ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Emergenza pandemica, diritto di visita dei familiari in r.s.a. e questioni etico-giuridiche nella giurisprudenza inglese
di Mario Serio
Sommario: 1. La frequenza delle scelte etiche nell'esperienza giuridica inglese: conflitti ed allineamenti tra fattispecie e principii. La propensione della giurisprudenza inglese a misurarsi con la Convenzione europea sui diritti umani del 1950 e lo Human Rights Act del 1998; 2. Il sistema delle Corti specializzate nel common law inglese: ragioni e dubbi. La Court of Protection ed il Mental Capacity Act del 2005; 3. Il caso BP and Surrey County Council and RP deciso nel marzo 2020 dalla Court of Protection: le possibili limitazioni agli incontri con i propri familiari imposte alle persone dichiarate incapaci; 4. Brevi considerazioni finali: il ruolo del giudice inglese nella decisione intorno a questioni di coscienza.
1. La frequenza delle scelte etiche nell'esperienza giuridica inglese: conflitti ed allineamenti tra fattispecie e principii. La propensione della giurisprudenza inglese a misurarsi con la Convenzione europea sui diritti umani del 1950 e lo Human Rights Act del 1998
Se è vero che l'esperienza giuridica è destinata, nel suo continuo divenire, a piegarsi, a conformarsi, a ripensarsi e ad essere ripensata in stretto rapporto alle mutevoli, cangianti, imprevedibili esigenze della vita individuale e collettiva, così andando incontro al non agevolmente evitabile rischio di discontinuità nella sua rappresentazione e nella natura delle risposte che da essa derivano, non è per questo da trascurare che il discorso giuridico, inteso come scenario di impronta teorica che attorno ad essa viene razionalmente organizzato, sappia in via tendenziale manifestare la capacità di strutturarsi attraverso criteri argomentativi orientati a, ed ispirati da, principii. Tanto più se il corso degli eventi che genera la necessità di riallineamento tra tradizione ed innovazione ha evidente matrice etica (o anche bioetica)[1] e, comunque, impegna scelte metagiuridiche.
Da anni, ed in susseguenti, rilevanti occasioni, nel common law inglese, ed anche in ordinamenti continentali, si agitano questioni, riferibili a singolari, laceranti casi della vita[2]. Sin da adesso può osservarsi che la locuzione “in the best interest of” (di volta in volta il paziente, il minore[3], l'incapace) racchiude, costituendone suggestivo simbolo, il nucleo centrale delle questioni implicate dalla costruzione del fenomeno giuridico su un fondamento che sviluppa conoscenze, valutazioni, decisioni eccedenti il semplice ambito del diritto positivo. Il diritto inglese è stato in tempi recenti attraversato da domande di giustizia di talmente profonda tessitura morale da imporre orientamenti giurisprudenziali, preceduti o seguiti da significativi commenti dottrinari, che, animati come non potevano non essere da sofferte considerazioni conducenti appunto alla individuazione del genere di interesse di cui si discute, hanno aperto la strada ad importanti opinioni, anche aspramente divise. Circostanza, questa, che di per sé né affievolisce l'intimo valore della singola scelta né meccanicamente dovrebbe indurre all'auspicio che le scelte stesse siano avulse da inevitabili nodi problematici e controversi, come è nella natura della materia discussa. Ed allora, un primo motivo di interesse nei riguardi di questo genere tematico è costituito dalla ricognizione estesa delle ipotesi più comunemente presenti nella quotidiana esistenza che richiamino, a propria volta, tutte le formazioni di giuristi al compito di misurarsi con nuove categorie di giudizio, aspirando ad una classificazione in senso tassonomico delle “rationes decidendi” e, in genere, degli argomenti spesi a suffragio od in opposizione ad esse.
Ma non è solo euristico lo scopo di questo tipo di ricerca: essa, invero, cospira a guidare chi la pone in essere verso la sponda del dialogo interordinamentale europeo, al cui interno è ben possibile, come il prosieguo del lavoro si propone di render chiaro, reperire testimonianze di un filo unico di riflessione, non importa quanto diversificata nelle conclusioni.
Un netto sintomo di questa interazione tra sistemi giuridici differenti, ma utilmente integrabili nel rispetto delle reciproche autonomie, può percepirsi nella travagliata storia riguardante il neonato inglese affetto da una grave ed irreversibile patologia neurodegenerativa congenita[4]: si trattava di stabilire se l'ospedale che aveva in cura il piccolo malato potesse sospendere il trattamento terapeutico, particolarmente invasivo e responsabile di probabili sofferenze, inidoneo a conferire alcun benefico e duraturo risultato che potesse prevenire o debellare il certo ed imminente esito infausto. Alla drammatica prospettiva si opposero sia i genitori del bambino sia il suo curatore speciale (“guardian ad litem”) nominato per la miglior tutela processuale della sua posizione, assumendo la sussistenza di una possibilità terapeutica vagliata come possibile da un clinico statunitense, seppur dai circoscritti e congetturali margini di successo. La disputa si concentrò sulla determinazione della congruenza del nuovo tentativo terapeutico rispetto al massimo interesse del minore. La risposta fu unanimemente negativa nei tre gradi di giudizio ed essa fu giudicata del tutto compatibile con le norme convenzionali dalla Corte europea dei diritti umani[5]. Non è questa la sede per ripercorrere puntualmente le concordi sentenze, tutte votate alla confutazione della ricorrenza di una sufficiente base scientifica a sostegno del tentativo terapeutico adombrato[6], che avrebbe con ogni verosimiglianza aggravato lo stato di dolore provocato dalla malattia ed esposto il piccolo paziente ad un disagevole trasferimento presso strutture ospedaliere americane senza in alcun modo garantire un accettabile grado di prognosi favorevole, anche in termini di miglioramento delle condizioni generali o di allungamento delle aspettative di vita, rispetto alla acclarata previsione di un brevissimo periodo residuo di sopravvivenza. Di sicuro interesse ai fini del presente studio si rivela piuttosto la chiara definizione, fatta propria nella interpretazione del diritto interno dalla Corte EDU, della locuzione “best interests of the patient” presa a mutuo da un precedente del 2006 della House of Lords[7], intesa come ogni tipo di considerazione medica, emotiva, sensoriale, istintiva capace di avere un impatto sulla decisione[8]. Da una siffatta configurazione si comprende l'esattezza della posizione di chi motivatamente afferma la insovrapponibilità della volontà genitoriale rispetto a quella del minore al fine della protezione del relativo interesse[9], che, infatti, dal punto di vista processuale è autonomamente rappresentato, come visto, da un curatore speciale (“guardian ad litem”) appositamente nominato.
In altre non meno stimolanti ed ardue occasioni la giurisprudenza inglese si è trovata, negli anni '10 di questo secolo ad occuparsi della linea di confine che contraddistingue il perimetro del “best interest” della persona necessitante della tutela ordinamentale[10]: se si è preferito estrapolare da questa lista il caso Charlie Gard è solo per la sua attitudine esemplarmente riassuntiva del nugolo problematico che si addensa intorno a questioni di bioetica, che saranno di nuovo riprese nel paragrafo finale.
La completezza del discorso vuole che si faccia anche menzione di una decisione della stessa Supreme Court dell'anno successivo[11] che, in un caso in cui si discuteva circa la necessità che l'ospedale presso il quale era ricoverato un paziente insuscettibile di qualsiasi miglioramento e dalla prognosi irreversibilmente negativa, si trovò a pronunciarsi sulla richiesta della stessa struttura, pur in presenza dell'assenso dei familiari, dell'autorizzazione giudiziale alla sospensione delle terapie. La Corte delineò i casi in cui è imprescindibile la pronuncia della magistratura, identificandoli in quelli in cui vi sia discordanza di opinioni mediche o dissenso dei familiari in ordine alla proposta sospensione del trattamento. Nel decidere la Supreme Court dichiarò di attenersi al ragionamento, ritenuto del tutto applicabile alla fattispecie, sviluppato in un caso precedente giudicato dalla Corte EDU[12] in cui si era detto che in simili evenienze i giudici non autorizzano un trattamento sanitario che sarebbe altrimenti antigiuridico ma si limitano a verificare la legittimità della sua eventuale interruzione[13]. Nella sentenza del 2018, redatta dalla Presidente del Collegio, Lady Hale, è stata anche richiamata adesivamente la pronuncia della medesima Corte, ancora una volta con la medesima redattrice, di cinque anni precedente[14]. In essa i giudici di ultima istanza, nel condividere il diniego opposto dal primo giudice alla richiesta della struttura ospedaliera di porre fine al trattamento terapeutico di un paziente in stato comatoso , sottoposto a ventilazione forzata e privo di prospettive di guarigione benché i parenti avessero convenientemente dedotto che egli sembrava aver manifestato la volontà di essere tenuto in vita, avevano, tuttavia, sottolineato come, a tenore del Code of Practice annesso al Mental Capacity Act del 2005, dovesse ritenersi rispondente al “best interest” della persona in cura la cessazione delle terapie volte a fornire supporto vitale ogni volta che queste possano apparire futili in termini di risultato, troppo pesanti o incapaci di assicurare concrete possibilità di guarigione[15].
Prima di ascrivere al novero di tali questioni anche quelle, di recente, dirompente avvento, riguardanti i rapporti tra situazioni emergenziali e godimento di diritti direttamente riferibili agli “status”[16] familiari, nell'accezione di condizioni soggettive meritevoli di particolare e rafforzata considerazione ordinamentale, conviene soffermarsi introduttivamente sull'atteggiamento di indiscutibile e rispettosa cooperazione instaurato e continuativamente perseguito tra la giurisdizione inglese e quella europea in materia convenzionale di diritti dell'Uomo. Può bastare a questo punto menzionare l'assenza di barriere intellettuali o di gelosie sciovinistiche che hanno consentito, sin dall'entrata in vigore nel Regno Unito nel 2000 dello Human Rights Act del 1998[17], un fruttuoso scambio di indirizzi interpretativi delle disposizioni convenzionali in termini di identificazione della circonferenza dei diritti ivi garantiti e dei relativi ambiti di affermazione[18]. E', infatti, costante il riferimento da parte dei Giudici del common law inglese alle pronunce della Corte di Strasburgo ed ai principii in esse enunciati, concepiti come parametri di valutazione della compatibilità con la Convenzione del 1950 delle disposizioni, legislative, amministrative, giudiziali, interne. Che di disposizione culturale del tutto amica ed armoniosa è esplicitamente confermato dalla profusa motivazione della Corte europea dei diritti umani nella sentenza del 2017 sul caso Garde laddove respinge tutte le censure di allontanamento dai principii convenzionali sul diritto inviolabile al rispetto della vita umana mosse dai genitori del minore alle conformi sentenze inglesi. Sembra, pertanto, che questa piena compenetrazione nel tessuto ordinamentale inglese non sia il semplice frutto dell'ingresso della Convenzione nel sistema interno per effetto della legge traspositiva, spiegandosi, al contrario, come prodotto della convinta e meditata adesione ad un complesso di valori che trascende l'elemento geografico e si proietta in un vasto orizzonte di “ius commune europeum”.
