ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Stefano Petitti[i]
Il libro di Roberto Conti rappresenta un importante contributo allo studio e alla sistematizzazione di tematiche di grande rilievo e di grande complessità. Il pregio maggiore, a me sembra, sia il tentativo, più ancora che di dare soluzioni a questioni quali quelle evocate nel titolo (questioni di vita e di morte), di individuare un metodo per porre in condizioni il giudice di orientarsi e pervenire alla decisione auspicabilmente più giusta e più aderente al caso della vita sottoposto alla sua attenzione.
E questo metodo mi pare sia caratterizzato, in primo luogo, dal principio di collaborazione, declinato sia nel rapporto tra giudice e legislatore, quale espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica di cui all’art. 54 Cost., sia all’interno delle diverse giurisdizioni, nazionali e sovranazionali; in secondo luogo, dal ricorso alla comparazione quale criterio per la soluzione di casi nuovi.
Il tutto ispirato dalla esigenza di orientare le soluzioni di volta in volta necessarie alla tutela della dignità umana.
Indubbiamente, il nostro ordinamento, da ultimo con l’approvazione della legge n. 219 del 2017, alla quale risulta in gran parte dedicato il libro, ha espressamente accomunato la dignità al livello dei diritti fondamentali alla vita alla salute e all'auto-determinazione della persona (art. 1, comma 1) e poi esplicitando la necessità del rispetto alla dignità nella fase finale della vita (art. 2), ed ancora affermando che le manifestazioni di volontà relative ai trattamenti sanitari dei minori e degli incapaci, siano finalizzate al rispetto della dignità degli stessi.
Con tale legge, ricorda Conti, il nostro ordinamento ha sostanzialmente normativizzato alcune soluzioni giurisprudenziali adottate nella seconda metà del decennio scorso in tema di interruzione di terapie salvavita. Soluzioni giurisprudenziali intervenute in una situazione di carenza normativa, rispetto alla quale i giudici si sono fatti carico di individuare, sulla base dei principi e attraverso il metodo di cui si è detto, la soluzione al caso della vita sottoposto alla loro attenzione. Quale fosse la portata innovativa e di quelle decisioni risulta del resto evidente anche nella vicenda più recente, e cioè quella alla quale si riferisce l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale.
In tale vicenda, infatti, viene dato per acquisito in fatto che alla parte interessata, prima ancora della approvazione e della entrata in vigore della legge n. 219, è stata prospettata la possibilità della interruzione dei trattamenti terapeutici in atto; pratica, questa, ritenuta ammissibile, in quel momento, solo sulla base dei principi giurisprudenziali.
Orbene, che quei principi e quelle soluzioni fossero finalizzati alla tutela della dignità della persona interessata a sospendere i trattamenti sanitari, oltre ad emergere in modo chiaro dalle decisioni stesse, è oggi una realtà normativa.
Come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 293 del 2000), la tutela della dignità della persona umana è un valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque orientare sia l'interpretazione delle disposizioni esistenti, ove la loro applicazione sia suscettibile di incidere su quel valore, sia la individuazione della soluzione più adeguata al caso concreto, ove l’ordinamento presenti una lacuna nella disciplina della fattispecie.
Quanto al tentativo di definire il concetto di dignità, Conti afferma essere “insito nel concetto di dignità ed, anzi, ne rappresenta la forza vivificante, il carattere composito, al cui interno convivono la dignità come valore intrinseco di ciascun essere umano, che impedisce ogni attentato alla libertà, identità ed integrità della persona, ma anche la dignità come merito sociale e ancora la dignità come diritto all’autodeterminazione o come statura morale di una persona rispetto a determinati comportamenti di rilievo morale o come autopercezione del proprio valore”, evidenziando, ad un tempo, per un verso la difficoltà di enucleare dal concetto “dei connotati oggettivi e standardizzati e, per l’altro verso, la necessità di usare estrema accortezza nell’utilizzare il canone della dignità come risolutivo rispetto ai vari casi che si possono presentare innanzi al giudice”.
In realtà, nelle interpretazioni giurisprudenziali, ma anche nella ricostruzione del valore “dignità” espresse dalla dottrina, possono individuarsi due diverse prospettive della rilevanza giuridica della dignità. Per un verso, la dignità coincide sostanzialmente con l’attributo primo e irrinunciabile della persona: si tratta di un concetto che discende dal principio personalista che ispira il nostro ordinamento e in forza del quale la persona merita assoluto rispetto di per sé. Per altro verso, essa, pur configurandosi come un presupposto del riconoscimento del valore della persona in quanto tale, opera anche con riferimento all’essere umano nella sua vita di relazione e più in generale, all’essere umano come soggetto della società in cui vive, in una dimensione che supera quella della tutela dell’individuo, per cogliere quest’ultimo nei suoi rapporti con gli altri.
L’applicazione del valore della dignità della persona umana, proprio per la sua qualificazione come valore costituzionale, investe sia il giudice comune che la Corte costituzionale e nel rapporto tra tali organi si cerca di pervenire alla individuazione della soluzione più appropriata al caso; soluzione che può essere quella della interpretazione costituzionalmente conforme o, venendo in rilevo diritti fondamentali, convenzionalmente e comunitariamente conforme, ovvero attraverso la proposizione di questioni di legittimità costituzionale e, in questo secondo caso, attraverso la adozione di soluzioni interpretative di rigetto o di accoglimento.
Nel considerare il rapporto tra giudice comune e corte costituzionale, vengono qui alla mente le questioni concernenti l'art. 1 della l. n. 164 del 1982, e il successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, in relazione alle quali la Corte di cassazione ha affermato, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata, che per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale. Qui la dignità umana opera in modo prevalentemente soggettivo, valorizzandosi in termini assoluti la volontà e la concezione che la persona ha di se stessa, ritenendosi prevalente tale profilo sul concorrente interesse pubblico alla stabilità dello status. Tale connotazione risulta ancor più evidente ove si consideri che la soluzione affermata dalla Corte di cassazione è stata assunta dalla Corte costituzionale a fondamento della decisione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, che pure era stata sollevata in proposito, nella quale si rileva che il ragionevole punto di equilibrio tra le molteplici istanze di garanzia è stato individuato affidando al giudice, nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l'entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l'identità personale e di genere.
Sotto altro profilo, invece, per una diversa colorazione del valore della dignità umana, assumono rilievo le decisioni in tema di riconoscimento di sentenze straniere di attribuzione dello status di filiazione in assenza di rapporto biologico tra il genitore intenzionale e il minore. Il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari. E qui, giocano un ruolo assai significativo le decisioni della Corte costituzionale, nelle quali si esplicita “l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale”.
Ecco, quindi, che la previsione di una sanzione penale per una determinata condotta sembrerebbe precludere la possibilità di ritenere la stessa espressione di dignità umana e quindi di consentirne una comparazione e un bilanciamento con altri valori che si ritengano a loro volta espressione della dignità della persona.
Un simile approccio è però contraddetto dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, la quale, pur in presenza di una disposizione che sanziona penalmente l’aiuto al suicidio, ha enucleato alcuni elementi del fatto che possono essere ritenuti, da un lato, espressivi della particolare rilevanza del principio personalista che ispira il nostro ordinamento e, quindi, del principio di autodeterminazione, da tutelare ora in via tendenzialmente assoluta anche per disposizione di legge ordinaria; dall’altro, ha dubitato – anzi, ha accertato ancorché non dichiarandola - la non conformità a costituzione della sanzione penale prevista nei confronti di chi agevoli il suicidio nel caso in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
A tale accertamento, ancora non dichiarato, la Corte perviene valorizzando in termini assai espansivi il valore della dignità della persona umana, ritenendo che sia meritevole di tutela anche la percezione soggettiva e personale della propria dignità da parte di un malato che venga a trovarsi in quelle condizioni (non consentendo al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte - si afferma -, “si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”).
La prestazione di aiuto nei confronti del malato, quindi, non integrerebbe la violazione del precetto penale allorquando quell’aiuto sia strettamente strumentale alla realizzazione di un proposito consapevolmente maturato da parte del soggetto o al momento della formulazione della richiesta ovvero in anticipo, secondo le modalità di cui alla legge n. 219 del 2017.
Ciò che viene in rilievo è, dunque, la percezione che ciascun individuo ha di se stesso e tale percezione è a tal punto significativa da poter escludere dall’ambito del penalmente rilevante una condotta che quella convinzione di sé concorra a realizzare.
In proposito, mi pare assumano un rilievo del tutto particolare alcune affermazioni contenute in una sentenza della Corte costituzionale (n. 467 del 1991) che, pur se formulate in relazione alla obiezione di coscienza al servizio militare per motivi religiosi o filosofici, assumono una portata di carattere generale, tanto da consentire di individuare in esse la esplicitazione del concetto di dignità umana. Afferma la Corte nella citata decisione che “a livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.
Di qui deriva che - quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell'uomo, (…) - la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell'idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale (…), la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall'assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”.
La valorizzazione della coscienza individuale quale fondamento della dignità umana può operare, dunque, come causa di esclusione della illiceità penale allorquando la stessa si collochi in un contesto di concorrente sussistenza di interessi meritevoli di tutela in quanto espressivi di valori costituzionali. E così, nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare, la Corte ha ritenuto che il valore della coscienza individuale dovesse essere dal legislatore posto in bilanciamento con altri interessi pure costituzionalmente tutelati, ed ha ritenuto prevalente la tutela del valore individuale. Una simile opera di bilanciamento pare indispensabile allorquando la coscienza individuale venga opposta all’adempimento di un dovere penalmente sanzionato.
Nel caso dell’art. 580 c.p., invece – e limitando per ovvie ragioni di rilevanza le considerazioni alla sola ipotesi di agevolazione del suicidio in favore di un soggetto consapevolmente determinatosi a togliersi la vita e tuttavia impossibilitato a perseguire il proprio proposito autonomamente – ciò che viene in rilievo ai fini della affermazione del valore della coscienza individuale non è l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente: la legge n. 219 del 2017, invero, ha consacrato l’inesistenza di un dovere di vivere.
E’ questo un dato che la stessa Corte costituzionale ha rilevato, affermando nella ordinanza n. 207 che “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (…) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. “Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce quindi per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.
Se così è, allora, l’agevolazione nella realizzazione della consapevole scelta di interrompere la propria vita da parte di un soggetto che si trovi nelle descritte condizioni si risolve nell’affermazione più piena della dignità della persona, intesa quale coscienza che quella persona ha di se stessa. Né in ipotesi siffatte potrebbe opporsi la sussistenza della condizione che giustifica, nella impostazione prescelta dalla Corte costituzionale, la persistente validità della previsione di una sanzione penale per la condotta di aiuto nei confronti del suicida, e cioè la vulnerabilità di quest’ultimo. Nelle ipotesi delineate, infatti, ciò che certamente non fa difetto alla persona che invoca la realizzazione della propria dignità attraverso un ausilio nella morte, sono proprio quelle condizioni la cui mancanza potrebbe far ipotizzare una scelta non sufficientemente consapevole, e segnatamente l’assistenza familiare e le cure.
Certo, la stessa Corte costituzionale ha ritenuto di non poter dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nei termini prima indicati, rilevando la indispensabilità di un intervento del legislatore. Tale intervento non si è verificato, sicché, tra pochi giorni, la Corte costituzionale sarà nuovamente investita della questione.
Molto si è scritto sulla vicenda, sia quanto alla tipologia della decisione adottata sia quanto alla efficacia della stessa, se cioè in essa sia contenuta un’anticipazione di una decisione già assunta ovvero se la formula adottata – rinvio della trattazione delle questioni sollevate – implichi la piena disponibilità, da parte del Collegio della decisione, che potrebbe in ipotesi non comportare una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Tuttavia, quale che sia la decisione che la Corte adotterà, credo si possa sin d’ora affermare che la stessa non potrà essere risolutiva, rimanendo sempre affidato al giudice comune il compito di assicurare la tutela della dignità umana. E’ infatti possibile ipotizzare – e in molti commenti già lo si è fatto – che la resecazione della ipotetica illegittimità costituzionale possa creare un deficit di tutela della dignità di quelle persone che, pur trovandosi nella medesime condizioni patologiche in cui si è trovato l’Antoniani, non sono tuttavia tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.
Così come suscettibile di valutazione in ambito giudiziario sarà sempre e comunque l’accertamento della consapevolezza e libertà della scelta praticata dalla persona e del suo convincimento della possibilità di affermare la propria dignità attraverso l’abbandono della vita.
Ciò che conta è che il giudice comune chiamato a dare soluzione a tali nuovi casi si accosti alla decisione con la metodologia ampiamente evidenziata nel libro di Conti, in uno spirito di fedeltà e di leale collaborazione sia rispetto agli altri organi giurisdizionali, sia rispetto alle determinazioni del legislatore ove queste dovessero intervenire.
Ed è questo credo il messaggio più forte che si trae dalla lettura del libro di Roberto: il giudice è certamente garante della dignità umana.
Intervento svolto al convegno svoltosi presso l’Aula Giallombardo della Corte di Cassazione il 10 settembre 2019 sul tema “Il giudice è garante della dignità umana?”
