ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sequestro di denaro finalizzato alla confisca diretta. Nota a margine delle decisioni n. 23845 e 23844 del 07.05.2019 della Corte di Cassazione.Riflessioni operative di Graziella Viscomi
Il presente contributo nasce da una esperienza diretta in materia di sequestro del profitto del reato di peculato che ha indotto la scrivente ad una serie di riflessioni sulle modalità con cui curare la domanda cautelare reale e le modalità di esecuzione.
Con le sentenze n. 23845 e 23844 del 07.05.2019 la Corte di Cassazione dichiarava l’inefficacia di un sequestro preventivo disposto dal Gip di Catanzaro (in esito a convalida di un provvedimento d’urgenza adottato dal locala p.m.) sul presupposto che “venne disposto il sequestro preventivo per equivalente ai sensi dell'art. 322 ter cod. pen. in totale assenza di una preventiva applicazione di un sequestro preventivo delle somme di denaro finalizzato alla eventuale confisca diretta da eseguire nei confronti della citata società, dunque in mancanza di un accertamento circa l'impossibilità dell'ablazione diretta che costituisce presupposto indefettibile per applicare una misura cautelare finalizzata alla confisca di beni di valore corrispondente al profitto del reato”.
La vicenda muoveva dalla contestazione di un reato di peculato nei confronti del Dirigente Generale di una società in house, di un Dirigente regionale e del responsabile di una società finanziaria i quali, nell’ipotesi accusatoria, si sarebbero impossessati di somme di denaro pubblico, sottraendoli alla destinazione vincolata cui le stesse erano destinate.
La decisione in parola offre diversi spunti di riflessione.
La prima riguarda la possibilità di tangere un soggetto che risulta completamente estraneo al reato sia un una prospettiva astratta che in una ottica concreta.
Da un punto di vista astratto, ovvero meramente teorico, si osserva infatti che la contestazione afferisce il peculato e, dunque, un reato non contemplato dalla L. n. 231/01 quale presupposto della responsabilità dell’Ente per il fatto compiuto, nel suo interesse, da un amministratore.
Primo interrogativo che sorge, dunque, è se la ricerca del profitto diretto involga una analisi della condotta del rappresentante della società finalizzata ad una verifica meramente ipotetica della responsabilità sociale. Ci si chiede, dunque, se vi sia la necessità di porsi in un’ottica concreta finalizzata alla verifica della tangibilità del soggetto che, in qualche modo, possa dirsi concorrente del reato, pur non potendone rispondere in assenza di una previsione in tal senso.
La questione è stata affrontata dalla Suprema Corte con la decisione n. 17840/19 la quale, citando diversi precedenti, ha rilevato che: “a prescindere dai profili di responsabilità del legale rappresentante, l'ente che trae profitto dall'altrui condotta illecita non può mai essere considerato "estraneo" al reato ai fini della confisca diretta del profitto medesimo (cfr., sul punto, Corte cost. sentenza n. 2/1987 secondo cui l'art. 27, comma primo, Cost., non consente che si proceda a confisca di cose pertinenti a reato, ove chi ne sia proprietario al momento in cui la confisca debba essere disposta non sia l'autore del reato o non ne abbia tratto in alcun modo profitto; in senso analogo, Sez. 1, n. 3118 del 08/07/1991, Rv. 188391, aveva affermato il principio che la confisca, come misura di sicurezza patrimoniale, è applicabile anche nei confronti di soggetti (quali le società) sforniti di capacità penale. Ciò sul rilievo che l'estraneità al reato esige che la persona cui le cose appartengono non abbia partecipato con attività di concorso o altrimenti connesse, ancorché si tratti di persona non punibile perché priva di capacità penale; nello stesso senso Sez. 3, n. 3390 del 19/01/1979, Rv. 141690, aveva affermato che può ritenersi estraneo al reato soltanto colui che alla commissione del reato medesimo non abbia partecipato in alcun modo con una qualsiasi attività di concorso o altrimenti connessa, ancorché non punibile. Costituisce declinazione di tali insegnamenti il principio affermato da Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647, sopra riportato; nel senso che la nozione di "persona estranea al reato" cui appartiene e va restituita la cosa sequestrata (art. 240 cod. pen.) è diversa da persona estranea al procedimento penale, in quanto richiede la estraneità al fatto - reato, che non ricorre in chi sia sfuggito al procedimento penale, Sez. 1, n. 7855 del 28/01/1988, Rv. 178817)".
Il principio enunciato dal Giudice nomofilattico, quanto meno a primo impatto, potrebbe destare delle perplessità non tanto poiché si risolve nella considerazione ultima di un sequestro possibile nei confronti di un terzo che sia completamente estraneo al reato e che risponda per il fatto illecito altrui, anche in assenza di una disposizione punitiva specifica. Vero è, infatti, che tale teorica è consolidata nella giurisprudenza in relazione ai reati tributari ove -in buona sostanza- non si considera l’Ente estraneo al reato (cfr. anche Cass. Pen. n. 3591 del 20.09.2018, rv. 275687-01). La perplessità si pone, invece, in relazione all’automatismo sulla responsabilità che ne viene fatto e che fonda la possibilità del sequestro finalizzato alla confisca diretta. Se ne conclude, insomma, che lì è il profitto, lì sarà l’ablazione senza necessità di verifiche sulla responsabilità del soggetto. Effettivamente, nel passaggio della decisione surriportata la Corte di Cassazione adotta un concetto più ampio di estraneità al reato inglobandovi anche la persona “priva di capacità penale”.
In un certo senso, i principi da ultimo espressi dalla Suprema Corte, inoltre, paiono conciliarsi con l’orientamento (che non riguarda le società, va precisato) per cui “Il sequestro finalizzato alla confisca ex art. 240 c.p., in caso di concorso di persone nel reato non può prescindere dall’effettivo vantaggio conseguito dal concorrente nel delitto e quindi non può esser disposto nei confronti del coimputato che abbia materialmente appreso tale profitto” (Cass. Pen. 11981 del 07.12.2017, rv 272855-01).
A parere di chi scrive, tuttavia, rimangono delle perplessità. Se è ben vero che, alla luce degli arresti sopra riportati, il sequestro segue il bene ovunque si trovi, potrebbe arrivarsi alla conclusione che ciò vale anche nelle ipotesi in cui il profitto possa dirsi “giusto” poiché, per esempio, corrispondente ad un utile legittimo. Ipotizziamo, infatti, il caso del pubblico amministratore che devii delle risorse pubbliche sottraendole alle finalità impresse da un POR (sempre un caso di peculato, dunque). Consideriamo che tali risorse siano affidate ad una società che le utilizzi nell’ambito della propria attività dopo averle ricevute con un espresso provvedimento amministrativo dell’organo pubblico interessato. Laddove non sia possibile individuare una condotta illecita in capo all’amministratore della società in questione (per esempio poiché non tenuto a conoscere del vincolo impresso alle somme, oppure poiché -trattandosi di società- non è possibile risalire al soggetto che ha disposto delle somme affidate con la consapevolezza della loro sottrazione a pubbliche finalità), può un provvedimento ablatorio essere indirizzato su quella società, terzo estraneo al reato, ma destinatario e beneficiario di quella somma di denaro, profitto del reato di peculato e per essa stessa profitto/utile? Se il principio espresso dalla Suprema Corte è quello per cui l’Ente che trae profitto dall’altrui condotta illecita non può mai essere considerato estraneo al reato ai fini della confisca diretta del profitto medesimo, si potrebbe giungere a tale conclusione. Ricordiamo, tuttavia, che la confisca diretta costituisce una misura di sicurezza patrimoniale che ha natura cautelare e non punitiva.
V’è da dire che il tema del sequestro diretto è stato affrontato dalla giurisprudenza partendo dal presupposto della diversa ratio alla base della confisca per equivalente. Nella sentenza n. 6816/19, la Suprema Corte ha sottolineato che: “esiste una netta differenza tra la confisca diretta e la confisca di valore (o per equivalente), che risiede proprio nel nesso di derivazione qualificata dal reato, nel senso che, nel primo caso, quel rapporto di derivazione fa sì che l'autore del reato venga privato del bene, fisicamente individuabile, che rappresenta il 'beneficio' diretto dell'illecito, laddove nel secondo caso, non potendo essere disposta la confisca diretta, l'agente viene privato di beni nella sua disponibilità economica che, senza alcuna pertinenzialità con il reato, abbiano valore pari al prezzo o al profitto dell'illecito”.
Le decisioni citate in apertura (n. 23845 e 23844 del 07.05.2019) hanno posto un interrogativo anche su di un problema pratico. La Suprema Corte si è espressa, invero, in termini di inefficacia del sequestro. Il provvedimento non è stato censurato nel merito, avendo la Corte di legittimità posto l’accento su quella che, in realtà, è una modalità di esecuzione, l’aver ablato i beni degli indagati senza prima intaccare la somma suscettibile di sequestro finalizzato alla confisca diretta. In punto procedurale ciò certamente implica la possibilità di riproporre il sequestro (Cass. Pen. Sez. 3, Sentenza n. 37706 del 22/09/2006 Cc. (dep. 16/11/2006), Rv. 235249 - 01). Ma induce a riflettere anche sul dispositivo che legittima la Corte di Cassazione a dichiarare addirittura l’inefficacia del provvedimento, con la conseguenza che il P.M., per procedere ad una esecuzione affatto censurata nel merito (ed anzi, confermata in sede di appello) deve richiedere un nuovo provvedimento al GIP.
Effettivamente, il dispositivo (così come la richiesta) indicavano l’esecuzione anche per equivalente, senza ulteriori specificazioni. In particolare, senza un espresso riferimento alla necessità di procedere a sequestro diretto sulla società beneficiaria del profitto e, solo in caso di incapienza, al sequestro per equivalente sugli indagati.
La questione risulta importante poiché una esplicita previsione in tal senso nel dispositivo e, a monte, una richiesta che già indicasse al GIP la via del sequestro diretto, avrebbe fatto salvo il provvedimento giurisdizionale, spostando il problema alla sola fase di apprensione materiale.
Da ultimo, occorre qualche breve cenno ad una problematica che concerne l’esecuzione sul denaro, poiché il provvedimento di inefficacia della Suprema Corte ha indotto a preoccuparsi anche del quomodo della nuova esecuzione.
Nella sentenza “Lucci”, le Sezioni Unite hanno affermato che: “Qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato” (Cass. Pen. Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015 Ud. (dep. 21/07/2015), Rv. 264437 - 01).
Sulla scorta di tale principio, occupandosi del sequestro diretto del profitto del reato, è stato inizialmente evidenziato che: “(…) per le Sezioni Unite il discorso si pone in termini peculiari laddove il profitto o il prezzo del reato sia costituto da una somma di denaro, dunque da un bene che perde la sua identificabilità fisica e che, per la sua fungibilità, si confonde con le altre disponibilità economiche dell'agente: sicché, non potendo, in genere, individuare nella sua materialità proprio il bene destinato alla confisca diretta, è sufficiente constatare che il patrimonio dell'interessato si sia accresciuto in misura pari a quell'importo” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 6816 del 29/01/2019 Cc. (dep. 12/02/2019), Rv. 275048 - 01).
Tuttavia, questa stessa decisione non sembra realmente omologarsi al principio suddetto, poiché in concreto svolge considerazioni sulla pertinenzialità del bene che, anche laddove si parli di denaro, finiscono -a parere di chi scrive- per annullare di fatto il concetto di fungibilità.
La decisione in questione, infatti, richiede un ulteriore requisito procedendo ad una reinterpretazione (voluta e manifestata) della statuizione delle Sezioni Unite nel senso che la fungibilità incontrerebbe il limite dell’accertamento delle somme di denaro esistenti sui conti corrente interessati o al momento della consumazione del reato od a quello del suo accertamento (espressione quest’ultima, alquanto ambigua). Secondo tale orientamento, pertanto: “nell'ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell'autore del reato, purché si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento: solo in tali ipotesi è possibile ragionevolmente sostenere che il denaro è sequestrabile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perché tale relazione è considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo. Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell'autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato - momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato - si finirebbe obiettivamente per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro sì oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell'autore del reato, ma che solo con una inaccettabile 'forzatura' possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell'illecito” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 6816 del 29/01/2019 Cc. (dep. 12/02/2019), Rv. 275048 - 01).