2. Il sistema delle corti specializzate nel common law inglese: ragioni e dubbi. La Court of Protection ed il Mental Capacity Act del 2005.
L'ordinamento inglese ha mostrato un'immutata nel tempo inclinazione a creare settori di giurisdizione dedicati alla trattazione di materie ed affari specialmente richiedenti competenza e sensibilità nei giudici ad essa destinati. Non si tratta della costituzione di plessi giurisdizionali speciali, ossia del tutto estranei all'ordinario circuito giudiziario (si pensi che delle Corti specializzate vengono normalmente chiamati a far parte magistrati che esercitano le proprie funzioni in uno dei tre livelli delle giurisdizioni superiori), quanto di organi versati nella risoluzione di categorie di questioni di tale rilevanza e frequenza da suggerire che di esse si occupino settori operanti in via esclusiva. Si potrebbe dire, aderendo ad un ordine concettuale e terminologico proprio del sistema processuale italiano, che si è di fronte a Giudici titolari di una specifica, inderogabile competenza funzionale. Alla loro qualificata azione il mondo professionale e quello degli utenti della giustizia è da sempre positivamente assuefatto per la fiducia nutrita nella vasta esperienza maturata da chi le amministra.
Una cura precipua il legislatore inglese ha tradizionalmente riservato alle materie interferenti con la condizione giuridica delle persone[19], la cui situazione individuale, per ragioni fisiche o mentali, reclami interventi e misure rivolti all'eliminazione, anche attraverso azioni positive, di ogni svantaggio o fattore sfavorevole alla piena e soddisfacente esplicazione della relativa personalità o alla realizzazione delle rispettive esigenze.
Il Mental Capacity Act del 2006 rappresenta uno dei capitoli legislativi meglio descrittivi di questa tendenza normativa diretta alla configurazione di un sistema integrato e razionale di disposizioni a tutela delle persone ricadenti nel suo raggio applicativo.
Questa legge, coeva all'approvazione del fondamentale Constitutional Reform Act dello stesso anno, istitutivo della Supreme Court, reca nel preambolo il proprio contrassegno teleologico: provvedere alla predisposizione di norme in tema di persone prive di capacità di agire; prevedere la istituzione, in luogo del precedente omonimo organo, di una Corte di rango superiore munita di apparato organizzativo e documentario completo (una Court of record[20]) denominata Court of Protection; emanare disposizioni aventi nesso con la Convenzione internazionale per la protezione delle persone adulte sottoscritta all'Aja il 13 gennaio 2000 e con gli scopi relativi[21]. Ben può dirsi che al patrimonio normativo del common law inglese è venuto ad essere ascritto un autentico statuto delle persone affette da incapacità correlabile ad una menomazione delle facoltà mentali-cognitive ,vale a dire un complesso organico di disposizioni, sia sostanziali sia processuali, il cui oggetto è formato dalla descrizione di una figura soggettiva dalle irripetibili caratteristiche implicanti una risposta ordinamentale in senso solidaristico e tale da ridurre, se non eliminare, la distanza psicologica, emotiva, pratica rispetto ad ogni altro soggetto di diritto. Di alcune di esse, per la loro diretta incidenza sugli angoli visuali di questo studio, è utile il richiamo. In primo luogo è posta la presunzione “iuris” di capacità fino alla prova contraria consistente in una pronuncia giurisdizionale: nel medesimo senso si prevede che a tale risultato deprivativo possa solo giungersi dopo l'infruttuoso esperimento di ogni tentativo di prevenirlo; nè tale estrema soluzione potrebbe giustificarsi sulla base esclusiva della constatazione che la persona ha preso decisioni poco sagge. Se quelle appena citate si prospettano come disposizioni protettive della persona in senso preventivo della dichiarazione di incapacità, altre intervengono a delinearne lo “status” nell'ipotesi che tale situazione sia effettivamente venuta in essere. La prima e principale, di assorbente rilievo in questa sede, consiste nella proclamata necessità che ogni atto o provvedimento afferente alla persona incapace ne presupponga la piena conformità al suo interesse e risponda, in ogni caso, all'imperativo di contenere al massimo la compressione dei relativi diritti e della libertà d'azione. L'opzione legislativa si esprime nel senso che a legittimare le misure incapacitanti debba essere l'inettitudine della persona a decidere autonomamente ovvero di comprendere o ritenere i dati informativi sui quali fondare la decisione. Anche la nozione del prima evocato criterio del “best interest” è declinata secondo un modello definitorio rivolto a preservare, seppur in forma deduttivo-ipotetica, la volontà della persona in quanto chi è chiamato a rappresentarla è tenuto, nella prefigurazione di ciò che più fedelmente corrisponda all'interesse del rappresentato, a porsi l'interrogativo circa la possibilità che in futuro questi possa riacquistare la capacità di amministrarsi in relazione ad uno specifico oggetto, sì da non rendere irreversibilmente opponibile all'interessato la scelta da altri per suo conto effettuata e, quindi, permanente la condizione limitativa. Questa, a propria volta, non può giammai convertirsi in un'indebita privazione della libertà personale, se non nei casi in cui essa consegua ad un ordine giudiziale volto anche a surrogare in casi di necessità la carenza di condizioni limitative della libertà stessa ed in particolare ad un provvedimento disposto in vista della somministrazione alla persona incapace di trattamenti sanitari vitali e, comunque, necessari per ragioni di mantenimento in esistenza. Egualmente non infrange il divieto di impedire la libertà della persona l'iniziativa che chi è chiamato a prendersene cura assuma nella ragionevole convinzione che essa valga a prevenire pregiudizi all'incapace.
In tale contesto normativo di somma protezione della persona e della personalità dell'incapace si pongono le fitte previsioni (sezione 46 ss.) che disciplinano la Court of Protection, determinandone prerogative, competenze, funzionamento. Proprio in omaggio all'obiettivo di contemplare un giudice funzionalmente competente, nei termini prima precisati, viene avvertita come indispensabile l'attribuzione ad un giudice specializzato, perchè preventivamente selezionato dal Lord Chief Justice[22] nei ranghi della Family Division della High Court (il cui complesso di poteri, facoltà, attribuzioni è espressamente riconosciuto in capo alla medesima Court of Protection, presieduta, appunto, dal Presidente della stessa Family Division), della cognizione degli affari ricadenti nella sfera giuridica delle persone dichiarate incapaci ai sensi dello stesso Mental Capacity Act del 2005. Largo è il terreno di azione garantito alla Corte. Essa esercita, in particolare, le proprie funzioni per quanto attiene: all'accertamento delle necessarie facoltà cognitive al fine di assumere decisioni consapevoli da parte di singole persone; alla nomina di rappresentanti per il disbrigo dell'ordinaria amministrazione a favore di persone che non sarebbero capaci di provvedervi; alla definizione di istanze e ricorsi aventi carattere di urgenza proposti nell'interesse di persone incapaci; all'attribuzione di poteri duraturi o temporanei di rappresentanza di persone incapaci; all'autorizzazione a compiere per costoro atti di ultima volontà o di disposizione a titolo di liberalità di propri beni; alla decisione circa la possibile limitazione della libertà di persone incapaci. L'individuazione delle varie forme di provvedimenti adottabili nei confronti delle persone incapaci, ed il relativo regime autorizzatorio (sia di natura ordinaria sia di natura urgente), nonchè l'identificazione delle disparate categorie di soggetti muniti di specifici ruoli istituzionali nella vita ,nelle relazioni e nella costante valutazione delle condizioni psico-fisiche delle persone dichiarate incapaci formano poi oggetto di numerose, puntuali disposizioni di carattere sostanzialmente regolamentare e sono contenute in due delle appendici (rispettivamente Schedule A1 e AA1) alla legge. Questa, come si è già avuto modo di richiamare alla mente, si muove lungo un crinale di respiro sovranazionale, tanto riconducibile - e questo sarà il principale motivo di trattazione nella prossima parte - all'arena europea quanto collegato a Convenzioni internazionali di ancor più spaziosa portata.
E' all'interno del descritto quadro normativo che si inscrive una recente pronuncia della Court of Protection di sicura rilevanza nell'ambito della delimitazione del complessivo “legal status” delle persone dichiarate incapaci e della attenzione loro riservata nel generale contesto transanazionale, di decisivo impatto nell'economia del peculiare caso.
3. Il caso BP and Surrey County Council and RP deciso nel marzo 2020 dalla Court of Protection: le possibili limitazioni agli incontri con i propri familiari imposte alle persone dichiarate incapaci
Il caso di recente deciso dalla Court of Protection nelle fasi iniziali, almeno per il Regno Unito, della pandemia nota come SARS 2-Covid 19 aggrega in sé, in forma paradigmatica, alcune delle maggiori questioni etico-giuridiche che sono solite presentarsi con riferimento ad ipotesi ricadenti nell'ambito della disciplina posta dal Mental Capacity Act del 2005. E ciò sia per ciò che attiene alle condizioni legittimanti l'adozione di provvedimenti a tutela delle persone per qualunque causa rese incapaci di porre in essere decisioni autonome sulla base dell'acquisizione in forma critica e ritenzione delle necessarie informazioni che ne costituiscono il presupposto storico e logico sia relativamente alla puntuale determinazione del loro “best interest” nelle circostanze date.
Quel che si può già adesso anticipare a proposito della locuzione appena riportata è la straordinaria flessibilità una volta di più esibita dalla giurisprudenza inglese nell'adattarla alle singole circostanze, di guisa che non di una singola, statica nozione possa parlarsi ma di un nucleo concettuale mobile in diretta proporzione alle esigenze ed alle caratteristiche soggettive della persona (minore, malato, totalmente o parzialmente incapace) della cui posizione e dei cui specifici interessi debba tenersi conto nell'apprezzamento e nella statuizione giudiziale.