Una notazione sull’inadeguata recente “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA di Giuseppe Licastro
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Una limitazione inopportuna… – 3. Per di più… – 4. Una (piccola-grande) digressione… – 5. La « flessibilità » delle organizzazioni criminali…
1. Introduzione.
La recente “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA, segnatamente di ritirare provvisoriamente gli assetti navali dispiegati nel Mediterraneo centromeridionale per la durata della proroga, ossia fino alla fine del mese di settembre del 2019 (cfr. il corrispondente comunicato stampa del 29 marzo 2019; nonché la decisione (PESC) 2019/535 del Consiglio, p. 2), costituisce una restrizione significativa nel quadro dell’azione di contrasto da parte dell’Unione Europea al fenomeno del traffico di migranti nonché della tratta di esseri umani. Tale “intesa” (cfr. ancora il suddetto comunicato stampa) ha stabilito che l’operazione SOPHIA continuerà ad attuare il suo «mandato, aumentando la sorveglianza con mezzi aerei e rafforzando il sostegno alla guardia costiera e alla marina libiche nei compiti di contrasto in mare attraverso un monitoraggio potenziato, anche a terra, e continuando la formazione» (sulla nota operazione SOPHIA, v., tra gli altri, M. Gestri, EUNAVFOR MED: Fighting Migrant Smuggling under UN Security Council Resolution 2240 (2015), in Italian Yearbook of International Law, 2016, p. 21 ss., A. Annoni, Il ruolo delle operazioni Triton e Sophia nella repressione della tratta di esseri umani e del traffico di migranti nel Mediterraneo centrale, in Dir. Un. Eur., 2017, p. 835 ss., da ultimo G. Salvi, New Challenges for Prosecution of Migrants Trafficking: from Mare Nostrum to EUNAVFOR MED. The Experience of an Italian Prosecution Office, in B. Majtényi, G. Tamburelli (a cura di), Human Rights of Asylum Seekers in Italy and Hungary. Influence of International and EU Law on Domestic Actions, Torino/The Hague, 2019, p. 227 ss.). Appare peraltro criticabile la scelta di potenziare il sostegno alla guardia costiera libica, che nello svolgere le operazioni di soccorso utilizza modalità operative lesive dei diritti umani. La United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL) ha documentato «the use of firearms, physical violence and threatening or racist language by coastguard officials during search and rescue operations in Libyan and international waters, which induces panic among people in unseaworthy vessels seeking assistance» (cfr., più diffusamente, il report dell’UNSMIL realizzato unitamente all’Office of the High Commissioner for Human Rights, del 18 dicembre 2018, Desperate and Dangerous: Report on the human rights situation of migrants and refugees in Libya, punto 5.2 Dangerous sea crossings and rescues, specialmente p. 35 ss.).
La decisione di sospendere temporaneamente lo spiegamento delle forze navali dell’operazione, circa il ritiro temporaneo degli assetti navali, è frutto delle conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2018, conclusioni volte fondamentalmente all’elaborazione del «concetto di piattaforme di sbarco regionali per le persone salvate in mare» e del concetto di «centri sorvegliati», da creare negli Stati membri (naturalmente dell’UE), ma «su base volontaria» (altresì di interesse il comunicato stampa della Commissione del 24 luglio 2018, Gestione della migrazione: la Commissione approfondisce i concetti del sistema degli sbarchi e dei “centri controllati”: doc. IP/18/4629; da richiamare, però, le perplessità manifestate da F. Maiani, “Regional Disembarkation Platforms” and “Controlled Centres”: Lifting The Drawbridge, Reaching out Across The Mediterranean, or Going Nowhere?, in RefLaw, 14 settembre 2018, nonché da S. Marinai, Extraterritorial Processing of Asylum Claims: Is It a Viable Option?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2018, p. 481 ss.).
2. Una limitazione inopportuna…
Si tratta tuttavia di una limitazione quanto mai inopportuna, come dimostra chiaramente un recente avvistamento che documenta un modus operandi dei trafficanti di migranti che utilizza ancora una volta lo schema della c.d. nave madre con una piccola variante (invero già nota, infra). Il trasbordo dei migranti (dalla c.d. nave madre) e lo sbarco sulle nostre coste si realizzano mediante un barchino trainato dalla c.d. nave madre, il barchino serve infatti a proseguire verso e infine sbarcare sulle nostre coste italiane dopo essere stato riempito con il “carico” umano. Peraltro la documentazione di questo caso, il video, risulta postato sul profilo twitter dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (testo del tweet del 22 giugno 2019 che precede il video: «Wait, wait. Why is that fishing trawler towing an empty wooden boat at high seas???»), altresì inserito successivamente sul sito di detta agenzia FRONTEX (FRONTEX detects mother boat smuggling people, 24 giugno 2019. La cronaca di questo recente caso nonché di questo già noto modus operandi dei trafficanti appare sul Corriere della Sera, firmato da S. Toscano, il 22 giugno 2019, p. 19).
Da menzionare un “dettaglio” che figura nel sollecito comunicato stampa sul sito della Guardia di Finanza (21 giugno 2019): «Alle ore 13.20 un aereo operante nel progetto MAS dell’Agenzia Frontex, attraverso il National Coordination Centre del Ministero dell’Interno, ha documentato, a circa 60 miglia a sud dell’isola di Lampedusa, il trasbordo di un considerevole numero di migranti [81] da un motopesca su di una imbarcazione più piccola, alla quale era affiancato. Dopo il trasbordo, le due imbarcazioni si allontanavano con rotte opposte, dirigendo, la prima verso le coste libiche e la seconda carica di migranti verso le coste italiane». Il comunicato stampa menziona, altresì, l’istituto del diritto di inseguimento, previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 (all’art. 111), allo scopo di asseverare la giurisdizione penale nazionale in alto mare (riguardo detto istituto, v. U. Leanza, F. Graziani, Poteri di enforcement e di jurisdiction in materia di traffico di migranti via mare: aspetti operativi nell’attività di contrasto, in La Comunità Internazionale, 2014, pp. 178-179). Su questa base la squadra d’abbordaggio del Pattugliatore Veloce PV 4 Avallone della Guardia di Finanza assumeva il controllo della nave madre, mentre le vedette della Guardia di Finanza e della Capitaneria di porto fermavano il barchino a 4 miglia dal Porto di Lampedusa, dove venivano fatte sbarcare le 81 persone a bordo.
Si discute, appunto, di un avvistamento operato nel quadro del dispositivo Multipurpose Aerial Surveillance (MAS): vale la pena consultare taluni risultati operativi esplicativi di tale dispositivo che appaiono, peraltro, sul Frontex annual activity report 2017 (doc. n. 10525/18 FRONT 199 COMIX 352, del 27 giugno 2018, p. 29, disponibile sul sito Statewatch), al fine di comprendere il funzionamento e le finalità di questo dispositivo (MAS), teso, all’attività di rilevamento (rectius osservazione), nonché predisposizione di operazioni di Search and Rescue e di contrasto al crimine transfrontaliero. Tale dispositivo (MAS) sembrerebbe quindi uno strumento in grado di supplire al ritiro (quantunque provvisorio) degli assetti navali dispiegati nel Mediterraneo centromeridionale.
A fronte di episodi come quello appena descritto (supra), la sospensione dello spiegamento delle forze navali appare, invece, a dir poco discutibile. Prima di questa considerevole restrizione gli assetti navali dell’operazione SOPHIA si dispiegavano addirittura in prossimità delle acque territoriali libiche… (v., a titolo esemplificativo, un riferimento in tal senso, che figura nel quadro dell’Annual report on the implementation of Regulation (EU) 656/2014, annualità 2017, doc. n. 11129/18 FRONT 229 COMIX 402, del 16 luglio 2018, p. 8). L’operazione SOPHIA era entrata da tempo (dal 7 ottobre 2015) nella prima parte della seconda fase dell’operazione, vale a dire, poteva concretamente «procedere all’esecuzione di fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta, secondo quanto previsto dal diritto internazionale, incluse le pertinenti disposizioni contemplate dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982 e dal Protocollo sullo smuggling di migranti, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000» (si veda il mio contributo pubblicato in dUE - Osservatorio europeo nel mese di dicembre 2015, in cui si richiamava l’attenzione sul considerando n. 6 della rettifica parziale della decisione (PESC) 2015/778 del Consiglio, relativamente all’osservanza delle pertinenti disposizioni contemplate dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, dal principio di non-refoulement e dalla disciplina internazionale a tutela dei diritti umani, un profilo da non trascurare...: in argomento, v. i successivi contributi di F. Mussi, Countering migrant smuggling in the Mediterranean Sea under the mandate of the UN Security Council: what protection for the fundamental rights of migrants?, in The International Journal of Human Rights, 2017, p. 488 ss., e di L. Salvadego, Il rispetto dei diritti umani fondamentali nel contrasto al traffico di migranti attraverso il Mediterraneo centrale, in Il Diritto Marittimo, 2017, p. 1122 ss.).
3. Per di più…
Va inoltre considerato che l’operazione THEMIS, lanciata dall’agenzia FRONTEX nel febbraio 2018 (in sostituzione di TRITON), con il mandato di aiutare l’Italia a fronteggiare i flussi provenienti da Turchia e Albania (zona est), Libia, Tunisia e Algeria (zona ovest), ha in realtà previsto una ridotta capacità operativa delle nostre unità navali impiegate, portata del raggio d’azione limitata solo alle 24 miglia marine… (“particolari” che figurano sul sito del (nostro) Ministero dell’Interno, mese di febbraio 2018).
4. Una (piccola-grande) digressione…
Sembra comunque interessante, a questo punto (della disamina), fare una digressione, quindi richiamare, il recente d.l. 14 giugno 2019, n. 53, c.d. decreto sicurezza-bis (in GURI online), che, all’art. 1, ha introdotto modifiche all’art. 11 del Testo Unico immigrazione, immettendo un nuovo comma 1-ter, dal tenore seguente: «Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689 [in GURI online; il riferimento attiene, più che probabilmente, al «carico o» allo «scarico» di «persone», relativamente alle leggi in materia di immigrazione «vigenti nello Stato costiero»]. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri» (sul c.d. decreto sicurezza-bis, v.: S. Zirulia, Decreto sicurezza-bis: novità e profili critici, in Diritto penale contemporaneo, 18 giugno 2019; A. Natale, A proposito del decreto sicurezza-bis, in Questione Giustizia, 20 giugno 2019; I. Papanicolopulu, Tutela della sicurezza o violazione del diritto del mare?, in SIDIBlog, 26 giugno 2019; E. Zaniboni, Quello che le norme non dicono. Le ambiguità del decreto sicurezza-bis, la gestione dei flussi migratori e l’Europa che verrà, in SIDIBlog, 26 giugno 2019; L. Masera, La crimmigration nel decreto Salvini, in La legislazione penale, 24 luglio 2019, p. 44 ss.). La limitazione o il divieto di ingresso, transito o sosta nella fascia di mare territoriale, previsti da tale innovazione, esula rectius sgombra quindi dal “campo” di applicazione solo le unità della flotta navale militare o le «navi in servizio governativo non commerciale». Per quanto concerne l’operazione SOPHIA (tanto pour parler), ovviamente si serviva di navi militari (ad esempio, la nave Cavour), che percorrevano le acque territoriali sino ad approdare al porto di sbarco assegnato… (per dire che l’operazione SOPHIA avrebbe avuto naturalmente accesso, transito o sosta, nella fascia di mare territoriale; sostanzialmente “bandita”, invece, alle navi delle ONG: in argomento, da ultimo, v. C. Pitea, S. Zirulia, “Friends, not foes”: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta, in SIDIBlog, 26 luglio 2019).
Vale la pena di aggiungere (sia consentito: la digressione continua), che l’impianto generale del comma 1-ter (dell’art. 11 del Testo Unico immigrazione), è stato (però) oggetto di significativi rilievi in sede di audizione presso le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati (2 luglio 2019), audizione concernente proprio il c.d. decreto sicurezza-bis… (si rinvia opportunamente all’interessante testo della relazione, depositata, di G. Cataldi, dal titolo Audizione informale nell’ambito dell’esame del disegno di legge C. 1913 Governo, di conversione in legge del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica’, specie il punto 2., p. 3 ss.; tra l’altro, risulta disponibile qui la registrazione video dell’audizione di G. Cataldi, a partire da 30’:26”, nonché ivi, le audizioni, parimenti interessanti, di C. Pitea e di F. De Vittor, a partire, rispettivamente, da 15’:02’’ e da 45’:55’’. Per completezza (sia consentito ancora: per chiudere la digressione): il disegno di legge n. 1437, di conversione del c.d. decreto sicurezza-bis, ha apportato, con riferimento proprio all’articolo 1 di detto decreto, modificazioni solo dal punto vista meramente stilistico, marcate in grassetto: v. la corrispondente documentazione consultabile sul sito del Senato della Repubblica, p. 17; il testo (ovviamente di conversione) approvato dal Senato, il 5 agosto 2019, figura altresì sul sito del Senato della Repubblica).
5. La « flessibilità » delle organizzazioni criminali…
Al termine di questa breve e mirata notazione sull’inadeguata “intesa” di limitare il mandato di EUNAVFOR MED – operazione SOPHIA, si ritiene confacente riprendere taluni aspetti delle considerazioni finali contenute nel significativo contributo (parte di un progetto di ricerca piuttosto datato: correva l’anno duemilaquattro…), di una stimata studiosa (l’apporto della scienza sociale appare rilevante in tale contesto; cfr., appunto, il contributo di P. Monzini, Il traffico di migranti per via marittima: il caso dell’Italia, in P. Monzini, F. Pastore, G. Sciortino, L’Italia promessa. Geopolitica e dinamiche organizzative del traffico di migranti verso l’Italia, w.p. n. 9/2004, CeSPI, p. 68 ss.): individuato «l’anello debole» nella strategia di contrasto (in questo caso, il ritiro temporaneo degli assetti navali dispiegati addirittura oltre l’alto mare), le organizzazioni criminali di trafficanti, operano «con flessibilità»… appunto!
(articolo sottoposto a referaggio anonimo)
Fecondazione post mortem: sopravvivenza del consenso del coniuge espresso in vita, rettificazione dell’atto dello stato civile e attribuzione del cognome paterno (Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, sentenza n. 13000 del 15 maggio 2019) di Remo Trezza [1]
(…) La Prima Sezione civile ha affermato che, in caso di nascita mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita, l’art. 8 della legge n. 40 del 2004 sullo status del nato con P.M.A. si applica – a prescindere dalla presunzione ex art. 234 c.c. – anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta utilizzando il seme crioconservato del padre, deceduto prima della formazione dell’embrione, che in vita abbia prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso, non successivamente revocato, all’accesso a tali tecniche ed autorizzando la moglie o la convivente al detto utilizzo dopo la propria morte (…).
