La Cassazione ribadisce la persistente differenza tra vincoli espropriativi e conformativi e la sua conformità alla Cedu, ma le incertezze restano (Nota a Cass. civ., Sez. I, Ord. 16 dicembre 2019, n. 33229)
di Giuseppe Tropea
1. La decisione che si annota, dopo aver affermato la non diretta disapplicabilità di norme di legge in contrasto con la Cedu, in linea con le consolidate opinioni della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007, n. 49 del 2015), ritiene che la distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi debba ritenersi tuttora sussistente, anche alla luce dell’art. 1 del Protocollo n. 1, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che considera le misure che non si traducano nella perdita della proprietà del bene come interventi che rientrano nella regolamentazione dell’uso dei beni, ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo n. 1.
Nel caso di specie i ricorrenti lamentavano che, nell'affermare il carattere conformativo del vincolo ad edilizia scolastica, la Corte d’appello avesse violato il principio secondo cui l'indennità di espropriazione deve riflettere l'effettivo valore dei beni ablati, sia in diretta applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, sia per effetto del Trattato di Lisbona, che la ha trasposta nel diritto dell'Unione, con conseguente efficacia diretta delle norme convenzionali, obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con essa, e superamento della distinzione tra vincoli che hanno la conseguenza di privare il proprietario del ristoro dovutogli per il sacrificio imposto da causa di pubblica utilità.
L’ordinanza in esame, nonostante la sua conformità a consolidata giurisprudenza, induce qualche riflessione di ordine più generale.
2. La giurisprudenza di legittimità, nel decidere sulla distinzione fra vincoli a carattere espropriativo e limiti di carattere conformativo, a fini indennitari nei casi di opposizione alle indennità espropriative ed a fini risarcitori nei casi di danno per occupazione acquisitiva, ha dato rilievo al carattere generale ed obbiettivo ovvero a titolo particolare della limitazione concretamente apportata al diritto di proprietà.
Mentre i vincoli conformativi sono quelli aventi i caratteri «della incidenza su una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono, in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un’opera pubblica», quelli di carattere sostanzialmente preordinato all’espropriazione si presentano «come vincoli particolari, incidenti su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione puntuale (con indicazione empiricamente, per ciò, detta ‘lenticolare’) di un’opera pubblica, ‘la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata ma ne esige la traslazione in favore dell’ente pubblico’» (v., fra le tante, Cass., Sez. un., n. 173/2001); dovendosi peraltro intendere il rapporto fra le due tipologie di vincoli in termini di regola-eccezione, sicché lo scrutinio sulla sussistenza di un vincolo espropriativo deve essere condotto in termini rigorosi, applicandosi in via residuale il regime dei vincoli conformativi.
È essenziale, nelle pronunce della Cassazione, l’elemento della inclusione o meno del vincolo relativo alla singola area nell’ambito della più ampia disciplina di zona, assegnando rilievo all’estensione dell’operazione urbanistica e al carattere «di massima della destinazione nel quadro dei complessivi equilibri territoriali», ovvero, secondo un criterio più sfumato, alla circostanza che il servizio previsto dal vincolo trascenda la necessità di una zona circoscritta e sia quindi concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio (v. Cass., Sez. I, n. 15389/2007, relativa proprio a vincoli ad edilizia scolastica).
La pronuncia in esame riprende tale passaggio, ritenendo di dover ribadire il principio, definito consolidato (Cass. n. 15389 del 2007; n. 15616 del 2007; 12862 del 2010; n. 8231 del 2012; n. 14347 del 2012; S.U., n. 3660 del 2014), secondo cui la destinazione di aree ad edilizia scolastica configura un tipico vincolo conformativo - in quanto trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti -, che determina il carattere di non edificabilità delle relative aree, neppure sotto il profilo di una realizzabilità della destinazione ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, giacchè l'edilizia scolastica è riconducibile ad un servizio strettamente pubblicistico, connesso al perseguimento di un fine proprio ed istituzionale dello Stato, su cui non interferisce la parità assicurata all'insegnamento privato.