Ad avviso di chi scrive, un tale orientamento (nettamente contrario a quello espresso, ad esempio, nella decisione Cass. Pen. Sez. 2, n.29924 del 12/04/2018, citata nel contesto della prefata pronuncia) costringerebbe ad una probatio diabolica il requirente, non tiene in debito conto il momento in cui il reato viene accertato (anche a distanza di un lasso di tempo incompatibile con l’esatta persistenza su di un conto corrente sociale, soggetto a movimentazioni continue di quella specifica somma di denaro nella quale consiste il profitto) e contrasta anche con la stessa ratio del sequestro finalizzato alla confisca diretta.
Di certo, l’esame della variegata giurisprudenza che si è occupata della tematica della confisca diretta stimola ad una particolare attenzione nella esatta individuazione dell’oggetto della decisione ed in una programmazione particolarmente stringente delle modalità di esecuzione.
Sommario: 1. Marsala e il Tribunale. 2. La struttura, il circondario e i “dati” sulla giustizia. 3. L’organizzazione e la pianta organica. 4. Un ufficio “particolare”. 5. Il rafforzamento delle risorse.
1. Marsala e il Tribunale.
17 febbraio 2014. E’ il giorno in cui vengo immessa nel possesso delle funzioni nel Tribunale di Marsala. È la mia prima sede. La scelgo volutamente, perché è sede vicinissima alla città in cui abito, ma la scelgo anche e un po’ inconsapevolmente, in difetto di una chiara e concreta cognizione/percezione, all’epoca, del modo in cui avrebbe potuto effettivamente dipanarsi il complessivo lavoro giudiziario.
Marsala è una città bella e racchiude in sé le contraddizioni tipiche delle città del Sud, in particolare, delle città siciliane, ricchissime di arte, storia e cultura, che si ha, talvolta, la sensazione essere rimaste imprigionate nel passato, ma che non di rado pure riemergono, e in certi casi con dubbia insolenza.
Marsala è una città di mare e di agricoltura, di sole e di vento, di borghese ricchezza e popolare povertà e attorno ad essa girano piccoli e grandi centri e/o circuiti economici non sempre noti al resto dell’Italia (e all’estero) per il sapore dei vini che le imprese locali con secolare tradizione producono.
Numerosi sono i siti storici e archeologici presenti, testimonianza delle passate dominazioni e di quell’alternanza tra periodi di splendore economico e culturale (il periodo romano, ne è un esempio) e momenti di assedio e di oscurantismo (durante il periodo disinteressato di Bisanzio), con successive ed intermittenti rinascite (con gli Arabi, che diedero alla città il nome di Marsa’ Alì, e poi con i Normanni e gli Spagnoli e, ancora in seguito, nell’Ottocento, sino al noto sbarco dei Mille), che in maniera circolare hanno segnato e continuano a segnare la storia di questo territorio, il quale, altresì ricco di aree e riserve naturali di particolare bellezza (si pensi alla Riserva Naturale Orientata “Isole dello Stagnone di Marsala”), ha sempre registrato un alterno e contraddittorio rapporto con le “istituzioni”.
Il Tribunale si affaccia su questa terra “salata” e la guarda con il volto di chi, siciliano tra i siciliani, ha voluto con appassionata determinazione restituire verità e desiderio di cambiamento. Il manifesto di Paolo Borsellino, da un lato, e quello di Cesare Terranova, dall’altro, si trovano accanto alla scritta “Palazzo di Giustizia”, nel vecchio, come nel nuovo edificio, rappresentando, ciascuno ed entrambi insieme, il contenuto ideale e/o simbolico del luogo stesso.
La storia di questo Tribunale si sente ancora viva nei racconti di qualche più anziano cancelliere, avvocato o magistrato che ricorda i tempi, vissuti, dell’arrivo di Borsellino, con un solo sostituto in organico e un limitato numero di operatori di P.G., in un territorio in cui oggi come allora la presenza della criminalità organizzata è significativa. È la storia dei processi a personaggi di spicco appartenenti alla famiglia mafiosa del noto boss Matteo Messina Denaro, ancora latitante, e la storia altresì di scomparse e rapimenti rimasti irrisolti, come quello di Denise Pipitone.
In questo contesto, in cui il progressivo ampliamento delle risorse si registra soltanto a partire dagli anni Ottanta, notevole è l’impegno del personale tutto, compresa la componente forense, che all’idea di “giustizia” ha dedicato e dedica il proprio quotidiano lavoro.
2. La struttura, il circondario e i “dati” sulla giustizia.
Il Tribunale di Marsala, nato cinquanta anni fa, è oggi fisicamente collocato in un edificio grande, spazioso, luminoso e, soprattutto, moderno, la cui realizzazione, cominciata oltre 10 anni addietro su un’area originariamente occupata da un ex stabilimento vinicolo, è stata solo di recente portata a termine, con l’esecuzione di progressivi interventi di riordino e riadattamento, onde rendere la struttura quanto più possibile coerente e atta ad assicurare una efficace ed efficiente risposta di giustizia.
L’edificio, destinato ad ospitare un vasto numero di personale ed utenza, si compone essenzialmente di due blocchi principali di fabbrica, tra loro collegati. Ampi sono i corridoi e le aree aperte per accogliere il pubblico. Vi sono aule attrezzate per la trattazione dei processi penali e civili (comprese le aule destinate alle vendite) e, con una soluzione “eccentrica” rispetto ad altre e diffuse realtà, stanze assegnate a ciascun magistrato. È stata anche realizzata una stanza giochi per i bambini nonché una sala medica.
Il circondario è esteso e comprende, tra gli altri, i centri di Mazara del Vallo e Castelvetrano, costituenti due dei mandamenti in cui si articola l’organizzazione criminale “Cosa Nostra” nella provincia di Trapani.
La presenza della criminalità organizzata – che altresì alimenta la proliferazione di sacche di illegalità in diversi settori, compresi quelli dell’economia e della politica locale – non esaurisce le criticità del territorio.
Si assiste, ad esempio, negli ultimi anni ad un allarmante incremento della criminalità in ambito familiare e di genere, che accresce le esigenze di tutela, non solo penale, ma pure in sede civile – con elementi di contatto, in tale ultimo caso, anche con il lavoro svolto dal Tribunale per i Minorenni – delle fasce più deboli e marginalizzate della popolazione.
Non esiguo è il numero delle imprese presenti sul territorio ed operanti in una realtà complessa che, caratterizzata dalle dette notorie criticità, rende il contenzioso assai eterogeneo.
A ciò si aggiunge una diffusa illegalità che pure copre l’area degli illeciti contro la P.A. o in materia di edilizia e ambiente, in un contesto di disagio economico e sociale che reclama un assiduo e costante impegno di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nell’amministrazione della giustizia.
Alcuni dati tratti dal sistema datawarehouse del Ministero della Giustizia – Direzione generale di statistica e analisi organizzativa consentono di individuare, per il settore civile, alla data del 31.12.2018, con riferimento al totale degli affari contenziosi, controversie in tema di lavoro, previdenza e assistenza, affari della volontaria giurisdizione e procedimenti speciali sommari (c.d. area SICID), 5266 nuove iscrizioni e 5492 definizioni, per un rapporto tra procedimenti definiti e procedimenti sopravvenuti (c.d. clearance rate) pari 1,04% e con un numero di pendenze finali pari a 3118. La percentuale di cause pendenti ultratriennali sul totale delle pendenze è pari allo 0,8% (al 31.12.2015 la percentuale delle cause ultratriennali sul totale delle pendenze era del 4,3%).
Per ciò che attiene alla giustizia penale, alla data del 31.12.2018, si registra un numero di sopravvenienze pari a 4555 a fronte di definizioni pari a 4370, per un clearance rate che si assesta nella percentuale dello 0,96%, mentre la variazione delle pendenze ultratriennali è pari a - 25,6%.
In significativa crescita sono i procedimenti iscritti per i delitti di maltrattamenti, atti persecutori e abusi sessuali (il dato statistico segna un incremento delle iscrizioni per tale tipologia di reato, negli ultimi tre anni, del 21%).
Intuitivi sono i momenti di contatto tra il lavoro della Procura locale e la DDA, cui sono trasmessi per competenza quei procedimenti che, originariamente istruiti per reati comuni, si rivelano in seguito riconducibili nell’area dell’associazione mafiosa.
Non sono rare, altresì, le imprese dichiarate fallite e contemporaneamente attinte da misure di prevenzione, con ogni conseguenza in punto di coordinamento tra le due discipline e procedure.
Il lavoro giudiziario, nelle due macro-aree (civile e penale) – in cui pure si articola la ripartizione in Sezioni del Tribunale – si presenta, così, sempre vario e multiforme, con non inconsueti momenti di interferenza, richiedendo a ciascun operatore, sin dal momento in cui entra a far parte dell’organico, anche in sede di prima assegnazione, una duttilità intellettuale e organizzativa che, pur a fronte di una inevitabilmente diradata specializzazione, amplifica, comunque, le occasioni di confronto nell’ufficio, offrendo importanti opportunità di crescita personale e professionale.
3. L’organizzazione e la pianta organica.
Il Tribunale di Marsala, come anticipato, è organizzato in due Sezioni, una penale e una civile, quest’ultima articolata in più uffici (contenzioso – esecuzioni e fallimenti – lavoro e previdenza – volontaria giurisdizione).
Quanto ai magistrati presenti, a fronte di una pianta organica che conta 21 giudici (oltre 2 Presidenti di sezione ed un Presidente di Tribunale), i magistrati effettivi sono in questo momento 17 (esclusi i Presidenti), di cui ben 7 con la I valutazione di professionalità e 4 con la II valutazione di professionalità, con una scopertura di organico soggetta a periodiche variazioni e destinata prossimamente ad aumentare, con il trasferimento di altri 3 colleghi già proposta dall’apposita commissione consiliare.
Ulteriormente complessa è la situazione della Procura che, a fronte di una pianta organica comprensiva di 8 sostituti e del Procuratore, soffre, allo stato attuale, di una scopertura del 38%. Sono 5 infatti ad oggi i magistrati effettivamente presenti (di cui 1 m.o.t. e 2 sostituti alla I valutazione di professionalità), oltre al Procuratore.
Non mancano le pubblicazioni di posti vacanti, e tuttavia, come pure ricordato dal vicepresidente del CSM David Ermini, in occasione della cerimonia inaugurale del nuovo Palazzo di Giustizia tenutasi lo scorso 9 ottobre, nonostante l’indizione dei bandi, tanto nel Tribunale quanto nella Procura, “non sono state presentate domande: i magistrati non fanno domanda per andare in alcuni uffici particolari del Sud”.
4. Un ufficio “particolare”.
Marsala evidentemente rientra in uno dei suddetti “uffici particolari” e, se così è, l’attuale situazione – quella, cioè, in cui si viene a trovare un magistrato, più spesso di prima nomina, non appena arriva qui – non sembra tanto diversa dalla situazione che emerge dalle parole di una personalità importante e simbolica, come quella di Paolo Borsellino, pronunciate oltre trenta anni addietro nel corso della relativa audizione, quale Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia l’11 dicembre 1986, là dove a un certo punto dichiara: “… mi rendo conto dei poteri del Consiglio superiore ed è inutile che mando a chiedere l’invio di sostituti, quando nessuno fa domanda. …”.
Le criticità del territorio dovrebbero tradursi non in altrettante criticità nella concreta gestione del servizio giustizia, bensì in un rafforzamento delle risorse che per l’attuazione di quel servizio sono essenziali.
La componente magistratuale del Tribunale è in buona parte costituita da colleghi di prima nomina, non siciliani e desiderosi di riavvicinarsi alle sedi originarie e/o a sedi ad esse limitrofe, non appena maturata la legittimazione al trasferimento. Eccezionalmente, alcuni rimangono a Marsala e, in genere, la scelta in tal senso compiuta è di tipo affettivo, per avere alcuni di essi creato una famiglia in loco.
Si assiste, dunque, ad un periodico e significativo ridimensionamento del numero dei giudici presenti, con nuovi ingressi raramente contestuali alle uscite, vuoi per la quantità non sempre adeguata dei posti messi a concorso, vuoi – come detto – per l’assenza di aspiranti.
Il turn over che caratterizza l’ufficio marsalese, come altre realtà giudiziarie periferiche e, per di più, meridionali, pone ciclicamente in pericolo i “risultati” raggiunti nei periodi di “pieno” organico e la tensione, in siffatti momenti, a mantenere livelli accettabili di efficienza nella risposta di giustizia, al di là del dato meramente statistico, la si coglie nei diversi tentativi di riorganizzazione nella gestione dei ruoli e dei procedimenti che, seppure, ed in ultima analisi, idonei a determinare un accrescimento delle esperienze professionali e, dunque, delle competenze, rischia di far perdere di vista l’idea stessa della “programmazione”.