Sommario: 1. Indicazioni fattuali per una migliore comprensione dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di legittimità – 2. Breve panoramica dei motivi di censura prospettati nel ricorso – 3. Temi trasversali di carattere processuale lambiti ed affrontati dalla Suprema Corte nella pronuncia – 4. Quadro sistematico delle fonti normative per la risoluzione del caso concreto – 5. Breve excursus giurisprudenziale e dottrinale in tema di fecondazione omologa post mortem, attribuzione del cognome paterno, rettificazione dell’atto di stato civile e presunzione di paternità – 6. Bilanciamento dei diritti: prevale il diritto al concepimento, dunque, alla vita o il diritto alla genitorialità? – 7. I principi di diritto a cui approda la pronuncia in esame – 8. Critiche e osservazioni mosse dalla dottrina e visione comparatistica – 9. Conclusioni
1. Indicazioni fattuali per una migliore comprensione dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di legittimità
Con decreto, il Tribunale ha respinto il ricorso ex art. 95 d.P.R. n. 396 del 2000 diretto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile del Comune alla registrazione del cognome paterno nella formazione dell’atto di nascita di una bambina, l’ordine all’ufficiale predetto di provvedere alla rettifica di tale atto con la indicazione della paternità del padre, deceduto, e del cognome paterno[2].
Premettendo che la bambina era nata in Italia, a seguito di fecondazione assistita cui si era sottoposta la madre all’estero dopo il decesso del marito, il quale aveva a tanto precedentemente acconsentito, e che l’oggetto del giudizio non era stabilire se fosse il padre biologico della bambina, ma accertare se fosse legittimo, o meno il diniego dell’ufficiale di stato civile di iscrivere la paternità della minore nell’atto di nascita come richiesto dalla ricorrente, ed altresì riepilogate sia la funzione dell’atto di nascita che le disposizioni del codice civile applicabili ai fini della sua corretta formazione, il Tribunale affermò che l’ufficiale predetto era tenuto a formare l’atto sulla base delle dichiarazioni delle parti, essendogli precluse indagini ed accertamenti in ordine alle dichiarazioni ed alla paternità, affidate, invece, esclusivamente all’autorità giudiziaria; rilevò che la diversa impostazione seguita dalla ricorrente non fosse coerente con l’art. 241 c.c., che ammette la prova della filiazione con ogni mezzo, ma solo nell’ambito di un giudizio, e che i diritti della minore fossero comunque preservati, perché l’atto di nascita era stato formato e la madre avrebbe potuto utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità e ad ottenere l’attribuzione del cognome paterno; opinò che il rifiuto opposto dal comune non contrastasse con l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, regolante lo status dei figli nati con le tecniche di procreazione medicalmente assistita, prediligendo l’opzione ermeneutica secondo cui la predetta disposizione non avesse innovato rispetto alla disciplina relativa allo status di figlio naturale riconosciuto, con la conseguenza che sarebbe stato sempre necessario il riconoscimento da parte di entrambi i genitori e, ove questo non fosse stato possibile, non si sarebbe potuto prescindere dall’esperimento di un’azione di stato ex art. 269 c.c.[3].
Il reclamo, proposto dalla ricorrente, avverso il decreto, è stato respinto dalla Corte di Appello, la quale ha disatteso l’assunto difensivo della reclamante secondo cui il descritto operato dell’ufficiale dello stato civile sarebbe stato illegittimo perché in contrasto con le disposizioni previste dalla legge n. 40 del 2004. Quest’ultima non era applicabile nella fattispecie atteso che, se, da un lato, era incontestato che l’accesso alle tecniche fosse avvenuto quando i coniugi erano viventi, dall’altro, era altrettanto pacifico, perché riferito dalla stessa, che l’intervento di fecondazione fosse stato successivo al decesso di suo marito. Inoltre, la Corte di Appello ha affermato che, pure ammettendo che il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la bambina nata ed il defunto padre sia solo l’effetto prodotto dall’applicazione della legge spagnola e non comporti la legittimazione alla pratica della fecondazione post mortem, un siffatto riconoscimento, in ogni caso, proprio perché implicante una valutazione in ordine alla validità ed efficacia di alcuni documenti ed alla loro rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dello status, non poteva essere effettuato dall’ufficiale di stato civile, il quale, pertanto, legittimamente aveva applicato le regole generali del codice civile (artt. 231-232), che escludono l’operatività della presunzione di concepimento oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre. Ancora, la Corte di Appello ha considerati tutelati l’interesse ed i diritti del minore sia mediante l’atto di nascita, comunque formato, sia tramite gli strumenti processuali, forniti dall’ordinamento, che permettono di far constatare la paternità e di ottenere l’attribuzione del cognome paterno. Infine, ha ritenuto non ravvisabili i presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionali dell’art. 232 c.c. e degli artt. 5, 12 e 8 della legge n. 40 del 2004, in ragione del fatto che la mancata previsione della fecondazione assistita post mortem, dalla quale traevano origine i diversi profili di illegittimità costituzionale dedotti, era ricollegabile ad una scelta del legislatore che appariva giustificata dalla esigenza di garantire al nascituro il diritto al benessere psicofisico del medesimo attraverso il suo inserimento e la sua permanenza in un nucleo familiare ove fossero presenti entrambe le figure genitoriali[4].
2. Breve panoramica dei motivi di censura prospettati nel ricorso
La ricorrente censura in Cassazione la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[5] e 360, co. 4[6], c.p.c., con riferimento al n. 3[7], in relazione agli artt. 29[8] e 30[9] del d.P.R. n. 396 del 2000, per avere la corte distrettuale erroneamente ritenuto che l’ufficiale di stato civile avesse un potere discrezionale e/o valutativo quanto alla veridicità della dichiarazione della ricorrente afferente la paternità della minore; la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[10] e 360, co. 4[11], c.p.c., con riferimento al n. 3[12], in relazione agli artt. 8[13], 5[14] e 12[15] della legge n. 40 del 2004, laddove la medesima corte aveva ritenuto inapplicabile l’art. 8 della legge suddetta, che attribuisce lo status di figlio nato nel matrimonio a quello nato a seguito delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita, anche perché, sotto diverso profilo, nessun contrasto con l’ordine pubblico interno è ipotizzabile quanto alla fecondazione post mortem, tecnica praticata in Stati diversi dall’Italia[16]; la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[17] e 360, co. 4[18], c.p.c., con riferimento al n. 3[19], in relazione all’art. 232 c.c.[20], perché il decreto impugnato aveva considerato applicabile, nella specie, l’art. 232 c.c., dettato dal codice civile in tema di procreazione naturale biologica, e non la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge n. 40 del 2004[21] relativamente allo stato giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (da qui, in poi, P.M.A.); la violazione e la falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost.[22] e 360, co. 4, c.p.c.[23], con riferimento al n. 3[24], in relazione agli artt. 3[25], 30[26] e 31 Cost.[27], 10 e 117 Cost.[28] ed 8[29] e 14[30] CEDU, 24[31] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 3 della legge n. 176/1991[32], di ratifica della Convenzione di New York, perché la decisione impugnata si rivelava contraria ai principi costituzionali, euro-unitari ed internazionali sulla tutela dei fanciulli e sul prevalente interesse del minore.
Inoltre, la ricorrente ha riproposto in sede di legittimità le eccezioni di incostituzionalità dell’art. 232 c.c.[33], degli artt. 5 e 12 della legge n. 40 del 2004[34], nonché l’art. 8 della medesima legge[35], con riferimento agli artt. 3, 30, co. 1, 31, co. 2 Cost., 8 e 14 CEDU, art. 24, par. 2 della Carta E.U. e art. 3 della Convezione di New York, per interposizione dell’art. 117, co. 1 Cost.[36].
3.Temi trasversali di carattere processuale lambiti ed affrontati dalla Suprema Corte nella pronuncia
Il Procuratore Generale, ai fini della risoluzione del caso de quo, aveva chiesto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite della Suprema Corte, in considerazione della particolare rilevanza della questione giuridica e della vicenda umana ad essa sottesa, che investe la tematica del procedimento di PAR (postmortem assisted reproduction)[37] e lo stato giuridico del figlio nato postumo.
La Corte, però, ha ritenuto che l’istanza volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale[38], che non è soggetto ad obbligo di motivazione, altresì precisandosi che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici[39].
La Corte, nella sentenza in commento, fa una disamina particolare di tutti quei casi socialmente e/o eticamente sensibili sui quali è intervenuta[40].
Inoltre, ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, sottolinea la Corte, il termine “sentenza” non va inteso nel significato proprio del provvedimento emesso nelle forme e sui presupposti di cui agli artt. 132 e 279 c.p.c., ma deve interpretarsi estensivamente, così da ricomprendervi tutti i provvedimenti giurisdizionali, anche se emessi sotto forma di ordinanza o decreto, ove essi siano decisori, incidenti su diritti soggettivi e con piena attitudine a produrre effetti definitivi di diritto sostanziale e processuale[41].
Altro aspetto rilavante toccato dalla Corte di Cassazione, prima di analizzare l’ammissibilità o meno dei motivi censurati, è quello riguardante la mancata notificazione del ricorso per cassazione al Pubblico Ministero presso il giudice a quo.
La Corte, sul punto, richiama un suo precedente[42], stabilendo che “la mancanza di notifica neppure rende necessaria l’integrazione del contraddittorio tutte le volte che, non avendo il Pubblico Ministero il potere di promuovere il procedimento, le sue funzioni si identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice ad quem e sono assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al giudizio di impugnazione; mentre, la suddetta integrazione è necessaria nelle sole controversie in cui il Pubblico Ministero è titolare del potere di impugnazione, trattandosi di cause che avrebbe potuto promuovere o per le quali il potere di impugnazione è previsto dall’art. 72 c.p.c.”[43].
L’omessa notifica del ricorso per cassazione al Procuratore Generale presso la Corte di Appello non è causa di inammissibilità allorquando il provvedimento impugnato abbia accolto, come nella specie, le richieste di quel Procuratore[44].
4. Quadro sistematico delle fonti normative per la risoluzione del caso concreto
La Corte, prima di affrontare lo scrutinio delle doglianze presentate alla sua attenzione, ha ritenuto opportuno fare una panoramica delle fonti in materia, per favorire una più rapida soluzione del caso concreto.
Per tali ragioni, ha riportato il testo dell’art. 95[45] del d.P.R. n. 396/2000, ritenendo di dover sottolineare che gli artt. 95 e 96[46] del predetto testo legislativo erano già impiantati negli artt. 165 e 178 del r.d. n. 1238 del 1939, poi abrogato. La disciplina, però, non è variata, anzi è rimasta del tutto analoga.
La Suprema Corte, nella sentenza di cui in commento, ha recuperato la motivazione di alcune pronunce precedenti[47], quando era in vigore il r.d. del 1939, attraverso le quali è giunta a dire, nella ricerca dei limiti dell’azione di rettificazione, che essa “non investe, in sé, il fatto contemplato nell’atto dello stato civile, ma la corrispondenza fra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè il fatto, quale è nella realtà e quale risulta dall’atto dello stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o da un qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto, sia esso dovuto al dolo dell’Ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione dell’atto. Non interessa, cioè, ai fini dell’ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che i registri dello stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione quale è o quale dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…”[48].
Inoltre, l’attenzione è stata soffermata sulla natura degli atti civili[49], che è proprio quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri, ma il sindacato spettante all’ufficiale dello stato civile non è certamente equiparabile a quello dell’autorità giudiziaria in un’azione di stato.
Per quanto concerne, invece, la funzione delle dichiarazioni che si fanno davanti all’ufficiale dello stato civile, queste possono avere la funzione esclusiva di dare “pubblicità notizia” di eventi, come la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati. Da tali eventi, come documentati nei registri dello stato civile, possono derivare, per effetto di normative particolari, estranee alla disciplina che regola le iscrizioni di dette dichiarazioni, diritti e doveri[50].
In tale caso, grava sull’ufficiale l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e formare nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che a lui competa di stabilire se gli eventi riportati possano essere compatibili con l’ordinamento italiano e se per questo abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e di doveri. Spetterà al giudice pronunciarsi su tali questioni ove su di esse sorga controversia[51].
Altre dichiarazioni, invece, pure rese davanti al medesimo ufficiale, sono, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono[52]. In questi casi, l’ufficiale dovrà rifiutare di ricevere la dichiarazione ove la ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico[53].
Nel caso di specie, dunque, secondo la Corte, ci furono due distinte dichiarazioni davanti all’ufficiale dello stato civile. La prima riguardante l’evento nascita[54]; l’altra afferente l’indicazione della paternità della neonata, dalla ricorrente attribuita – giusta la documentazione attestante la tecnica della P.M.A., cui si era sottoposta in Spagna, e per effetto della quale era derivata la predetta nascita – al coniuge, deceduto, ma che, prima della sua morte, aveva acconsentito all’accesso alla P.M.A. da parte della moglie, altresì autorizzandola ad utilizzare, post mortem, il suo seme crioconservato.
Non sull’evento nascita l’ufficiale dello stato civile avrebbe potuto stabilirne la sua compatibilità con l’ordinamento italiano o meno, ma, nel secondo caso, invece, ingenerando effetti giuridici riguardo allo status della persona cui era riferita, l’ufficiale avrebbe potuto rifiutare di riceverla, se ritenuta in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico[55].
Per tali ragioni, la Corte opina a discapito della violazione, da parte del giudice di merito, degli articoli denunciati nel primo motivo di ricorso, dovendosi, continua la Corte, piuttosto valutare se il rifiuto oppostole dall’ufficiale di anagrafe abbia determinato, o meno, una discrasia tra la realtà dalla prima complessivamente dichiarata e la sua riproduzione nell’atto di nascita come redatto da quell’ufficiale: vale a dire tra il fatto, quale era stato nella realtà e come, invece, risultava dall’atto dello stato civile[56].
