazione nel dicembre del 1989 di una prima legge sull’immigrazione che tra l’altro eliminò la riserva geografica.
2. A partire dal 2015, grazie dalla collaborazione tra istituzioni – Ministero degli Affari Esteri e di Cooperazione Internazionale e Ministero dell’Interno – e società civile – Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche e Tavola Valdese – sono nati i c.d. corridoi umanitari, ovvero programmi di trasferimento e integrazione in Italia rivolti a migranti in condizione di particolare vulnerabilità: donne sole con bambini, vittime del traffico di essere umani, anziani, persone con disabilità o con patologie.
Come è nato questo progetto? Quali sono stati i protocolli siglati con i diversi Stati e quali sono i numeri dei soggetti che sono riusciti ad arrivare in Italia in sicurezza?
Il Programma dei Corridoi Umanitari nasce dalla tragica constatazione che non esistevano vie legali di ingresso in Europa e in Italia particolarmente per i rifugiati, di conseguenza anche coloro che avrebbero avuto diritto alla protezione internazionale per giungere in Europa erano costretti ad affidarsi ai trafficanti e a rischiare la vita nei viaggi. Per questa ragione nel 2014 proponemmo assieme alla Tavola Valdese e alla Federazione delle chiese evangeliche al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e al Ministero dell’Interno uno schema di protocollo che conteneva, a legislazione invariata, dei principi innovativi: 1. la possibilità del rilascio di visti a validità territoriale limitata ( VTL) secondo quanto previsto dal Regolamento visti all’art. 25; 2. il conseguente ingresso in condizioni di sicurezza sul territorio nazionale dove sarebbe stata formalizzata la domanda di protezione internazionale secondo le procedure ordinarie; 3. l’assunzione di responsabilità da parte delle associazioni che gratuitamente si impegnavano ad individuare i soggetti da ammettere al programma, a fornire loro le informazioni sul paese di accoglienza e a curare successivamente all’arrivo sul territorio nazionale in ogni aspetto il percorso di integrazione. Questo progetto amplia la gamma degli strumenti delle ammissioni umanitarie e prende avvio quasi contemporaneamente ai programmi di resettlement approvati dall’UE tra il 2015 ed il 2017. Con riferimento solo all’Italia, tra il 2015 ed il 2022 sono entrati con i programmi di resettlement 2572 rifugiati già riconosciuti nei paesi di transito dell’UNHCR, mentre con i corridoi umanitari dal 2016 al 2022 sono entrati 4234 richiedenti asilo[1].
I protocolli sinora sottoscritti sono tre per quelli in cui il paese di transito è il Libano (il primo nel dicembre 2015), riguardanti nella grande maggioranza siriani, iracheni e siropalestinesi, ciascuno per mille persone, di cui sono entrate sinora in Italia oltre 2450; gli attori coinvolti sono la Comunità di S. Egidio e la Tavola Valdese – FCEI.
Tre protocolli in cui i paesi di transito sono l’Etiopia, la Giordania ed il Niger riguardanti in maggioranza eritrei, sudanesi, somali, yemeniti ed ancora siriani ed iracheni, il primo sottoscritto nel 2017; sono complessivamente 1700 le persone comprese in questi protocolli, di cui sono sinora entrate in Italia 1100 persone; gli attori coinvolti sono la Comunità di Sant’Egidio e la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) attraverso la Caritas italiana e Migrantes.
Il primo protocollo con la Francia viene concluso nel 2017, il paese di transito è il Libano e i destinatari soprattutto siriani ed iracheni, ne è seguito un altro per complessive 800 persone, di cui 560 sono già entrate in Francia, gli attori sono la Comunità di Sant’Egidio, le chiese evangeliche francesi, la Conferenza episcopale francese e le Semain sociale catholique. Lo stesso anno inizia il Belgio, con cui sono conclusi due protocolli per 450 richiedenti, paesi di transito Turchia e Libano, destinatari siriani ed iracheni; di questi sono giunti 170. Inoltre, Andorra ha accolto 20 richiedenti.
