ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La morte, si sa, segna la fine dell'esperienza umana e al contempo l'inizio di un processo di elaborazione del ricordo; nel caso di un intellettuale, di cristallizzazione dell'idea, di riflessione critica del pensiero; di proclamazione del genio.
E proprio il giorno della morte di Andrea Camilleri, e cioè il 17 luglio, da un lato viene aperta la discussione nelle aule parlamentari sui test psicologici per i magistrati, dall'altro sempre il Parlamento approva il c.d. "Codice Rosso" (provvedimento che, a me pare, ha come idea di fondo quella per cui la violenza di genere è causata anche dall'inerzia dei giudici - nulla di più falso). Due circostanze che, in forme diverse, segnalano la profonda sfiducia - per non dire avversione - del ceto politico dirigente nei confronti della magistratura. Mai, nell'intera storia repubblicana, storia oramai immemore dall'impegno, dai sacrifici, dagli olocausti e dai risultati raggiunti, sociali prima ancora che giuridici, questo corpo - che, per carità, ha da fare e sta facendo autocritica al suo interno - ha subito tanti attacchi, tutti concentrici, tutti rispondenti alla stessa opinione: il magistrato è uomo di potere, tanto da sentirsi al di sopra della legge, tanto da essere antropologicamente diverso dagli altri.
Cosa c'entra Camilleri? C'entra eccome, perché l'intellettuale siciliano fin dall'inizio di questa operazione delegittimante (che parte da lontano) ha alzato la mano e col coraggio che l'ha sempre contraddistinto ha detto la sua: "Quando si dice che i giudici sono antropologicamente matti, diversi, Berlusconi dice una cosa vera. Perché bisogna essere matti come Falcone, Borsellino, Livatino, Chinnici e tanti altri eroi civili, per sacrificare la propria vita in nome della legalità. In questo i giudici sono diversi, per combattere la mafia hanno il coraggio di rischiare la vita. Spero che mi facciano giudice ad honorem, per condividere ed onorare questa diversità dei giudici". Qualcuno forse ricorderà questa sua frase, che all'epoca fece scalpore.
Diciamoci subito, però, che Camilleri non è (stato) dalla parte dei magistrati, cioè di chi istituzionalmente opera nell'interesse generale per garantire l'uguaglianza sostanziale tra i cittadini (la legge, il diritto, sono cose che vengono persino dopo), soltanto perché è (stato) un uomo coltissimo, ché solo gli ignoranti, che non ne arrivano a comprendere la funzione sociale, possono attacare a prescindere la magistratura. Noi, che abbiamo adesso sott'occhio l'intera produzione di Camilleri, definitiva o quasi, per esempio non possiamo dimenticare come lui sia stato anzitutto uno storico, perché le sue prime produzioni letterarie riprendevano cronache siciliane importanti ma dimenticate sotto una coltre di polvere (che in Sicilia è più spessa che altrove); ed il suo primo esperimento letterario, datato 1984, è appunto "La strage dimenticata"; e ad eccezione dei Montalbano - per inciso: ridurre il suo genio alla creazione di questo personaggio, ancorché geniale, sarebbe gravemente offensivo - quasi tutti i suoi gialli sono ambientati in un tempo che non è più, con ricostruzioni meticolose, con rievocazione di fatti che andavano, più che ricordati, riscattati.
Andrea Camilleri, storico prima ancora che scrittore, è (stato) dalla parte dei magistrati anche perché non c'è alcuna differenza di metodo tra l'attività del giudice e quella dello storico; "Il giudice e lo storico" è il titolo di un notissimo saggio di Piero Calamandrei, il quale sottolinea anche la comunanza di una certa onestà intellettuale - che nell'attività del giudice diventa dovere di imparzialità e terzietà. Il giudice - è detto ancora - è in fondo lo storico dell'attualità; e, d'altro verso, Andrea Camilleri negli ultimi mesi ha trattato l'attualità politica come un fatto storico. Il governo "giallo-verde" è in effetti un caso inedito e mai ancora visto nella lunga marcia della nostra democrazia e lui, mantenendone l'onestà intellettuale, per questo trattava da fatto storico alcune decisioni governative, ed in questa luce le commentava. L'avrebbe fatto fino a ieri l'altro, se ne avesse avuto la possibilità.
Visti i tempi che corrono, visto il discredito che può essere contrastato solo con la serietà e l'impegno, e la superiorità intellettuale, è arrivato il momento di dare corso alla sua richiesta, al suo auspicio: cosicché, Andrea Camilleri sia fatto magistrato ad honorem, subito.
Sommario: 1.I rinnovati poteri del Giudice dell’esecuzione. - 2. La sentenza della III sezione della Corte di Cassazione n. 15597 del 2019
1.I rinnovati poteri del Giudice dell’esecuzione.
Negli ultimi anni si è assistito, e si assiste, ad un ripensamento complessivo delle funzioni dell’organo esecutivo; tanto nel processo civile quanto nel processo penale si aprono sempre di più spazi “di cognizione” in fase esecutiva.
L’impianto originario del’42 prevedeva sicuramente un procedimento esecutivo del tutto epurato da questioni cognitive che trovavano spazio solo nelle opposizioni, vere e proprie parentesi cognitorie, deputate a censurare l’an e il quomodo dell’esecuzione.
In tal senso, al fine di assicurare una celere soddisfazione del procedente, si sollevava l’organo giudicante dall’esigenza di effettuare verifiche accertative.