Rimane in secondo piano il concorrente criterio della misura della incisione sulle facoltà di utilizzabilità del bene, di regola formalmente utilizzato non tanto al fine di definire il carattere conformativo o espropriativo del vincolo (a ciò rilevando in via principale, e quasi autosufficiente, il carattere generale o particolare dello stesso), quanto piuttosto nella fase successiva a quella di definizione della natura del vincolo, per riconoscere o escludere l’edificabilità, in applicazione della disciplina urbanistica di zona.
La decisione in commento non si discosta da tali criteri, anzi, ne riconduce la compatibilità al contesto convenzionale, in tal modo attenuando la portata del “rinascimento proprietario” da quest’ultimo recata, sia sotto il profilo assiologico che di teoria delle fonti.
3. Anche la giurisprudenza costituzionale, tanto a fini indennitari (v. sent. n. 6/1966) tanto in tema di decadenza e reiterazione del vincolo (v. sent. n. 179/1999), ha distinto fra vincoli riconducibili al potere espropriativo (art. 42, comma 3, Cost.) e ascrivibili invece alla potestà conformativa (art. 42, comma 2, Cost.), basandosi su due criteri: a) quello del carattere generale o particolare della limitazione alla proprietà: mentre i vincoli conformativi sono limiti «attinenti al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni ... identificabili a priori per caratteristiche intrinseche», quelli espropriativi sono privi di «questo carattere generale ed obbiettivo», in quanto comportano «un sacrificio per singoli soggetti o gruppi di soggetti rispetto a beni che non si trovino nelle condizioni suindicate»; b) quello della effettività della limitazione alla proprietà, per cui viene in rilievo, al di là del dato formale del trasferimento del diritto in capo all’Amministrazione, la concreta restrizione delle facoltà di godimento in confronto a quelle sussistenti al momento dell’imposizione, con particolare riguardo alla utilizzazione economica fondamentale (non solo edificatoria) del bene e alla variazione del suo valore di scambio.
Peraltro, a conferma di come anche nella giurisprudenza alsaziana vi sia un approccio non unilateralmente “proprietario”, si noti che la misura della incisione sulle facoltà di godimento del bene è elemento determinante pure nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ai fini di riconoscere sussistente la violazione della regola generale del “principio del rispetto della proprietà” (di cui al primo periodo del primo comma dell’art. 1), alla quale è ricondotto il tema dei vincoli espropriativi (v., fra le tante, 15 luglio 2004, Scordino, relativa a vincolo a infrastrutture scolastiche e viabilità).
Il sindacato sul rispetto da parte degli Stati contraenti del “giusto equilibrio” tra l’interesse generale della comunità perseguito con il vincolo e l’interesse fondamentale del privato al rispetto dei propri beni, quale limite al pur ampio margine di apprezzamento di cui essi godono nella disciplina dell’uso dei beni, ha infatti riguardo non solo alla durata della limitazione, ma anche alle effettive possibilità di vendita dello stesso e al suo valore di scambio, specie quando non ne sia dimostrato un possibile uso alternativo, secondo l’approccio concreto tipico della Corte EDU.
4. Può essere interessante in questa sede notare che la Cassazione arrivi alle medesime conclusioni di alcune pronunce di quasi vent’anni fa, ma attraverso un percorso meno coraggioso in punto di teoria delle fonti.
Basti qui ricordare quella decisione in cui, proprio in tema di vincoli conformativi, si è ritenuto di poter dare immediata applicazione della norma Cedu che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, giungendosi ad affermare che in caso di contrasto con la norma interna quest’ultima debba essere disapplicata (v. Cass., sez. I, n. 10542/2002, in Corr. giur., n. 6/2003, con nota di R. Conti, La Cassazione, il diritto di proprietà, e le norme della CEDU. Una sentenza da non dimenticare).