I fatti da cui si è diramata l'urgente richiesta di intervento in forma monocratica della Court of Protection vanno così brevemente riepilogati e risalgono alla seconda metà del mese di marzo 2020. Presso unna struttura ospedaliera specialmente dedicata alla cura di pazienti anziani anche sofferenti di patologie di rilievo neurologico e cerebrale, rientrante nella vigilanza e nell'organizzazione di un'autorità locale (il Surrey County Council) si è trovato in quei giorni ricoverato un uomo di 83 anni, affetto da disturbi cognitivi che ne riducono l'attitudine ad adottare decisioni responsabili e a comprendere pienamente gli effetti della malattia neurologica nonché da ipoacusia. A seguito di una consulenza medica disposta in conformità del Mental Capacity Act 2005 egli, sin dal 12 agosto 2019 (dopo un inziale ricovero a far data dal 25 giugno 2019), è stato giudicato (sebbene definito come soggetto in grado di capire e ritenere la maggior parte delle informazioni veicolategli) incapace di autodeterminarsi congruamente in quanto colpito dalla malattia di Alzheimer e, pertanto, sottoposto, attraverso uno dei provvedimenti previsti per simili evenienze dalla legge in parola ( una “standard authorisation”), al regime di ricovero, a proprie spese, nella casa di cura fino al 3 giugno 2020, allorchè sarebbe stato sottoposto a nuova valutazione delle proprie condizioni. Con costante regolarità il paziente ha sempre ricevuto visite dai propri familiari, in particolare di una delle figlie con cadenza quotidiana e della moglie trisettimanalmente. Ripetutamente egli, dal momento della “deprivation of liberty” (tale considerandosi nel lessico legislativo la condizione del destinatario del prima descritto provvedimento), ha senza alcuna ambiguità espresso il proprio desiderio di ritornare a casa, cui si è frapposta l'efficacia della disposizione incapacitante. Con una lungimiranza (che in Italia sarebbe stata auspicabile da parte degli enti territoriali con riferimento ai problemi dei degenti nelle residenze sanitarie assistite) forse sfortunatamente mancata a livello politico, prima ancora che il Governo inglese adottasse misure di contenimento della diffusione e della trasmissione della pandemia (pur non così radicali come quelle di cui si sta per dire), ed esattamente con un anticipo di 3 giorni , alle 17 del 17 marzo 2020,la casa di cura ha disposto che per tutto il tempo dell'emergenza sanitaria siano sospese visite e contatti esterni con i pazienti in essa degenti. Il divieto ha diviso i parenti del paziente, in quanto la figlia che lo visita assiduamente ha ritenuto, contrariamente all'avviso materno, che sia meglio rispondente agli interessi paterni il temporaneo ritorno nella propria abitazione dove potrebbe ottenere adeguata assistenza in virtù dell'approvvigionamento dei necessari mezzi di cura. Al diniego di flessibilità nell'osservanza di questa disposizione da parte della casa di cura o di deroga circoscritta al singolo paziente, la figlia, nel frattempo assunta la posizione processuale di “litigation friend”, di cui si è prima detto, implicante il perseguimento processuale di azioni rivolte alla miglior protezione della sua condizione[23], si è rivolta alla Court of Protection, nella persona del giudice designato Hayden[24], formulando un'articolata e progressiva serie di istanze urgenti. In primo luogo, la domanda ha avuto ad oggetto la dichiarazione della Corte che, nell'ipotesi in cui entro 72 ore il padre non avesse ricevuto la visita del consulente designato a rivalutarne le condizioni giustificatrici della sua permanenza nella struttura o quella dei familiari, non fosse ulteriormente nell'interesse del paziente la prosecuzione del ricovero; la conseguenziale e subordinata domanda è stata nel senso che dovesse essere revocato il provvedimento autorizzativo del ricovero privativo della libertà paterna. Ed ancora, si è sollecitata una pronuncia di accertamento che il divieto assoluto di visite si pone in contrasto con i diritti assicurati ai pazienti dagli articoli 5 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'ulteriore istanza è stata diretta a conseguire un provvedimento interinale ed urgente dichiarativo della miglior rispondenza all'interesse paterno del suo ritorno a casa con adeguato supporto di dispositivi per le cure necessarie.
La premessa scientifica da cui ha preso le mosse la sentenza è stata quella secondo cui l'eventuale contrazione del virus da parte dell'anziano paziente ne avrebbe messo seriamente a repentaglio la vita. Su di essa si è imperniato tutto il ragionamento successivo.
Il metodo applicato dalla Corte nell'esame delle domande è stato chiaramente improntato alla verifica preliminare della compatibilità della misura disposta dalla casa di cura con le varie fonti di diritto transnazionale di origine convenzionale. La prima di esse è stata individuata nell'art.11 della convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità che impegna gli Stati contraenti ad assicurare ad esse tutela in termini di sicurezza in situazioni di rischio (quali, intuitivamente, osservò il giudice Hayden, quella nascente dalla pandemia), nonchè nel successivo art. 11 che proclama il diritto alla salute di costoro[25].
Anche l'articolo 5 della CEDU, la cui violazione è stata espressamente lamentata dalla ricorrente, è caduto, nei suoi profili di intangibilità dei diritti individuali di libertà e sicurezza, sotto la lente d'ingrandimento dell'organo giudicante. Al riguardo si è osservato che le limitazioni alla prima di tali libertà possono essere imposte a condizione che si osservino le forme procedurali prescritte dalla legge interna e che esse siano indirizzate alla prevenzione di fenomeni patologici contagiosi ed alla protezione di persone deboli di mente. È stata, al riguardo, dalla Court of Protection richiamata la giurisprudenza EDU che impone agli Stati contraenti l'adozione di effettive disposizioni protettive di persone soggette a rischio, comprese quelle dirette a prevenire limitazioni di libertà attraverso mezzi dei quali le pubbliche autorità abbiano o siano tenute ad avere conoscenza[26]. In particolare, conformemente a consolidata giurisprudenza domestica[27], si sottolinea il triplice dovere incombente sulle autorità locali, consistente, rispettivamente, nel condurre le appropriate indagini sulle concrete circostanze, nel predisporre i necessari servizi di supporto e nel rivolgersi per gli opportuni provvedimenti al giudice competente. Altre norme della Convenzione del 1950 sono state esaminate per i loro riflessi di rilevanza ai fini della decisione, segnatamente l'art.8 in materia di rispetto della vita privata e familiare,l'art.14 sul carattere generale ed indiscriminato della tutela dei diritti umani in essa contemplati e,infine,l'art.15 quale disposizione che consente, in situazioni di emergenza che pongano in pericolo la vita della nazione, la deroga alle disposizioni dei citati articoli 5 e 8.
La ricognizione del quadro internazionale destinato ad esser tenuto presente nella fattispecie si espande verso la dichiarazione di principio pronunciata il 20 marzo 2020 in occasione dell'emergenza COVID 19 dall'apposito comitato del Consiglio d'Europa che ha preso una risoluta posizione a favore di ogni azione orientata alla protezione di tutti coloro che soffrano della privazione della libertà, nel senso di garantirli dal pericolo di diffusione del morbo, purché si tratti di iniziative munite di fondamento legale, necessarie, proporzionate, rispettose della dignità umana e temporalmente ristrette.
Nella ricostruzione dell'impianto normativo, interno ed internazionale, di rilievo nell'aspro conflitto denunciato tra libertà di movimento e tutela della salute assumono significato, a giudizio della Corte, le linee guida governative che confermano l'indirizzo delle case di cura proibitivo delle visite esterne e, nel presupposto dell'impossibilità di dotazioni complete di locali per l'isolamento di chi abbia contratto, o sia sospettato di aver contratto il virus, suggeriscono le maggiori cautele praticabili, dirette ad evitare contatti all'interno della struttura anche tra i degenti ed a rifornire tutti i frequentatori per ragioni di servizio di dispositivi di protezione individuale.
Alla luce di questo complesso di disposizioni, e nella consapevolezza della funzione svolta dalle norme convenzionali di parametro della legittimità di quelle interne, la Court of Protection perviene ad un gruppo di conclusioni di carattere generale, qui di seguito esposte.
La prima osservazione riassuntiva rispecchia un'interpretazione evolutivamente orientata del testo normativo fondamentale come applicabile al grave momento pandemico ed al correlato impatto socio-etico-giuridico. Recependolo nel modo più largo ed appropriato alle sconvolgenti circostanze il Giudice volge ad esse l'insegnamento della Corte EDU, affermando l'esistenza di uno specifico obbligo a carico dello Stato di assicurare condizioni di eguaglianza, rispetto al resto della collettività, nei confronti delle persone affette da disabilità, evitando che restino indietro, ossia seriamente svantaggiate. L'ulteriore deduzione ermeneutica tratta dalla legge in parola consiste nella declamazione del valore fondamentale della tutela dell'autonomia decisionale, anche nella forma surrogata delle competenti figure assistenziali, delle persone con ridotte facoltà cognitive.
Partendo da queste premesse metodologiche, al cui centro è evidentemente collocata la dignità del disabile costituente lo sfondo su cui si staglia il Mental Capacity Act del 2005, la Court of Protection dirige la propria attenzione verso il maggior problema agitato, come sempre accade allorquando venga invocata questa legge, nella fattispecie, ossia quello volto alla individuazione del “best interest” del paziente, sotto il particolare aspetto della compatibilità con esso delle misure restrittive del diritto di ricevere visite poste in essere dalla casa di cura, anche alla luce delle disposizioni sovranazionali richiamate dalla ricorrente. Il criterio risolutivo del dilemma cui la Corte si è attenuta è stato di stampo finalistico, vale a dire quello indirizzato a cogliere lo scopo ultimo delle disposizioni impugnate. Esso è stato agevolmente individuato nell'inderogabile esigenza di far fronte ad una pubblica emergenza capace di travolgere la vita del Paese e dei cittadini. In questa chiave protettiva ravvisato lo scopo della restrizione ed apprezzatane la commisurazione della durata al solo periodo emergenziale, la Corte ha deciso per l'insussistenza di violazioni dell'art. 5 della Convenzione europea del 1950, in perfetta simmetria con la giurisprudenza andatasi formando attorno a tale norma. Nè a mutare lo scenario poteva valere la mancata emanazione, al momento in cui la casa di cura è intervenuta drasticamente con il vietare le visite esterne ai degenti, da parte del governo di provvedimenti proibitivi a tappeto delle stesse o di altre forme di socialità, essendo, al contrario, del tutto lodevole la più tempestiva sensibilità mostrata dalla struttura sanitaria.