Diviene allora importante, in siffatto contesto, il modello organizzativo prescelto, che a Marsala passa, ad esempio, per il periodico controllo dei flussi, su cui ciascun magistrato è chiamato a cimentarsi, una volta che, con cadenza mensile, trasmessogli per email il bollettino statistico e la stratigrafia delle pendenze ultratriennali, si ritrova ad analizzare il numero dei procedimenti – distinti per tipologia e natura – definiti da ognuno e quelli ancora pendenti necessitanti di sollecita trattazione (perché già ultratriennali ovvero prossimi a divenire tali entro breve tempo), sì da “valutare” il proprio lavoro in rapporto con il lavoro svolto dai colleghi e attuare, se del caso, strategie di intervento sul proprio ruolo onde evitare, tra l’altro, la proliferazione dell’arretrato o, più semplicemente, per allineare, se possibile, i propri “risultati” con quelli medi dei colleghi addetti alle medesime e/o analoghe funzioni.
Per quanto lo strumento possa apparire orientato, in particolar modo, ad assicurare adeguati livelli di “produttività” – termine, quest’ultimo, spesso utilizzato e/o percepito con una (nemmeno troppo vaga) accezione negativa – non può, innanzi tutto, non riconoscersi che il numero dei procedimenti definiti, il quale, a sua volta, altresì incide sulla durata dei processi, è uno degli elementi su cui pure si fonda la percezione, dal punto di vista del cittadino e dell’utenza, del servizio giustizia. Sotto un ulteriore profilo, poi, la condivisione tra colleghi dei dati statistici (distinti per magistrato e diversificati in funzione della natura e tipologia dei procedimenti), non solo rende ciascuno consapevole del lavoro individuale e da tutti insieme svolto ma altresì impone e, con il tempo, abitua a una gestione ordinata e razionale dell’attività stessa, con effetti tendenzialmente positivi, in ultimo, sullo stesso “equilibrio” complessivo del singolo all’interno dell’ufficio e dell’ufficio globalmente inteso, pur nell’eterogeneità dei contenuti e delle responsabilità implicate nell’attuazione di quello che, con espressione oramai diffusa a differenti livelli, va sotto il nome di “benessere organizzativo”.
5. Il rafforzamento delle risorse.
L’impegno individuale è la componente basilare di quella attività di consolidamento delle risorse, essenziale a mantenere elevato il livello di attenzione sulle problematicità che caratterizzano buona parte degli uffici del Sud e, al contempo, ad alimentare il senso di fiducia che ogni cittadino dovrebbe avere per le istituzioni.
È un impegno che si arricchisce non solo della passione e del riconoscimento del ruolo e della funzione che anima l’attività di ciascuno, ma anche della cultura trasmessa ed acquisita con la condivisione, tra generazioni diverse di magistrati, di momenti pure apparentemente estranei all’attività giudiziaria in senso stretto, come la consumazione di un pasto fugace prima della ripresa del lavoro pomeridiano.
Su questo impegno, individuale ma condiviso, si costruiscono quegli indicatori di performance (tra cui la durata delle cause, l’arretrato e la capacità di smaltimento, oltre che la produttività) che, essenziali al periodico monitoraggio della giustizia, rimangono comunque inevitabilmente collegati alle risorse umane disponibili.
Accanto a questi momenti, individuali e condivisi, del lavoro giudiziario e, dunque, dell’organizzazione del singolo magistrato e dell’ufficio nel suo complesso, spetta agli organi istituzionali realizzare concreti percorsi di sostegno all’amministrazione della giustizia che, al di là ed oltre le pure prospettate riforme delle regole processuali, assicurino la non dispersione e, piuttosto, la valorizzazione del detto impegno, personale e collettivo, onde ridurre il divario tuttora esistente tra le diverse aree geografiche del Paese. È una sfida quotidiana che potrebbe passare dal rinnovamento materiale degli edifici all’incentivo e al potenziamento, anche per il tramite di una continuità (allo stato scarsamente esistente) tra uscite e nuove entrate, delle professionalità esistenti, con una sincera condivisione infine, tra uffici e a differenti livelli, non solo dei risultati raggiunti, ma anche dei percorsi realisticamente attuabili.
Concludo, così, le considerazioni e idee che ho maturato nel corso di questi primi anni di servizio in cui un ruolo essenziale ha svolto il confronto con i colleghi, in particolare quelli più anziani che, sin dal primo momento in cui ho messo piede nel Tribunale di Marsala e via via nel tempo i colleghi subentrati a quelli non più in servizio e/o trasferitisi altrove, non hanno esitato – in ultimo, anche per la raccolta dei dati in vista della predisposizione di questo breve articolo – a condividere conoscenze ed esperienze.
di Luigi Salvato
Sommario: 1. La fase predisciplinare: premessa. 2. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del ‘denunciante’. 3. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del magistrato, del Consiglio giudiziario, dell’A.N.M. 4. L’accesso agli atti del procedimento disciplinare.
1.- La fase predisciplinare: premessa.
La riforma del sistema della responsabilità disciplinare realizzata dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, ha innovativamente stabilito che «il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare» (art 14, comma 3), previsione resa possibile anche dalla tipizzazione degli illeciti[1]. La presentazione di una denuncia «circostanziata» (secondo la prospettazione dei fatti offerta dal denunciante) di un fatto astrattamente costituente illecito disciplinare sembrerebbe quindi sufficiente (come invece non è) ad integrare i presupposti per l’esercizio di detta azione.
La prevedibile (e verificatasi) esplosione del numero degli esposti – ipotizzabile già alla data della riforma, tenuto conto della generalizzata facoltà di presentare denuncia (art. 15, comma 1, d.lgs. n. 109 del 2006), di una tipizzazione imperfetta, del mantenimento di alcune clausole generali e, in prosieguo, ulteriormente implementata da inesatte concezioni in ordine alla finalità dell’istituto – ha suggerito di attribuire al P.G. il potere di disporre l’archiviazione diretta (art. 16, comma 5-bis, d.lgs. n. 109 del 2006)[2], nei casi: di denuncia non circostanziata; se il fatto non è riconducibile ad alcune delle fattispecie tipizzate; qualora il fatto appaia di «scarsa rilevanza» ai sensi dell’art. 3-bis di tale ultimo atto normativo. Attribuito detto potere, il d.lgs. n. 109 del 2006 ha, altresì, previsto che il P.G., al fine di adottare il provvedimento di archiviazione, può svolgere «sommarie indagini preliminari» (art. 15, comma 1[3]).
La ricezione da parte dell’Ufficio della P.G. della «notizia del fatto» di eventuale rilevanza disciplinare dà dunque avvio alla fase c.d. predisciplinare e determina l’iscrizione di un procedimento in cui è svolta un’attività di esame e valutazione della stessa (anche, eventualmente, mediante l’espletamento di «sommarie indagini preliminari»), allo scopo di stabilire: se si imponga l’esercizio dell’azione; se il procedimento possa e debba essere definito con un provvedimento di archiviazione.
In altra sede ho esplicitato gli argomenti che inducono a ritenere pacifico che la responsabilità disciplinare: a) non configura un rimedio preordinato a garantire correttezza ed esattezza delle decisioni e non costituisce il presidio (certo, non lo è in modo immediato e diretto) dei diritti dei cittadini oggetto di un determinato processo (civile o penale), la cui tutela può e deve essere assicurata esclusivamente all’interno di questo, attraverso gli strumenti previsti dalla legge processuale, ovvero, nei casi nei quali sia ipotizzabile la responsabilità del magistrato, ai sensi della legge n. 117 del 1988, mediante la proposizione della relativa azione in sede civile; b) non è uno strumento preordinato a verificare e garantire la professionalità dei magistrati[4]. La responsabilità disciplinare è, infatti, volta esclusivamente ad accertare se il magistrato abbia tenuto condotte che integrano gli elementi costitutivi di uno degli illeciti tipizzati ed a sanzionarle, ai fini e con gli effetti stabiliti dal d.lgs. n. 109 del 2006.
Nondimeno, accade spesso che, anche (forse, soprattutto) a causa di una concezione della responsabilità disciplinare erronea – pure nella declinazione che configura il procedimento disciplinare latamente inteso (riferito cioè anche alla fase c.d. predisciplinare) come una sorta di public enforcement rispetto alle iniziative attivabili dalle parti nella competente sede (civile e/o penale), al fine di ottenere il ristoro degli eventuali danni patiti a causa di provvedimenti e/o condotte illegittime del magistrato –, il numero degli esposti e dei procedimenti (soprattutto predisciplinari) è aumentato in misura davvero inusitata[5]. Tale non corretta concezione, unitamente a quelle, parimenti inesatte, secondo cui: l’obbligatorietà dell’azione implicherebbe una sorta di automatismo nel promovimento dell’azione, che dovrebbe seguire alla sola presentazione dell’esposto, senza che residui nessun margine di valutazione da parte dell’Ufficio della P.G.; l’esponente costituirebbe (come certo non è) “persona offesa” avente diritto alla comunicazione di cui all’art. 408 c.p.p., oltre che ai poteri a questa accordati nel processo penale, ha finito con l’alimentare infondate aspettative (soprattutto nel privato esponente) in ordine alla conoscibilità dell’esito del procedimento predisciplinare, al diritto a partecipare allo stesso e ad ottenere copia dei relativi atti e del decreto di archiviazione, ovvero, nel caso di esercizio dell’azione disciplinare, una precisa informazione della stessa. Di qui l’attualità della questione dell’an e del quomodo dell’accesso a dette notizie ed atti e, in linea generale, della partecipazione al procedimento predisciplinare dell’esponente, del magistrato attinto dalla notizia nonché dell’accesso a detta notizia da parte degli organi di amministrazione della giurisdizione e delll’A.N.M.
2. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del ‘denunciante’.
Relativamente alla partecipazione ed all’accesso agli atti della fase predisciplinare dell’autore della segnalazione del fatto, che sia un privato cittadino, per dare soluzione alla questione, occorre procedere dall’esame delle norme del d.lgs. n. 109 del 2006 dedicate alla stessa, che non sono molte e, tuttavia, stabiliscono con sufficiente precisione la disciplina applicabile.
All’apparenza vi è un’unica disposizione che sembra concernere specificamente detta fase, l’art. 16, comma 5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale regolamenta l’atto conclusivo della stessa, stabilendo che, nei casi dalla stessa previsti, può essere definita con un «provvedimento di archiviazione», di cui è prescritta la comunicazione al solo Ministro della giustizia il quale, se dissente, può esercitare l’azione disciplinare. Nonostante l’espressa menzione del solo provvedimento conclusivo, devono nondimeno ritenersi applicabili alla fase in esame anche le ulteriori norme contenute nel richiamato art. 16 ed a questa comunque riferibili; in particolare, quella del comma 2, secondo cui «per l’attività di indagine si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale». Depone in tal senso la considerazione che la disposizione, siccome contempla e regolamenta l’atto conclusivo di detta fase, nel caso di mancato esercizio dell’azione, già soltanto per questo rende logicamente riferibili alla stessa anche le altre norme da essa recate che alla stessa risultano applicabili. L’ulteriore previsione del potere del P.G. di svolgere già (ed anche) in detta fase «sommarie indagini preliminari», espressamente contemplata dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, tenuto conto della chiara ed univoca lettera di quest’ultima disposizione, conforta quindi che le stesse (appunto perché «indagini», benché «sommarie» e «preliminari»), devono ritenersi governate anzitutto dal citato art. 16 e, quindi, anche dalle disposizioni del codice di rito penale, sia pure entro il limite di compatibilità, da intendere, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, in modo restrittivo[6]. Per tale ragione, il limite di compatibilità, ferma la tendenziale applicabilità di dette norme, va identificato avendo riguardo al contenuto ed alla finalità della fase, in virtù di una scelta peraltro non extravagante e prevista anche in altri, benchè non omogenei, ambiti[7].