5. Breve excursus giurisprudenziale e dottrinale in tema di fecondazione omologa post mortem, attribuzione del cognome paterno, rettificazione dell’atto di stato civile e presunzione di paternità
Come la Corte, si sente la necessità di mettere in luce alcuni passaggi in tema di fatto. I coniugi, a causa di alcune difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, avevano deciso di ricorrere alle tecniche di P.M.A. prestando il loro consenso; il coniuge, proprio nel corso della terapia, aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo procedere all’assunzione di farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso, con apposita dichiarazione, e, consapevole della sua fine imminente, aveva anche autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa; per realizzare il comune desiderio di procreazione, la ricorrente, dopo la morte del marito, si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita in Spagna dando, poi, alla luce, in Italia, la bambina[57].
Si tratta, dunque, di una nascita derivata da una tecnica di P.M.A. omologa eseguita post mortem, benché acconsentita da entrambi i coniugi anteriormente al decesso del marito della ricorrente, il quale, poco prima di morire, nel ribadire il proprio consenso, aveva altresì autorizzato, al suddetto fine, l’utilizzo del proprio seme crioconservato[58].
L’ufficiale dello stato civile, nonostante la documentazione a corredo, ha rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto e di attribuire il cognome paterno, ritenendo la dichiarazione della madre contraria all’ordinamento giuridico vigente[59].
Parte assolutamente dirimente del ragionare del giudice di legittimità è indiscutibilmente il passaggio nel quale si sottolinea che la questione non è quella della trascrivibilità in Italia di un atto di nascita redatto in uno dei Paesi che consentono tecniche di fecondazione artificiale di cui si è avvalsa, per esempio, la ricorrente, bensì della possibilità o meno di rettificare un atto di nascita già formato sul territorio nazionale[60].
Altra questione dirimente risulta essere quella secondo cui non si controverte sulla liceità o meno di una simile tecnica, ma esclusivamente quella della corrispondenza tra la realtà del fatto come dichiarato dalla ricorrente all’ufficiale e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo redatto[61].
Il problema centrale, ora, risulta quello di capire quali regole, in tema di presunzione di paternità, si applicano al caso concreto. I meccanismi presuntivi previsti dagli artt. 231-233 c.c. oppure la disciplina della legge n. 40 del 2004?[62]
La risposta della Corte è ben argomentata, partendo addirittura da un’osservazione di carattere sociologico[63], di carattere sistematico[64] e di carattere argomentativo[65].
La Corte, inoltre, si sofferma su un concetto essenziale, ovverosia che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, che, mediante l’applicazione di tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale[66].
Nel caso affrontato dalla Corte di legittimità, si è verificata una causa di scioglimento del matrimonio (morte del coniuge), dunque, si pone il problema circa la verificazione della paternità della figlia, soprattutto in connessione con il tempo di trecento giorni (termine dal quale non opera la presunzione)[67].
Se si applicassero le regole generali, l’atto di nascita non troverebbe corrispondenza con la realtà; se, a contrario, si applicasse la disciplina dello status del figlio nato dalla tecnica di P.M.A. (anche se post mortem), la corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto contenuto nell’atto è perfettamente coincidente.
A questa soluzione arriva la Corte, in maniera più lenta, in quanto bisognosa di inquadrare, ancora una volta, le fonti normative di riferimento, specie gli artt. 8[68] e 9[69] della legge 40 del 2004, soprattutto alla luce delle modifiche intervenute con la pronuncia della Corte Costituzionale[70].
Passaggio determinante dell’argomentazione del Giudice di legittimità è rappresentato dal fatto che qualsivoglia considerazione riguardante la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A post mortem, oltre che, eventualmente, delle condotte di coloro che ne consentono l’accesso o l’applicazione, non potrebbe certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. La circostanza che si sia fatto ricorso all’estero alla P.M.A. non espressamente disciplinata nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse del nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso[71].
Occorre, dunque, stabilire se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità della tecnica de qua, o si inserisca in quest’ultimo che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni[72].
Altro passaggio fondamentale, ad avviso del commentatore, è rappresentato dal fatto che la Corte affermi che ormai figlio non è solo chi nasce da un atto naturale di concepimento, ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa che sia, nei limiti imposti dalla Corte Costituzionale) o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini una volta ritenuti invalicabili del principio tradizionale della legittimità delle filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 della Costituzione, infatti, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale[73].
È necessario rimarcare, soprattutto a livello dottrinale, la duplicità di visioni sulla alternatività della disciplina o sulla sua generalità.
Un primo filone fonda tutto sul consenso dato dal coniuge o dal convivente alla fecondazione artificiale[74]. Questo consenso avrebbe un significato diverso dalla nozione di “consenso informato”[75] al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.
Per altri, invece, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status di figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato alla P.M.A.[76].
Un simile dilemma interpretativo, afferma la Corte nella sentenza in commento, produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, laddove si potrebbero verificare alcune ipotesi: il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso; infine, l’impianto, nel corpo della donna, dell’embrione formatosi quando entrambi i componenti della coppia erano in vita[77].
L’art. 5 della legge n. 40 del 2004, dunque, sembra escludere che possa ricorrere alla tecnica una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative, e tanto, come pure si è autorevolmente sostenuto[78], allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna[79].
Ulteriore problema è se il figlio, venuto alla luce attraverso procreazione assistita post mortem, sia nato oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Le opinioni sono varie[80].
La Corte, inoltre, richiama l’art. 9, co. 1 della legge n. 40 del 2004, il quale stabilisce che il marito o il convivente non possa esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità purché il suo consenso sia ricavabile da atti concludenti. Proprio questo richiamo agli atti concludenti costituisce un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi atti siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento[81].
L’art. 8 della legge n. 40 del 2004 esprime l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro[82], sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale diversa modalità procreativa[83].
6. Bilanciamento dei diritti: prevale il diritto al concepimento, dunque, alla vita o il diritto alla genitorialità?
La Corte, nei passaggi immediatamente successivi della sentenza, opina che sia possibile l’applicazione della disciplina dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004 anche alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui si parla, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il nato, allorquando il marito (e, sempre in un’ottica sistematica, il convivente) sia morto dopo aver prestato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell’art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell’embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il figlio possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità[84].
A questa soluzione, aggiunge la Corte, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l’assunto secondo cui l’ordinamento deve proteggere l’infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto alla genitorialità[85].
Al contrario, si può osservare che la limitazione della donna, nella specifica situazione in cui era venuta a trovarsi la ricorrente, all’accesso alla tecnica cui ella si era poi sottoposta non è funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantire l’esistenza e l’educazione, perché l’alternativa è il non nascere affatto; parimenti, l’affermazione che nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto da preferire la non vita[86].
Al contrario, ancora, l’interesse del nato, nella specie, è quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità[87].
La Corte, dopo questo importante passaggio, ha avuto modo di riflettere sul concetto di famiglia, che non può più essere solo quella del codice civile del 1942. Il fenomeno dell’emersione, afferma la Corte, di diverse relazioni intersoggettive nelle relazioni affettive è, del resto, in progressiva evoluzione, così da richiedere una tutela sistematica dei fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi da quei modelli tradizionali che rischiano, ormai, di rivelarsi inadeguati rispetto ai primi[88].
La Corte, quasi nelle battute finali del suo percorso logico-argomentativo, stabilisce che occorre applicare la disciplina contenuta nell’art. 8 della legge n. 40 del 2004, senza poter fare riferimento alla presunzione stabilita dall’art. 232 c.c., che, di per sé, non può costituire ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla sua morte[89].
Per poter affermare, dunque, che la figlia, nel caso di specie, sia del marito deceduto della ricorrente, deve esistere il presupposto fondamentale previsto dal suddetto art. 8, vale a dire il consenso espresso congiuntamente dai coniugi al ricorso alle tecniche di P.M.A., secondo quanto stabilito dall’art. 6 delle legge medesima, e mantenuto dal marito fino alla data della sua morte. Il consenso, a norma dell’art. 9 della legge stessa, può essere ricavabile anche da atti concludenti[90].
Lo status filiationis va determinato verificando solamente se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita anche solo mediante atti concludenti, e se tale consenso, integrato da quello riguardante anche la possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem, sia effettivamente persistito fino al momento ultimo entro il quale lo stesso poteva essere revocato, non ravvisandosi valide ragioni per ritenere, a contrario, che il consenso peculiarmente espresso per un atto da compiersi dopo la morte perda efficacia al verificarsi di detto evento[91].
7. I principi di diritto a cui approda la pronuncia in esame
Volendo fare una sintesi, e volendo prendere spunto dalla parte finale della sentenza che qui si sta commentando, si può affermare che: “le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette esclusivamente a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico”; inoltre, “il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dall’art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte”; infine, “l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, recante lo status giuridico del figlio nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante l’utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre”[92].
8. Critiche e osservazioni mosse dalla dottrina e visione comparatistica
Sul tema e sulla pronuncia di cui in commento, tante sono state le osservazioni e tante, ancora, le critiche, che, qui, si cercherà di sintetizzare, senza pretesa di opinare sulla validità o meno delle stesse.
In merito all’ammissibilità della fecondazione post mortem, si vuole soffermare l’attenzione su di una rilevante pronuncia del Tribunale di Palermo[93].
Inoltre, in relazione alla rilevanza dell’esistenza in vita dei coniugi, si richiama una sentenza del T.A.R. Lazio[94].
Tra i primi commentatori della sentenza de qua, vi è chi plaude per aver messo a tacere una questione spinosa, ma, allo stesso tempo critica, per non aver dato nemmeno un piccolo spiraglio per una possibile illegittimità costituzionale degli articoli che vietano la pratica, nel nostro ordinamento, della fecondazione assistita post mortem[95].
Va detto, però, a tal proposito, che la Corte, nella sentenza in commento, ha più volte fatto presente che non si discuteva della “liceità/ammissibilità – illeceità/inammissibilità” della pratica in Italia, ma solo ed esclusivamente di un problema attinente alla rettificazione dell’atto dello stato civile e della disciplina della presunzione di paternità, ormai agganciata al meccanismo di cui all’art. 8 della legge n. 40 del 2004.
Vi è, poi, chi ritiene che la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, avrebbe potuto fare qualcosa in più. Però è stata ritenuta degna di nota nella parte in cui la sentenza ha enfatizzato l’interesse preminente del minore[96].
Ancora, tra alcuni commenti risalenti nel tempo, ci sono quelli che sono stati lungimiranti[97].
A proposito dell’ammissibilità o meno, nel nostro ordinamento, della pratica di fecondazione post mortem, comunque vietata, per una visione di carattere sistematico-comparatistica, si sente la necessità di capire come gli altri ordinamenti (sia di civil law che di common law) si muovono in tal senso.
La legge francese, nell’imporre che membri della coppia siano entrambi viventi, vieta l’inseminazione o il transfer di embrioni post mortem e considera privo di effetto il consenso del partner nel caso in cui lo stesso muoia “prima della realizzazione della procreazione medicalmente assistita”, con la conseguenza che non gli potrà essere attribuita la paternità del bambino in tal modo concepito[98].
In Inghilterra, invece, la legge del 1990[99], relativa alla fecondazione e all’embriologia umana, autorizza l’inseminazione artificiale ed il trasferimento degli embrioni post mortem, purché le persone interessate chiariscano la sorte che intendono riservare ai propri gameti e agli embrioni in caso di morte. La richiamata disciplina normativa esclude, però, che, nell’ipotesi di utilizzo post mortem dei propri gameti, venga riconosciuta la paternità del genitore[100].
In Grecia, per esempio, dopo la morte del partner, è consentita la procreazione post mortem, previa autorizzazione di un Tribunale e a condizione che il coniuge/compagno soffra già in vita di una malattia che ne comprometta la fertilità o la vita e che abbia acconsentito per iscritto alla tecnica in oggetto[101].
Ulteriore elemento di comparazione, può essere quello dell’ordinamento spagnolo, nel quale la fecondazione omologa, se effettuata non più di sei mesi dopo la morte del marito (o convivente), risulta pienamente legittima. La paternità viene sempre attribuita all’uomo deceduto, a condizione che questi abbia prestato il proprio consenso con atto pubblico o nel testamento[102], esattamente come è avvenuto nel caso di specie.
La pratica della fecondazione post mortem è vietata dalla legge danese[103], da quella svizzera[104] ed è addirittura sanzionata penalmente dalla legge tedesca[105].
9. Conclusioni
La sentenza, che fin qui si è commentata, ha di certo messo un po’ di cosmos in un caos normativo e giurisprudenziale.
Sicuramente va sostenuta e avallata questa decisione, soprattutto perché supera delle concezioni dottrinali che non sono mai state chiare e unanimi.
Rispetto a quanto qualcuno ha scritto[106], si reputa assolutamente irrilevante, ai fini della presente decisione, l’implicazione che un simile principio di diritto possa avere con il divieto di maternità surrogata.
Si sente, però, la necessità di porre, soprattutto a conclusione del commento, l’attenzione su un problema particolare: il caso di fecondazione post mortem senza consenso del coniuge o del convivente. In astratto, l’interprete può intendere il silenzio del legislatore in tre diversi sensi: per un verso, quella tecnica normativa volta ad escludere l’attribuzione di un rapporto di filiazione ove non vi sia consenso[107]; per altro verso, quale richiamo meccanico della disciplina generale della filiazione, applicando le regole della filiazione legittima solo se operano le presunzioni e consentendo altrimenti il rapporto di filiazione naturale[108]; infine, quale indice della sussistenza di una lacuna, da colmare in via analogica[109].