Ci si avvide ben presto, però, che l’esecuzione, sin dalla fase espropriativa, è idonea a originare parentesi interne di cognizione. Basti pensare all’emersione di una prova di integrale pagamento che, secondo la logica originaria, non avrebbe potuto determinare una sopravvenuta estinzione, ma solo essere attivata in sede di opposizione.
In tal senso, le riforme del 2005 hanno attribuito al giudice, in sede esecutiva, questioni sulle liti distributive quali il potere di conoscere dell’esistenza dell’ammontare dei crediti e della sussistenza di cause legittime di prelazione ai fini della formazione del piano di riparto.
Mutano i rapporti tra cognizione ed esecuzione: da una rigida contrapposizione sembra arrivarsi all’idea di una comunicazione necessaria. Da questa affermazione discende, come corollario, la naturale appartenenza di talune questioni cognitive all’esecuzione e l’attribuzione al G.E. del potere di conoscerne e deliberarne, sia pure sommariamente e con valore solo endoesecutivo.
Si ripensa, in tal modo, l’atteggiamento dell’organo giudicante dinanzi all’emersione di una specifica questione di merito che l’esecuzione è idonea ad occasionare e che faccia venir meno il presupposto dell’azione esecutiva.
In tal senso si legge un’ordinanza della Corte di Cassazione 15605/2017 che ha valorizzato il potere/dovere del giudice dell’esecuzione di rilevare d’ufficio le cause sopravvenute di estinzione del processo, anche chiarendo i criteri di coordinamento con la cognizione instaurata a mezzo dell’opposizione. In particolare, la Corte chiarisce come possa dirsi pacifico che, sia pure in difetto di censura della parte esecutata in ordine ai presupposti dell’esecuzione, sia in potere del g.e. accertare l’inefficacia originaria o sopravvenuta del titolo, correlativamente adottando un provvedimento di chiusura in rito.
Si consolida l’idea che il g.e. possa prendere atto dell’esistenza di un difetto di presupposto processuale o condizione dell’azione esecutiva, tale da determinare in rito il rigetto della domanda di tutela esecutiva. In tal senso, si dice, sono conferiti al giudice poteri direttivi e di controllo dall’art. 484 c.p.c.: il giudice dell’esecuzione diventa garante del buon andamento della procedura nel suo complesso.
La conseguenza è l’emersione dell’istituto dell’estinzione atipica del processo esecutivo che, oltre ad inserirsi nella fase di ripensamento dei rapporti tra cognizione ed esecuzione, sorge in via giurisprudenziale quale correttivo alla tipizzazione delle ipotesi per rinuncia agli atti (art. 629 c.p.c.) e inattività delle parti (artt. 630 e 631 cpc).
2. La sentenza della III sezione della Corte di Cassazione n. 15597 del 2019
Nel filone richiamato si inserisce, da ultimo, il recente orientamento della Corte di Cassazione che ha chiarito che al giudice dell’esecuzione compete un compiuto accertamento della titolarità del bene da porre in vendita forzata e non una mera verifica formale inerente alla documentazione del ventennio antecedente al pignoramento, non rilevando tale termine come indice presuntivo di appartenenza del bene per usucapione sufficiente a proseguire il processo esecutivo.
L’affermazione richiede delle specificazioni.
È noto che l’art. 567 co.2 c.p.c., in materia di espropriazione forzata, prevede che il creditore che richiede la vendita deve provvedere, tra l’altro, ad allegare i certificati delle trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori al pignoramento. È, poi, lo stesso legislatore a prevedere la possibilità di sostituire la documentazione necessaria, con un certificato notarile attestante gli esiti delle visure catastali e dei registri immobiliari. Il mancato adempimento dell’onere di cui sopra nel termine di 60 giorni dal deposito del ricorso, eventualmente prorogato ex art. 567 co.3 c.p.c., determina la dichiarazione di inefficacia del pignoramento dell’immobile in oggetto, la successiva cancellazione del pignoramento e l’estinzione del processo esecutivo in assenza di ulteriori beni pignorati.
Se è chiaro, allora, che al Giudice dell’esecuzione compete, per legge, la verifica della documentazione relativa al ventennio la cui assenza determina ipotesi di estinzione tipizzata del processo esecutivo, maggiormente discusso è se al g.e. competa un accertamento della titolarità dell’immobile da mettere in vendita che sia non solo formale, ma anche sostanziale e vada oltre i termini previsti dal 567 c.p.c.
La questione porta con sé il rilievo del termine ventennale di cui all’art. 567 co.2 c.p.c. e la sua natura di indice presuntivo di appartenenza del bene per usucapione.
Più chiaramente, discusso è se il mero decorso del termine dei vent’anni sia idoneo a permettere la prosecuzione dell’azione per presunzione o se l’acquisto a titolo originario vada accertato e, in tal caso, se la verifica esorbiti dai poteri del giudice dell’esecuzione.
La soluzione non è solo nelle norme che regolano il processo esecutivo, ma è individuata in un congrevio di disposizioni codicistiche tutte individuate dal Supremo Consesso.
In soccorso dell’interprete possono richiamarsi una serie di articoli che delineano chiaramente l’intento legislativo: in primis l’art. 2910 c.c. dispone che il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare beni del debitore o del terzo nei confronti del quale, eccezionalmente, può essere intrapresa la procedura.
Si desume, così, la necessaria titolarità del bene in capo al debitore (salvo l’eccezionale espropriazione nei confronti del terzo).