L’argomento letterale e sistematico (con riguardo cioè alla complessiva disciplina dettata dal d.lgs. n. 109 del 2006) permette dunque di identificare le norme che governano la fase e di escludere l’applicabilità di quelle concernenti il procedimento amministrativo, privando in tal modo di rilevanza, ai fini che qui interessano, la questione della natura della stessa. Indipendentemente dalla considerazione che si tratta di questione controversa, non univocamente risolta dalle Sezioni unite civili – peraltro, con riguardo ad un profilo specifico e precisamente delimitato (il grado di stabilità del provvedimento di archiviazione)[8] –, rileva, infatti, che il procedimento predisciplinare sicuramente non è riconducibile al genus di quelli amministrativi, conclusione questa per nulla messa in crisi dalla giurisprudenza di queste ultime, orientata nell’intendere restrittivamente il rinvio alle norme del codice di rito penale contenuto nel d.lgs. n. 109 del 2006[9].
Il procedimento concerne, infatti, la (e può influire sulla) funzione giurisdizionale e, quindi, le norme applicabili vanno identificate tenendo conto della circostanza che la “giurisdizionalizzazione” del procedimento disciplinare costituisce il risultato di un percorso scandito dagli interventi della giurisprudenza costituzionale[10], secondo cui l’interesse pubblico sotteso alla responsabilità disciplinare ed al relativo procedimento consiste «nell’assicurazione del regolare e corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, vale a dire una funzione che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di autonomia», che giustifica la conformazione giurisdizionale del procedimento, allo scopo della più rigorosa tutela dei beni costituzionalmente protetti[11] e con una regolamentazione particolare che riflette il proprium dell’ordine giudiziario[12]; ciò – può aggiungersi e deve ritenersi – anche con riguardo alla fase predisciplinare. Pertanto, si comprende e giustifica che il procedimento «gravita in un’area “giurisdizionalizzata”»[13], constatazione questa che ancora più conforta la riferibilità dell’art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 anche alla fase predisciplinare, nella parte in cui rinvia alle norme del codice di rito penale, sia pure entro il limite di compatibilità, da ulteriormente interpretare alla luce del contenuto della stessa.
In ogni caso, è evidente che gli atti del procedimento predisciplinare non sono affatto riconducibili ad un’attività amministrativa «in senso oggettivo e funzionale»; certo non costituiscono atti amministrativi, poiché perseguono (non diversamente da quelli di volontaria giurisdizione, categoria diversa e, tuttavia, evocabile soltanto per segnare la distinzione attraverso il richiamo di un’ipotesi di attività svolta da magistrati, diversa dalla tutela giurisdizionale, prossima all’attività amministrativa, ma da questa distinta) uno scopo “di giustizia”, non uno scopo “politico”, sicchè bene se ne può predicare il carattere “giustiziale”, ciò che peraltro dà ragione del pacifico convincimento che, appunto per questo, il provvedimento di archiviazione non è impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
2.1. La finalità dell’attività e la sua incidenza sulla funzione giurisdizionale spiegano e giustificano la precisa previsione dell’art. 16, comma 5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale stabilisce che del provvedimento di archiviazione va data comunicazione esclusivamente al Ministro della giustizia, il solo che può altresì richiedere «copia degli atti» del procedimento, rendendo ulteriormente certo che l’esponente privato non è titolare di una pretesa a partecipare al procedimento ed all’accesso ai relativi atti.
Siffatta conclusione conserva piena validità anche qualora l’attività preordinata al vaglio preliminare della notizia di illecito sia svolta da un organo amministrativo (l’Ispettorato generale del Ministero della giustizia), in quanto rinviene altresì conforto nell’art. 4 del d.m. 25 gennaio 1996, n. 115 (Regolamento concernente le categorie di documenti formati o stabilmente detenuti dal Ministero di grazia e giustizia e dagli organi periferici sottratti al diritto d'accesso), che, al comma 1, stabilisce: «sono sottratte all'accesso […]» una serie di documenti e, tra questi, «i) [la] documentazione attinente a procedimenti penali e disciplinari ovvero utilizzabile ai fini dell'apertura di procedimenti disciplinari […]» e, quindi, non consente dubbi sull’inesistenza del diritto all’accesso anche nei confronti del Ministero della giustizia, di recente affermata dal giudice amministrativo[14]. Per altro verso, tale disposizione corrobora l’infondatezza dell’analoga pretesa, anche quando avanzata ai sensi degli artt. 22 ss della legge n. 241 del 1990 nei confronti dell’Ufficio della P.G., poiché già da sola sarebbe sufficiente ad escluderla, pure se l’attività svolta da tale organo fosse riconducibile al genus dell’attività amministrativa, come peraltro non è.
In tal senso si era, inoltre, già orientata la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi che, adita da un esponente il quale chiedeva di conoscere i documenti formati nel procedimento in fase predisciplinare al fine di esercitare il diritto di difesa in una procedura giudiziaria dinanzi al giudice amministrativo, aveva dichiarato l’istanza inammissibile per ragioni procedurali (omessa comunicazione del ricorso al controinteressato) e, tuttavia, nella premessa aveva significativamente evidenziato «la più che dubbia sussistenza di un interesse legittimante all’accesso»[15].
2.2. La pretesa alla partecipazione al procedimento ed all’accesso agli atti da parte dell’esponente privato neppure può essere ‘recuperata’ attraverso l’istituto dell’accesso civico c.d. generalizzato[16].
Al riguardo, è infatti convincente e merita condivisione la direttiva della deliberazione dell’ANAC del 28 dicembre 2016, n. 1309[17], laddove dispone che esulano «dall’accesso generalizzato gli atti giudiziari, cioè gli atti processuali o quelli che siano espressione della funzione giurisdizionale, ancorché non immediatamente collegati a provvedimenti che siano espressione dello “ius dicere”, purché intimamente e strumentalmente connessi a questi ultimi. L’accesso e i limiti alla conoscenza degli atti giudiziari, ovvero di tutti gli atti che sono espressione della funzione giurisdizionale, anche se acquisiti in un procedimento amministrativo, sono infatti disciplinati da regole autonome previste dai rispettivi codici di rito» (§ 7.6).
L’importanza delle direttive di detta deliberazione (benché, ovviamente, non vincolante per il giudice) è certa, dato che, con riferimento al suindicato istituto, la fonte primaria non reca prescrizioni puntuali – individuando una serie di interessi, pubblici (art. 5-bis, comma 1) e privati (art. 5-bis, comma 2), suscettibili di determinare una eventuale esclusione dell’accesso, cui si associano i casi di divieto assoluto ( art. 5-bis, comma 3) – e rinvia ad un atto amministrativo (appunto le Linee guida dell’ANAC) la precisazione dell’ambito operativo dei limiti e delle esclusioni dell’accesso civico generalizzato[18]. Tale atto, nelle direttive sopra richiamate, neppure si limita ad approfondire i rapporti tra accesso e segreto previsto a tutela delle indagini penali ed il caso della connessione tra segreto ed atti di indagine e non limita l’accesso soltanto al caso in cui siano svolte indagini, rendendo in tal modo riferibile l’eccezione anche al provvedimento di archiviazione adottato de plano.
Le direttive contenute nel § 7.6. della deliberazione dell’ANAC n. 1309 del 2016, benchè questo sia rubricato “Conduzioni di indagini sui reati e loro perseguimento”, concernono infatti, estensivamente, nel secondo e nel terzo capoverso, tutti gli atti correlati all’esercizio della funzione giurisdizionale[19], rendendo certa l’inapplicabilità dell’istituto a quelli che di questa, latamente intesa, costituiscono espressione, come è reso chiaro dall’esemplificazione nella stessa contenuta (non limitata agli atti relativi alla funzione penale ed all’accertamento di reati), nonché dalla significativa puntualizzazione che l’accesso «riguarda, atti, dati e informazioni che siano riconducibili a un’attività amministrativa, in senso oggettivo e funzionale». E, per quanto sopra esplicitato, è indubbia l’irriconducibilità degli atti del procedimento predisciplinare ad un’attività amministrativa «in senso oggettivo e funzionale».
2.3. La conclusione - benchè appagante, poiché imposta dalla natura e dalla finalità dell’attività svolta nella fase predisciplinare e saldamente fondata sulle norme sopra richiamate - non solleva dall’onere di domandarsi se essa possa, non ragionevolmente, ledere un interesse dell’esponente, oppure determinare una distonia di sistema, comunque pregiudicare interessi generali.
Una tale preoccupazione, con riguardo alla posizione dell’esponente, appare infondata. Le considerazioni sopra svolte in ordine alla ratio della responsabilità disciplinare ed alla finalità delle relative norme rendono infatti incontrovertibile l’inesistenza di un interesse dell’esponente, tutelato e tutelabile, in relazione al procedimento predisciplinare (ma anche a quello disciplinare). Ad ulteriore conforto, è sufficiente osservare che, come è stato efficacemente osservato, «per ciò che concerne poi la qualificazione dell’interesse, esso non è ravvisabile nel solo fatto che l’accertamento preliminare sia avvenuto a seguito della segnalazione del privato, giacché il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di questi ma dell’amministrazione della giustizia (e di conseguenza all’esponente non è assegnato alcun potere di impulso procedimentale o di partecipazione al procedimento, neppure nella fase pubblica)»[20]. Si tratta di considerazione di pregnante rilievo, tenuto conto che la pretesa all’accesso non fornisce «utilità finali», ma costituisce solamente un potere di natura procedimentale, avente finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette (di diritto soggettivo, ovvero di interesse legittimo) e, conseguentemente, spetta soltanto se sia collegata ad un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire un documento amministrativo[21].
Nel caso di mancato esercizio dell’azione non è ipotizzabile un vulnus dell’esponente, poiché, come detto, la responsabilità disciplinare è preordinata esclusivamente a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato. Inoltre, può concorrere con la responsabilità civile, ma le due responsabilità conservano, anche quanto al procedimento, una reciproca autonomia. Ed è appunto detta autonomia a rendere certo che la negazione del diritto di accesso non permette di paventare la lesione di interessi dell’esponente. A prescindere dalla pur dirimente constatazione che l’acquisizione degli atti del giudizio disciplinare in quello civile, anche dopo la novellazione nel 2015 della legge n. 117 del 1988, è limitata a quelli soli del “giudizio”[22], rileva infatti che, qualora una parte si ritenga lesa da un provvedimento e/o da una condotta del magistrato, bene può esercitare l’azione di responsabilità civile, non sussistendo in detta sede nessun vincolo decisionale derivante dall’esito dell’esposto in sede disciplinare.
2.4. La negazione del diritto di partecipazione e di accesso alla fase predisciplinare neanche è causa di una distonia di sistema con riferimento alla disciplina concernente altre magistrature. Con riguardo agli appartenenti alla magistratura amministrativa va infatti ricordato che il Consiglio di Stato, nel decidere un ricorso avente ad oggetto la pretesa all’accesso – peraltro avanzata non da un esponente privato cittadino, bensì da un magistrato amministrativo, prospettando “possibili finalità di giustizia e difensive” e “ragioni di studio” -, ha affermato che: x) «la posizione giuridica soggettiva preesistente, cui strumentalmente inerisce il diritto di accesso, non può essere individuata nel mero e autonomo “diritto all’informazione”» e «non sussiste un fondamento del diritto di accedere a determinati documenti, rinvenibile nell’”interesse scientifico” dell’istante»; x-1) l'accesso ai provvedimenti disciplinari del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, quando richiesto da un magistrato amministrativo, neppure «può essere riconosciuto per il solo fatto che il magistrato ha "diritto di conoscere le determinazioni con le quali il CPGA fa applicazione, in concreto, del Codice deontologico", il che collega il diritto di accesso ad un generico diritto all'informazione dipendente dal mero status di appartenente ad una categoria»; x-2) «tale diritto di accesso può giustamente fondarsi sul diritto alla tutela delle proprie posizioni giuridiche in sede giudiziaria o disciplinare» ed il «magistrato amministrativo ha diritto ad accedere ai provvedimenti disciplinari emanati dalle Competenti Commissioni e dal Plenum del Consiglio di Presidenza Amministrativa, laddove ciò sia necessario per esigenze di tutela di sue posizioni giuridiche soggettive in sede giudiziaria e/o disciplinare»; conseguentemente, ha ritenuto fondata la pretesa, quando sia sorretta da dette esigenze di tutela, ma con riguardo ai «documenti […] rappresentativi di provvedimenti disciplinari emessi nei confronti di magistrati amministrativi e comportanti l’applicazione di una sanzione»[23].