Chi commenta reputa assolutamente fondante, come ha espresso bene la sentenza in commento, il preminente interesse del minore, in un’ottica di prevalenza del diritto al concepimento, dunque, alla vita, rispetto al diritto alla genitorialità[110].
In via conclusiva, si può certamente affermare che l’interprete che intenda ricondurre ad un sistema coerente la disciplina sulla filiazione nella procreazione medicalmente assistita e delle sue implicazioni, sia con i principi generali della stessa legge speciale (legge n. 40 del 2004), sia con le logiche sottostanti la disciplina generale della filiazione, è invece costretto a registrare, e forse ad accentuare, l’isolamento della disciplina italiana rispetto al contesto europeo e internazionale[111].
Rimane sempre fondamentale il contributo di giurisprudenza e dottrina in materia, data la vaghezza e la formulazione largamente inadeguata della legge, nonché le ampie lacune in essa presenti.
Sta di fatto che, grazie all’ausilio e all’apporto decisamente pretorio della giurisprudenza di legittimità, si deve constatare che la legge sulla procreazione medicalmente assistita esprime un modello di legislatore, non solo poco attento, ma anche profondamente ambiguo, che ancora una volta adotta tecniche di normazione[112] che hanno caratterizzato la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza[113]: enuncia principi etici che richiamano il diritto naturale[114], ma adotta soluzioni che sembrano andare di verso contrario.
Il freno, in special modo in questo periodo storico, è dato dalla giurisprudenza, soprattutto rappresentata dal Giudice di legittimità, che, con tanta pazienza e tanta passione, mette “toppe” alle buche profondamente provocate dal legislatore sul sentiero dell’ordinamento.
Lo si ribadisce anche a chiosa del presente lavoro: il diritto ha necessità di farsi comprendere e non di farsi notare[115].
[1] Dottorando di ricerca in Scienze giuridiche presso l’Università degli studi di Salerno e Tirocinante ammesso presso la Suprema Corte di Cassazione (sez. I civile).
[2] Per un inquadramento più sistematico del fatto, vedi la sentenza di cui in commento, p. 2, § 1.
[3] Vedi, a tal proposito, la sentenza di cui in commento, specie pp. 2-3, § 1.1.
[4] Per avere una completezza del fatto in questione, si rinvia alla sentenza, pp. 3-5, in particolar modo § 1.2.
[5] Si consenta riportare il testo della norma costituzionale, soprattutto il comma 7, secondo il quale: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
[6] Il quarto comma dell’art. 360 c.p.c. statuisce che: “Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”.
[7] Solo per completezza, si riporta il testo dell’art. 360, co. 3 c.p.c., secondo cui è possibile proporre ricorso per Cassazione “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”.
[8] Per una contezza dell’istituto in esame, si riporta il contenuto integrale dell’art. 29 del d.P.R. menzionato, in tema di atto di nascita, a mente del quale: “1. La dichiarazione di nascita è resa nei termini e con le modalità di cui all’articolo 30. 2. Nell’atto di nascita sono indicati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori legittimi nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell’articolo 35. 3. Se il parto è plurimo, se ne fa menzione in ciascuno degli atti indicando l’ordine in cui le nascite sono seguite. 4. Se il dichiarante non dà un nome al bambino, vi supplisce l’ufficiale dello stato civile. 5. Quando si tratta di bambini di cui non sono conosciuti i genitori, l’ufficiale dello stato civile impone ad essi il nome ed il cognome. 6. L’ufficiale dello stato civile accerta la verità della nascita attraverso l’attestazione o la dichiarazione sostitutiva di cui all’articolo 30, commi 2 e 3. 7. Nell’atto di nascita si fa menzione del modo di accertamento della nascita”.
[9] In merito alla dichiarazione della nascita, invece, l’art. 30 del d.P.R. menzionato stabilisce che: “1. La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata. 2. Ai fini della formazione dell’atto di nascita, la dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile è corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino. 3. Se la puerpera non è stata assistita da personale sanitario, il dichiarante che non è neppure in grado di esibire l’attestazione di constatazione di avvenuto parto, produce una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15. 4. La dichiarazione può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o in alternativa, entro tre giorni, presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In tale ultimo caso la dichiarazione può contenere anche il riconoscimento contestuale di figlio naturale e, unitamente all’attestazione di nascita, è trasmessa, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all’ufficiale dello stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza individuato ai sensi del comma 7, nei dieci giorni successivi, anche attraverso la utilizzazione di sistemi di comunicazione telematici tali da garantire l’autenticità della documentazione inviata secondo la normativa in vigore. 5. La dichiarazione non può essere ricevuta dal direttore sanitario se il bambino è nato morto ovvero se è morto prima che è stata resa la dichiarazione stessa. In tal caso la dichiarazione deve essere resa esclusivamente all’ufficiale dello stato civile del comune dove è avvenuta la nascita. 6. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo, gli uffici dello stato civile, nei loro rapporti con le direzioni sanitarie dei centri di nascita presenti sul proprio territorio, si attengono alle modalità di coordinamento e di collegamento previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 10, comma 2. 7. I genitori, o uno di essi, se non intendono avvalersi di quanto previsto dal comma 4, hanno facoltà di dichiarare, entro dieci giorni dal parto, la nascita nel proprio comune di residenza. Nel caso in cui i genitori non risiedano nello stesso comune, salvo diverso accordo tra di loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre. In tali casi, ove il dichiarante non esibisca l’attestazione della avvenuta nascita, il comune nel quale la dichiarazione è resa deve procurarsela presso il centro di nascita dove il parto è avvenuto, salvo quanto previsto al comma 3. 8. L’ufficiale dello stato civile che registra la nascita nel comune di residenza dei genitori o della madre deve comunicare al comune di nascita il nominativo del nato e gli estremi dell’atto ricevuto”.
[10] Si faccia riferimento alla nota n. 4.
[11] Si faccia riferimento alla nota n. 5.
[12] Anche a tal proposito, si rimanda alla nota n. 6.
[13] La norma dispone in tema di stato giuridico del figlio e stabilisce che:“1. I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6”.
[14] La norma in esame attiene ai requisiti soggettivi e dispone che: “1. Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”.
[15] La norma citata, invece, dispone in tema di sanzioni, e stabilisce che: “1. Chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente, in violazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 3, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300.000 a 600.000 euro. 2. Chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro. 3. Per l’accertamento dei requisiti di cui al comma 2 il medico si avvale di una dichiarazione sottoscritta dai soggetti richiedenti. In caso di dichiarazioni mendaci si applica l’articolo 76, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 4. Chiunque applica tecniche di procreazione medicalmente assistita senza avere raccolto il consenso secondo le modalità di cui all’articolo 6 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 50.000 euro. 5. Chiunque a qualsiasi titolo applica tecniche di procreazione medicalmente assistita in strutture diverse da quelle di cui all’articolo 10 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100.000 a 300.000 euro. 6. Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. 7. Chiunque realizza un processo volto ad ottenere un essere umano discendente da un’unica cellula di partenza, eventualmente identico, quanto al patrimonio genetico nucleare, ad un altro essere umano in vita o morto, è punito con la reclusione da dieci a venti anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. Il medico è punito, altresì, con l’interdizione perpetua dall’esercizio della professione. 8. Non sono punibili l’uomo o la donna ai quali sono applicate le tecniche nei casi di cui ai commi 1, 2, 4 e 5. 9. È disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui al presente articolo, salvo quanto previsto dal comma 7. 10. L’autorizzazione concessa ai sensi dell’articolo 10 alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate ai sensi del presente articolo è sospesa per un anno. Nell’ipotesi di più violazioni dei divieti di cui al presente articolo o di recidiva l’autorizzazione può essere revocata”.
[16] Per una completezza di indagine fattuale, si consenta rinviare alla sentenza di cui in commento, specificamente p. 6, § 1 delle “ragioni della decisione”.
[17] Vedi nota n. 4.
[18] Vedi nota n. 5.
[19] Vedi nota n. 6.
[20] La lettera dell’art. 232 c.c. impone che: “1. Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. 2. La presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”.
[21] Vedi, a tal proposito, nota n. 12.
[22] Vedi nota n. 4.
[23] Vedi nota n. 5.
[24] Vedi nota n. 6.
[25] L’art. 3 Cost. statuisce che: “1. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso , di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 2. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
[26] Per avere un quadro sistematico delle fonti, si consenta riportare il contenuto della norma costituzionale, secondo cui: “1. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. 2. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. 3. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. 4. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”.
[27] L’art. 31 Cost., invece, stabilisce che: “1. La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. 2. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.
[28] Gli artt. 10 e 117 Cost. sono le norme legittimanti l’ingresso delle fonti europee ed internazionali nel nostro ordinamento.
[29] L’art. 8 della CEDU, in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare, stabilisce che: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[30] L’art. 14 della CEDU, invece, afferma il principio di non discriminazione, secondo cui: “1. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
[31] L’art. 24 della Carta U.E. dispone, in tema di diritti del bambino, che: “1. I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità. 2. In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.
[32] L’art. citato statuisce, infine, che: “1. In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. 2. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. 3. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”.
[33] L’art. 232 c.c. sarebbe incostituzionale nella parte in cui non prevede la presunzione di concepimento durante il matrimonio anche per i figli nati con il ricorso alle tecniche di P.M.A post mortem.
[34] Questi articoli, invece, sarebbero incostituzionali nella parte in cui non prevedono, per un tempo ragionevole di almeno un anno dal decesso, la fecondazione assistita post mortem.
[35] Questo, ancora, cozzerebbe con i principi costituzionali perché non riconosce lo status di figlio nato nel matrimonio e riconosciuto dalla coppia che ha espresso il consenso per le tecniche di P.M.A. a seguito di fecondazione post mortem.
[36] In tali termini, per una più compiuta disamina degli aspetti relativi all’illegittimità costituzionale posta all’attenzione della Suprema Corte, si consenta rinviare alla sentenza di cui in commento, specie pp. 5-7, § 1 della parte relativa alle “ragioni della decisione”.
[37] Senza pretesa di esaustività, su questo delicatissimo tema, si consenta rinviare a M. Kruger, The prohibition of post-mortem fertilitation, legal situation in Germany and European Convention on human rights, in Revue international de droit penal, 2011/1-2, vol. 82, pp. 41-64; D. Eduardo, V.L. Raposo, Legal aspects of post-mortem reproduction: a comparative perspective of French, Brazilian and Portuguese legal system, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, giugno 2012, p. 98; Idem, in Medicine and Law, 2012, pp. 181-198; A.C. Anitei, Post mortem Assisted Reproduction Technology (Art) and The Particular case of the Will in Romania, in Contemporary Legal Institutions, 2014, vol. 6/1, pp. 133-140; A.K. Sikary, O.P.Murty, R.V. Bardole, Postmortem sperm retrieval in context of developing countries of Indian subcontinent, in Journal of Human Reproductive Sciences, 2016, vol 9/6, pp. 82-85; A.K. Sikary, O.P. Murty, R.V. Bardole, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, aprile-giugno 2016, p. 82; S. Shelly, Creating life after death: should posthumous reproduction be legally permissible without deceased’s prior consent?, in US National Library of Medicine National Institutes of Health, agosto 2018, p. 329.
[38] A tal proposito, è necessario rinviare a, ex aliis, Cass. n. 14878/2017; Cass. n. 19599/2016; Cass. n. 12962/2016; Cass. n. 8016/2012; Cass. n. 359/2003.
[39] Come sottolinea la Corte, nella sentenza, specie a p. 7, è agevole che dall’art. 375, ult. co., c.p.c. emerge una simile lettura, applicabile ratione temporis.
[40] Per esempio, ed è importante, solo in un’ottica sistematica e bibliografica-giurisprudenziale, richiamare il tema delle direttive di fine vita (Cass. n. 21748/2007); i limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omo-affettive (Cass. n. 4184/2012 e Cass. n. 2004/2015); l’adozione da parte della persona singola (Cass. n. 6078/2006 e Cass. n. 3572/2011); la surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi (Cass. n. 24001/2014); l’adozione in casi particolari (Cass. n. 12962/2016); la trascrizione, nei registri dello stato civile italiano, di un atto di nascita estero recante l’indicazione di una doppia maternità (Cass. n. 19599/2016), rettificazione di atto di nascita indicante due genitori dello stesso sesso (Cass. n. 14878/2017), esattamente come ha fatto la sentenza di cui in commento, specie a p. 8.
[41] Vedi, in particolar modo, p. 8 della sentenza in commento, laddove riporta tutta una serie di pronunce di legittimità sul tema. Per esempio, si consenta rinviare a Cass. n. 212/2019; Cass. n. 14878/2017; Cass. SU n. 27073/2016; Cass. n. 11218/2013; Cass. SU n. 9042/2008; Cass. n. 184/2003. Ovvio è che, nel caso di specie, ci sia il carattere decisorio e l’incidenza su diritti soggettivi.
[42] Vedi, in tal senso, Cass. n. 3556/2017.
[43] In tale direzione, vedi anche Cass., SU, n. 9743/2008.
[44] Sul punto, vedi specificamente la sentenza in commento, p. 10, §§ 4.1 e 4.2, laddove si richiamano anche Cass. n. 11211/2014, Cass. n. 5953/2008; Cass. n. 18513/2003.
[45] La norma prevede che: “1. Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. 2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. 3. L’interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.
[46] Tale norma, invece, ne detta il procedimento, stabilendo che: “1. Il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. 2. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. 3. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’articolo 455 del codice civile”.
[47] Vedi, Cass. n. 4922/1978; Cass. n. 7530/1986.
[48] Questo principio, come chiarisce la sentenza in commento, specie p. 12, § 5.3, è stato recepito anche da Cass. n. 21094/2009, con specifico riferimento agli artt. 95 e 96 del d.P.R. n. 396/2000.
[49] Vedi, a tale riguardo, specificamente p. 13, § 5.3.1 della sentenza in esame.