Il principio può rilevarsi anche dalla disciplina del conflitto tra il terzo proprietario e l’aggiudicatario di un bene non appartenente all’esecutato. Il conflitto va risolto a favore del terzo proprietario, come dimostra il regime dell’evizione nella vendita forzata ex art. 2921 c.c.: il terzo proprietario può rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario anche dopo la chiusura del processo esecutivo, senza che possa operare la “sanatoria” dell’art.2929 c.c.
In questo senso, la scelta del legislatore è di qualificare l’acquisto a seguito di vendita forzata come acquisto a titolo derivativo (art. 2919 c.c.)
La stessa Cassazione chiarisce che il legislatore non ha richiesto espressamente che nel processo esecutivo si desse luogo ad un compiuto accertamento della proprietà dell’immobile, ma “l'interpretazione atomistica e al contempo meramente letterale della norma in parola finirebbe per dare a quel significante un significato sostanzialmente irragionevole, riducendolo a un indizio irrazionalmente equivoco. In questa cornice, risulterebbe inoltre irriducibilmente distonico che, nell'evoluzione della normativa inerente alle espropriazioni coattive, mirata a rendere il più affidabile e così appetibile possibile la vendita forzata e quindi il recupero e la stabilità del credito, il legislatore, con la modifica dell'art. 567 c.p.c., abbia invece indebolito lo "standard" di affidabilità e quindi di attrattività del bene trasferito in ottica di mercato, per di più trasferendo ogni rischio sull'acquirente con la sola garanzia per evizione..”
Da tutto quanto detto, la Corte di Cassazione desume, anche in termini logici, che è necessario acquisire documentazione che consenta di risalire all’atto di acquisto anteriore al ventennio in linea con i poteri ordinatori del G.E. in merito alle verifiche preliminari all’accoglimento dell’istanza di vendita, ma non quelli tipizzati dall’art. 567 c.p.c., fermo restando il rilievo meramente endoprocessuale della risultanza, sicché il giudice non accerta la proprietà del bene, con possibilità di proporre evizioni.
Più chiaramente, il giudice dell’esecuzione può addivenire alla sua statuizione anche sulla base di indici formali o presuntivi per limitare, per quanto possibile, il rischio di evizione.
Va così distinta l’ipotesi in cui il creditore non fornisca neppure la certificazione del ventennio, richiamata dal 567 c.p.c., da cui deriva un’ipotesi di estinzione tipica, dall’ipotesi di mancata produzione del primo titolo di acquisto ultraventennale che darà luogo ad una chiusura anticipata del processo esecutivo per fatto del creditore (non troverà applicazione l’art. 2945 co. 3 c.p.c.).
In definitiva, in tema di espropriazione forzata immobiliare, è doverosa la richiesta, da parte del g.e., della certificazione attestante che il bene pignorato appaia di proprietà del debitore esecutato sulla base di una serie continua di trascrizioni di idonei atti di acquisto riferibili al periodo che va dalla data di trascrizione del pignoramento fino al primo atto di acquisto precedente al ventenni.
“Alla mancata produzione del suddetto titolo, imputabile al soggetto richiesto, consegue la dichiarazione di chiusura anticipata del processo esecutivo”.
Il principio espresso, sebbene attualmente discusso dalla giurisprudenza di merito, non è solo nelle norme richiamate, ma trova fondamento in ragioni di giustizia sostanziale: la prosecuzione dell’esecuzione, pur a fronte di una causa oggettiva di incapacità della procedura di raggiungere il naturale esito, risultante ex actis, non solo stride con il principio di ragionevole durata del processo, ma finirebbe per aggravare indebitamente la posizione dell’esecutato, la cui tutela è al centro dell’odierno dibattito normativo e giurisprudenziale.
Non saprei dire quante volte ho raccontato questa storia, e non so neppure se adesso sto rielaborando quello che per anni ho rivisto ogni 19 luglio, la storia dei miei racconti, oppure sarò capace di una testimonianza vera.
Io quel giorno ero lì, il 19 luglio 1992 ero proprio lì, a Palermo.
Nel tardo pomeriggio di quella maledetta domenica io ero in via d’Amelio, nella confusione di una strada e di case sventrate, sul campo della sconfitta, e della paura.
Come tanti magistrati avevo trovato la mia prima sede in Sicilia, ero alla Procura di Sciacca da appena un anno quando saltò in aria l’autostrada. Passate alcune settimane da quei fatti sconvolgenti, sentita addosso la pioggia dei funerali davanti alla Chiesa di San Domenico, seguivo con una preoccupazione adrenalinica gli sviluppi delle inchieste, ma anche i discorsi e quei preziosi interventi in pubblico di cui Paolo Borsellino non volle privarci, fino all’ultimo
Ero anche un po’ egoista.
In quei giorni giravano strane voci su progetti d’attentati, venivano pubblicati trafiletti di stampa con riferimenti equivoci a “giovani magistrati nell’obiettivo” della mafia. Mi ritenevo così importante che per cercare rassicurazione lo chiamai, il venerdì sera prima di quel 19 luglio per sentirmi dire che erano notizie senza fondamento, che potevo stare tranquilla, o qualcosa del genere. Paolo Borsellino mi rassicurò. Non ricordo le parole che mi disse e questo mi tormenta proprio, perché se solo fossi stata più attenta adesso potrei raccontare una storia più interessante, e invece sfodero solo i ricordi dei sentimenti di una giovane magistrata, sollevata nel sapere che non ci poteva essere nulla di male che l’aspettava. Per questo il sabato sera mi ero ritrovata con amici a Palermo e poi l’indomani al mare, una bella domenica di luglio.