La sintesi dei principi enunciati dal Consiglio di Stato rende chiaro, da un canto, che la pretesa all’accesso è stata riconosciuta meritevole di accoglimento con specifico riguardo al caso in cui venga avanzata da un magistrato amministrativo, non da un esponente privato; dall’altro, che anche in riferimento a quest’ultimo, è stata giudicata utilmente proponibile soltanto se necessaria «alla tutela delle proprie posizioni giuridiche in sede giudiziaria o disciplinare» (caso non prefigurabile in relazione all’esponente, che sia un privato cittadino) e con riguardo ai provvedimenti che applicano una sanzione.
Non sussiste, dunque, una distonia di sistema pregidizievole del denunciante privato, a seconda che l’esposto concerna un magistrato ordinario o amministrativo, constatazione questa che, da sola, renderebbe superfluo ricordare che, secondo la Corte costituzionale, «il procedimento disciplinare relativo ai magistrati ordinari ha natura giurisdizionale e si svolge dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con quanto ne consegue in ordine al regime delle impugnazioni. Quello relativo ai magistrati amministrativi ha natura di procedimento amministrativo e si svolge dinanzi al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa o al Consiglio di presidenza della Corte dei conti. Questa diversa configurazione del procedimento dipende da una scelta del legislatore, che ben può articolare diversamente l'ordinamento delle singole giurisdizioni, a patto che siano rispettati i principi costituzionali comuni»[24]. La differente natura dei procedimenti che, per le argomentazioni sopra svolte, si proietta anche sulla fase predisciplinare (avente connotazione “giustiziale”, incidendo sulla funzione giurisdizionale) sarebbe comunque di per sé sufficiente a giustificare ed a rendere non irragionevole la differente disciplina applicabile nelle fattispecie in comparazione.
2.5. La conclusione così affermata neppure è lesiva di un generale diritto all’informazione e del valore della trasparenza, meritevole della più attenta considerazione e che, tuttavia, impone di ricordare che anche la «Corte di giustizia dell’Unione europea ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche»[25]. E ciò soprattutto, può aggiungersi, con riguardo ad un procedimento che non è affatto preordinato alla tutela di situazioni giuridiche soggettive di privati (gli esponenti), ampiamente ed adeguatamente tutelate su piani ed in ambiti diversi (in sede penale e civile, in virtù delle previsioni della legge n. 117 del 1988), essendo altresì qualificabili i dati come ‘giudiziari’ (nel senso sopra precisato) e, appunto per questo, sottratti alla pubblicità anche secondo la logica del d.lgs. n. 33 del 2013.
Detta enfatizzazione non considera, infine, al giusto che, come ancora affermato dalla Corte costituzionale, «in nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni», ma «resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche»[26].
Inoltre, il libero accesso oggetto dell’istituto introdotto nel 2013 (entro i limiti fissati dal legislatore e nel rispetto di quelli delineati dalla Corte costituzionale a tutela dei diritti coinvolti dallo stesso) concerne esclusivamente l’attività amministrativa «in senso oggettivo e funzionale» quale, come detto, non è quella in esame e non riguarda affatto gli atti riconducibili alla funzione giurisdizionale, latamente intesa.
La previsione della comunicazione dell’archiviazione al Ministro della giustizia e della facoltà di quest’ultimo di esercitare l’azione in dissenso dalle conclusioni del P.G. certo non integra un controllo in senso tecnico ed ha piuttosto significato e valore di informazione ai fini dell’esercizio della distinta azione da parte del Ministro[27]. Nondimeno, costituisce sicuramente uno strumento che, ragionevolmente, assicura una “verifica” dell’attività predisciplinare svolta dal P.G. da parte del con-titolare dell’azione disciplinare, ciò che fa escludere che l’azione del primo possa ritenersi sottratta ad ogni valutazione ad opera di un diverso organo.
Peraltro, l’archiviazione. come nel rito penale, implica il non esercizio dell'azione ma, diversamente da quella penale, non richiede l’intervento del giudice, in considerazione del «diverso rilievo degli interessi in gioco», che ha suggerito il «solo correttivo di un possibile contrario intervento propulsivo dell'altro titolare dell'azione disciplinare»[28], al fine di «tutelare l’interesse del Ministro, anch’egli legittimato all’azione disciplinare, a conoscere le determinazioni del procuratore generale in ordine all’esercizio stesso, con la possibilità di far valere una propria diversa valutazione disciplinare dei fatti»[29]. Siffatta scelta si sottrae ad ogni censura, spettando alla discrezionalità del legislatore ordinario bilanciare gli interessi in gioco, in quanto l’obbligatorietà dell’azione disciplinare rinviene la sua fonte in una norma ordinaria (art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 109 del 2006), non nella Costituzione (concernendo l’art. 112 Cost l’azione penale). Il bilanciamento è stato ragionevolmente realizzato, prevedendo il potere del P.G. di archiviazione, ma assicurando che il con-titolare dell’azione abbia notizia del relativo provvedimento, così da essere in condizioni di diversamente determinarsi in ordine all’eventuale esercizio della stessa.
3. La partecipazione e l’accesso agli atti della fase predisciplinare da parte del magistrato, del Consiglio giudiziario, dell’A.N.M.
Il magistrato attinto dalla notizia di un eventuale illecito non ha diritto di accedere agli atti, tenuto conto della finalità della fase (diretta esclusivamente a consentire un vaglio preliminare della stessa) e della previsione (significativa) secondo cui sussiste l’obbligo di provvedere alla comunicazione esclusivamente dopo l’esercizio dell’azione (art. 15, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006) e manca un’analoga disposizione con riguardo al procedimento predisciplinare. La conclusione è suffragata dalla natura strumentale della pretesa all’accesso rispetto all’esigenza di difesa che, come si è ricordato, ha indotto il giudice amministrativo a riconoscerla appunto «per la difesa nel giudizio disciplinare», esigenza insussistente in una fase in cui manca la formulazione di un’incolpazione e l’azione non è stata esercitata.
Pregnante rilevanza in tal senso ha la constatazione che il decreto di archiviazione costituisce un provvedimento che si limita a dare atto dell’insussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione disciplinare e che non potrebbe, né dovrebbe, essere utilizzato ad altri fini, concernenti il percorso professionale del magistrato, come è altresì desumibile dalle direttive di alcuni atti consiliari.
In particolare, la circolare del C.s.m. dell’8 ottobre 2007, n. 20691, recante «Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati» (nel testo modificato, da ultimo, con delibera del 21 febbraio 2018): y) nel capo VII non comprende tra le fonti di conoscenza della documentazione relativa alla valutazione di professionalità le informazioni concernenti l’eventuale pendenza di procedimenti predisciplinari (e, dunque, non radica la legittimazione alla richiesta dell’informazione); y-1) nel capo XII disciplina, nel § 1, la rilevanza del procedimento «disciplinare» e, comunque, nel § 2 fa altresì riferimento alla pendenza di procedimento «anche anteriormente all’esercizio dell’azione […] disciplinare», ma tuttavia menziona quale soggetto legittimato alla conoscenza esclusivamente la Commissione competente del C.s.m. per le valutazioni di professionalità; y-2) nel capo XIV, nel § 2, fa riferimento «all’indicazione di situazioni rappresentate dai terzi, di cui i dirigenti abbiano tenuto conto, trasmesse ai titolari dell’azione disciplinare e sempre che si riferiscano a fatti incidenti sulla professionalità del magistrato» e, quindi, attribuisce rilevanza non alla mera comunicazione della notizia, bensì alle «situazioni» in questa rappresentate indicate dai terzi ai dirigenti. Dette situazioni possono e devono costituire oggetto di considerazione da parte del dirigente in occasione della valutazione di professionalità, a prescindere dall’esame svolto in sede disciplinare (ampiamente intesa) e con riguardo alla finalità di quest’ultima, tenuto altresì conto del differente oggetto e scopo dei procedimenti di ‘controllo’ dell’attività e della condotta del magistrato.
La circolare del C.s.m. del 27 febbraio 2009, n. 4718, e successive modifiche (in particolare, apportate con la delibera del 14 marzo 2018), in tema di tenuta del fascicolo personale del magistrato, nell’indicare gli atti che possono essere inseriti nello stesso, all’art. 6, comma 2, lettera c), menziona poi esclusivamente gli atti della “Sezione disciplinare” e non indica quelli della fase predisciplinare, non contemplati neppure nell’art.8.
La circolare del C.s.m. del 20 luglio 2015, P-14858 e successive modifiche (introdotte, da ultimo, con delibera del 26 aprile 2018), recante il testo unico sulla dirigenza giudiziaria: z) all’art. 83, comma 1, lettera g), dispone che il Consiglio giudiziario o il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, devono acquisire «i fatti oggetto di eventuali procedimenti penali e disciplinari», con chiaro riferimento al solo caso in cui sia stata appunto promossa l’azione disciplinare; z-1) all’art. 87 prevede l’acquisizione da parte del C.s.m. delle «sentenze disciplinari e procedimenti pendenti» e la facoltà di «assumere ulteriori elementi di conoscenza». Dunque, neppure tale ultimo atto contempla l’acquisizione degli atti della fase predisciplinare e neanche del provvedimento che la conclude, adottato ai sensi dell’art. 16, comma 5-bis, d.lgs. n. 109 del 2006.
L’irrilevanza per il magistrato, nei termini sopra indicati, degli atti del procedimento predisciplinare induce dunque a dubitare di un suo concreto interesse all’accesso agli atti. L’unico caso in cui questi sembrerebbero utilizzabili è quello oggetto della circolare dell’8 ottobre 2007, n. 20691, (sopra indicato al punto y-1), in cui ciò avviene ad iniziativa del C.s.m. Tuttavia, qualora quest’ultimo ritenga di dare rilevanza a detti fatti ed agli accertamenti svolti nella fase predisciplinare, dovrebbe portarli a conoscenza del magistrato e, a detto fine, realizzare quel contraddittorio che la fase predisciplinare non prevede, né consente (e che non vi è ragione di realizzare, quando sia stata definita con l’archiviazione), con la conseguenza che solo a seguito di detta iniziativa del C.s.m. sorge l’interesse alla conoscenza degli atti, nei termini e nei limiti da questo ritenuti ed al medesimo spetta dunque di evidenziare se e per quali atti sussista l’interesse.
3.1. L’irrilevanza, ai suindicati scopi, del provvedimento di archiviazione induce altresì a ritenere che la notizia della pendenza di un procedimento in fase predisciplinare debba ritenersi coperta dal carattere della riservatezza anche nei confronti del Consiglio giudiziario, al quale non è ostensibile neppure il provvedimento di archiviazione, ancora più in difetto di direttive consiliari che contemplino la possibilità di accesso alla prima ed al secondo.
3.2. Soltanto tale conclusione solleva, peraltro, dall’onere di affrontare una questione che altrimenti si porrebbe nel caso di archiviazione adottata «ai sensi dell’art. 3-bis», del d.lgs. n. 109 del 2006, espressamente prevista e consentita dall’art. 16, comma 5-bis, di tale atto normativo.
Le Sezioni Unite, nel 2017, innovando un pregresso orientamento, secondo cui era inammissibile, per carenza d'interesse ad agire, il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza con cui il magistrato sia stato assolto dall'illecito disciplinare per scarsa rilevanza del fatto contestato, ai sensi dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006[30], hanno affermato che l'assoluzione con detta formula non è tale da escludere qualsiasi effetto svantaggioso per il magistrato assolto, con conseguente ammissibilità del ricorso[31]. Secondo le Sezioni unite, «l’applicazione dell'istituto in esame presuppone, quanto meno, indefettibilmente - in sostanziale analogia alla formula penalistica "perchè il fatto non costituisce reato" - l'accertamento che la fattispecie tipica dell'illecito, cioè la materialità del fatto storico tipizzato, si sia realizzata e sia riferibile all'incolpato», circostanza questa «idonea a radicare» l’interesse del magistrato «ad impugnare la sentenza al fine di ottenere una pronuncia, totalmente liberatoria, di esclusione dell'addebito».