In concreto, però, trattandosi di considerare il parametro costituzionale rispetto a quello Cedu, anche allora si è comunque ritenuta – più o meno come nella decisione in commento – manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, e dell’art. 149 d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490, nella parte in cui prevedono l’apposizione, anche a mezzo di piani territoriali paesistici, di vincoli di inedificabilità senza determinazione di durata o previsione di indennizzo, poiché il sistema di tutela del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l’affermazione di limitazioni all’uso della proprietà dei beni vincolati - senza limitarne, peraltro, la commerciabilità, o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio - alla luce dell’equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenze di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, in attuazione della funzione sociale della proprietà; detto sistema non contrasta con l’art. 1 del prot. n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, pur ispirato alla necessaria proporzionalità tra l’interesse pubblico perseguito e la tutela della proprietà privata, non esclude un sacrificio dello ius aedificandi per la salvaguardia di interessi paesaggistici e ambientali.
La decisione in commento, quanto al primo profilo, sconta indubbiamente la sopravvenienza delle note sentenze “Silvestri” del 2007, non a caso adottate proprio nella materia sensibile dei rapporti fra limitazione della proprietà privata e Cedu.
Il secondo profilo, come detto, solleva invece il ricorrente problema della individuazione della linea di demarcazione fra ciò che secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo rientra tra le misure privative, per le quali si pone un problema di indennizzabilità della espropriazione - legittima o de facto – e ciò che integra una misura limitativa del godimento del bene, rispetto alle quali non si pone alcun problema di indennizzo, ma piuttosto di proporzionalità fra interesse pubblico e sacrificio imposto al privato. Tale confine, alla luce della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, non è affatto semplice da focalizzare (v., ancora, R. Conti, op. cit.).
La dottrina, nel tentativo di fornire un criterio di massima, ha sostenuto che laddove gli effetti sostanziali del procedimento si risolvono in una privativa delle prerogative del diritto di proprietà dotate dei caratteri della definitività e della tendenziale irreversibilità, si ricade nelle misure espropriative.
D’altra parte, anche il criterio dell'utilità economica è piuttosto generico (v. S. Amorosino, Una rilettura costituzionale della proprietà a rilevanza urbanistica, in Riv. giur. ed., 2019, 3 ss.): qual è la soglia della diminuzione percentuale del valore del bene, determinata direttamente dalla legge (o, nella nostra materia, da provvedimenti di pianificazione o regolamentari), oltre la quale il bene deve essere considerato sostanzialmente espropriato? Quella che ne impedisce qualsiasi utilizzazione o destinazione economica o quale altra? E — in molti casi — come si accerta il superamento della soglia?
5. Non è questa la sede per considerazioni relative al rapporto fra fonti. La giurisprudenza resta assestata sugli arresti della Consulta del 2007, come ha dimostrato anche più di recente in altri casi, che hanno chiamato la delicata vicenda della tenuta del giudicato interno in contrasto con le pronunce della Corte Edu (v. sent. n. 123/2017). Forse sta per avviarsi un nuovo ordine alla luce del Protocollo n. 16, ma allo stato non è prefigurabile tale assetto, né la richiamata giurisprudenza della Cassazione del 2002 appare riproponibile.
Peraltro, come detto, anche questa giurisprudenza, al netto delle coraggiose aperture in tema di rapporto fra ordinamenti e teoria delle fonti, finiva per legittimare la cittadinanza costituzionale della distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi.
Sul punto possono adottarsi due distinti approcci.
Da un lato si potrebbe dissentire radicalmente dal merito delle conclusioni degli ermellini.
In passato la dottrina lo ha fatto, anche se da posizioni radicalmente opposte.
Come noto, infatti, c’è chi ha autorevolmente ritenuto che la distinzione tra limitazioni in via generale e imposizioni a titolo particolare, che danno luogo, avendo carattere espropriativo, ad un indennizzo, appare contraddittoria «rispetto allo specifico sistema delineato dalla Costituzione per ciò che riguarda gli interventi pubblici sulle proprietà dei privati e inoltre, pur pretendendo di svolgersi in un contesto caratterizzato da forti pretese egualitarie, introduce notevoli ed arbitrari elementi di contraddizione”» (S. Rodotà, Art. 42, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1982, 121 ss., spec. 132). Altri, più di recente, sono arrivati alle medesime conclusioni, ma su premesse assiologicamente diverse, più liberali, finendo per ritenere incompatibile con la Cedu la distinzione fra vincoli conformativi ed espropriativi (G. Leone, Indennità di espropriazione: tutto risolto? Ovvero sulla (in)esistenza dei vincoli espropriativi e conformativi, in Riv. giur. ed., 2008, 185 ss.).