Invece il male c’era, eccome. Era in via D’Amelio ad aspettare Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
Di rientro dalle spiagge di Pollina iniziarono a squillare i telefoni dei miei amici, entrambi giornalisti palermitani, e mentre ci avvicinavamo alla città si vedeva la colonna nera di fumo alzarsi da quel punto verso il porto. Le prime notizie dicevano ben poco, via D’Amelio non era nella mappa dei luoghi noti e protetti in città, quelli davanti ai quali stavano i divieti di sosta (le camionette con i soldati dell’operazione Vespri siciliani sarebbero arrivate sei giorni dopo).
Giunti in città, ci si precipitò col motorino in via D’Amelio. In tutti questi anni ho cercato di estrarre dai miei ricordi quello che vidi allora, con chi parlai, cosa ascoltai in quei momenti e invece riesco solo a ricordare come ero vestita (un impresentabile copricostume) e come mi sentissi del tutto inutile e fuori luogo a starmene lì, a creare intralcio, girovagando tra strada e marciapiedi ingombri di cose che non saprei descrivere. Ogni anno, ad ogni anniversario, rivedo le immagini di quella strage in televisione e mi ostino a cercare qualcosa che mi ricordi me stessa, in quei luoghi, quella sera. Col tempo mi sono anche fatta una ragione di questo vuoto, credo davvero che la testa a volte decida di oscurare quello che vediamo e sentiamo per aiutarci a sopportarne l’esperienza.
Ogni anno, da allora, ho raccontato di quel pomeriggio e di quella sera, quando alcune ore più tardi ci si ritrovò, alcuni colleghi, interrogandoci e guardandoci in faccia per incoraggiarci ma senza riuscire a cavar nulla di buono.
Quella sera sentivamo davvero quello che di lì a poco avrebbe detto Antonino Caponnetto: “E’ finito tutto!”. Una settimana dopo, alla stessa ora di quella domenica pomeriggio, Rita Atria, testimone di giustizia a 17 anni, si uccise; ascoltando la sua testimonianza insieme ad Alessandra Camassa avevo conosciuto il Procuratore di Marsala, e questa sarebbe ancora un’altra storia..
In tutti questi anni ho narrato a classi di studenti, in iniziative di Libera, ai miei uditori, la mia storia, ogni volta tornando al giorno in cui perdemmo Paolo Borsellino, l’uomo, il magistrato che avevo avuto la fortuna di conoscere al mio primo incarico; ma non è la violenza di quella strage che merita il ricordo e non sono i particolari di quel pomeriggio che mi spingono a parlare e ora a scrivere.
Paolo Borsellino, visto da lontano, rappresentava per me qualcosa di irraggiungibile, un pezzo della storia della magistratura, il maxi processo, una parte importante delle ragioni per cui avevo fatto il concorso. Da vicino, con tutto il timore reverenziale del caso, fu una grande scoperta. Era davvero molto palermitano, conosceva l’accoglienza e la gentilezza, ma anche il parlare duro. Aveva sempre una gran voglia di insegnare qualcosa ai colleghi di prima nomina, e lo faceva, concretamente, anche se non citava l’ultima Cassazione.
Era un magistrato fedele all’impegno preso giurando sulla Costituzione e a lui, all’epoca anche presidente della Giunta distrettale dell’ANM, consegnai a la mia prima iscrizione ad una associazione di magistrati. Paolo Borsellino era un magistrato attento e impegnato, iscritto a Magistratura Indipendente, coinvolto nell’attività associativa.
Ecco allora non solo il desiderio, ma la necessità oggi, nel momento in cui l’intera magistratura appare colpita e piegata dalla perdita del sentimento della vergogna che ha infestato le nostre istituzioni di autogoverno e le relazioni associative, di ricordare e fare testimonianza del magistrato e dell’uomo, dell’esempio e del coraggio, dell’impegno e della disponibilità che la vita di Paolo Borsellino ci hanno lasciato in eredità, senza dimenticare che proprio perché così consapevole del ruolo che svolgeva Borsellino non si tirò mai indietro quando era il momento. L’esempio conta, ricordare è importante.
L’autrice affronta il tema della prevedibilità della giustizia sotto il profilo degli effetti economici ad essa collegati, analizza gli effetti degli interventi legislativi che si susseguono senza studio di impatto e degli interventi legislativi ambigui e di difficile interpretazione. Illustra infine come attraverso decisioni giurisprudenziali c.d. manipolative, tanto a livello europeo che a livello nazionale, si tenti di contenere i costi a carico della società derivanti dall’imprevedibilità.
Sommario 1. Prevedibilità della giustizia e certezza del diritto. - 2. Prevedibilità sotto un profilo di efficienza economica. - 3. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso Defrenne v. Sabena. - 4. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso della Illegittimità costituzionale della c.d. Robin Tax - 5. Conclusioni
1. Prevedibilità della giustizia e certezza del diritto
La prevedibilità della giustizia, quale logico corollario del principio della certezza del diritto, è principio immanente dell’ordinamento, destinato ad avere un profondo impatto sull’agire degli operatori economici.
A livello europeo, diverse sono le fonti giuridiche dalle quali è riconosciuto: in particolare l’articolo 7 della CEDU, e l’articolo 49 della Carta di Nizza così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Nel caso TAGARAS la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato: “tale principio, che forma parte integrante dell'ordinamento giuridico comunitario, esige che ogni atto dell'amministrazione che produca effetti giuridici sia chiaro, preciso e portato a conoscenza dell'interessato in modo tale che questi possegga la certezza del momento a decorrere dal quale l'atto stesso esiste ed è produttivo di effetti giuridici, segnatamente in riferimento all'esperibilità dei mezzi di impugnazione apprestati dalle norme […] [3]”.