Naturalmente il difficile compito della Court of Protection nella persona del giudice Hayden non avrebbe potuto ritenersi esaurito tramite la mera (per quanto persuasivamente motivata nel solco della univoca giurisprudenza EDU) reiezione degli argomenti difensivi incentrati sulla deplorata inconciliabilità della restrizione con norme essenziali a difesa dei diritti umani: restava, infatti, da delibare, in tutta la sua imponenza, la questione del concreto riconoscimento del “best interest” in un caso di tale irripetibile peculiarità. In questo frangente si manifesta il più interessante profilo, in particolare dal punto di vista comparatistico ed in genere del “legal reasoning” circolante nel common law inglese[28], della sentenza. Essa, con grande sensibilità dirigendo la propria attenzione verso la dimensione psicologica, emotiva, affettiva della vicenda, trascorre dal momento “principle oriented” che ne aveva contraddistinto la prima parte, dedicata alla precisa emersione dei parametri di raffronto con il plesso normativo astrattamente deducibile in giudizio, a quello necessariamente “rule oriented”, vale a dire si impegna nella ricerca dei concreti indici sintomatici, direttamente desumibili dalle molteplici angolazioni della fattispecie, idonei a guidare l'identificazione in via complessiva e sintetica dell'universo di atti, fatti, opzioni comprensivamente coperti dalla impegnativa espressione “in the best interests of”. Nel rivolgere il proprio sguardo verso una questione problematica dalla somma significazione conformativa dell'esistenza di più persone interessate la Court of Protection dismette i panni oracolari di testimone del contenuto e della portata ermeneutica della norma per proiettarsi al rango socialmente indispensabile di oculato, ponderato, umanissimo amministratore di vite (al pari di quel che è chiamato a fare, nella più nobile delle accezioni funzionali apponibili alla legge italiana 6/2004,il giudice tutelare nelle amministrazioni di sostegno) altrui, tenendo in considerazione ogni dettaglio di cui esse sono intessute nell'essenziale prospettiva di trovare un comune e risolutivo filo conduttore. In questa umilissima, certosina ricerca della migliore delle condizioni esistenziali risolventisi nella realizzazione del “best interest” della persona incapace certamente risiede il riscatto della funzione giudiziale da quell'aura di disumanità che Salvatore Satta vi apponeva, non già per mortificarla o screditarla, quanto, tutto al contrario, per esaltarne (alla stregua dell'alta opera letteraria di un altro indimenticabile scrittore nato nella medesima terra di Sardegna, Salvatore Mannuzzu) la lacerante, estenuante difficoltà del giudizio promanante da un Uomo e destinato ad un suo simile. Vivere, per deciderne, la vita altrui come se fosse la propria implica immedesimazione, solidarietà, saggezza. In questo tremendo imperativo si illumina e rassicura la figura universale del Giudice.
Venendo al ragionamento, sviluppato attorno a fatti, considerazioni di ordine pratico, risvolti psicologici, che ha guidato la decisione della Court of Protection è possibile scorgerne le due linee potenzialmente antagoniste che essa si è trovata, se non a dirimere in modo netto, a comporre secondo un tendenziale equilibrio.
Da un canto agli occhi della Corte è apparso chiaro ed evidente l'effetto positivo per la persona dichiarata incapace degli incontri sistematici e regolarmente ripetuti nel tempo con i propri familiari, ai quali aveva dichiarato di volersi ricongiungere ritornando al comune domicilio. Convinzione rafforzata dalla precisa dichiarazione della figlia che ha ricordato in dibattimento come per il padre la famiglia abbia sempre rappresentato tutto, anche per il suo carattere socievole ed accomodante. Nel medesimo senso deponeva il tassativo impegno della stessa figlia, perfettamente consapevole della somma difficoltà della decisione del caso[29] particolarmente legata al genitore anche in virtù di una prolungata attività lavorativa comune nel campo degli allibramenti di scommesse, a garantirgli assistenza duratura ed ininterrotta nell'arco della giornata nella casa di famiglia, anche avvalendosi dei preparati e degli strumenti sanitari di assistenza forniti dalla casa di cura.
Ma la Corte non ha potuto trascurare, nell'opera di razionale bilanciamento devoluta ad essa dal Mental Capacity Act del 2005, elementi di segno contrario, ineliminabili nella delineazione del “best interest” paterno. Tra questi, è stato ricordato in sentenza il deterioramento, esclusivamente riferibile al sopravvenuto deficit cognitivo e non alla naturale indole, dei rapporti con la moglie, che nel corso della propria deposizione ha ricordato saltuari episodi di abusi verbali e ancor più sporadicamente fisici, dai quali avrebbe potuto trarre origine una difficoltosa convivenza: ipotesi, questa, non smentita dalla stessa figlia, che ha manifestato la disponibilità a prendere il posto della madre, che si sarebbe nel frattempo trasferita altrove, nella residenza coniugale onde prestare adeguata assistenza. Ed ancora, la severa forma di sordità paterna ,ad avviso della Corte, suggeriva una qualificata cura solo possibile in una struttura attrezzata, della quale la stessa figlia ha, comunque, lodato l'eccellente livello di professionalità e sensibilità umana. Peraltro, è stata giudicata irrealistica la ventilata eventualità di un'assistenza filiale priva di soluzioni di continuità, a differenza di quanto è sempre avvenuto nella casa di cura.
Sulla base di queste considerazioni e dell'irrealizzabilità di soluzioni alternative alla permanente efficacia della sospensione delle visite esterne, la Corte ha ritenuto che questa disposizione, oltre a non ledere alcuna previsione normativa a salvaguardia dei diritti dell'uomo, né giustificasse, seppur in via temporanea e contingente, la revoca della dichiarazione di incapacità e della conseguente autorizzazione al ricovero nella casa di cura in attesa della rivalutazione psico-medica delle condizioni del paziente, né ne rendesse preferibile il trasferimento nell'abitazione originaria, almeno per il periodo di durata della misura restrittiva. Gli effetti negativi di essa, dal versante affettivo e della sopravvivenza dei contatti familiari, sono stati con molto scrupolo dalla Corte attenuati attraverso una miscellanea predisposizione di accorgimenti di carattere pratico, quali il facilitato apprendimento da parte del paziente dell'uso di meccanismi aggiornati di comunicazione (vengono espressamente menzionati in sentenza Skype e Facetime) e l'incontro protetto con i familiari attraverso i vetri della stanza in cui il paziente è ricoverato la quale è situata al piano terra dell'edificio perfettamente visibile dall'esterno.
Il coordinamento di tutte le esposte osservazioni e degli interventi divisati per affievolire la portata delle restrizioni ha definitivamente indotto la Corte a pronunciarsi nel senso che, rigettate le gradate domande della ricorrente, vada giudicata meglio rispondente all'interesse del paziente la confermata presenza nella casa di cura.
4. Brevi considerazioni finali: il ruolo del giudice inglese nella decisione intorno a questioni di coscienza.
La pronuncia della Court of Protection resa in circostanze oggettivamente eccezionali riverbera, tuttavia, il proprio peso su uno scorcio di esistenza individuale che, nella generale cornice che qui si è tratteggiata, finisce con il guadagnare un maggior grado di interesse nella misura nella quale essa contribuisce alla definizione dei nodosi intrecci implicati da interventi autoritativi (legislativi, amministrativi, giurisdizionali) sulla sfera soggettiva latamente intesa e complessivamente riguardata (dal punto di vista affettivo, della salute, dell'equilibrio e del benessere psico-fisico ).Da scelte tragiche ogni ordinamento giuridico a qualunque latitudine (come ci ricorda con Philip Bobbitt, nell'omonimo, formativo volume, Guido Calabresi) è quotidianamente attraversato in ogni area del matrimonio, della filiazione, della salute, della libertà di iniziativa economica, della proprietà individuale e della sua funzione sociale. È indubbio però che il settore della persona umana e dei suoi inalienabili diritti, a partire da quelli alla dignità, alla libertà ed alla salute, occupi un posto preminente nella scala dei valori che tutti i sistemi giuridici non possono declinare dal preservare. È altrettanto indiscutibile che questi stessi valori si configurino in maniera ancor più basilare e drammatica quando siano riconducibili a persone le cui condizioni soggettive per ragioni fisiche o mentali le rendano più deboli, meno autonome, maggiormente bisognose di solidarietà e tutela. Il vero dissecante interrogativo sulle appropriate risposte da dare si propone nelle occasioni in cui per terribile paradosso si tratti di decidere se la migliore estrinsecazione di solidarietà e tutela debba essere perseguita a seguito di una scelta implacabile tra la permanenza in vita , lungo una esistenza martoriata da sofferenze, disagi ed obnubilamento mentale irrimediabili terapeuticamente, ed il suo opposto, meditatamente decretato quale epilogo ineludibile di un'avventura umana impossibile da decorosamente perpetuarsi. Nell'esatta linea mediana di questi contesti decisionali che, per tornare al concetto sattiano, possono apparire, a dispetto della loro strenua aspirazione all'umanità della scelta, inumani, si collocano spunti normativi ed applicazioni giurisprudenziali ormai entrati a far parte per la loro alta incidenza statistica del vasto patrimonio dell'esperienza comune non specialistica.
Il diritto inglese, come si è cercato di illustrare per tratti sommari, ormai con alta frequenza va incontro a scelte, cui è generalmente deputato l'apparato giurisdizionale, che, nel porre il valore della vita e della persona umana come esclusivo punto di riferimento, sono costrette all'innaturale propensione verso uno dei suoi poli alternativi, la prosecuzione o l'estinzione. Va accreditata al Mental Capacity Act del 2005 una rimarchevole forza propulsiva manifestata per il tramite di una indicazione di metodo cui ispirare la scelta, quello della minuziosa ricerca del “best interest” della persona interessata ad essa. Non una bacchetta magica, né una meccanica formula di soluzione dei problemi etico-giuridici che vengono sottoposti al vaglio decisorio dell'autorità pubblica, di quella giudiziaria in particolare. Ma pur sempre un criterio generale di orientamento, da utilizzare sapientemente nel caso concreto: in altri termini, uno strumento atto a prevenire abusi, arbitrii, irrazionalità. E nel caso su cui ci si è qui soffermati la Court of Protection sembra aver fatto buon governo della preziosa indicazione legislativa la quale, proprio per l'insopprimibile esigenza di concretizzazione alla luce delle particolari circostanze, mentre svolge un ruolo di orientamento dell'interprete, mal si presta ad essere imprigionata in confini definitori di portata generale che ne pregiudicherebbero le possibilità espansive richieste dalla non replicabile singola esperienza individuale.