Siffatto principio potrebbe far prefigurare un interesse del magistrato a dolersi del decreto di archiviazione adottato ex art. 3-bis, qualora questo fosse acquisibile agli atti del fascicolo personale e dello stesso fosse possibile tenere conto (automaticamente e con efficacia vincolante) ai fini delle valutazioni di professionalità. Tanto perché il provvedimento, sostanzialmente, dà atto dell’esistenza degli elementi costitutivi di un illecito disciplinare, che viene tuttavia escluso (con conseguente carenza dei presupposti dell’esercizio dell’azione) soltanto perché il fatto è stato ritenuto di «scarsa rilevanza». Dunque, quel fatto (pure ritenuto sussistente), benchè di «scarsa rilevanza» ai fini disciplinari, potrebbe rilevare in relazione alle altre valutazioni sopra richiamate. Siffatta valorizzabilità del provvedimento di archiviazione (si ripete, se automatica e vincolante) renderebbe allora necessario interrogarsi in ordine all’eventuale esigenza di identificare possibili rimedi a favore del magistrato, emergendo poi l’ulteriore questione del diritto del magistrato ad essere informato del procedimento predisciplinare (e del suo esito), questioni queste che restano esclude in radice se, come appare preferibile, venga esclusa ogni rilevanza (a fini non disciplinari) del provvedimento e l’ostensibilità dello stesso.
3.3. Il complesso di argomentazioni svolte per negare la fondatezza della pretesa all’accesso da parte dell’esponente privato conserva piena validità anche con riguardo a quella eventualmente avanzata dall’A.N.M. (ovviamente, con riguardo ad un magistrato iscritto all’associazione), che costituisce un’organizzazione rappresentativa della categoria dei magistrati, avente natura privata, il cui statuto regolamenta una procedura disciplinare (v. artt. 9, 10 ed 11) – concernente violazioni differenti da quelle oggetto del d.lgs. n. 109 del 2006 e svolta a fini e con effetti diversi rispetto a quelli della giurisdizione disciplinare – alla quale è attribuito il potere di adottare il «codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata» (art. 54, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Tale potere e la circostanza che all’A.N.M. spetta il controllo sull’osservanza delle regole deontologiche da parte dei propri iscritti sono insufficienti a radicare una pretesa giuridicamente tutelata all’accesso agli atti. Nel vigente sistema dell’illecito disciplinare tipizzato occorre mantenere ferma la distinzione tra professionalità, deontologia giudiziaria e responsabilità disciplinare, che cooperano allo stesso scopo, ma riguardano ambiti diversi e distinti. L’illecito disciplinare è, infatti, esclusivamente quello tipizzato dal legislatore e, ai fini della sua integrazione, le disposizioni del codice etico non hanno neppure il ruolo di supporto interpretativo[32], come affermato, ed efficacemente argomentato, dalle Sezioni unite civili[33].
Peraltro, proprio tale distinzione esclude che la riservatezza che circonda la fase predisciplinare (anche nei confronti dei Consigli giudiziari e dell’A.N.M.) possa risultare pregiudizievole di interessi generali. La circostanza che gli esposti, nella gran parte dei casi, sono indirizzati oltre che al P.G. anche al C.s.m. ed ai capi degli uffici riduce (se pure non elimina) la rilevanza della questione concernente l’opportunità e la possibilità di prevedere, nel caso di archiviazione in sede predisciplinare, un flusso di informazioni verso gli organi di amministrazione della giurisdizione. Nondimeno, occorre che maturi la consapevolezza in ordine al fatto che la conoscenza che l’organo di governo autonomo ed i capi degli uffici, di regola, hanno degli esposti è da sola sufficiente a ad innescare gli strumenti di controllo e di verifica della professionalità nella sede a ciò deputata (che non è quella disciplinare). A questo fine, per la piena efficacia e funzionalità del sistema di valutazione della professionalità - che viene prima del controllo in ambito disciplinare e, ordinariamente, va svolto a prescindere da questo -, occorre che sia tenuta ben presente l’inesistenza di una pregiudizialità, rispetto a questo, della fase predisciplinare, con conseguente possibilità e necessità di un autonomo e distinto esame dei fatti oggetto degli esposti da parte degli organi di amministrazione della giurisdizione, nei rispettivi ambiti di competenza, indipendentemente da detta fase, preordinata a scopi diversi da quelli del controllo di professionalità.
4. L’accesso agli atti del procedimento disciplinare.
La questione in esame è di agevole soluzione con riguardo all’accesso agli atti del procedimento disciplinare. Una volta esercitata l’azione, quanto all’esponente privato, le argomentazioni svolte in relazione alla fase predisciplinare conducono ad escludere che egli abbia diritto di partecipare ed accedere agli atti del relativo procedimento, come peraltro è reso ulteriormente certo dall’art. 15, d.lgs. n. 109 del 2006, il quale stabilisce che deve (e può) essere data notizia dell’esercizio dell’azione esclusivamente all’incolpato, al Ministro della giustizia ed al C.s.m. Peraltro, da ciò consegue la dubbia ostensibilità all’esponente finanche della notizia della definizione con l’archiviazione della fase predisciplinare. Qualora ciò fosse ammissibile si avrebbe che, in caso di informazione anodina (limitata cioè alla vaga e generica notizia che «il procedimento è stato definito»), dalla stessa sarebbe logicamente desumibile l’avvenuto esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato attinto dall’esposto.
Pacifica l’inesistenza del diritto di accesso del privato agli atti del procedimento disciplinare nella fase delle indagini, tale diritto non spetta neanche al magistrato incolpato. Nel vigente ordinamento processuale penale manca, infatti, una regola che stabilisca la conoscenza delle indagini in ogni momento da parte dell’indagato, essendo anzi previsto il c.d. segreto investigativo finché l’indagato non possa averne conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art. 415-bis c.p.p.). Al procedimento disciplinare sono applicabili le norme del c.p.p. «in quanto compatibili» (art. 16, d.lgs. n. 109 del 2006) e queste, indipendentemente dall’esigenza di un’interpretazione restrittiva dei rinvii al codice di rito penale, non risultano riferibili alle fasi dei giudizi disciplinari oggetto della specifica e diversa regolamentazione recata dagli artt. 16 e 17, d.lgs. n. 109 del 2006. In particolare, la seconda di dette disposizioni stabilisce, al comma 1, il diritto di accesso agli atti soltanto a chiusura delle indagini e dopo la formulazione delle richieste conclusive da parte del Procuratore Generale alla Sezione disciplinare del C.s.m., essendo peraltro inapplicabile l’istituto del deposito degli atti previsto dall’art. 415-bis c.p.c. [34]
* Il testo riflette esclusivamente l’opinione dell’A. e, quindi, non rappresenta in alcun modo la posizione e gli orientamenti dell’Ufficio di appartenenza.
[1] Nel senso dell’obbligatorietà, già prima della riforma, ma secondo una configurazione all’epoca minoritaria, L. Aiello, Luci ed ombre nei XXV anni di consiglio superiore: prassi delle inchieste e funzione disciplinare, in Legalità e giustizia, 1984, 228; V. Correnti, La sezione disciplinare del consiglio superiore della magistratura, in Foro amm., 1986, 2629.
[2] M. Fresa, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, AA.VV., La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, Milano, 2010, 376, secondo cui l'archiviazione è stata introdotta «allo scopo soprattutto di affievolire le particolari rigidità di un sistema innovativo in cui è obbligatorio l'esercizio dell'azione disciplinare ed al contempo ridurre l'enorme mole di lavoro che, altrimenti, sarebbe ben presto ricaduta sugli uffici della Procura generale presso la Corte di cassazione e della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura»; analogamente, S. Di Amato, Dalle sezioni unite una non convincente affermazione della ritrattabilità dell'azione disciplinare, Cass. pen., 2012, 67.
[3] E’ oramai pacifica, nonostante una non felice formulazione della disposizione, la possibilità di svolgere le sommarie indagini anche nel caso della presentazione di «denuncia circostanziata».
[4] L. Salvato, L’organizzazione e l’attività del Servizio disciplinare, Atti dell’incontro svolto in Roma il 14/15 marzo 2019, in occasione della presentazione del Bilancio sociale; ID, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati amministrativo, in Cass. pen., 2019, 1, 32.
[5] Nell’intervento del P.G. nell’assemblea generale della Corte di cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2018, è indicato che: nell’anno 2018 sono stati iscritti dalla Procura generale ben 1.637 procedimenti predisciplinari, con sopravvenienza di un numero di notizie di illecito superiore a quello medio di notizie pervenute nel quinquennio 2013–2017 e sensibilmente più elevato rispetto a quelle del 2017 (pari a n. 1.340); nell’anno 2018 sono stati definiti con decreto di archiviazione il 91,2% dei procedimenti. Se si considera che i posti in organico sono, alla data odierna, 9991, di cui 964 vacanti, e che i procedimenti assai di frequente danno luogo a «sommarie indagini preliminari» e, comunque, costituiscono oggetto di preciso esame e valutazione è ragionevole ritenere, non implausibilmente, che in nessun altro ambito è condotta un’opera di controllo così estesa e capillare.
[6] Tra le più recenti, S.U. 7 maggio 2019, n. 11931; 4 settembre 2015, n. 17585.
[7] Peraltro, previsioni relative ad altri ambiti, in cui il procedimento pure è privo di carattere giurisdizionale, recano una disciplina omologa. Il riferimento è a quanto stabilito per il procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati dall’art. 10, comma 4, del Regolamento CNF n. 2 del 2014, concernente anche la fase latu sensu riconducibile a quella che, con riguardo ai magistrati ordinari, è detta predisciplinare.
[8] E’, infatti, in relazione a detta precisa questione che è emerso il contrasto tra S.U. 19 dicembre 2009, n. 26809, e S.U. 5 luglio 2011, n. 14664; su tale contrasto, S. Di Amato, Dalle sezioni unite, cit.; F. Morozzo Della Rocca, Esercizio dell'azione e archiviazione nel procedimento disciplinare a carico di magistrati: una singolare decisione delle sezioni unite, in Giust. civ., 2012, I, 141; L. Salvato, Ambiguità, cit. Non ha invece preso posizione sulla questione S.U. 25 gennaio 2013, n. 1769, poiché, come sottolineato nel § 1.3 della motivazione, con riguardo al caso in cui era stato contestato il ritardo nel deposito di provvedimenti, l’efficacia preclusiva dell’archiviazione è stata negata non tanto perché «la protrazione del ritardo vale a connotare in termini di diversità non solo quantitativa, ma anche qualitativa la condotta addebitata», ma soprattutto in quanto «dal ricorso non emerge in alcun modo che la posizione specifica del ricorrente abbia formato oggetto di valutazione ai fini della adozione di un decreto di archiviazione», risultando «evidente come i detti provvedimenti di archiviazione abbiano ad oggetto indagini svolte in sede predisciplinare sul funzionamento della Sezione Riesame del Tribunale di Catania ma non anche la formulazione di specifici addebiti nei confronti del ricorrente». Dunque, la pronuncia appare scarsamente significativa anche con riguardo alla rilevanza dell’archiviazione nel caso di valutazione di un ritardo protrattosi successivamente alla stessa, posto che l’accento tonico della decisione cade sulla circostanza che la posizione del magistrato non aveva affatto costituito oggetto di esame in sede predisciplinare.
[9] Tanto per la considerazione che: a) in primo luogo, le pronunce rese su detta specifica questione hanno avuto ad oggetto la regolamentazione del procedimento dopo l’esercizio della relativa azione, non la fase predisciplinare e, quindi non sono richiamabili in relazione a quella, diversa, della natura di quest’ultima (alle sentenze richiamate nella nota 6, adde, S.U. 19 agosto 2009, n. 18374); b) in secondo luogo, perché, le pronunce, inteso restrittivamente il rinvio al c.p.p., hanno ritenuto applicabili le norme del codice di rito civile (e ciò sia le sentenze da ultimo richiamate, sia ulteriori pronunce, in particolare, S.U.8 luglio 2009, n. 15969; 19 agosto 2009, n. 18374; 15 gennaio 2013, n. 1771), avendo peraltro ad oggetto l’identificazione dei provvedimenti impugnabili, che sono soltanto quelli resi nella fase propriamente disciplinare, S.U. 8 luglio 2009, n. 15969.
[10] N. Zanon-F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2019, 344.
[11] Corte cost., sentenza 22 giugno 1992, n. 289.
[12] Corte cost., sentenza 13 aprile 1995, n. 119.
[13] S.U, 5 luglio 2011, n. 14664, § 8 della motivazione.
[14] TAR Lazio, Sez. I, 7 maggio 2019, n. 5714 (in Questione giustizia, 2019, con nota critica di S. Messineo, La trasparenza negata. Commento a Tar Lazio n. 5714,/2019), sottolineando che il diritto di accesso di cui agli artt. 22 ss della legge 7 agosto 1990, n. 241, soggiace ai limiti previsti dai regolamenti con i quali le singole amministrazioni individuano le categorie di documenti sottratti all’accesso e, quindi, da quello recato dal d.m. richiamato supra nel testo.