A ben vedere, quando si parla di certezza del diritto non si parla solo della certezza della legge, ma anche della sua applicazione attraverso la prassi decisionale degli organi amministrativi e la giurisprudenza delle corti. Se analizzato sotto la lente della prevedibilità, tale principio assume, dunque, una duplice connotazione. Da una parte vincola il legislatore a formulare regole giuridiche determinate, chiare e precise, dall’altro vincola il giudice ad “un interpretazione ragionevole”, ovvero al dovere di scegliere in maniera prevedibile la giusta regola di diritto da applicare al caso concreto, assicurando coerenza applicativa: ogni persona deve essere posta in condizione di valutare e prevedere in base alle norme generali dell’ordinamento le conseguenze giuridiche della propria condotta. Esso costituisce, dunque, un valore al quale lo Stato deve tendere per garantire la libertà dell’individuo e l’uguaglianza di fronte alla legge.
All’interno del principio di certezza del diritto si dipanano quali corollari il principio del legittimo affidamento e non retroattività della legge, il principio di determinatezza e prevedibilità, ed il principio di coerenza applicativa. Diversi sono i risvolti concreti del principio di certezza del diritto: la tutela della libertà personale, attraverso la protezione degli individui dall’esercizio arbitrario del potere da parte dello Stato; la deterrenza, permettendo agli individui di comprendere quale condotta sia proibita; la fiducia nella legge; e, sotto un profilo economico, la riduzione dei costi e una migliore pianificazione delle attività economiche, sia a livello individuale che di governo. In questo senso, il principio non mira solo ad assicurare il rispetto della legge, quale funzione deterrente ma anche permettere che gli operatori economici compiano scelte razionali[4].
Le considerazioni sinora svolte devono essere vagliate anche alla luce di una prospettiva dinamica. Partendo dall’assunto che la regola giuridica sia chiara e determinata, e quindi prevedibile, è necessario, infatti, porre l’accento sullo ius superveniens. Modifiche legislative o degli ordinamenti consolidati spesso sono necessarie alla mutata realtà sociale, ma inevitabilmente incidono sulla prevedibilità. Vi è, infatti, un aggiustamento dell’esito giudiziario rispetto a cambiamenti che riguardano la società.
La mancanza di un riadattamento del diritto (sia attraverso un intervento legislativo che attraverso un’interpretazione aggiornata da parte delle corti) comporta un’inefficienza economica tanto maggiore, quanto maggiore è la discrepanza tra diritto applicato e realtà sociale, e, in questo senso, spesso l’affidamento alle regole esistenti deve essere sacrificato all’esigenze derivanti dai cambiamenti che accompagnano la società.
Al riguardo il quesito che bisogna porsi è dunque in che modo innovazioni giurisprudenziali, accompagnate da una riduzione della prevedibilità, siano efficienti economicamente. In particolare, è utile interrogarsi su quali parametri devono essere presi in considerazione per valutare l’efficienza economica di una modifica legislativa o giurisprudenziale.
2. Prevedibilità sotto un profilo di efficienza economica
Al fine di rispondere a tali interrogativi in dottrina, è stato rilevato che se da una parte i c.d. costi di affidamento aumentano con l'incertezza del diritto e la perdita di beni acquisiti a causa di una legge successivamente abrogata, dall’altra troppa aderenza alla legge determina il radicamento di regole che potrebbero diventare nel tempo inefficienti a causa del cambiamento sociale[5].
In termini di efficienza, quindi, si dovrebbe dare corso a cambiamenti legislativi o interpretativi solo quando i benefici (B) post modifica al netto dei costi (C), siano superiori ai benefici di mantenere inalterata la disciplina normativa al netto dei costi[6], ovvero:
B after – Cafter > B now – C now , non essendo sufficiente che B after > C now .
Sotto il profilo dei costi, in particolare, è possibile rintracciarne tre voci. In prima battuta devono essere considerati i c.d. costi transattivi, ovvero i costi sopportati dalle istituzioni nel redigere un nuovo testo normativo e monitorarne l’applicazione, nonché dalle corti nel compiere una svolta interpretativa. Si tratta di costi di trasmigrazione, c.d. switching cost, tipici nei mercati dei beni, ma che possono estensivamente essere valutati anche in relazione al “mercato legale”. Il fenomeno che può verificarsi è quello della c.d. path dependence, in forza della quale modifiche degli orientamenti che sarebbero benefiche alla luce di modificate situazioni sociali, non vengono compiute a causa degli alti costi di trasmigrazione.
Inoltre, vi sono i c.d. costi di affidamento: in alcuni casi si tratta di costi che non possono essere esclusi, come nel caso dei costi sostenuti dagli attori economici che compiono investimenti sulla base dell’attuale scenario legislativo e dei risvolti processuali prevedibili in quel dato momento. In questo senso investimenti effettuati alla luce della normativa vigente e dell’interpretazione che ne è invalsa, diventano una perdita economica netta nel caso in cui ci sia un’inversione di rotta. Questo potrebbe rappresentare un incentivo economico degli operatori a investire di meno.