Vi è un aspetto finale di questa ricerca suscitato dalla natura dell'intervento espletato dalla Court of Protection che, tuttavia, estende il proprio raggio visivo all'intera platea di situazioni connesse a scelte dilanianti riguardanti la persona umana. Ridotto alla sua essenza il tema che ci si appresta ad esplorare attraverso una fugace riflessione conclusiva può così enunciarsi: se nell'ordinamento inglese alla disciplina dei casi postulanti un'opzione secca in termini di prosecuzione o meno di trattamenti terapeutici puramente illusori e privi di effettività debba sempre e necessariamente concorrere con un proprio provvedimento decisorio l'autorità giudiziaria. Il dubbio potrebbe apparire incongruo se non ingiustificato o abusivo in ordinamenti come quello italiano che sono dichiaratamente proclivi a forme, in simili casi difficilmente criticabili, di pangiurisdizionalizzazione, nelle quali si tende a vedere un rassicurante baluardo per il bilanciamento equilibrato di interessi o aspirazioni tra loro irriducibili a coerenza[30]. Concezione tendente a sottrarre competenze decisorie agli individui per accentrarle in funzione di garanzia e di neutralità, ma non indifferenza, ad un organo terzo ed imparziale. Ma altre inclinazioni ordinamentali europee sono maturate nel tempo, varcando positivamente anche il vaglio della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'esperienza inglese si pone certamente in questa scia, seguita in un notissimo caso, oggetto di giudizio anche davanti la Corte di a Strasburgo, da quella francese[31]. Vale la pena intrattenersi velocemente e per completezza sulle posizioni assunte nel common law britannico in merito alla fungibilità o non dell'intervento giudiziale in questioni di “life or death”, cui incidentalmente si è fatto cenno nella parte iniziale del lavoro. Non è mai mancata la piena percezione da parte della giurisprudenza inglese che, laddove si affaccino problemi di siffatta alta opinabilità, alle questioni di diritto ne sottostiano altre “morali, etiche, mediche e pratiche di fondamentale importanza sociale”[32]. Ma non per questo essa ha preteso di mettere in atto una politica di inglobamento nelle proprie attribuzioni di questioni che, pur orbitando nella multiforme dimensione appena ricordata, potessero, comunque, trovare soluzione in base a cognizioni scientifiche accreditate e recepite in codici di condotta contenenti precise regole applicative. Una prima, sintomatica pronuncia in questo senso[33] è ascrivibile alla House of Lords nel 1993 nel caso Bland citato in una nota precedente in cui fu autorizzata la sospensione, approvata dai familiari, di ogni trattamento medicalmente assistito di nutrizione ed idratazione (CANH) a favore di un paziente, che da oltre tre anni viveva in stato vegetativo, incapace di vedere, sentire, comunicare o di provare qualsivoglia sensazione a seguito delle gravissime lesioni riportate nel corso degli incidenti verificatisi nello stadio calcistico di Hillsborough, Sheffield nell'aprile 1989. La sentenza in sostanza recepì l'opinione scientifica, asseverata dal consenso dei parenti della persona incapace, e si espresse favorevolmente circa le drammatiche ed immancabili conseguenze cui avrebbe condotto, giudicando, comunque, indefettibile l'intervento giudiziale in assenza di un chiaro e dettagliato codice di condotta etico-sanitario per emergenze del genere. La situazione mutò con l'entrata in vigore del Mental Capacity Act del 2005, entrato in vigore nell'aprile di due anni dopo, e dell'annesso Code of Practice, il cui capitolo 5 intitolato alla configurazione del miglior interesse del paziente di fronte a decisioni riguardanti trattamenti di sostegno vitale[34] esclude la necessità della prosecuzione di questi trattamenti laddove, come già scritto, si rivelino “futili, eccessivamente pesanti e senza prospettive di guarigione”. Da allora l'atteggiamento si trasformò, salva una isolata, divergente posizione[35]. Al capovolgimento della posizione contribuì certamente l'esperienza francese nel caso Lambert, citato in una nota precedente, e la conseguente validazione da parte della Corte europea dei diritti umani della sentenza del Conseil d'Etat secondo cui l'intervento giudiziale è dispensato nel caso di stretta osservanza dei protocolli di fonte normativa disciplinanti i casi ed i criteri per pervenire ad una decisione di interruzione del trattamento terapeutico futile perché destituito di qualsiasi prospettiva favorevole. Nella fondamentale sentenza del 2018 della Supreme Court nel caso NHS Trust v Y, già più volte richiamata, viene prestata adesione all'orientamento riduttivo o del tutto eliminativo dello spazio giurisdizionale se ricorra la duplice condizione che l'abbandono del trattamento consegua all'adozione delle migliori pratiche mediche vigenti e non sorga controversia tra medici e familiari circa la relativa applicazione nel caso concreto. L'orientamento ben può dirsi a questa stregua ormai consolidato.
Ed allora, il tema cruciale che circonda le questioni eticamente sensibili che potrebbero impegnare l'ambito giuridico sembra retrocedere dal momento della discussione del merito della scelta finale a quello della individuazione del livello competente a pronunciarsi, non necessariamente coincidente, secondo la veduta da ultimo esposta, con quello giurisdizionale. Il quesito non sembra di minor significato né di più facile soluzione in ogni ordinamento. È comprensibile rifuggire dalla tentazione di devolvere alla sede giudiziaria ogni vicenda umana che presenti margini di incertezza o perplessità quanto alla sua concreta definizione: a questo spirito sembra far capo l'orientamento franco-britannico e quello della Corte europea dei diritti dell'uomo laddove siano collaudati, dettagliati e di incontroversa applicazione i protocolli frutto di provvedimenti di rango autoritativo. Ma non potrebbe certo reputarsi irragionevole porre la domanda se ciò sia sufficientemente tranquillizzante per rendere automatica e sfuggente ad ogni controllo di legittimità, opportunità, ragionevolezza una scelta, per quanto rispettosa di prescrizioni formali, tra il lasciar vivere ed il decretare la fuoriuscita altrui dal proprio circolo vitale. In altri termini si è pur sempre di fronte ad una decisione di sicura influenza sui principii di ordine pubblico la cui affidabile adozione continua ad esigere tuttora ,come avverte l'esperienza italiana, quella visione generale ed indipendente, che solo la giurisdizione può offrire, di cui il minoritario giudice Baker della Family Division della High Court ha con palpabile passione civile ed etica scritto[36].
[1] G. Giaimo, La volontà e il corpo, Torino, 2019, pag. 1 ss.
[2] Un’esemplare rassegna tematica in prospettiva europea si riscontra in R. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della vita umana?, Roma 2019. Per una specifica area problematica v. V. Lo Voi, Mors omnia solvit? Parto anonimo e valutazione circa l'attualità del diritto all'anonimato della madre biologica nel caso di morte dello stesso, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2018, pag. 1120 ss.
[3] Sulla peculiare condizione del minore in diritto comparato, v., D. Vanni, Il consenso del minore al trattamento medico in prospettiva comparatistica: un nuovo soggetto di diritto?, in Storia ed evoluzione di un concetto nel diritto privato, a cura di F. Bilotta e F. Raimondi, Napoli 2020, pag.131, ss.
[4] Del caso Charlie Gard si occuparono nel breve spazio di poco di un trimestre tra l'aprile e la fine di giugno del 2017 i tre gradi di giurisdizione professionale inglese, High Court, Court of Appeal e Supreme Court, e la Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo quanto brevemente si dirà nel testo.
[5] Le rispettive pronunce furono emesse l'11 aprile 2017 dal Giudice Francis, il successivo 23 maggio da una unanime Court of Appeal (2017) EWCA (Civ) 410, il 19 giugno dalla Supreme Court che non autorizzò e, pertanto, dichiarò inammissibile il ricorso davanti a sé per mancata deduzione di una questione di importanza generale secondo i propri parametri, pur sospendendo l'efficacia del provvedimento del primo giudice - che aveva autorizzato l'ospedale ad interrompere le cure - in attesa della preannunciata decisione della Corte Europea, intervenuta dopo una decina di giorni: c. 39793/17.
[6] Merita di essere ricordato il passaggio della sentenza della High Court in cui il Giudice, riportando le parole di una dei consulenti d'ufficio inglesi interpellati, sottolineò con malcelato spirito polemico come la filosofia della clinica medica britannica fosse improntata a mettere al centro della scena la persona e le esigenze del paziente, mentre quella d'oltreoceano mostrasse spiccata proclività a porre in essere, ad ogni costo, qualsiasi tentativo sperimentale.
[7] An NHS Trust v MB (A child represented by CAFCASS as Guardian ad litem) (2006) FLR 319. Sul caso si può vedere un utile contributo di R. Potenzano, Il consenso informato ai trattamenti sanitari sui minori e decisioni di fine vita. Riflessioni comparatistiche, in Riv. Dir. Fam. Pers. 2019, pag. 1822 ss.
[8] “... every kind of consideration capable of impacting on the decision. They include, not exhaustively, medical, emotional, sensory (pleasure, pain and suffering) and instinctive (the human instinct to survive) considerations”.
[9] Giaimo, La volontà e il corpo, cit. pag. 86, ove in nota 74 si cita a suffragio il pensiero di A. Nicolussi, Il miglior interesse del bambino al centro del triangolo pediatrico: una cifra del modo di intendere la genitorialità e l'esigenza di un “sensus communis”, in BioLaw Journal-Rivista di BioDiritto, 2018, pag. 47 ove si dice che “l'idea di un consenso sostitutivo da parte dei genitori rispetto a quello del figlio è più vicina alla concezione proprietaria della genitorialità piuttosto che a quella della responsabilità genitoriale”.
[10] Una ragionata esposizione critica si ottiene, quà e là, in Giaimo op. cit, ed in particolare a pag. 57 ss., nonchè in Lo Voi, L'etero-determinazione “imposta” per i minori d'età. Un'analisi comparatistica delle DAT alla luce dei casi inglesi Gard ed Evans, in Atti del convegno “Trattamenti sanitari: il diritto all'autodeterminazione del paziente”, Pisa 22 novembre 2019, Pisa University Press, in corso di pubblicazione.
[11] An NHS Trust and others v Y and another, (2018) UKSC 46.
[12] Glass v United Kingdom del 2004.
[13] In questa decisione si avverte nitidamente l'eco di una pronuncia, di due anni anteriore, della medesima Corte di Strasburgo in Burke v United Kingdom dell'11 luglio 2006 in cui si era chiarito che il compito giurisdizionale non ha finalità autorizzative ma puramente dichiarative della legittimità di una dato programma medico.
[14] Aintree University Hospitals NHS Foundation Trust v James (2013) UKSC 67.
[15] “The Mental Capacity Act 2005 Code of practice provides that it may be in the best interests of a patient in a limited number of cases not to give life-sustaining treatment where treatment is futile, overly burdensome to the patient or where there is no prospect of recovery”.
[16] Sulla nozione si veda il fondamentale contributo di G. Criscuoli, Variazioni e scelte in materia di status, Riv dir. civ 1984, pag. 157 ss.
[17] Su cui si veda Serio, Ragionevole durata del processo e diritti delle parti, in I diritti fondamentali in Europa, 2001, pag. 257 ss.
[18] A livello monografico si veda, sull'art. 6 CEDU come recepito dalla Corti inglesi, Serio, Il danno da irragionevole durata del processo, Napoli 2009.
[19] Sull'organizzazione del sistema giudiziario inglese, v. G. Criscuoli, M.Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese. Le fonti, Milano, 2016, pag. 242 ss.
[20] Per la storia delle Courts of record v. Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile,2017,in particolare pag.339 ss.
[21] An Act to make new provision relating to persons who lack capacity; to establish a superior Court of record called the Court of Protection in place of the office of the Supreme Court called by that name; to make provision in connection with the International Convention on protection of adults signed at The Hague on 13th January 2000 and for connected purposes.