[15] Provvedimento 6.7.2010, citato da G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, in Questione Giustizia, 2010, n. 5
[16] Disciplinato dal d.lgs.14 marzo 2013, n. 33, e, per quanto qui rileva, dall’art. 5 nel testo sostituito dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97; nel senso dell’inapplicabilità dell’istituto, cfr. la richiamata sentenza del TAR Lazio, Sez. I, 7 maggio 2019, n. 5714.
[17] Recante «Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013».
[18] TAR Lazio, Sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326.
[19] Si riporta di seguito il testo dei cpv richiamati nel testo: «Con riferimento alle possibili sovrapposizioni con l’esercizio dell’attività giudiziaria, occorre chiarire che l’accesso generalizzato riguarda, atti, dati e informazioni che siano riconducibili a un’attività amministrativa, in senso oggettivo e funzionale.
Esulano, pertanto, dall’accesso generalizzato gli atti giudiziari, cioè gli atti processuali o quelli che siano espressione della funzione giurisdizionale, ancorché non immediatamente collegati a provvedimenti che siano espressione dello “ius dicere”, purché intimamente e strumentalmente connessi a questi ultimi. L’accesso e i limiti alla conoscenza degli atti giudiziari, ovvero di tutti gli atti che sono espressione della funzione giurisdizionale, anche se acquisiti in un procedimento amministrativo, sono infatti disciplinati da regole autonome previste dai rispettivi codici di rito. Si consideri, al riguardo, la speciale disciplina del segreto istruttorio, ai sensi dell’art. 329 c.p.p.; il divieto di pubblicazione di atti (art. 114 c.p.p.) e il rilascio di copia di atti del procedimento a chiunque vi abbia interesse, previa autorizzazione del pubblico ministero o del giudice che procede (art. 116 c.p.p.). Per i giudizi civili, ad esempio, l’art. 76 disp. att. c.p.c., che stabilisce che le parti e i loro difensori possono esaminare gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio e in quelli delle altre parti e ottenere copia dal cancelliere; pertanto l’accesso è consentito solo alle parti e ai loro difensori. Per le procedure concorsuali la legge fallimentare che riconosce al comitato dei creditori e al fallito il diritto di prendere visione di ogni atto contenuto nel fascicolo, mentre per gli altri creditori e i terzi l’accesso è consentito purché gli stessi abbiano un interesse specifico e attuale, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il curatore (r.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 90)».
[20] G. Salvi, L’iniziativa disciplinare, cit., nel § 8.
[21] Cons. Stato, A.P., 18 aprile 2006, n. 6.
[22] L’art. 9, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, dispone: «Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa»; il riferimento al «giudizio» rende certa l’impossibilità di acquisire gli atti della fase predisciplinare, cfr. anche M. Fresa-C. Sgroi, La responsabilità civile del magistrato e i rapporti con la responsabilità disciplinare, Relazione al Seminario C.s.m. su “La nuova responsabilità civile dei magistrati tra giurisdizione e governo autonomo”, Roma 11-12 giugno 2015.
[23] Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 1162.
[24] Corte cost., sentenza 27 marzo 2009, n. 87.
[25] Corte cost., sentenza 21 febbraio 2019, n. 20.
[26] Corte cost., sentenza 21 febbraio 2019, n. 20.
[27] L. Salvato, Ambiguità, cit.
[28] S. Di Amato, Dalle Sezioni unite, cit.
[29] F. Morozzo Della Rocca, Esercizio dell’azione, cit.
[30] S.U. 21 giugno 2010, n. 14889.
[31] S.U. 13 dicembre 2017, n. 29914; il principio è stato successivamente ribadito da S.U. 18 gennaio 2019, n. 1416.
[32] Dette disposizioni possono infatti coincidere con le fattispecie di illecito normativamente previste e, in tal caso, sono sostanzialmente ‘assorbite’ dalle stesse; possono invece prevedere (e rendere sanzionabili, ma in ambito esclusivamente associativo) condotte ulteriori, eticamente più impegnative, ma costituiscono allora precetti diversi, che si collocano su un piano distinto e separato rispetto al precetto disciplinare e sono (in quanto tali, tenuto conto della loro natura ed efficacia), inidonei a supportarne finanche l’interpretazione, L. Salvato, Bilancio, cit.
[33] S.U. 24 marzo 2014, n. 6827.
[34] Da ultimo, per tutte, S.U. 10 settembre 2019, n. 22577.
di Filippo Ruggiero
La sentenza 26286 del 17.10.2019 apre un parziale contrasto nella giurisprudenza della Terza Sezione.
Intanto la Prima Sezione, con l’ordinanza n. 26946 del 22.10.2019,richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
Era ottobre del 2018 e la Terza Sezione Civile della Cassazione aveva l’opportunità di mettere qualche punto fermo su una questione interpretativa che, in specie nel contenzioso relativo ai contratti di mutuo,vedeva la giurisprudenza di merito variamente posizionata, è a dire in prima battuta quella sulla soggezione dell’obbligazione per interessi di mora al divieto di cui all’art. 1815, co. 2, c.c. e quindi, in caso di risposta affermativa al primo quesito, quella sulla portata degli effetti di detta nullità.
Allora, la Terza Sezione Civile, con l’ordinanza n. 27442 del 30.10.2018, affermò in modo netto che gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dalla l. 7 marzo 1996, n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari.
La pronuncia addiveniva a tale conclusione smentendo le interpretazioni che riconducevano gli interessi moratori entro la categoria della clausola penale, nel rilievo che gli interessi convenzionali, corrispettivi e moratori che siano, hanno comunque la medesima funzione, remunerativa del mancato godimento di un capitale da parte del mutuante, il che giustifica l’assoggettamento di entrambi alla speciale disciplina antiusura, ciò con un’ampia motivazione sulla natura dell’obbligazione per interessi e sul fondamento e la portata del divieto di usura, motivazione che, secondo il collegio, si rendeva necessaria a fronte di una giurisprudenza di merito che sovente trascurava detto principio.
La pronuncia, superato tale step e dopo l’ampia motivazione sul punto, aggiungeva due notazioni finali su aspetti ulteriori, pur esulanti dallo specifico thema decidendum: una prima sul parametro con cui raffrontare il tasso degli interessi di mora in concreto pattuito, ai fini della valutazione di usurarietà (aspetto in relazione al quale il collegio affermava che “il riscontro dell'usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento”) e una seconda, invero quasi assertiva e che ha perciò lasciato aperti margini interpretativi agli operatori,con riferimento alla portata della nullità.
Su questo secondo aspetto, in particolare, il collegio si limitava infatti ad affermare che “nonostante l'identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, l’applicazione dell'art. 1815, co. 2, agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”.
L’affermazione di tale principio ha lasciato aperti spazi interpretativi, potendo apparire incoerente – a fronte della premessa ampia motivazione sulla riconducibilità degli interessi di mora alla speciale disciplina antiusura –la conclusione per cui in caso di interessi moratori usurari non debba trovare applicazione la sanzione della gratuità dell’obbligazione restitutoria dettata ad hoc dall’art. 1815 c.c., tant’è che tra i commentatori si è parlato apertamente di interpretazione abrogante (v. Pascucci, Interessi moratori e usura: interpretazione abrogante dell’art. 1815, co. 2, c.c.in una recente decisione della Suprema Corte, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2019, 1) e si sono quindi continuati a registrare contrasti applicativi nella giurisprudenza di merito, intanto solo in parte sopita anche con riferimento alla questione a monte dell’assoggettamento degli interessi di mora alla disciplina antiusura.
Non è così un caso che, a distanza di un anno, la questione torni prepotentemente al centro dell’attenzione, con due pronunce di legittimità rese a distanza di pochi giorni una dall’altra: una, la sentenza n. 26286 del 17.10.2019, con cui la stessa Terza Sezione ha aperto un parziale contrasto nella sua giurisprudenza, e un’altra, l’ordinanza interlocutoria n. 26946 del 22.10.2019, con cui la Prima Sezione ha intanto rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della questione alle Sezioni Unite.
La decisione della Terza Sezione (interessante anche per la presa di posizione sull’ulteriore questione della validità della clausola di salvaguardia, in relazione alla quale si valorizza la fase esecutiva del contratto, chiamando il mutuante a dare la prova dell’effettiva applicazione della clausola, tale per cui essa non resti mera formula di stile) fa preliminarmente e con merito chiarezza su cosa debba intendersi per cumulo tra interessi corrispettivi e moratori; tiene quindi fermo l’assoggettamento dell’obbligazione di interessi di mora alla disciplina antiusura, per le motivazioni di cui all’ordinanza n. 27442/18, a cui sul punto interamente rimanda, pur muovendo, sul piano sistematico, dalla diversa prospettiva che, nel caso in cui la misura degli interessi di mora sia determinata convenzionalmente tra le parti, come solitamente avviene, riconduce tale convenzione entro l’alveo della clausola penale.
Tanto riaffermato, la pronuncia si pone invece in contrasto con il precedente della stessa sezione per ciò che concerne il parametro di verifica del superamento del tasso soglia. A fronte del problema posto dalla mancata rilevazione da parte della Banca d’Italia del tasso effettivo globale medio praticato con gli interessi di mora, il precedente affermava che, in assenza di specifiche disposizioni, era impossibile pretendere che l’usurarietà non si accertasse avendo come parametro il tasso ordinariamente rilevato ai sensi dell’art. 2 della l. 108/96 ed affermava l’arbitrarietà di altri metodi, che avessero incrementato di qualche punto percentuale il tasso soglia.
La decisione odierna, di contro, riporta in auge l’argomento della rilevazione separata del tasso medio degli interessi di mora, attraverso cui è stata rilevata la famigerata maggiorazione media del 2,1%, affermando (con una interessante motivazione che opera un parallelismo con l’analoga vicenda che ha riguardato la questione della commissione di massimo scoperto, anch’essa non inclusa nella rilevazione dei tassi medi) la bontà del metodo del raffronto tra il tasso degli interessi di mora praticato, solitamente costituito da uno spread di alcuni punti percentuali da aggiungere al tasso corrispettivo, ed il tasso soglia ordinario sommato del valore medio degli interessi di mora e con la maggiorazione prevista dall’art. 2, co. 4, della l. n. 108/96.
Muovendo inoltre dall’affermazione della natura di clausola penale dell’obbligazione per interessi moratori convenzionali, la pronuncia giunge anche alla conclusione della contemporanea concorrenza, quali strumenti di tutela dell’obbligato, della riduzione della penale, che opera prescindendo dal superamento del tasso soglia alla ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 1384 c.c., nonché della nullità ex art. 1815, co. 2, c.c., a fronte del dato oggettivo del superamento del tasso soglia nei termini sopra indicati.
Anche in relazione a questo secondo aspetto, inoltre, il collegio si pone in contrasto con il precedente di un anno fa, laddove era stata affermata l’attribuzione al creditore danneggiato, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di interessi al tasso legale, affermando invece, sembra in modo netto, che se la riduzione ad equità non fa venir meno l’obbligazione di interessi, ma solo la loro riduzione, la nullità determina la totale caducazione degli interessi oltre soglia, secondo un’interpretazione aderente alla lettera dell’art. 1815 c.c., che non distingue il titolo degli interessi, e conforme alla finalità sanzionatoria della legge.
Pressoché contestualmente, la Prima Sezione della Cassazione ha richiesto in materia l’intervento delle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 26946 del 22.10.2019 che, a sua volta, ha posto in discussione il precedente dello scorso anno, per motivazioni in parte analoghe a quelle della sentenza n. 26286/19.
L’ordinanza interlocutoria ritiene infatti necessario rimettere all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite la soluzione di due questioni di massima di particolare importanza: una è quella relativa alle modalità di verifica del carattere usurario degli interessi moratori e se al riguardo sia sufficiente la comparazione con il tasso soglia determinato in base alla rilevazione del tasso effettivo globale medio ovvero se, tenuto conto della rilevazione separata del relativo tasso medio, sia dato procedere ad una verifica del superamento nel caso concreto e, in ipotesi, con quali modalità. Si tratta, cioè, della questione sulla quale la sentenza n. 26286/19 aveva già fatto registrare il contrasto e l’intervento viene richiesto secondo un ragionamento che può dirsi in buona sostanza analogo a quello di detta sentenza, sia pure di più ampio respiro (ed è dato supporre nell’inconsapevolezza di tale decisione, non citata nella motivazione, atteso lo scarto di pochissimi giorni tra il deposito dei due provvedimenti).