In altri casi, però, tali costi sono ulteriormente aggravati da un minore prevedibilità del cambiamento nell’orientamento del giudice, e quindi nei casi di incertezza del diritto, di incoerenza interpretativa o poca chiarezza del dettato normativo. In questo caso il costo è maggiore poiché viene meno l’affidamento degli operatori economici su un’interpretazione normativa. Quando le leggi sono scritte male o quando sono difficilmente comprensibili, gli attori economici non possono basarsi in modo ottimale su di esse e quindi sopportano alcuni costi di interpretazione ex post tendenzialmente superiori ai costi risparmiati nella redazione ex ante.
Infine, deve essere considerato il c.d. costo del rischio. L’attitudine risk adverse degli operatori del diritto in relazione agli esiti non predicibili delle modifiche normative/interpretative comporta l’aumento di costi per la società per assicurarsi contro cambiamenti imprevisti, aumentando così il costo sociale complessivo relativo alle interazioni economiche. Questi costi concernono sia il costo derivante dalla necessità di assicurarsi rispetto a esiti giudiziari / modifiche legislative non prevedibili, che la riluttanza ad avere modifiche normative anche se desiderabili da un punto di vista di efficienza. Poiché (inefficienti) comportamenti opportunistici sono possibili solo nel tempo delle incertezze, l'imprevedibilità e l'inefficienza dei comportamenti opportunistici inducono le persone avverse al rischio a non entrare in rapporti giuridici che comportano tali incertezze.
Alla luce dei menzionati costi, è possibile concludere che il principio di certezza del diritto, e la prevedibilità della regola giuridica applicabile al caso concreto risponde ad una logica di efficienza economica (sia dal punto statico – allocativa e produttiva -, che dinamico – in termini di incentivi-) solo quando i sopra menzionati costi risultano essere minimizzati.
L’analisi sinora proposta rappresenta un passaggio essenziale quando si tratta di valutare l’impatto di una riforma legislativa, mostrando l’importanza di uno studio di impatto che di fatto è sembrato mancare in tutti i casi di interventi normativi registrati in Italia nell’ambito del processo civile e del processo penale. I governi che si sono succeduti negli ultimi decenni sono, infatti, intervenuti sul rito civile e penale, con l’obiettivo della “semplificazione” e dell’“efficienza” del processo, senza alcuno studio dell’impatto sui costi a carico della società derivanti dalle modifiche normative introdotte, in materia di formazione degli operatori, di rischio di errore interpretativo e in termini di prevedibilità della decisione.
Nessuna verifica di impatto economico è stata mai effettuata con riguardo alle riforme, né si è considerato che detti costi avrebbero potuto più efficacemente essere sostenuti per implementare le risorse disponibili considerato che, secondo la costante affermazione degli studiosi e degli operatori del diritto, l’irragionevole durata dei processi in Italia dipende dalla carenza di risorse umane e materiale e non già dalla disciplina del rito.
Ulteriore aspetto meritevole di considerazione è quello della necessità di coniugare le suddette valutazioni con il criterio di efficienza (o di compensazione) di Kaldor-Hicks, secondo il quale, una modificazione nell'allocazione delle risorse è efficiente se il benessere ottenuto da alcune componenti supera le perdite di benessere subite da altri componenti. Perché vi sia efficienza è fondamentale che coloro che subiscono una perdita di benessere siano compensati da coloro verso i quali la modificazione dell'allocazione ha operato favorevolmente[7].
In conclusione, una modifica legislativa e degli orientamenti interpretativi è efficiente quando questi costi sono minimizzati, e in generale quando chi subisce dei peggioramenti è compensato. Come avviene questo? Secondo la richiamata dottrina attraverso il risarcimento della violazione del legittimo affidamento e nella modulazione degli effetti del giudicato. In questo senso sarebbe possibile pervenire alla conclusione che non sempre l’imprevedibilità, se corretta, si accompagna ad inefficienza economica.
3. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso Defrenne v. Sabena[8]
Un esempio importante in questo senso è rappresentato dallo storico caso Defrenne v. Sabena. La questione riguardava un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea da parte del giudice belga, con il quale era stato sollevato il quesito dell’applicabilità della norma del Trattato di Roma che vieta la discriminazione in base al sesso, art. 119 TFUE, ai rapporti tra privati e se, nel caso di specie, la diversa età pensionistica per uomini e donne prevista dalla compagnia aerea Sabine rappresentasse una violazione di simile norma[9].
La questione aveva coinvolto tutti gli Stati, che si erano schierati a sostegno della compagnia aerea Sabena, dal momento che una eventuale pronuncia in favore del ricorrente, Defrenne, avrebbe esposto a rischio economico molte altre compagnie aeree.
Secondo l’opinione espressa dall’Avvocato Generale, tuttavia la Corte non avrebbe dovuto essere forviata dalla prospettazione economiche e politiche dei Paesi Membri, né cedere di fronte a quella che a suo avviso rappresentava in realtà una vera e propria discriminazione. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea disattese, tuttavia le conclusione dell’Avvocato Generale e percorse una terza via affermando che, sebbene dal trattato emergesse un nuovo diritto immediatamente applicabile anche nei rapporti tra privati, la Corte avrebbe potuto limitare per il passato gli effetti delle proprie sentenze anche nel caso di sentenze interpretative (e quindi non solo, come fino ad allora ammessa ex 174 TFUE nel caso di decisioni di annullamento) sia ratione temporis che ratione personae. L’articolo 174 TFUE è, infatti, espressione di un principio generale dal quale discende il potere in capo alla Corte di determinare l’efficacia temporale delle proprie sentenze.