[22] In seguito all'emanazione del Constitutional Reform Act del 2005 figura posta al vertice dell'ordine giudiziario inglese, cui, come è noto, è estranea, per il ruolo di garanzia massima dell'ordinamento e di salvaguardia del “rule of law” nella sua significazione oggettiva di Stato di diritto, la Supreme Court. Si veda su quest’ultima il mio Il confronto tra Supreme Court e dottrina inglese: un vento nuovo soffia a Westminster, in AA. VV., Giureconsulti e giudici l’influsso dei professori sulle sentenze, I - Le prassi delle Corti e le teorie degli studiosi, Torino, 2016, pagg. 92 ss.
[23] La fedele interpretazione della delicata funzione, in concreto riconosciuta nel caso in esame, implica che il titolare agisca in modo equilibrato ed equo, soddisfacendo gli elevati requisiti di integrità morale richiesti dalle circostanze: così si espresse il giudice Charles della stessa Court of Protection in Re UF (2013) EWCOP 4289.
[24] Di lui le cronache ricordano un'infelice esternazione nell'aprile 2019 allorchè, nel corso dell'udienza preliminare di un procedimento promosso nell’interesse di una giovane donna la compromissione delle cui facoltà mentali le impediva di prestare un effettivo consenso ai rapporti intimi con il marito, con la conseguenza che il suo curatore ed i servizi sociali chiedevano che al coniuge fosse inibito rivolgerle la richiesta, dichiarò che è un diritto fondamentale del coniuge intrattenere tale genere di rapporti.
[25] Corte EDU in Stanev c Bulgaria 2012, nonchè la sentenza della Court of Appeal inglese in Re (D) (A child) (residence Order: Deprivation of Liberty) ( 2017) EWCA (Civ) 1695.
[26] Viene citato il caso Storke c Germania deciso il 16 giugno 2005.
[27] A and C (Equality and Human Rights Commission intervenors) (2010) 2 FLR 1363.
[28] Criscuoli-Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, cit., Milano, 2016, pag. 267 ss.
[29] Tanto che la stessa ha dichiarato alla Corte che nella situazione data ogni protagonista sarebbe stato, comunque, un perdente.
[30] A questa logica esattamente si ispira il citato volume di Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana. Relazione di cura,DAT e “congedo dalla vita” dopo la l 219/2017, Roma, 2019, che trae ragione dalla legge italiana menzionata nel sottotitolo in materia di disposizioni anticipate di trattamento.
[31] Lambert c Francia (2016) 62, in cui a maggioranza la Corte Edu giudicò esente da censure di violazione di norme convenzionali la pronuncia del Conseil d'Etat che aveva ritenuto la competenza di un articolato, qualificato ed indipendente (con riguardo ad almeno uno dei componenti) gruppo di medici, che aveva consultato, ottenendone l'assenso, i familiari, a dichiarare, sulla base di un protocollo del 2005 incorporante il codice della salute pubblica, l'inutilità della prosecuzione di cure nei confronti di un paziente tetraplegico e privo di coscienza che viveva in uno stato puramente vegetativo.
[32] Lord Browne-Wilkinson nel caso Airdale NHS Trust v Bland (1993) A.C.789 affermò testualmente che “behind the questions of law lie moral,ethical,medical and practical issues of fundamental importance to society”.
[33] Secondo l'interpretazione datane dalla Supreme Court nel già citato caso del 2018 NHS Trust v Y: si veda l'opinione di Lady Hale a paragrafo 93 pag. 36.
[34] Questo il titolo della sezione rilevante: “How should someone's best interests be worked out when making decisions about life-sustaining treatment?”
[35] In re M (Adult Patient) (Minimally Conscious State:Withdrawal of Treatment) (2011) EWHC 2443 (Fam), il giudice Baker della Family Division della High Court scrisse in sentenza che ogni questione concernente la possibile interruzione dei trattamenti di nutrizione ed idratazione assistita nei confronti di una persona che versi in persistente stato vegetativo o di minima coscienza deve essere portata alla cognizione giudiziale. Lo stesso giudice ribadì la propria posizione in un articolo di sei anni successivo, A matter of life and death, (2017) in Journal of Medical Ethics, pag. 427 ss., in cui si espresse nel senso che non fossero ancora maturi i tempi per prescindere dall'apporto decisorio giurisprudenziale in materia.
[36]A matter of life and death, cit., pag. 434: vi si sottolinea il bisogno di un “independent oversight” e di una maggior chiarezza a proposito di questioni afferenti ai deficit cognitivi ed ai principii giuridici ed etici alla cui stregua governarle.
Il precedente friabile e gli slittamenti della nomofilachia
di Angelo Costanzo
Per la lettura e per i suggerimenti, ringrazio i Colleghi: Angelo Capozzi, Antonio Corbo, Alessandro Centonze, Stefano Civardi, Pasquale D’Ascola, Emanuele Di Salvo, Giorgio Fidelbo, Domenico Gallo, Bruno Giordano, Emilia Giordano, Giuseppe Grasso, Mariaenza La Torre, Luigi Lombardo, Massimo Ricciarelli,
Non mi hanno voluto dissuadere dal pubblicare questo scritto, ma ovviamente questo non li rende corresponsabili delle fallacie che sicuramente contiene.
Sommario: 1. Il riconoscimento di un precedente giudiziale - 2. Livelli del discorso normativo e coobazione della ratio decidendi. - 3. L’influenza della forma logica sul consolidarsi di un precedente
1.Il riconoscimento di un precedente giudiziale
1.1. Sono note le varie ragioni della crisi del ruolo della Corte di cassazione nel nostro sistema giudiziario. Alcune fra le più rilevanti sono connesse ai modi in cui si formano, sono conoscibili e vengono utilizzate le precedenti decisioni nei casi ancora da decidere[1].
Uno degli aspetti centrali della questione sta nel fatto che per essere validamente utilizzabile come precedente, una decisione dovrebbe rimanere comprensibile nel suo significato in relazione al caso concreto da cui scaturisce, perché è dalla considerazione dei fatti che si trae la ratio decidendi e, mentre può considerarsi una fallacia da ignoratio elenchi il richiamo di un precedente non pertinente, ricorre una fallacia di non sequitur (fallacia di falsa causa, salto logico) quando il contenuto del precedente in realtà riguarda un obiter dictum e non la ratio decidendi[2].
Un obiter dictum impegna su questioni che non è necessario affrontare e solo raramente costituisce uno sviluppo accessorio che renda la motivazione più esauriente. Sicuramente deviano dalla funzione di precedente le sentenze-trattato giudiziario, che vorrebbero sostituirsi alla dottrina (ma in modi non vigilati dalla metodologia della ricerca scientifica) esorbitando dalla decisione del caso concreto e in realtà compromettendo la stessa certezza del diritto[3].
Soprattutto, deve registrarsi che frequentemente le tecniche di interpretazione delle norme, le argomentazioni espresse a sostegno delle decisioni e la stessa massimazione delle sentenze non delineano con il necessario nitore i contenuti della ratio decidendi.
Inoltre, è dubbio che l’uso della formula “principio di diritto” valga a coprire, - senza imprecisioni che generino ambiguità - tutta la gamma delle forme di dati normativi utilizzabili per riproporli nella decisione di un nuovo caso.
In generale, le opzioni a favore della stabilizzazione dei significati normativi e la credenza che la certezza del diritto equivalga alla sua prevedibilità, possono attenuare l’attenzione per le specificità dei casi e disincentivare l’affinarsi delle interpretazioni. Quando non è più in discussione, un paradigma tende a cristallizzarsi in uno stereotipo: ne viene oscurata la ratio decidendi generatrice e le informazioni che potrebbero invalidarlo vengono respinte senza una compiuta valutazione, assecondando la naturale inclinazione al pre-giudizio, anche perché l’esplicita intenzione di rifarsi al precedente costituisce un argomento ab exemplo in sé completo e autosufficiente, che può valere come motivazione per relationem[4].
In ogni caso, ancorarsi a un precedente è come appoggiarsi a una scatola contenente un meccanismo a molla momentaneamente compresso ma con l'attitudine a riespandersi non appena l'analisi critica lo reinnesca. La logica argomentativa è in grado di indicare vie per rigettare i precedenti o, al contrario, per indurre a tenerli in qualche modo in conto. Pertanto, il rapporto dell’interprete con le precedenti decisioni dipende essenzialmente dalle sue opzioni interpretative.
Il precedente può essere adoperato come un punto di appoggio e di slancio verso le direzioni interpretative che risultano più corrette: l’espansione inferenziale del precedente si produce tramite operazioni composte da inferenze analogiche in senso stretto (con le sue varianti costituite dagli argomenti a contrario e a fortiori) e dall’argomento a cohaerentia[5].
Inoltre, principi di diritto significativi per la decisione non sono solo quelli attorno ai quali ruota l’asse principale della decisione ma anche quelli a questi logicamente connessi, purché autonomamente isolabili. Rilevano e andrebbero espressi anche i principi di diritto che costituiscono condizioni pregiudiziali di quello centrale e quelli che conseguono al principio espresso perché utili a collaudarne la valenza, sebbene esigenze pragmatiche possano consigliare di circoscrivere l’ampiezza delle inferenze. In generale una asserzione è al contempo l’esito e la condizione di altre asserzioni: presuppone altre asserzioni e richiede che si comprendano almeno alcune delle sue conseguenze e anche a quali altre condizioni essa impegna chi la pone.
Al di là delle possibilità di espansione inferenziale dei contenuti delle premesse interpretative contenute nel precedente, la considerazione del precedente può offrire spunto per un ampliamento della rilevazione dei dati normativi pertinenti al fatto storico in esame e alle questioni che esso propone: mentre analizza i precedenti, l’interprete può ampliare il suo orizzonte e valutare corretto chiamare in campo ulteriori dati normativi perché emergono ulteriori interessi giuridicamente rilevanti (trascurati o sottovalutati dai precedenti giudicanti) e specifici del caso al suo esame.
1.2. Le considerazioni che seguono intendono mostrare la necessità di operazioni intellettuali che conducano a una chiara enucleazione della ratio decidendi che regge un provvedimento giudiziario al fine di valutare se la stessa è riproponibile per il nuovo caso da decidere .
Il tradizionale test di Wambaugh costituisce uno strumento per un controllo, sulla effettiva natura del contenuto di un segmento della argomentazione e sta in questo: se invertendo (dandogli un contenuto di segno contrario) il contenuto del segmento la decisione rimane invariata, allora quel contenuto non veicola una ratio decidendi [6].
Tuttavia, il test non offre un compiuto e saldo criterio per valutare se la ratio decidendi enucleata in un caso precedente possa estendersi al genere di soluzione che si va a adottare.