Gli ultimi protocolli sottoscritti riguardano uno la Libia come paese di transito e l’altro per gli afghani, provenienti dal Pakistan e dall’Iran. In attuazione del primo, sono giunti 500 richiedenti, dei quali 200 accolti dalle associazioni (Comunità di Sant’Egidio e Federazione della Chiese Evangeliche), gli altri sono inseriti nel circuito dell’accoglienza dello stato. Il protocollo riguardante gli afghani è ancora aperto, prevede complessivamente 1.200 richiedenti, di cui 800 le associazioni (Comunità di Sant’Egidio, Federazione della Chiese Evangeliche, CEI – Caritas Italiana, ARCI); sono arrivati ad oggi sul territorio italiano oltre 500 richiedenti.
Complessivamente, con i corridoi umanitari sono giunti in Italia dal 2016 5.079 richiedenti, in Europa 5.849.
3. Un tema delicato e complesso è quello della selezione dei migranti che possono accedere al programma. Recentemente molteplici sono state le polemiche politiche e le critiche, avanzate anche da giuristi, con riferimento ai “criteri” prescelti per lo sbarco dei migranti salvati in mare da imbarcazioni gestite da ong.
A fronte di una domanda, sempre più elevata, di richieste di ingresso in Italia, come vengono individuati i soggetti che possono beneficiare dei corridoi umanitari?
Va considerato che ormai i corridoi umanitari hanno superato la fase della sperimentazione iniziale e sono riconosciuti per i loro elementi peculiari, se confrontati con gli altri modelli di ammissione umanitaria; il ruolo dei soggetti della società civile, responsabili di ogni fase del processo, e la stretta correlazione tra il momento della conoscenza e dell’individuazione dei destinatari e quello del sostegno alla loro integrazione sul territorio nazionale, sono considerati i tratti distintivi di queste esperienze come riconosciuto nei documenti programmatici dell’Unione europea[2].
In questo contesto va compresa anche l’individuazione dei criteri di scelta per l’ammissione al progetto; il criterio fondamentale è quello della vulnerabilità, intesa non solamente secondo le categorie tipizzate dalla normativa europea, per esempio all’art.21 della direttiva 2013/33/UE del 26 giugno 2013 relativa all’accoglienza, quanto piuttosto come una complessiva condizione personale che si evidenzia proprio attraverso gli incontri ed i ripetuti colloqui che gli operatori della associazioni svolgono con i richiedenti nei paesi di transito. Questo primo criterio viene ovviamente correlato con quello dell’evidente bisogno di protezione internazionale secondo quanto previsto dalla normativa UE e nazionale e come richiamato in tutti i protocolli. Altri criteri complementari sono poi applicati quando questi primi sono soddisfatti: richiedenti che dimostrino l’esistenza di legami familiari, anche se non ricompresi nell’ambito dei familiari ricongiungibili, con concittadini regolarmente presenti in Italia e persone che hanno reti familiari o sociali stabili in Italia e per questa ragione dichiarano di volersi stabilire ed integrare nel nostro paese.
4. Probabilmente la parte più interessante del programma attiene non tanto alle modalità di ingresso dei migranti nel territorio Italiano, quanto al progetto di accoglienza ed integrazione che segue l’ingresso. In che modo vi occupate di seguire lo straniero per garantirne l’inserimento nel sistema sanitario nazionale, nelle scuole e nel mondo del lavoro? Quali sono le difficoltà incontrate in questa seconda fase?
È necessario premettere che l’accoglienza dei migranti non è fatta solo dai volontari delle associazione proponenti, che solo con le loro forze non avrebbero potuto sostenere i numeri di ingressi sin qui effettuati, ma da una fitta rete di piccoli associazioni, gruppi di amici, singole famiglie, rifugiati già inseriti da anni, religiosi, che si sono offerti di accogliere nuclei familiari o singoli, offrendo loro non solo l’ospitalità ma un accompagnamento del percorso di integrazione. In questa dimensione è fondamentale il compito svolto dalle associazioni nel sostegno a chi accoglie. Tra i primi passi che vengono attuati e suggeriti c’è l’immediato inserimento dei bambini a scuola, l’offerta di corsi di lingua italiana per i genitori, l’accompagnamento nelle procedure previste per acquisire i documenti necessari. Un passaggio immediatamente successivo è costituito dalla verifica delle competenze già possedute al fine dell’inserimento regolare nel mondo del lavoro.