La Corte quindi, rilevando che il riconoscimento dell'efficacia diretta dell'art. 119, con effetto retroattivo, avrebbe potuto avere, nella situazione dei datori di lavoro, ripercussioni tali da pregiudicare l'economia degli Stati membri, concluse che “eccezion fatta per i lavoratori che abbiano già promosso un'azione giudiziaria o proposto un reclamo equipollente, l'efficacia diretta dell'art. 119 non può essere fatta valere a sostegno di rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della presente sentenza”.
4. Modulazione degli effetti, quale correttivo dell’imprevedibilità degli esiti giurisprudenziali: Caso della Illegittimità costituzionale della c.d. Robin Tax [10]
A livello nazionale, la necessità di modulare gli effetti di sentenze dichiarative di incostituzionalità è emersa con particolare forza nel caso della pronuncia della Corte Costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria). La sentenza n. 10 del 2015, infatti, rappresenta il primo caso in cui la Corte Costituzionale si è esplicitamente riconosciuta la facoltà di modulare gli effetti temporali delle proprie decisioni. Alla base di simile intervento, vi sono una serie di considerazioni che rispondono a valutazioni in termini di efficienza economica. La Corte, infatti, dispone che «[…] la cessazione degli effetti delle norme dichiarate illegittime dal solo giorno della pubblicazione della presente decisione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica risulta, costituzionalmente necessaria allo scopo di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, in modo da impedire “alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri […] garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali” (sentenza n. 264 del 2012). Essa consente, inoltre, al legislatore di provvedere tempestivamente al fine di rispettare il vincolo costituzionale dell'equilibrio di bilancio, anche in senso dinamico (sentenze n. 40 del 2014, n. 266 del 2013, n. 250 del 2013, n. 213 del 2008, n. 384 del 1991 e n. 1 del 1966), e gli obblighi comunitari e internazionali connessi, ciò anche eventualmente rimediando ai rilevati vizi della disciplina tributaria in esame».
Scopo della Corte è quindi giungere a quell’equilibrio costi/benefici e, in ultima istanza, evitare che si creino effetti ancora più incompatibili con la Costituzione di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina.
5. Conclusioni
In conclusione, a seguito della breve disanima sinora svolta sembra che nel contemperamento tra esigenze di prevedibilità e di efficienza economica le Corti compiano uno sforzo al fine di modulare gli effetti delle proprie decisioni destinate ad avere un significativo impatto economico sulla società in certi casi compiendo una valutazione di impatto dei costi sociali più attenta di quella spesso compiuto dal legislatore nell’ambito di riforme sistemiche (come quelle del rito civile e penale).
Una simile modulazione degli effetti risulta, infatti, essenziale al fine di migliorare l’efficienza economica di scelte legislative o interpretative in sede applicativa.
Nei casi in cui manca un simile correttivo, al contrario, si può assistere ad una divaricazione tra scelte giurisprudenziali ed efficienza economica. A tal riguardo è utile richiamare come in dottrina sia stata rilevata la totale imprevedibilità di alcuni esiti decisionali in materia di concorrenza, prima fra tutto la decisione sul caso Google Search[11] attraverso la quale la Commissione ha imposto una sanzione record di €2.42 miliardi per violazione dell’articolo 102 TFEU. Il problema era quello dell’inquadramento tra le fattispecie anti concorrenziali della condotta di Google, la quale avrebbe favorito il proprio servizio di comparazione dei prezzi Google shopping a discapito delle proprie concorrenti, abusando della propria posizione di dominanza nell’attiguo mercato della ricerca su internet.
Si tratta di un’area dove la protezione della certezza del diritto e la necessaria prevedibilità deve essere bilanciata con la necessità di assicurare una repressione di nuove condotte di mercato, al passo con il nuovo sviluppo tecnologico e sociale. Tuttavia, è stato in dottrina rilevato come una modulazione degli effetti, anche attraverso l’adozione dei c.d. programmi di clemenza o attenuanti, avrebbe potuto ricondurre la decisione entro margini di maggiore prevedibilità, evitando elevati costi che potrebbero avere anche ricadute sociali in termini di disincentivo all’innovazione[12].
[1] Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Camera), del 15 giugno 1978, caso Defrenne v Sabena, C-149/77.
[2] Sentenza della Corte Costituzionale del 9 febbraio 2015, n.10/2015.
[3] Sentenza del Tribunale Della Funzione Pubblica Dell’Unione Europea (Prima Sezione) 15 giugno 2010, C-18/89.
[4] Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Dike, 2018.
[5] O. Gough e J. Tanega, The principle of legal certainty as a principle of economic efficiency Aurelien Portuese, in European Journal of law and economics, 2017, 44, 131–156.
[6] Becker, Nobel Lecture: The Economic Way of Looking at Behavior, in The Journal of Political Economy Vol. 101 (1993) 385-409.
[7] Posner, Economic Analysis of Law, 9° edizione (Wolters Kluwer 2014), capitoli 1 & 2; Veljanowski, The Economics of Law 2° edizione (iea 2006), 44-80.
[8] Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Camera), del 15 giugno 1978, caso Defrenne v Sabena, C-149/77.
[9] Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Cedam, 2012.
[10] Sentenza della Corte Costituzionale del 9 febbraio 2015, n.10/2015.
[11] Decisione della Commissione Europea del 27 giugno 2017, caso Google Search, AT.39740.