Sarebbe a questo scopo necessario sviluppare strumenti ermeneutici che consentano di far leva su una valutazione teleologica della precedente decisione per comprendere se gli argomenti che la sorreggono conducono a una regolazione degli interessi giuridicamente rilevanti che sia effettivamente congruente (in geometria la congruenza è una relazione di equivalenza) rispetto a quella verso cui si va indirizzando la decisione in itinere.
2. Livelli del discorso normativo e coobazione della ratio decidendi
2.1. La determinazione della norma pertinente al caso concreto richiede una interpretazione del discorso normativo che tenga conto dei suoi due livelli propriamente giuridici: quello delle regole e quello dei principi[7].
Le norme si presentano ordinariamente come regole, ossia come puntuali prescrizioni corredate da una fattispecie normativa astratta che descrive il genere di casi rilevanti per la regola. Al contempo, ogni regola presuppone e veicola almeno un principio normativo al quale è possibile risalire con una argomentazione che faccia leva su una giurisprudenza consolidata o su una dottrina assunta come autorevole, o che concluda una interpretazione sistematica o consideri i lavori preparatori delle disposizioni normative. Il principio normativo ha un contenuto più generico della regola che lo veicola e attrae una serie di fattispecie più ampia e variegata di quelle sussumibili sotto le regole che lo concretizzano e la pretesa di dedurre una regola da un principio normativo incorre nella fallacia dell’affermazione del conseguente perché trascura sia lo scarto fra il contenuto di una regola e quello di un principio normativo sia la possibilità che la regola veicoli più di un principio normativo.
2.2. Poiché sono meri strumenti che non esprimono il piano essenziale del discorso normativo, le regole dovrebbero risultare più derogabili dei principi. Ma, per le incertezze nella applicazione del diritto che questa impostazione può produrre, prevale la opposta tendenza (che risponde a esigenze psicologiche ma non dipende da vincoli logici) a considerare la regola come l’atomo del discorso normativo, fino a ignorare la ratio che - però - sempre la ispira[8].
A loro volta le decisioni giudiziarie – che riguardano sempre i casi particolari e vanno giustificate in relazione al caso concreto - devono comunque utilizzare criteri generalizzabili che facciano leva sulla ratio (legis o juris), cioè sul complesso delle ragioni giustificative di una norma, riassunte nel suo scopo (o nei suoi scopi) ossia il principio (o i principi) normativo che veicola.
Sulla base delle rationes si compone la ratio decidendi che è, appunto, il complesso delle ragioni di una decisione come svolgimento dei principi normativi costituenti le premesse e/o i passaggi logici necessari per la decisione, ma che è tale in quanto costituisce una soluzione tipizzata, implicita o esplicitata, sufficiente a fondare la soluzione di una questione giuridica generale rilevante per la decisione della causa.
In altri termini: non è ratio decidendi la specifica soluzione della questione posta dal caso, lo è - invece - la soluzione del genere di questioni al quale appartiene quella sollevata dal caso da decidere.
Come nel procedimento chimico della coobazione, la ratio decidendi va estratta dal complesso della argomentazione e poi sviluppata e ricollocata nel contesto della questione dalla quale sorge per verificare se la soluzione adottata è convincente. In generale, se si vuole chiarire la portata di una regola, serve trovare esempi di sue applicazioni che siano fra loro alquanto distanti, perché così si evidenziano i profili inessenziali del suo significato e se ne può cogliere meglio la ratio; più che il numero delle reiterazioni di una ratio decidendi conta il valore intrinseco delle argomentazioni che la sorreggono e l’assenza di precedenti di segno contrario[9].
2.3. Come contributi alla uniformità e alla stabilità della interpretazione del diritto, i precedenti non valgono tanto in sé ma come anelli di una serie che illumini sulle relazioni logiche fra i dati normativi in campo e valga a affinare - tramite distinzioni e precisazioni - l’area di applicazione delle norme. L’importanza di un precedente si coglie nel contesto delle decisioni (sia conformi sia difformi) correlate. Ma è opportuno vigilare sulla formazione di concatenazioni di precedenti fissando un caso (una fattispecie storica concreta) come paradigmatico della applicazione di una data ratio decidendi, e poi raffrontare a questo i casi successivi, per evitare, tanto più quando la ratio decidendi. non è stata compiutamente esplicitata, slittamenti di significato nella utilizzazione della ratio decidendi[10].
2.4. In ogni caso, poiché esistono differenti livelli del discorso normativo, allora anche l’interpretazione di una precedente applicazione delle norme, richiede una scelta del piano sul quale condurla, perché i tre livelli essenziali del discorso giuridico – quello del fatto, quello delle regole, quello dei principi inevitabilmente (espressi o impliciti) si ritrovano nella ratio decidendi. In altri termini, il precedente si individua secondo quel che si cerca: il tipo di premesse normative utilizzate, l’articolarsi delle relazioni logiche fra tali premesse nel loro rapporto con il fatto, spunti ulteriori, soltanto impliciti negli sviluppi del razionale (la giustificazione della ratio decidendi) della decisione.
La correlata fallacia del livello di individuazione del precedente deriva dalle approssimazioni nella scelta del livello normativo al quale viene collocata l’analisi del precedente e del suo rapporto con il nuovo caso: ci si può appellare al precedente richiamo di un principio normativo assunto come non veicolato da regole, trascurando che può esistere una regola ad hoc per il caso da decidere, oppure scambiare il mero richiamo a un valore pregiuridico per il riferimento a un principio normativo, o concentrarsi esclusivamente sulla somiglianza dei fatti storici[11].
3. L’influenza della forma logica sul consolidarsi di un precedente
Le possibilità e i limiti dell’utilizzo dei precedenti dipendono dalla forma logica che regge la loro composizione.
3.1. Il riconoscimento di un precedente è agevolato se il precedente si incentra sulla sussunzione di una fattispecie storica concreta sotto una (una sola) fattispecie normativa astratta veicolata da una regola. Infatti, questo consente di valutare agevolmente la somiglianza fra le due fattispecie storiche e di richiamare il precedente trattandolo come esempio dell’applicazione della regola. Reperire un precedente come enunciazione di una regola generale valevole anche per decisioni future rafforza l’idea del diritto come sistema coerente, e stabile di norme. Per un caso esemplare di analisi dei precedenti in termini di monosussunzione riguardate l’art. 610 cod. pen., vedasi: Cass. pen. Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404 (Considerato in diritto, 2.3.-2.4.).
Tuttavia, per altro verso, fondare una ratio decidendi essenzialmente sulla somiglianza fra i fatti oggetto della decisione da parte del secondo giudice e quelli oggetto della decisione precedente circoscrive la portata della decisione[12].
3.2. Invece, se con il precedente è stato applicato un principio non veicolato da regole, l’interprete deve potere ravvisare nel precedente una via di soluzione per il suo problema, diversamente neanche può considerarlo un precedente.
Una caratteristica dei principi normativi è la loro attitudine a venire attuati secondo gradazioni diverse, che dipendono dalla specifica situazione fattuale e dal contesto normativo in cui - proprio a causa del ricorrere di quella specifica situazione fattuale - il campo di forza proprio del principio esplica i suoi effetti. In altri termini, la concretizzazione della portata normativa di un principio che non sia veicolato da una regola deriva dalla necessità di applicarlo a un caso per il quale il principio rilevi.
Ma come si colma la discontinuità logica tra il fatto storico e un mero principio normativo in assenza di una fattispecie normativa astratta che consenta di ricondurre il fatto al principio ? Come può avvenire la sussunzione di un fatto storico direttamente sotto un principio normativo (quando già è logicamente fallace pretendere di desumere una regola da un principio) ?
Evidentemente, occorre un (terzo) elemento che consenta il passaggio dal fatto storico al principio e che si risolve in un surrogato della fattispecie normativa astratta. Quando con la norma avente la struttura di un mero principio da applicare al fatto storico concorrono altri dati normativi (principi e/o regole) applicabili al caso, tale elemento è fornito dall’assestarsi delle relazioni logiche fra i contenuti dei dati normativi concorrenti. Ma quando con la norma avente la struttura di un mero principio da applicare al fatto storico non concorrono altri dati normativi (principi e/o regole) applicabili al caso, tale elemento va approntato dall’interprete con una operazione produttiva di significati normativi. Per queste vie si formano degli indirizzi dell’attività interpretativa, ma non una vera e propria casistica; non propriamente dei precedenti o dei casi-guida, ma soltanto degli schemi interpretativi di riferimento. In definitiva: l’applicazione diretta dei principi normativi non conduce al conformarsi di precedenti giudiziali in senso stretto[13].
3.3. Analoga conclusione vale quando le norme assumono la struttura di una clausola generale perché anche in questa evenienza manca una ben determinata fattispecie normativa astratta.
Anche nelle clausole generali il contenuto della norma comprende una parte descrittiva del genere di situazioni riconducibili alla previsione legislativa; tuttavia, tale descrizione è talmente ampia che non consente un giudizio di sussunzione se prima il contenuto delle parti elastiche della clausola generale non viene precisato mediante opzioni interpretative che chiamano in causa diversi principi normativi o che, talvolta, possono persino rivelarsi impregnate di assunzioni di valori. Ne sono un esempio le questioni connesse alla l’interpretazione del significato della clausola generale “stato di abbandono” del minorenne che negli anni hanno impegnato le Sezioni civili della Corte di cassazione.
La difficoltà di un ben definito svolgimento del giudizio di sussunzione si accresce quando il testo della disposizione normativa assembla più clausole generali. Si consideri, per esempio, il coacervo di clausole generali (i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) contenuto nell’art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990 nel tentativo di definire il caso di lieve entità nella detenzione illecita di stupefacenti.
Sono evidenti le conseguenze che da queste condizioni derivano in relazione alla determinatezza delle norme, alla prevedibilità delle decisioni giudiziarie e alla stabilizzazione dei significati delle rationes decidendi nel susseguirsi delle decisioni[14].
3.4. Ordinariamente, il fatto storico acquista il suo compiuto senso giuridico dentro un contesto costituito non da uno solo ma da più dati normativi. La sussunzione avviene a seguito della considerazione, implicita o esplicitata, di una pluralità di dati normativi per cui, in realtà, è strutturalmente una plurisussunzione, sebbene in pratica, la interpretazione non si estenda a tutto l’ordinamento, ma solo a quel suo specifico segmento che l’interprete considera rilevante per il genere di fatti al suo esame. La connessione fra alcuni dati normativi può rivelarsi anche solo nel momento in cui si compie la sussunzione della fattispecie storica sotto la norma che compone i contenuti delle norme in gioco (la cosiddetta norma-ordinamento).
Ovviamente, la ricerca della ratio decidendi nel caso di plurisussunzione comporta modalità più articolate che nel caso di monosussunzione perché occorre non solo inquadrare la struttura dei dati normativi applicati (regole, principi particolari, principi generali, principi fondamentali) ma anche delineare le loro relazioni logiche, il cui articolarsi può mutare al mutare del contesto dei fatti rilevanti, soprattutto quando le regole e/o i principi divergono o addirittura confliggono.