[50] Vedi specificamente p. 14, § 6.1 della sentenza de qua.
[51] Questo è l’assunto a cui perviene la sentenza. Vedi p. 14, specie § 6.1.1.
[52] La distinzione è assai chiarificatrice. Vedi, soprattutto, p. 15, §§ 6.2 e 6.2.1. della sentenza in esame.
[53] In tal senso, vedi l’art. 7 del d.P.R. n. 396/2000.
[54] A tal proposito, è utile, esattamente come fa la Corte a p. 15, § 6.3 della sentenza di cui in commento, richiamare l’attenzione sull’art. 30 d.P.R. n. 396/2000.
[55] Si rinvia all’art. 7 del d.P.R. n. 396/2000.
[56] Vedi, più compiutamente, p. 16, § 6.3.3. della sentenza de qua.
[57] Vedi, p. 15, § 6.3 della sentenza.
[58] Vedi, altresì, p. 16, § 7.1.1. della sentenza de qua.
[59] Quest’ultimo elemento è stato già riferito precedentemente, ma la Corte lo affronta varie volte. Vedi p. 17, § 7.2 della sentenza medesima.
[60] Più nello specifico, il tema predetto è affrontato a p. 17, § 7.2.1. della sentenza.
[61] Vedi, a tal fine, p. 17, § 7.3 della sentenza.
[62] Il quesito non è posto in questi termini, ma si comprende perfettamente che il nocciolo duro della questione, per la Corte, risulta tutto in questo domanda. Si veda, infatti, per completezza, p. 18, § 7.3.1. della sentenza stessa.
[63] Vedi, a tal punto, p. 18, § 7.3.2. della sentenza, in cui la Corte focalizza l’attenzione sul rilevo attribuito dalla società odierna ai bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili ed ancora non regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale.
[64] In tal senso, infatti, la Corte, sempre nello stesso paragrafo, sottolinea il dialogo tra le Corti supreme degli Stati europei ed extraeuropei, con i quali si condividono i principi assiologici dei diritti fondamentali della persona, nonché quello con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica.
[65] A tal uopo, sempre nel paragrafo citato, la Corte si focalizza sulla considerazione delle tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario volto a sopperire una problematica di natura medica che colpisce uno, o entrambi, i componenti della coppia.
[66] Questa argomentazione, che sembra essere del tutto contestualizzata, non appare, per l’appunto, assolutamente retrograda, acritica, asfittica o, addirittura, anacronistica. La Corte ha voluto mettere in evidenza come, anche l’istituto della responsabilità genitoriale, in un’ottica di globalizzazione rapida e repentina, si trasformi e muti i sui connotati velocemente. Non è più una categoria o, se lo è, lo è nei gangli del contesto storico-sociale-culturale, fuggevole e liquido.
[67] Più accuratamente il passaggio lo si rinviene alle pp. 19-20, §§ 7.4 e 7.5 della sentenza de qua.
[68] L’art. 8, come già ricordato in precedenza, stabilisce che: “1. I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'articolo 6”.
[69] L’art . 9, invece, come già detto, dispone che: “1. Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all'articolo 4, comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall'articolo 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’articolo 263 dello stesso codice. 2. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396. 3. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi”.
[70] Vedi Corte Cost., sentenza n. 162/2014.
[71] È, senza dubbio, uno dei passaggi più interessanti della sentenza, rinvenibile a p. 22, § 7.7.1 della sentenza in commento, che, tra l’altro, richiama anche le sentenze “gemelle” della Corte EDU Mennesin c. Francia (26 giugno 2014, ric. N. 65192/2011) e Labasse c. Francia (26 giugno 2014, ric. N. 65941/2011). Inoltre, ha richiamato anche la rilevante sentenza della Corte Cost. n. 347/1998, la quale sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso. A completamento, la sentenza di cui in commento, nello stesso paragrafo, cita la sentenza della Suprema Corte n. 19599/2016, a mente della quale “le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato”. Nello stesso senso, anche Cass. n. 14878/2017.
[72] Questo passaggio, in definitiva, è assai dirimente. Si consiglia di leggere l’intero passaggio a p. 23, § 7.8 della sentenza di cui in commento.
[73] A tal proposito, la Corte richiama dei suoi stessi precedenti, tra cui Cass. n. 6963/2018; Cass. SU, n. 1946/2017; Cass. n. 15024/2016.
[74] Vedi, a tal proposito, U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione da procreazione medicalmente assistita, in Familia, 2004, pp. 489-490, nelle quali scrive che: “…hanno risolti problemi particolari ricorrendo ad argomentazioni generalmente fondate sull’assunzione della responsabilità genitoriale tramite il consenso al ricorso a tecniche procreative non naturali”. Vedi, tra i più autorevoli contributi, A. Trabucchi, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli, in Giur. it., 1957, I, 2, p. 217 ss., P. D’Addino Serravalle, Ingegneria genetica e valutazione del giurista, Napoli, 1988, p. 87; I. Corti, Procreazione artificiale, disconoscimento di paternità e interesse del minore, in Giur. it., 1995, I, 2, p. 583 ss.; C. M. Bianca, Disconoscimento del figlio nato da procreazione assistita: la parola alla cassazione, in Giust. civ., 1999, I, p. 1328 ss.; G. Baldini, Tecnologie riproduttive e problemi giuridici, Torino, 1999, p. 65 ss.; G. Cassano, La procreazione artificiale, Milano, 2001, p. 1 ss.; T. Auletta, Fecondazione artificiale: problemi e prospettive, in Quadrimestre, 1986, p. 51 ss.; P. Schelesinger, L’inseminazione eterologa: la cassazione esclude il disconoscimento di paternità, in Corr. giur., 1990, p. 401 ss.; S. Patti, Inseminazione eterologa e venire contra factum proprium, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, p. 13 ss.
[75] Si consenta, a tal uopo, rinviare a R. Trezza, La responsabilità civile del medico: dall’oscurantismo al doppio positivismo. Focus sulla responsabilità civile del medico prenatale, Salerno, 2019, pp. 41-46.
[76] In tal senso, invece, S. Rodotà, Diritti della persona, strumenti di controllo sociale e nuove tecnologie riproduttive, in Aa. Vv., La procreazione artificiale tra etica e diritto, Padova, 1989, p. 140, condivisa da P. Perlingieri, L’inseminazione artificiale tra principi costituzionali e riforme legislative e da S. Patti, Sulla configurabilità di un diritto della persona di conoscere le proprie origini biologiche, ivi, p. 148 ss., p. 210.
[77] Aspetti, questi ultimi, di cui già qualcuno in passato si è occupato. Si veda U. A Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 498, in cui afferma che “ancora più problematica appare la soluzione nel caso in cui uno dei componenti della coppia, dopo aver espresso il consenso alla procreazione, anche di tipo eterologo, muoia e successivamente la struttura sanitaria, non informata del decesso, proceda ugualmente alla fecondazione dell’embrione; a monte, vi è il dubbio se la struttura debba effettuare l’impianto dell’embrione, rispettando l’art. 14, co. 1 della legge 40 del 2004, che ne vieta la soppressione, o debba astenersi, in quanto è venuto meno il requisito dell’art. 5, a norma del quale entrambi i componenti della coppia, che accedono alle tecniche di fecondazione artificiale, debbono essere viventi…appare conseguente fondare il rapporto di filiazione con il genitore premorto sul consenso; ma la medesima soluzione va sostenuta anche nel caso in cui si consideri illegale l’intervento di fecondazione post mortem, in quanto, a fronte della volontà del de cuius, l’interesse del nascituro appare prevalente rispetto alle eventuali pretese successorie pregiudicate”.
[78] Sembra che la Corte di Cassazione, nella sentenza di cui in commento abbia fatto cenno alle correnti di pensiero che dubitano sul fatto che il nato possa avere diritto a nascere senza la presenza di un padre. Vedi, tra gli ultimissimi contributi, D. Crestani, Fecondazione artificiale “post mortem”, su Il Giornale di Vicenza, 26 giugno 2015, p. 1, nel quale, alla fine della riflessione, chiede a se stresso: “Ma può ritenersi legittimo e rispettoso dei diritti del bambino farlo nascere intenzionalmente orfano del padre, solo perché consentito dalle moderne tecniche di procreazione assistita?”.
[79] In tal senso, vedi più nello specifico, p. 26, § 7.8.3.1. della sentenza de qua.
[80] A tal uopo, è interessante vedere come c’è chi sostiene, esattamente come mette ben in luce la sentenza in commento, specie pp. 27-28, §§ 7.8.4.1. e 7.8.4.2., “che la nascita di un figlio da fecondazione artificiale omologa post mortem avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio può solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, con la conseguenza che un riconoscimento preventivo del marito mentre era ancora in vita sarebbe privo di effetti, e chi, invece, ritiene che la suddetta situazione non costituirebbe un ostacolo alla operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui possa essere provato, ai sensi dell’art. 234 c.c., il concepimento in costanza di matrimonio. Tale requisito, attraverso una interpretazione estensiva della norma, dovrebbe considerarsi soddisfatto dimostrando che la fecondazione dell’ovulo sia avvenuta durante il matrimonio, purché la moglie non sia passata a nuove nozze. Quest’ultima tesi, però, oltre a fondarsi su un’interpretazione del concepimento sensibilmente distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, finisce con il distinguere immotivatamente la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita che sia stata eseguita, essendo possibile congelare e conservare a lungo non solo l’embrione, ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga, come peraltro accaduto nel caso in esame, solo dopo la morte del marito”. Vedi, in tale direzione, nota n. 76. La diversa impostazione, secondo la quale si potrebbe applicare l’art. 8 della legge n. 40 del 2004, nuove, invece, dal rilievo “che il legislatore non ha limitato espressamente l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita “lecita” ed ha, anzi, espressamente contemplato la sua applicabilità alla ipotesi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in simili casi, in consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Ne consegue che, dopo la morte del marito ed acquisito il suo unico consenso in vita, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso e gli ovociti della moglie ed al loro impianto, dovrebbe prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe comunque l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori genetici, anche ove volesse ritenersi violato il quadro normativo derivanti dalle disposizioni relative all’accesso alla P.M.A nel nostro ordinamento interno”. Vedi, in tale direzione, invece, nota n. 74.
[81] Vedi, sul punto, p. 29, § 7.8.5. della sentenza in commento.
[82] Si consenta rinviare, a R. Trezza, La responsabilità civile del medico, cit., pp. 149-151.
[83] Vedi, invece, p. 29, § 7.8.5.1. della sentenza de qua.
[84] È assolutamente questo il passaggio decisivo della sentenza, che sembra mettere in luce una sorte di “sopravvivenza post mortem del consenso espresso in vita”, teoria che pone fine alla questione controversa. Il consenso, dunque, espresso dal padre della bambina, prima di morire e mai revocato fino alla morte, sopravvive ad egli stesso e fa in modo che la paternità della figlia sia ad egli attribuita. Ciò supera anche il problema della rettificazione dell’atto dello stato civile e dell’attribuzione della paternità e del cognome paterno nell’atto di nascita medesimo. Tutto ciò è rilevante anche ai fini della “discendenza biologica”, della quale la parte ricorrente ha specificamente dedotto di aver fornito ampia prova, tra l’uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l’utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione del tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita. Vedi, in particolar modo, p. 30, § 7.8.6.1. della sentenza in esame.
[85] Ecco che, a tal punto, ci si pone la domanda se possa prevalere, in un’ottica di bilanciamento di diritti, il diritto alla vita o il diritto alla genitorialità. Potrebbe anche essere che una madre venga a concepire un figlio e durante la fase della gestazione il padre del proprio figlio muoia. Cosa accadrebbe in questo caso? Nulla, in quanto, secondo le regole generali della presunzione di paternità, il figlio è del marito della moglie in quanto concepito in costanza di matrimonio. Il tempo dei trecento giorni dalla morte del padre, come causa di scioglimento del matrimonio, sarebbe irrilevante.
[86] Vedi, a tal punto, la sentenza a p. 31, § 7.8.6.2..
[87] A tal punto, si consenta rinviare a R. Trezza, Diritto all’anonimato e diritto a conoscere le proprie origini: il bilanciamento dei valori ad opera della giurisprudenza nazionale ed europea, in Persona & Danno, 20 luglio 2018, pp. 9-13. Inoltre, si richiama l’attenzione su Cass. n. 6963/2018; Cass. SU, n. 1946/2017; Cass. n. 1504/2016. Inoltre, per un quadro sistematico della sentenza in esame, si consiglia di leggere p. 32, §§ 7.8.7.; 7.8.8.1 e 7.8.8.2., in cui si affronta anche il delicato tema del diritto all’anonimato ed il suo divieto per chi ha fatto uso delle tecniche di P.M.A. e si afferma che “…ove l’interesse del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica, tanto che il legislatore, per perseguire tale interesse, ha attribuito precipuo rilievo al consenso prestato dai coniugi o conviventi al ricorso a tecniche di procreazione assistita, ma risulta confermato anche in caso di fecondazione omologa post mortem, con riferimento alla quale, non essendo in alcun caso ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo con il diritto del minore alla propria identità, il consenso prestato dal coniugi o dai conviventi appare elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di una effettiva tutela della personalità del minore”.
[88] Tra le righe, sembra leggersi una necessità di un’interpretazione sistematica-assiologica, tanto cara a P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, p. 919 ss.
[89] Vedi, specificamente, p. 34, § 7.9 della sentenza in commento.
[90] Vedi, in tal senso, p. 34, § 7.9 della sentenza.