Prima ancora, tuttavia, l’ordinanza interlocutoria richiede l’intervento delle Sezioni Unite anche sulla questione logicamente preordinata, data per assodata nella giurisprudenza della Terza Sezione dove aveva trovato continuità, relativa allo stesso assoggettamento dell’obbligazione per interessi di mora alla disciplina dettata dagli artt. 1815 c.c. e 644 c.p..
Sul punto, l’ordinanza premette che, in passato, nella giurisprudenza di legittimità la questione è stata risolta in senso affermativo sulla base del mero richiamo alla lettera degli artt. 644 c.p. e 1815 c.c., che solo di recente la questione ha costituito oggetto di un vaglio più approfondito (con l’ordinanza n. 27442/18) e che tuttavia la ragioni in quella sede addotte a sostegno dell’assoggettamento degli interessi di mora alla normativa antiusura prestano il fianco alle molteplici obiezioni già evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito.
L’ordinanza interlocutoria riporta tali obiezioni; lo fa semplicemente muovendo dalla lettera dell’art. 644 c.p., che se da un lato richiede l’inclusione, nella base di calcolo, delle remunerazioni a qualunque titolo collegate all’erogazione del credito, dall’altro riferisce il divieto dell’usura ai soli interessi dati o promessi in corrispettivo di una prestazione di denaro. In ragione di tale ambiguità testuale, in ragione del carattere meramente eventuale della mora e in considerazione che l'estensione alla mora della disciplina antiusura comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla pattuizione di penali una tantum, sottratte all'ambito di operatività della disciplina antiusura seppure abbiano la medesima funzione, dà atto di come da più parti sia stata ritenuta la ragionevolezza della disciplina secondaria che ha escluso gli interessi moratori dalla base di calcolo dei tassi medi (con una rilevazione del relativo tasso operata a meri fini ricognitivi) e pone a forte vaglio critico le motivazioni della sentenza dello scorso anno, che, sebbene dichiaratamente offerte in ragione del fermento della giurisprudenza di merito, non hanno fornito, ad avviso del collegio rimettente, una risposta appagante a tali obiezioni.
In presenza di un quadro normativo particolarmente frammentato, la giurisprudenza di prossimità ha avuto il merito, insieme alla dottrina, di proporre un’ampia varietà di soluzioni praticabili e, a prescindere dalla soluzione che sarà infine percorsa, le sollecitazioni del merito, ci dice l’ordinanza interlocutoria, esigono una risposta.
di Andrea Apollonio
La sentenza della Corte di Cassazione che mette la parola (quasi) "fine" alla nota inchiesta denominata "Mafia Capitale", condotta dalla Procura di Roma con clamorosi arresti nel dicembre 2014, ha suscitato molto clamore sui giornali. Le tonalità dei commenti sono state diverse, alcune particolarmente forti. Mario Ajello su Il Messaggero, per esempio, ha parlato di "danno planetario" e di "Roma diffamata". Un giudizio, per la verità, non consono ad una sentenza pronunciata da giudici di legittimità, inevitabilmente parametrata sul diritto e non sul fatto - fatti che, peraltro, appaiono oggi definitivamente accertati; fatti che, per di più, sono di tale gravità da far dire che il "danno planetario" è stato arrecato dai corruttori, e non certo da chi quei corruttori ha arrestato, ritenendo avessero utilizzato, nei loro affari, il metodo mafioso. Perché questo l'esito: il "mondo di mezzo" era corruzione, e non mafia. O meglio, il “mondo di mezzo” era un "unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà", come ha dichiarato al Corriere della Sera Michele Prestipino.
Intanto, proprio su questo giornale, Giovanni Bianconi ha rassegnato forse il commento più lucido: pur parlando di "sconfitta della Procura" (e su questo, torneremo), ha fatto notare che "non a caso i giudici che hanno visto e ascoltato i testimoni in primo grado (compresi quelli che hanno raccontato intimidazioni e minacce) hanno negato la mafia, mentre quelli d'appello che hanno rovesciato il primo verdetto hanno solo letto le carte". Un dato processuale a cui pochi hanno pensato, eppure rilevantissimo: è da qui che occorre partire per svolgere un ragionamento: un modesto commento al dispositivo (ancora privo di motivazioni) che ha contraddetto tanto la sentenza d'appello, tanto la stessa Cassazione, che nel 2015 si era pronunciata de libertate sull'astratta sussistenza della fattispecie di cui all'art. 416-bis cp. Nel mezzo, il giudizio di primo grado: così tracciato l'iter, già si ha un'idea della complessità della questione.
Perché, quindi, il "mondo di mezzo", non era mafia?
Una premessa è più che doverosa. È noto come il paradigma giuridico di mafia si sia gradualmente disancorato da quello socio-criminologico da cui deriva. Una separazione consensuale tra le due branche delle scienze sociali di cui si è dovuto ben presto prendere atto anche nelle aree a più alta densità mafiosa del Paese: una separazione operata dall’esegesi giurisprudenziale, forse inevitabile, ma che, ad ogni modo, sconfessa l’originaria intentio legis dei compilatori del 1982, che hanno volutamente poggiato buona parte della struttura del delitto su di un terreno sociologico anziché sul piano tecnico-giuridico. L'art. 416-bis - "L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva per commettere delitti" - è chiaramente intessuto da elementi eterogenei di natura extra-penale, la cui compatibilità occorre gestire con un principio di stretta legalità.
Risalendo via via la questione, quali sono i meccanismi fondativi di questo potere esercitato dall’associazione mafiosa? Le note modali dell’agere di una tale associazione si condensano nell’omertà e nell’assoggettamento che derivano dal vincolo associativo: si tratta di una forza intimidatrice scaturente dalla stessa compagine, capace di produrre ex se una condizione di assoggettamento e di omertà all’interno della collettività in cui si opera. Soltanto questi caratteri - gli stessi che, elaborati in campo sociologico, sono prima stati recepiti dalla giurisprudenza chiamata a pronunciarsi sull’applicazione delle misure di prevenzione e poi trasfusi dal legislatore del 1982 nell’art. 416-bis - riescono a differenziare un apparato di potere lecito (se articola le proprie attività nella piena legalità, ad esempio mediante i meccanismi della rappresentanza democratica) o criminale (se invece realizza i propri fini mediante la perpetrazione di reati) dal potere mafioso. Intimidazione, assoggettamento e omertà sono cifre in uno distintive e caratterizzanti, proprio e soltanto di quest’ultimo: sul piano sociologico, ma anche su quello giuridico, dal momento che, come prescrive l’art. 416-bis, di tale forza intimidatrice ci si deve "avvalere" per il perseguimento delle finalità alternativamente indicate dal reato.
E qui subentra il dato processuale intelligentemente richiamato da Bianconi: i giudici di primo grado hanno apprezzato, tramite l'escussione diretta dei testimoni e delle persone offese, che il vincolo associativo della banda capeggiata da Carminati e soci non generava una forza di intimidazione tale da creare una condizione di assoggettamento e di omertà, tramite cui perpetrare le proprie condotte delittuose (in particolare, i delitti di corruzione); oppure, se la generava, non è stata sfruttata: questa forza di intimidazione non era concretamente percepita da chi, col gruppo criminale, aveva a che fare.
Un dato che non sorprende, perché questa "mafia", all’interno di una realtà politica, economica e sociale fluida e complessa come quella della capitale, "tende a preferire il ricorso al metodo corruttivo, sia perché ritenuto necessario al consolidamento della posizione monopolistica raggiunta in determinati settori amministrativi ed economici, sia perché riduce l’incidenza dei profili di rischio nelle sue concrete forme di manifestazione" (così scriveva la Cassazione nel 2015). In altre parole, e quasi banalizzando, preferisce la mazzetta all'intimidazione (quella stessa, si badi bene, indicata all'art. 416-bis).
Il problema però è tutto in punto di configurazione del reato, perché tertium non datur: o i concorrenti non riescono ad esplicare le proprie attività d’impresa perché intimoriti dalla sola presenza del gruppo mafioso nel corso delle procedure d’evidenza pubblica, oppure tali attori economici, "semplicemente", non arrivano a conseguire le stesse possibilità imprenditoriali delle società del gruppo “mafioso” in ragione della corruzione dei funzionari pubblici. E, del resto, è nota l’evidenza empirica per la quale i fenomeni di corruzione contengono un disvalore ampio, che si proietta tanto sul corretto andamento della p.a. quanto – laddove il fatto corruttivo involga anche legittime pretese di terzi – nell’alterazione delle regole e del giogo della concorrenza. Un’evidenza che, peraltro, rende difficile se non impossibile capire se il dato della esclusione da appalti e concessioni di altri attori economici trovi la sua scaturigine in una carica intimidatrice autonoma del sodalizio, tale da sprigionare condizioni di assoggettamento ed omertà, oppure nella obiettiva impossibilità di ottenere tali appalti e concessioni, dal momento che le gare risultano essere pilotate già in partenza.
Probabilmente - ma a questo punto del discorso occorrerebbe leggere le motivazioni della sentenza, ancora in nuce - è stata questa sostanziale impossibilità di valutare, e comprendere perché Carminati e compagni ottenessero tanti e tali benefici - se per il denaro elargito, se per rapporti di amicizia e di cointeressenza consolidati, se per un'intimidazione che il suo gruppo promanava - a frenare la Cassazione, un attimo prima l'enucleazione di un nuovo paradigma giuridico: quello mafioso, slegato dal carattere dell'intimidazione, agganciato piuttosto al modus corruttivo.
Per intenderci, i giudici di legittimità negli ultimi anni già avevano compiuto una parabola evolutiva non da poco, elaborando, con annessa applicazione dell'art. 416-bis, le "piccole mafie" (gruppi composti da poche persone), le "mafie silenti" (gruppi non ancora o non più operativi), ma sopratutto "mafie" intimidatrici in potenza e non in atto, consorterie cioè che presentano una carica di intimidazione soltanto astratta, non (ancora) percepita all'esterno. Abbiamo così definitivamente accantonato l'idea che la mafia sia soltanto al Sud, utilizzi la lupara ed eserciti un controllo asfissiante del territorio. Tutto questo è, ormai, archeologia giuridica; rimaneva la sentenza su "Mafia capitale".
Che era attesa dai giuristi un po' come si attende l'ultima puntata di una serie, per capire come va a finire. E tutti o quasi, prima ancora dell'altro giorno, erano arrivati alle stesse conclusioni: ribattezzare il "mondo di mezzo" come "Mafia capitale", in via definitiva, significherebbe svuotare di sigificato, in via definitiva, l'art. 416-bis. Senza più l'utilizzo o il richiamo del concetto di intimidazione (neppure in astratto), si sarebbe determinato lo stacco irreversibile del paradigma giuridico dal contesto socio-criminologico da cui è inizialmente derivato.
In questo senso, è andata bene così. Perché mettere nelle mani dei magistrati inquirenti prima e giudicanti poi un paradigma di mafia soltanto "giuridica" (e ancora, torna quanto evidenziava Bianconi, il quale paventa l'idea che in appello, dove si leggono soltanto le carte, sia stata compiuta un'operazione "da laboratorio"), quindi facilmente interpolabile, avrebbe generato pericolose distorsioni di sistema; per non parlare degli squilibri sanzionatori (leggi: pene incalcolabili) che l'applicazione dell' art. 416 bis importa.
E neppure l'avrebbero voluto gli stessi teorizzatori di questo paradigma, ideato per il caso concreto, per un "unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà"; i quali, però, sono tutt'altro che "sconfitti", perché la parabola della Cassazione sopra descritta ha subito un'impressionante accelerazione proprio negli ultimi anni, con l'attenzione costante a quanto accadeva nelle aule d'udienza romane. La Procura capitolina si era spinta molto oltre con l'elaborazione esegetica dell'associazione mafiosa, ha segnato il passo; e più di un giudice, anche se non l'ultimo, le ha dato ragione: questo, assieme al dibattito pubblico (tra giuristi e non) che ha generato, ha concesso alla Cassazione - i cui magistrati non sono certo indifferenti ai dibattiti in atto; tutt'altro - margini di manovra di cui mai, prima d'ora, aveva goduto. Da qui, e dalle sue pronunce evolutive, è passata l'aggressione efficace ai nuovi gruppi mafiosi, non tradizionali - perché, parliamoci chiaro: le mafie, per come le abbiamo conosciute, non esistono più. Altro che sconfitta.
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