[12] Wills, The Increased Level of Antitrust Fines, Judicial Review, and the European Convention on Human Rights, World Competition, 33(1)/2010, 5. Sul punto si rinvia a Ezrachi, EU Competition Law Goals and the Digital Economy, Oxford Legal Studies Research Paper, 17/2018; Petit, Are 'FANGs' Monopolies? A Theory of Competition under Uncertainty, 7 luglio 2019 disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=3414386.
Consenso informato e falso ideologico: nessun obbligo certificativo del medico sull’autenticità della sottoscrizione del paziente. Nota a Trib. Roma, Sez. G.I.P., sent. 27 marzo 2019 (dep. 19 aprile 2019), giud. E. Pierazzi
Sommario: 1. La decisione. - 2. La disciplina del consenso informato, tra approdi giurisprudenziali e sopravvenienze normative. - 3. Doveri informativi e poteri certificativi: quale la possibile rilevanza dell’art. 479 c.p.?
1. La decisione.
La pronuncia concerne l’addebito, quale ipotesi ex art. 479 c.p., della falsificazione della sottoscrizione del paziente in calce al modulo di consenso informato all’esecuzione di intervento chirurgico, integrante, secondo l’assunto accusatorio, falsa attestazione di ricezione di dichiarazione di volontà, consumatasi con l’apposizione della firma del medico curante. L’Autorità giudiziaria ha ritenuto insussistente il fatto tipico di reato, per difetto di attività certificativa dell’autenticità della sottoscrizione, attesa la differente natura dell’atto del professionista, quale mero adempimento del dovere informativo sullo stesso gravante (con conseguente diverso significato giuridico della sottoscrizione del medico, da reputarsi unicamente attestazione della propria attività, non anche della ricezione di dichiarazioni altrui). La sentenza che s’annota offre, invero, un interessante contributo ermeneutico in tema di qualificazione giuridica dell’atto di consenso informato, quale connubio (a struttura essenzialmente paritetica e speculare) tra dovere informativo del medico e consapevole dichiarazione di volontà del paziente sul trattamento terapeutico, ove all’adempimento del primo si attribuisce valore di semplice dichiarazione di scienza (sul proprio operato), con assenza, dunque, di portata certificativa del consenso eventualmente prestato, tale da rendere non sussumibile nella fattispecie incriminatrice in contestazione l’eventuale accertamento di falsità della sottoscrizione del paziente.
2. La disciplina del consenso informato, tra approdi giurisprudenziali e sopravvenienze normative.
La decisione prende le mosse dall’analisi del consolidato orientamento di legittimità secondo cui il consenso informato al trattamento terapeutico integra non già scriminante della condotta eventualmente tipica (ai sensi dell’art. 50 c.p.), bensì presupposto di validità e liceità dell’attività medica. Sul punto si veda, ex multis, Cass. pen., S.U., 21 gennaio 2009, n. 2437, ove s’è affermato come il consenso informato (espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico) si configuri quale vero e proprio diritto della persona, trovando fondamento nei principi espressi all’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., la cui combinata lettura pone il principio dell’autodeterminazione in ambito terapeutico, inteso, dunque, come intrinseco limite alla doverosa attività di tutela della salute. Così anche C. cost., 23 dicembre 2008, n. 438, ove sono pure passate in rassegna le numerose fonti internazionali che detto diritto sanciscono (tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. 27 maggio 1991, n. 176, e la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina di Oviedo del 4 aprile 1997, ratificata con l. 28 marzo 2001, n. 145).
Pare, infine, doveroso l’esame della più recente normativa interna che, sebbene non applicabile al caso oggetto di scrutinio ratione temporis, definitivamente detta la disciplina del consenso informato, quale precipitato dell’esperienza giurisprudenziale in commento. Si fa riferimento alla l. 22 dicembre 2017, n. 219, volta alla promozione e valorizzazione della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, fondata sul consenso informato, «nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico» (art. 1, comma 2). Pertanto, «ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico» (art. 1, comma 3). Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, «è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico» (art. 1, comma 4). Così garantito il consapevole approccio al percorso terapeutico, è infine sancito il diritto al rifiuto, in tutto o in parte, di qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, al pari del diritto di revocare, in qualsiasi momento, il consenso eventualmente già prestato, quand’anche ciò determini interruzione del trattamento in corso, con obbligo per il medico di rispettare la volontà del paziente e conseguente esenzione da responsabilità civile o penale (art. 1, commi 5-6).
3. Doveri informativi e poteri certificativi: quale la possibile rilevanza dell’art. 479 c.p.?
L’enunciato di cui all’art. 1, comma 2, l.n. 219/17, secondo il quale il consenso informato realizza la fusione tra autonomia decisionale del paziente e competenza professionale e responsabilità del medico, integra adeguato riscontro alla tesi sostenuta nella pronuncia in commento, con particolare riferimento alla natura composita dell’atto, data dalla convergenza di una dichiarazione di volontà e d’una dichiarazione di scienza (quanto al contributo informativo, attestato dal professionista). Tanto consente di limitare alla sola osservanza dell’obbligo d’informazione la potestà certificativa del medico e, pertanto, di reputare configurabile il delitto unicamente in caso di falsa attestazione dell’adempimento (riconducibile alla prima ipotesi contemplata dall’art. 479 c.p.), di contro non ravvisandosi, per struttura dell’atto (ampiamente descritta) e difetto di espressa attribuzione di poteri certificativi sulla provenienza del consenso, i presupposti della seconda ipotesi di cui alla disposizione incriminatrice (concernente la falsa attestazione di ricezione di dichiarazioni, in contestazione nel giudizio definito con sentenza di non luogo a procedere).
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