[91] Sembra dunque, che oltre alla “sopravvivenza post mortem del consenso espresso in vita”, debba esserci anche una “impossibilità di condizionare l’efficacia del consenso alla fecondazione post mortem con l’evento morte”. Discorso diverso, invece, si avrebbe quando il soggetto esprime il suo dissenso. In tal caso, nulla quaestio. L’evento morte farebbe venir meno gli effetti devolutivi della discendenza biologica in capo al padre. Si ricordi, però, ed è aspetto rilevante, che il consenso è sempre “revocabile” fino alla morte, in quanto si tratta di “diritti personalissimi della persona umana”. In tal caso, cosa accadrebbe? L’embrione che fine farebbe, posto il divieto di sopprimere gli embrioni previsto dal nostro ordinamento? In tal senso, si consenta rinviare a R. Trezza, Diritto all’anonimato, cit., p. 14 ss., in cui si discute, in riferimento all’excursus della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della c.d. “reversibilità del consenso fino alla morte”.
[92] Vedi, in tal senso, per una panoramica d’insieme, la sentenza in commento, specie pp. 36-38, § 7.11.1..
[93] Vedi Trib. Palermo dell’8 gennaio 1999, il quale richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 347 del 1998 ha affermato che un ragionevole punto di equilibrio tra il perseguimento delle finalità di cui all’art. 30 cost. da un lato, e il diritto alla vita del nascituro e all’integrità fisica e psichica della madre dell’altro, postulerebbe la prevalenza di questi accordi, reputando opportuno prevenire la produzione di una danno certo e duplice (quello che subirebbero nascituro e madre nell’ipotesi in cui si dovesse decidere di sopprimere l’embrione a causa del decesso del padre), in luogo di un altro meramente eventuale (il pregiudizio che subirebbe il nascituro a crescere in un contesto familiare senza la figura paterna). In tal senso vedi C. Casella, Aspetti problematici della procreazione medicalmente assistita, tesi di dottorato, Università degli Studi di Salerno (prof. Dionisi), 2014, p. 146. Inoltre, vedi M. Sesta, Fecondazione assistita. La Cassazione anticipa il legislatore; in Guida al diritto, 1999, 12, p. 48 con nota di A. Finocchiaro, La Cassazione non può svolgere una supplenza nelle funzioni riservate al legislatore, con la quale la Corte ha affermato che il marito, dopo aver validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto, non può esercitare l’azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito attraverso tale tipo di fecondazione artificiale.
[94] Vedi T.A.R. Lazio del 21 gennaio 2008, dove si legge che dalla disposizione di cui all’art. 14, co. 1 (che vieta la soppressione di embrioni), e dalla norma di cui all’art. 6, co. 3 (che stabilisce la inefficacia della revoca della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo), va desunto, in via interpretativa, che il momento in cui deve sussistere il requisito soggettivo della presenza in vita di entrambi i componenti della coppia sia quello della fecondazione dell’ovulo, risultando irrilevante la successiva morte del marito o del compagno. Vedi, in tal senso, C. Casella, Aspetti problematici, cit., pp. 148-149. Inoltre, vedi R. Villani, La procreazione medicalmente assistita in Italia: profili civilistici, in S. Rodotà, P. Zatti (diretto da) Trattato di Biodiritto, Il Governo del corpo, p. 1525 ss.; L. Lenti, La procreazione artificiale. Genoma della persona e attribuzione della paternità, Padova, 1993, p. 265; R. Clarizia, Procreazione artificiale e tutela del minire, Giuffrè, 1988, p. 18; P. Vercellone, La filiazione, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, p. 323; C. Semizzi, Rilievi giuridici sull’inseminazione artificiale, in dir. fam. pers., 1984, I, p. 369; A. Santosuosso, Per ricorrere al soccorso della tecnologia basta la sola certificazione di sterilità, in Guida al diritto, 2004, p. 29; G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 105 ss.
[95] Vedi, in tal senso, I. Marconi, Fecondazione omologa post mortem trasmette il cognome del padre, su altalex, 30 maggio 2019; L. Biarella, Fecondazione omologa post mortem: sì alla rettifica dell’atto dello stato civile, in quotidiano giuridico, 27 maggio 2019; M. F. Mazzitelli, Fecondazione omologa post mortem e presunzione di paternità, in simoneconcorsi, 21 maggio 2019; Aa. Vv., Fecondazione omologa post mortem: rettifica dell’atto di nascita anche per il figlio “postumo”, in diritto e giustizia, 16 maggio 2019; Aa. Vv., Nascita con fecondazione omologa dopo la morte del padre, in edotto, 16 maggio 2019.
[96] Vedi, sul punto, E. Bilotti, La fecondazione artificiale post mortem nella sentenza della I sezione civile della Cassazione n. 13000/2019, in centro studi livatino, 23 maggio 2019, specie p. 5, in cui afferma che “…la sicura preminenza della tutela del nascituro è un argomento difficilmente confutabile. In effetti, per quanto un’altra recentissima decisione delle Sezioni Unite sembri ora voler ridimensionare proprio un simile argomento (Cass. SU, 8 maggio 2019, n. 12193), appare comunque inaccettabile che il nato possa subire un pregiudizio a causa di una violazione di legge da parte degli adulti”. L’A., però, esprime una riserva, specie a p. 9, laddove scrive, a proposito della certezza della propria discendenza biologica, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità, che: “…Beninteso, non è dubitabile che il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche esibisca un scuro fondamento nella Costituzione e nelle diverse Carte dei diritti. Escludere il diritto del nato allo status nei confronti di chi abbia autorizzato l’impiego post mortem del proprio seme crioconservato non significa però mettere in discussione anche il suo diritto alla conoscenza delle origini biologiche”.
[97] A tal proposito, vedi il commento di F. Capra, Non è un Paese per fecondazione post mortem, in Ass. Luca Coscioni (rassegna stampa), 1 giugno 2016, in cui, specie p. 2, si dice che: “…al momento, l’unico modo per ottenere una fecondazione post mortem è attraverso l’intervento di un giudice che può stabilire di caso in caso l’adeguatezza della richiesta”. Ma non è confacente con il caso in esame, in quanto non si discute sulla liceità o meno della pratica, seppure è proprio questo ciò che si vuole sollecitare.
[98] Vedi, a tal proposito, gli artt. 311-320 code civil. Si richiama C. Casella, Aspetti problematici, cit., p. 154.
[99] Vedi, a tal riguardo, l’art. 28, comma 6b, del Human Fertilization and Embriology Act del 1990.
[100] In tal senso, si consenta rinviare nuovamente a C. Casella, Aspetti problematici, cit., p. 154.
[101] Vedi Legge n. 3089 del 2002, poi modificata dalla Legge n. 3305/2005.
[102] Vedi, infatti, l’art. 9 della Legge n. 14 del 2006.
[103] Vedi, a tal fine, la Legge n. 460 del 1997.
[104] Vedi, in tal senso, la legge federale del 18 dicembre 1998.
[105] In tale direzione va l’art. 4, co. 1, n. 3 della legge tedesca del 1990. È rilevante l’approdo a cui è pervenuta C. Casella, Aspetti problematici, cit., specie p. 155.
[106] In tal senso, vedi U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 507, in cui afferma che: “l’applicazione della disciplina generale della filiazione, e conseguentemente, la costituzione del rapporto filiale con la madre partoriente, risulta la soluzione più coerente con il divieto di maternità surrogata (art. 12, co. 6), penalmente sanzionato anche nei confronti dell’uomo e delle donne che abbiano partecipato o assentito alla sua organizzazione: l’accordo di surrogazione di maternità va conseguentemente considerato nullo e il consenso improduttivo di effetti”.
[107] In tal senso, T. Auletta, Fecondazione artificiale, cit., p. 26.
[108] In tale direzione, L. Lenti, La procreazione artificiale, cit., p. 227 ss.
[109] Il tema è ben affrontato da U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie pp. 512-513.
[110] Sul punto, si è già detto, ma sembra opportuno richiamare G. Cassano, Nuove frontiere giurisprudenziali del diritto di famiglia (fecondazione artificiale eterologa e fecondazione artificiale post mortem), in diritto.it (Diritto civile e commerciale), 2018, p. 10, in cui si mettono in luce le due tesi contrapposte: la prima che, in ragione degli artt. 29 e 30 Cost., reputa rilevante che il figlio debba essere istruito, educato e mantenuto dai propri genitori, di tal guisa che gli accordi intercorrenti fra i vari soggetti volti a realizzare la fecondazione artificiale dopo la morte del marito debbano essere considerati illeciti, in quanto strutturalmente il nato sarebbe privo della figura paterna. D’altra parte, invece, chi, considerando come indebite le ingerenze dell’ordinamento in questa materia, perviene a soluzioni diverse, insistendo sui principi di libertà sessuale e di trasmissione della vita.
[111] Mostra molto bene questo modus ragionandi, il contributo di U. A. Salanitro, La disciplina della filiazione, cit., specie p. 513.
[112] A proposito delle tecniche di normazione, affinché il legislatore, che sembra del tutto inesperto, capisca come debba muoversi a tal punto, si consenta rinviare a P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., specie p. 217 ss., in cui si sofferma sulle tecniche legislative, sul principio di legalità e sulla catalogazione delle norme giuridiche.
[113] Vedi, Legge n. 194 del 1978.
[114] Sul punto, più accuratamente, si potrebbe parlare di “positivismo etico”, derivante dall’idea sottesa all’opera di P. Perlingieri, Il diritto civile, op. cit.
[115] In tal senso, si consenta rinviare a R. Trezza, La responsabilità civile del medico, cit., specie nell’introduzione, p. 15.
MIGLIORARE IL CSM NELLA CORNICE COSTITUZIONALE
Il Consiglio superiore della Magistratura attraversa da tempo una crisi di credibilità sia tra i magistrati che sul più ampio versante della pubblica opinione.
I recenti fatti portati alla luce dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia – il cd. caso Palamara –, che hanno occupato per intere settimane le prime pagine dei giornali, hanno certificato, in un generale sconcerto, lo stato di profondo malessere dell’Istituzione.
Sembrano prevalere, almeno a volte, logiche di gestione del potere – il riferimento è soprattutto alla nomina dei capi degli uffici giudiziari, in particolare quelli inquirenti – che scolorano fortemente la funzione di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura assegnata al Consiglio Superiore dalla Costituzione.
L’idea diffusa, che prevale nel dibattito politico, è che il male si annidi nelle correnti interne all’Associazione Nazionale dei Magistrati: da qui il proposito di escogitare un sistema che impedisca alle correnti di interferire, attraverso il controllo della scelta della componente togata, nella vita consiliare.
Da ultimo si propone il sorteggio come momento di una complessa articolazione della procedura di nomina, in modo che il tasso di casualità da esso introdotto spezzi il vincolo di dipendenza del singolo consigliere dal gruppo correntizio.
Non è la prima occasione in cui si vuole riformare la legge elettorale per ridurre l’eccessivo potere correntizio; l’attuale legge, ma anche le precedenti, furono varate con questo dichiarato intento, che, poi, alla prova dei fatti, è rimasto inattuato.
V’è allora bisogno di una riflessione affrancata quanto più possibile dall’emergenza e quindi dall’urgenza di un intervento che dia l’impressione, e forse soltanto questa, di una rapida soluzione e che consenta di indagare il fenomeno delle correnti al riparo da luoghi comuni e da stratificate e poco meditate convinzioni.
Accanto alla grande e spinosa questione di come selezionare i componenti togati, altri temi, apparentemente di minor rilievo, meritano attenzione, nella prospettiva di restituire piena credibilità al Consiglio Superiore.
La gestione delle carriere dei magistrati e il controllo sull’operato dei capi degli uffici sono compiti che il Consiglio Superiore adempie (e deve adempiere) nell’interesse generale, con lo sguardo rivolto alla opinione pubblica e non a quella più ristretta, confinata all’interno del corpo giudiziario.
Tempi e qualità delle decisioni sono momenti centrali per rinnovare il significato costituzionale del Consiglio Superiore. Su questo piano il legislatore potrebbe fornire qualche utile contributo che valorizzi e non deprima la potestà consiliare di autoregolarsi e di produrre la cd. normazione secondaria.
La ricerca di un nuovo equilibrio tra legge e Consiglio Superiore potrebbe in uno rafforzare la funzione di garanzia della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e la capacità del Consiglio Superiore di dare le risposte che non solo i magistrati ma la collettività attendono e pretendono.
Complesso monumentale San Salvatore in Lauro
Piazza San Salvatore in Lauro, 15
Roma 11 ottobre 2019
MIGLIORARE IL CSM NELLA CORNICE COSTITUZIONALE
Ore 9,00 INTRODUZIONE: Paola Filippi – Procura Generale Corte di Cassazione
Ore 9,30 prima sessione.
Presiede Giorgio Costantino - Università Roma Tre
La promessa costituzionale di autonomia e indipendenza
Il CSM: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione
Francesca Biondi - Università Statale di Milano
Ore 10.00 Interventi programmati:
Indipendenza dei giudici europei
Alessia Fusco - Università di Torino
Indipendenza dei giudici nazionali e giurisprudenza UE
Roberto Giovanni Conti - Corte di Cassazione
La formazione del magistrato e la sua legittimazione
Angelo Costanzo - Corte di Cassazione
Come si forma un magistrato
Ernesto Aghina - Tribunale di Torre Annunziata
La rappresentazione pubblica dell’autogoverno
Marcello Basilico - Tribunale di Genova
Coffee break
Ore 11,00 seconda sessione
Presiede Gabriella Luccioli - già Corte di Cassazione
La rappresentanza elettorale e le degenerazioni corporative
I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme
Giuseppe Santalucia - Corte di Cassazione
I difetti dell’attuale sistema elettorale: una prospettiva per il futuro prossimo
Giacomo D’Amico - Università di Messina
Il metodo elettorale del sorteggio
Salvo Spagano - Università di Catania
Ore 12,00 Interventi programmati:
La rappresentanza di genere
Donatella Ferranti - Corte di Cassazione – già Commissione Giustizia Camera
Se il qualunquismo vince?