Il problema, ad avviso di chi scrive, sembra essere piuttosto quello dei margini interpretativi delle distinzioni, e del rispetto, in questo senso, di quella “prevedibilità” dell’incisione della proprietà privata centrale nella giurisprudenza di Strasburgo.
In tal senso, sembra che dei due profili presenti, sin dall’origine, nell’espropriazione per p.u., quello strutturale (attinente al trasferimento di proprietà alla p.a.) e quello funzionale (della realizzazione dell’interesse pubblico), col primo che risolve un problema di appartenenza (norme di relazione), e il secondo un problema di attuazione dell’interesse pubblico (norme di azione), pur a fronte del “rinascimento proprietario” dei primi del 2000 il secondo non sia mai venuto del meno, prestando il fianco a persistenti profili di criticità.
Lo dimostra plasticamente la vicenda dell’occupazione acquisitiva, sublimata in chiave di interesse pubblico dall’istituto dell’acquisizione sanante, la cui conformità a Costituzione, e quindi al Primo Protocollo Cedu, seppure ormai certificata (v. Cost. cost. n. 71/2015), continua a presentare profili di criticità, come dimostra ad esempio il controverso istituto della c.d. usucapione sanante, di fatto ammessa (sia pure con dei limiti) da Ad. plen. n. 2/2016.
Si tratta di persistenti “valvole di sicurezza del sistema” (R. Pardolesi, Occupazione appropriativa, usucapione e valvole di sicurezza, in Foro it., 2014, III, 590 ss.) che attestano risorgenti istanze di funzionalizzazione, la cui compatibilità con la Cedu appare sempre a rischio.
Nel nostro più specifico caso la pur teoricamente condivisibile distinzione fra vincoli espropriativi e vincoli conformativi appare di discutibile armonizzazione ai parametri Cedu nella misura in cui sembra declinarsi in una sorta di presunzione relativa a favore della automatica riconducibilità dell’edilizia scolastica ai secondi, a fronte di un ordine di idee che – invece – dovrebbe come detto condurre alla residualità del vincolo conformativo, o, comunque, ad una verifica in concreto, più compatibile con le modalità decisorie della Corte Edu.
Sennonché è di nuovo su questo fronte che si misurano delle distanze fra Cassazione, che resta giudice di legittimità, e cui anzi le riforme degli ultimi anni conferiscono sempre di più lo ius constitutionis, a detrimento dell’originario ius litigationis (critico, autorevolmente, G. Verde, Jus litigatoris e jus constitutionis, in Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012 40-41), e Corte Edu, legata invece alle peculiarità del caso singolo.
Se è così, forse il dissidio verrà definitivamente superato facendo un passo avanti nel raccordo fra ordinamenti, non tanto ripristinando la tesi – fugacemente affermata dalla Cassazione nel 2002 – della disapplicazione, posto che anche a livello convenzionale l’interesse pubblico mantiene una sua rilevanza, quanto operando una maggiore convergenza in punto di modalità di giudizio delle Corti supreme.
Se nel “dialogo fra corti” la legalità, valore tuttora centrale quando si incide sulla proprietà, si declina pure come prevedibilità, anche la distinzione fra vincoli espropriativi e conformativi merita maggiore certezza e minore occasionalismo. Né all’uopo appaiono condivisibili unilaterali generalizzazioni presuntive, più spesso formulate a favore di persistenti sacche di funzionalizzato interesse pubblico (sul tema v. G. Tropea, Le presunzioni nel processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2019, 683 ss.), con buona pace della genericamente affermata residualità del vincolo conformativo.
A ciò si deve accompagnare, evidentemente, un sindacato rigoroso sulla legislazione in materia, ormai anche regionale, e sulle conseguenti misure amministrative di piano, fondato sui canoni della ragionevolezza, proporzionalità, non discriminatorietà, affidamento del cittadino, giusto procedimento.