In questa seconda fase emergono con chiarezza anche tutte le difficoltà determinare dalle lentezze o dalle distorsioni burocratiche, per esempio l’apertura dei conti bancari o alle poste è molto difficile e questo rallenta l’inserimento un un’attività lavorativa regolare, il riconoscimento dello stato civile, quando non ci sono documenti del paese di origine, genere incertezze e talvolta contrasti nell’affidamento dei figli, la mancanza di disposizioni chiare sul riconoscimento dei titoli di studio e di qualificazione professionale rallenta l'inserimento lavorativo o costringe a condizioni di lavoro sottoqualificato.
5. Alla luce della sua esperienza pluriennale il modello dei corridoi umanitari può, in prospettiva, e laddove vengano siglati nuovi protocolli, ridurre il numero delle migrazioni via mare?
Sì, ma solo se accompagnati dall’apertura di una pluralità di canali di ingresso regolari. Per esempio, abbiamo potuto verificare che il corridoio umanitario aperto dall’Etiopia ha costituito un’alternativa effettiva per molte giovani donne eritree che altrimenti si sarebbero consegnate ai trafficanti passando in Libia, perché intenzionate a raggiungere i loro parenti in Europa e in Italia.
D’altra parte, perché azioni del genere possano ridurre la migrazione irregolare, anche via terra, è necessario a livello europeo che siano aperti canali legali di ingresso con modalità diverse dai corridoi umanitari, che comprendano anche la migrazione più propriamente economica; è anche necessario che le regole dei ricongiungimenti familiari siano modificate ampliando la categoria dei familiari ricongiungibili e superando le attuali ristrettezze esistenti; è ancora necessario che i programmi di reinsediamento divengano stabili e numericamente ben più consistenti di quanto non siano stati negli ultimi anni. Solo se si agisce con più azioni di questo tipo, tra loro complementari, è possibile la riduzione dell’immigrazione irregolare.
6. Infine, considerato che anche alcuni paesi europei (Belgio e Francia) stanno aderendo al progetto italiano, ritiene che intorno a questo modello possano convergere, in sinergia, anche le risorse dell’Unione europea e che ci sia la possibilità che si abbandonino i protocolli e gli accordi bilaterali tra Stati e si arrivi a protocolli siglati direttamente dall’Unione?
Sì, l’esperienza dei corridoi umanitari può suggerire un modello di intervento attualmente carente nel quadro della normativa europea e ampiamente sperimentato, con risultati positivi, in altri contesti come quello canadese e statunitense. Si tratta dell’introduzione della figura della sponsorship, presente nel nostro ordinamento interno solo per un breve periodo immediatamente dopo l’approvazione del D. Lgs.. n. 286 del 1998, capace di valorizzare le risorse della società civile, con criteri e modalità che possano essere controllate dagli stati e consentano ingressi di rifugiati e migranti accompagnati da azioni che ne favoriscono l’integrazione e la stabilità.
[1] Cfr. Dati Ministero dell’Interno, accessibile a http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/ it/temi/relazioni-internazionali, consultato il 4 gennaio 2023.
[2] Cfr. Raccomandazione relativa ai “Percorsi legali di protezione nell’Unione Europea; promuovere il reinsediamento, l’ammissione umanitari e altri percorsi complementari” COM (2020), 6467, del 23 settembre 2020, in cui si afferma “Con questo modello gli sponsor privati sono coinvolti in tutte le fasi del processo di ammissione, dall’individuazione di coloro che necessitano di protezione internazionale al loro trasferimento allo Stato membro interessato. Essi si fanno carico anche degli sforzi di accoglienza ed integrazione e ne sostengono i relativi costi”.
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