Morena Plazzi - Procura della Repubblica di Bologna
ore 12.30
Tavola rotonda
Modera Alfonso Amatucci - già Corte di Cassazione
I mali del CSM: l’invadenza delle correnti o la loro scomparsa?
Carlo Guarnieri - Università di Bologna Alma Mater
Giorgio Spangher - già Università di Roma La Sapienza
Eugenio Albamonte - Procura della Repubblica di Roma
Ore 13,30 lunch
Ore 15,00 Terza sessione
Per una effettiva trasparenza nel governo della magistratura
Presiede Oreste Pollicino - Università Bocconi di Milano
Attività consiliare e tutela: il delicato equilibrio tra autonomia e controlli
Sandro Saba - Tribunale di Milano
Il controllo del CSM sull’assetto organizzativo degli uffici
Giovanni Salvi - Procura generale della Corte di appello di Roma
Bernardo Petralia - Procura generale della Corte di appello di Reggio Calabria
Interventi programmati:
La sottile linea rossa tra controllo e collaborazione
Antonella Magaraggia - Tribunale di Verona
Il controllo e l’organizzazione
Alessandra Camassa – Tribunale di Marsala
L’importanza delle semplificazione
Beatrice Bernabei - Tribunale di Latina
Trasparenza delle decisioni e responsabilità delle scelte
Elisabetta Pierazzi - Tribunale di Roma
L’accesso all’ informazione
Andrea Apollonio - Procura della Repubblica di Patti
Conclusione dei lavori
Francesco Dal Canto - Università di Pisa
Bruno Giordano - Corte di Cassazione
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA DEL CONVEGNO: Costantino De Robbio, Beatrice Bernabei, Andrea Apollonio 3403485533-3297786474
Sommario: 1.Premessa. - 2.Il valore del cammino tra gli altri elementi del trattamento.- 3.L’esperienza dei cammini rieducativi in Italia e all’estero. - 4.L’avvio dell’esperienza del cammino dei detenuti in Italia
1.Premessa
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”: la Costituzione, all’art. 27 comma 3, oltre a questo precetto relativo alla umanità del trattamento, espresso in termini negativi e comune alle Costituzioni di quasi tutti gli altri Paesi, contiene un precetto espresso in termini positivi (“e devono tendere alla rieducazione del condannato”), elemento quasi esclusivo della nostra Costituzione.
La stessa Corte Costituzionale fin dal 1966 (sent. n. 12) ha spiegato che i due precetti devono essere letti in un contesto unitario perchè “da un lato infatti un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un'azione rieducativa del condannato; dall'altro è appunto in un'azione rieducativa che deve risolversi un trattamento umano e civile, se non si riduca a una inerte e passiva indulgenza”.
Ricostruire l’individuo nella sua relazione con la società è un obiettivo molto difficile e tutte le iniziative che mirano ad utilizzare il tempo della carcerazione, che vanno più in profondità rispetto alla “normalità del carcere”, sono una scommessa vinta.
Occorre arrivare più vicini al detenuto per attivare un processo di valorizzazione della sua individualità, di maggiore responsabilizzazione.
Alla finalità rieducativa è chiamata a partecipare non solo l’Amministrazione penitenziaria che gestisce l’esecuzione della pena e le altre istituzioni che ne sono garanti, ma l’intera società che vi partecipa innanzitutto attraverso il volontariato in prima linea insieme alle altre articolazioni dello Stato nell’opera di ricostruzione del detenuto. La gratuità e la spontaneità del gesto del volontario concorre molto più di altre azioni alla rieducazione del detenuto che sente di ricevere qualcosa in modo del tutto disinteressato.
2. Il valore del cammino tra gli altri elementi del trattamento
Qualunque iniziativa capace di sorreggere il percorso del condannato verso il rientro nella società, con atteggiamento di rispetto dell’altro, rientra nel complesso di azioni definite dall’art. 15 dell’ Ord. Pen. come “elementi del trattamento”; il condannato sviluppa così la volontà di autodeterminarsi rientrando nella società e nella vita di relazione, rispettando la legge e provvedendo ai suoi bisogni.
Vedere in televisione il bellissimo documentario “Boez – Andiamo via”, realizzato da Roberta Cortella e Marco Leopardi in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che descrive il percorso di sei giovani adulti da Roma a Santa Maria di Leuca accompagnati per oltre 900 km da una guida e da un’educatrice, mi spinge a raccontare come è nata, circa dieci anni, fa la prima esperienza in Italia del cammino lungo la via Francigena come strumento di rieducazione rivolto ai detenuti adulti.
Quel progetto è nato dall’iniziativa del Rettore della Confraternita di San Jacopo di Compostella, Paolo Caucci von Saucken, professore ordinario di lingua e letteratura spagnola all’Università di Perugia e studioso delle vie del pellegrinaggio cristiano nel Medioevo.
Nel corso della storia in Italia quasi tutti i santuari più importanti erano meta di pellegrinaggi forzati, pena di diritto canonico e poi sanzione penale, comminata ai condannati calibrando il percorso per distanza e difficoltà a seconda del peccato o del reato commesso. Anche numerosi Comuni del Nord Europa, come si ricava dai loro Statuti, comminavano il pellegrinaggio come sanzione civile.
Il Cammino di Santiago esiste fin dal Medioevo e al di là della dimensione religiosa esso si fonda su contenuti ulteriori.
In una prospettiva laica il viaggio verso una meta è cammino di introspezione e di conoscenza, occasione di revisione critica, di riflessione sui propri comportamenti.
In relazione alla pena detentiva, il “percorso” penitenziario richiama l’idea di una via o di un cammino per il riconoscimento degli illeciti compiuti attraverso la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni.
Nel cammino il detenuto è sradicato dalla realtà dalla quale proviene ed è posto di fronte alle proprie responsabilità, e soprattutto di fronte alle proprie possibilità così da preparare il suo ritorno alla società civile.
Il cammino propone un radicale cambiamento, la possibilità di sperimentare nuovi aspetti della personalità. Percorrendo le strade di un nuovo Paese, una nuova lingua, un nuovo ambiente, si interrompe un “giro vizioso”, ci si responsabilizza riprendendo in mano le redini della propria vita.
Il viaggio è preceduto da un periodo di preparazione (fisica e psicologica) in cui accompagnatore, ragazzi o adulti si conoscono reciprocamente e si prende confidenza con l’attrezzatura.
Percorrere una media di 20-25 chilometri al giorno richiede uno sforzo notevole e la capacità di acquisire abilità pratiche, ma soprattutto offre la possibilità di incontrare persone, di parlare una nuova lingua, di apprezzare il valore della natura e la bellezza dei posti.
L’accompagnatore, con cui condividere compiti e decisioni durante il viaggio, ha un ruolo fondamentale, non deve essere necessariamente un terapeuta o un educatore ma è richiesta una certa esperienza di vita, una personalità stabile e una forte empatia.
Il contatto con la natura e con i luoghi storici, la condivisione con una piccola comunità che cammina insieme, la generosità degli accompagnatori, il ritrovarsi tra pari, mettersi in gioco, affrontare la fatica fisica diventano una opportunità.
3.L’esperienza dei cammini rieducativi in Italia e all’estero.
Partendo da questi presupposti fin dal 1982 in Belgio, alcuni giudici hanno iniziato a prevedere il Cammino di Santiago di Compostela come pena alternativa al carcere per i minori. Si procedette per gradi, all’inizio con brevi pellegrinaggi, fino a delineare un programma di rieducazione per detenuti minorenni che, accompagnati dai volontari dell’organizzazione Oikoten (parola greca che significa “lontano da casa” “con le proprie forze”), percorrono più di 2.500 km e alla meta conquistano la libertà.
Nel 2009 gli stessi giornalisti Roberta Cortella e Marco Leopardi hanno seguito per quattro mesi il cammino di due di questi giovani detenuti realizzando il documentario intitolato “La retta via” che, attraverso le interviste realizzate successivamente a distanza di tempo, dava anche conto dei risultati conseguiti dai protagonisti di quel viaggio.
I cammini educativi sono stati introdotti in Francia fin dal 2000 dall’organizzazione “Seuil” (che in francese significa “soglia”, limite da varcare per entrare in una nuova vita e reintegrarsi nella società) e anche in Spagna dal carcere della Trinidad di Barcellona, da quello di Nanclares de Oca e da quello di Albacete sono partiti per il Cammino di Santiago gruppi di reclusi minorenni e adulti accompagnati da funzionari di vigilanza e volontari.
E’ del 2007 la pubblicazione “La funzione educativa del cammino” frutto del lavoro di un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre che ha studiato l’esperienza del cammino a piedi come proposta educativa e formativa per un gruppo di ragazzi “a rischio”, accompagnati tra Spoleto e Assisi. Nell’introduzione alla pubblicazione, il cammino a piedi è stato definito “una pratica che porta scompiglio perché decongela, modifica, riformula pensieri impigliati nel senso comune, emozioni cristallizzate; provoca nuovi orientamenti di percorsi fuori da strade tacite, scontate, per fermarsi a pensare, godere, sognare, amare, prendersi cura del futuro”.
Più recentemente l’associazione Oikoten fusa con l’organizzazione belga ”Alba” che si occupa di disagio giovanile ha costituito un network con associazioni francesi (“Seuil”), tedesche (“Bischof-Benno-Haus”) e italiane (“Lunghi cammini” e “L’Oasi”), sotto la direzione dell’Università di Scienze Applicate di Dresda (FHD), nell’ambito del progetto Erasmus “Between Ages”, con l’obiettivo di favorire lo scambio di buone pratiche nel campo del recupero e del reinserimento sociale di giovani sottoposti a misure penali.
Anche altre Associazioni realizzano esperienze di aiuto per soggetti svantaggiati attraverso il cammino a piedi, tra cui la Cooperativa sociale Fraternità Impronta di Ospitaletto, in provincia di Brescia, che nel 2017 ha selezionato e accompagnato un gruppo di ragazzi tra i 17 e i 19 anni che avevano commesso reati, ospiti delle sue strutture, su un percorso di 200 km fino a Santiago di Compostela.
Tornando alla Confraternita di San Jacopo di Compostella raccolsi quindi il suggerimento del Prof. Caucci organizzando un incontro il 9 aprile 2010 a Roma nella sede dello Spedale della Provvidenza di San Giacomo e San Benedetto Labre, gestito dal Capitolo romano della Confraternita, luogo di accoglienza che dà ospitalità ai pellegrini in arrivo e in partenza da Roma. All’incontro presero parte tra gli altri Giovanni Tamburino, allora presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, il Direttore dell’Esecuzione Penale esterna del DAP, il comandante del carcere di Bollate e il cappellano del carcere di Rebibbia.
La Confraternita, un’istituzione fondata a Perugia nel 1981 con la finalità di promuovere la pratica del pellegrinaggio, da sempre rappresenta il supporto culturale e organizzativo sul territorio per il passaggio dei pellegrini e da anni si occupa di studiare e segnare le principali vie di pellegrinaggio. Monica D’Atti, volontaria dell’associazione, ha personalmente provveduto a segnare la via Francigena scrivendo nel 2001 la prima guida, corredata di preziose carte, cui nel 2010 è seguita la pubblicazione della prima guida della cosiddetta Francigena del sud, da Roma ai porti pugliesi per la Terra Santa.
4.L’avvio dell’esperienza del cammino dei detenuti in Italia
Ho creduto fin dall’inizio nel prezioso spirito di servizio che muove i volontari accompagnatori e nell’importanza di riuscire a realizzare in Italia un progetto indirizzato ai detenuti.
Così il primo gruppo di reclusi nel carcere di Rebibbia, preparato e accompagnato da volontari della Confraternita, si è messo in cammino sulla via Francigena il 5 giugno del 2011 nel percorso di 168 chilometri fra Radicofani e Roma coperto in otto giorni condividendo, detenuti e accompagnatori, ogni aspetto del cammino, in semplicità.
La Confraternita ha curato l’organizzazione del cammino per i detenuti anche negli anni successivi e lungo percorsi diversi.
Nel 2013 sono stati coinvolti 30 detenuti suddivisi in tre gruppi ciascuno dei quali ha percorso rispettivamente il percorso classico da Radicofani, la Francigena del Sud da Montecassino e l’antica via Amerina da Assisi, per ricongiungersi a piazza San Pietro durante l’udienza di Papa Francesco che li ha voluti accanto a sé sul sagrato.
Nel 2015 i volontari del capitolo sardo hanno accompagnato un gruppo di detenuti anche lungo il Cammino della Visitazione nel nuorese.
Nel 2017 il cammino ha preso l’avvio presso la cattedrale di San Zeno a Pistoia.
Più recentemente l’avv. Marina Binda, volontaria della Confraternita, ha continuato ad animare le ultime edizioni dandone testimonianza anche tramite la pubblicazione di un diario scritto lungo il percorso.
Va premesso che non si può aderire ad una prospettiva religiosa del cammino, discriminatoria nei confronti di coloro che non la condividono.
Venendo allo strumento utilizzato all’interno della realtà della esecuzione penale, i detenuti (le richieste sono state sempre più numerose rispetto al numero di posti disponibili) hanno speso parte dei 45 giorni a loro disposizione a titolo di permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen. perché il magistrato di sorveglianza ha ritenuto il percorso/pellegrinaggio conforme a un interesse culturale ed a una pregnante finalità rieducativa.
Nel 2018 il giudice del Tribunale per i Minori di Venezia ha accolto la proposta formulata dalla Lunghi Cammini Onlus, associazione che si occupa di realizzare lunghi cammini educativi per minori, di effettuare il cammino di Santiago di Compostela nell’ambito di un programma di messa alla prova.
Con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della messa alla prova per gli adulti l’esperienza potrebbe trovare applicazione nel Tribunale ordinario dovendo considerarsi l’indubbio rilievo sociale del cammino e l’effettivo sostegno rappresentato dal percorso a piedi per la “presa in carico” del reo nei cui confronti sospende il procedimento.
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