In quest’ultimo caso, l’interprete deve ricorrere a tecniche che, se non si risolvono in una semplice distinzione concettuale, richiedono la scelta di un qualche criterio di contemperamento fra i dati normativi fra loro configgenti, con esiti che possono modificarsi in relazione alle circostanze del caso concreto.
Precipuamente quando fra i dati normativi intercorrono opposizioni reali (che non sono risolvibili tramite distinzioni concettuali ma solo con mediazioni fra le forze normative) l’interprete - proprio perché si trova a ponderare forze normative fra loro contrastanti - non riceve sufficiente materiale dalle norme e deve dotarsi delle categorie che soltanto la riflessione sul caso concreto può fornirgli secondo canoni di ragionevolezza e, quando i dati confliggenti sono più di due, l’interprete dovrà realizzare un bilanciamento fra le plurime forze normative in gioco e la prevalenza dell’una o dell’altra potrà dipendere da una terza forza normativa[15].
Non essendo legittimato, a eliminare alcuno dei princìpi o delle regole fra loro incompatibili, l’interprete dovrà limitarsi a una loro non applicazione, totale o parziale, nello specifico caso al suo esame. La norma disapplicata, totalmente o parzialmente, potrà riespandere la sua funzione nell’ambito di un altro contesto di norme costruito per risolvere altro problema interpretativo e, se del caso, prevalere anche nei confronti di quelle rispetto alle quali fu altrove soccombente. Questo fenomeno è particolarmente evidente quando i dati normativi si presentano articolati fra loro secondo rapporti di regole ed eccezioni, quando il cosiddetto criterio di specialità non sana incompatibilità fra i dati normativi ma conduce - tramite distinzioni concettuali - a individuare la norma specificamente adeguata alla fattispecie restringendo la portata della norma più generale.
In ogni caso, in condizioni di plurisussunzione manca un’unica fattispecie normativa che possa offrire uno stabile paradigma di riferimento per valutare il rapporto fra i precedenti già decisi e il nuovo caso da decidere.
[1] Sulla attuale condizione della nomofilachia e sulla crisi del sistema dei precedenti, fra i molti: G.Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in: Diritto pubblico, 2017, 1, pp. 21-27. Sul configurarsi di un sistema basato su un modello di precedente a vincolatività relativa incentrato sull’art. 618 cod. proc. pen.: G.Fidelbo, Verso il sistema del precedente? Sezioni Unite e principio di diritto, in: Diritto penale contemporaneo, 29/01/2018, 1, pp. 1-18, 17.
[2] Su questa prescrizione metodologica fondamentale (Leibniz, Dissertatio de arte combinatoria) G. Gorla, Precedente giudiziale (voce) in : Enciclopedia Giuridica Treccani, XXIII, 8; M. Bin, Precedente giudiziario, ratio decidendi » e “obiter dictum”, in: Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1988, 107733, 1013). Sui limiti del riferimento ai precedenti: B.Cavallone, Sulla citazione dei precedenti negli scritti forensi, in: Rivista di diritto processuale, 2018, 1, pp. 150-154. Più ampiamente: Atti del Seminari “Leibniz” per la teoria e la logica del diritto- II. I precedenti, Accademia dei Lincei, Roma 6/07/2017.
[3] Conserva autorità di precedente una massima (redazionale o ufficiale) dalla quale si ricava che la sentenza dai cui è tratta contiene solo un obiter dictum?: N.Visalli, La logica del giudice e la funzione uniformatrice della Cassazione, in: Rivista di diritto civile, 1998, fasc. 6, 1, pp. 705-752, 729. perché infarciti di obiter dicta esuberanti rispetto alla indicazione delle essenziali rationes decidendi. Su questi temi: B. Sassani, La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in: Judicium (rivista on line), 2019, 3/06/2019; L. Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel diritto civile, Torino, 2018.
[4] Su questi temi: A.Costanzo, Logica dei dati normativi, Milano, Giuffrè, 2005, 14ss, 141-155.
[5] Questa idea poggia sul presupposto implicito che: “non è possibile avere alcun concetto a meno di non averne molti, perché l’articolazione del contenuto di ciascun concetto dipende dalle sue relazioni inferenziali con altri concetti: R.B. Brandom, Articolare le ragioni. Un’introduzione all’inferenzialismo, trad.it. C.Nizzo, Milano, Il Saggiatore, 25. Edizione originale: Articulating Reason. An Introduction to Inferentialism, Harward University Press, 2000. Dello stesso autore: Making it Explicit, Harvard University press, 1994. Sul tema con specifico riferimento alle decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione italiana (art. 618 cod. proc. pen.): G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici, in: Diritto penale contemporaneo, 4/02/2019, pp-1-28, 17. Sottolinea l’esigenza di una coerenza sistemica della serie dei precedenti: M.Betzu, Diritto giurisprudenziale "versus" occasionalismo giurisprudenziale, in: Diritto pubblico, 2017, 1, pp. 41-75, 72.
[6] Per questo test: E.Wambaugh, The Study of Cases, Boston, 1892.
[7] Sul tema: A.Costanzo L’ingranaggio normativo, in Ars interpretandi, 10, 2005, pp.219-253; G.D'Amico, Problemi (e limiti) dell'applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in: Giustizia civile, 3, 2015, 247-273 e 2, 2016, 443-507.
[8] A.Costanzo, Percorsi della sussunzione, in S.Mangiameli (ed.), Studi in onore di Antonio D’Atena, Milano, Giuffrè, 2015, pp.692-711;
[9] Circa la rilevanza del numero dei precedenti: M. De Felice, Su probabilità precedente e calcolabilità giuridica, in: Rivista di diritto processuale, 2017, 6, pp. 1546 ss., 1561. Sulla funzione proattiva delle Corti superiori: S.C. Delgado Suarez, Sui modelli di Corti supreme e la revoca dei precedenti, in: Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2018, 2, pp. 689-710.
[10] Sul rapporto fra i casi come rapporto fra particolare e particolare: E. Scoditti, Il diritto che non viene dal sovrano e il precedente giudiziario, in: Giustizia civile, 2017, 2, pp. 277ss, 296. Una disamina specifica in: M-L.Mathieu-Izorche, Gli orientamenti della dottrina in tema di neutralizzazione e di valorizzazione delle divergenze in giurisprudenza, in: A.Mariani Marini (ed.), Teoria e tecnica dell’argomentazione giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, 47-78.
[11] Sono, inoltre, caratteristiche dell’uso del precedente: la fallacia dell’accidente, che trascura le peculiarità del caso di cui si tratta; la fallacia dell’accidente converso (o generalizzazione affrettata), che pretende di trarre una regola da una ratio decidendi valida solo per casi peculiari. Le fallacie dell’accidente ricorrono nel campo giuridico perché frequenti sono le erronee calibrazioni del rapporto generale/particolare e la stessa formulazione delle massime di giurisprudenza in termini generali comporta il rischio ch’esse cadano nella genericità o nella fallacia della generalizzazione indebita.
[12] M. Taruffo, Note sparse sul precedente giudiziale, in: Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2018, 1, pp. 111-129, 128.
[13] Sulla dubbia fruibilità come precedenti delle decisioni pronunciate direttamente nel segno dei valori o dei principi: O.Mazza, Conciliare l’inconciliabile: il vincolo del precedente nel sistema di stretta legalità, in: Archivio penale (speciale riforme), 2018, pp. 1-10; A.Valitutti, Precedente giudiziale e argomento “ex auctoritate”, in: Rivista di diritto processuale, 2019, 2, 494-508, 500; N. Irti, Sulla relazione logica di con-formità; precedente e susseguente, in: Rivista di diritto processuale, 2017, 6, p. 1539-1545, 1542; G. De Nova, Lo stato di informazione circa le future sentenze giudiziarie, in: Rivista di diritto processuale civile, 2016, pp. 1227-1238, 1229; ; G. Cocco, Verso una Cassazione Supreme Court: un parere contrario, la conferma della soggezione del giudice alla legge e una riforma possibile, in: Responsabilità civile e previdenza, 2016, 2, p.382-391.
[14] Sul tema: D.Castronuovo, Tranelli del linguaggio e “nullum crimen”, il problema delle clausole generali nel diritto penale, in: La legislazione penale, 2017, Rivista On line, 7/06/2017, pp.11-16; P.Grossi, Dalle “clausole" ai "principi" a proposito dell'interpretazione come invenzione, in: Giustizia civile, 2017, 1, pp. 5-15, 14.
[15] Sulla differenza fra il modello di decisione che utilizza il precedente “basato su regole” e quello “basato sull’equilibrio delle ragioni”, variabile caso per caso: M. Pollera, Precedente giudiziale e modelli decisionali, in: Cassazione penale, 2018, 3986-4011. Sul canone della ragionevolezza: A.Cerri (ed.), La ragionevolezza nella ricerca scientifica e il suo ruolo specifico nella sfera giuridica, Atti del Convegno di studi, 2-4 ottobre 2006, Università La Sapienza Roma, Aracne, 2007; A.Costanzo, Logica giudiziaria, Roma, Aracne, 2012, pp.90-92.
Le lacerazioni razziali negli Stati Uniti: la comprensione del fenomeno di Tom Tyler (Yale University)
Racial lacerations in the U.S.: understanding the phenomenon by Tom Tyler (Yale University)
Intervista di Gery Ferrara a Tom Tyler, professore di diritto alla Yale University
Giustizia Insieme ha deciso di provare ad analizzare il fenomeno delle lacerazioni razziali divampate negli Stati Uniti, spesso a causa di interventi della polizia che hanno condotto alla morte dei soggetti fermati.
Il caso di George Floyd ha infiammato l’America producendo anche un effetto pandemico in tutto l’Occidente e dando il la a manifestazioni di protesta contro l’uso eccessivo della forza da parte delle Forze dell’Ordine, a volte degenerate in una furia iconoclasta che ha colpito, sia negli States che nel nostro paese, numerosi monumenti, ritenuti un simbolo, secondo i manifestanti, di ideologie razziste e discriminatorie.
Per raggiungere il nostro obiettivo Gery Ferrara ha posto alcune domande a Tom Tyler, Professore di diritto e psicologia alla Yale Law School, che in passato ha orientato i suoi studi anche sul tema del ruolo della giustizia nelle relazioni di gruppo.
La nostra prospettiva è che la comprensione di un fenomeno, delle sue ragioni e del suo verificarsi, richiede la conoscenza della società nella quale esso prende luogo e del contesto delle relazioni personali che la caratterizzano.
Così facendo, da un lato abbiamo provato a contestualizzare le vicende legate ai fatti di cronaca più recenti, e dall’altro a verificare se nelle condotte della Polizia negli Stati Uniti potesse cogliersi qualche similitudine con vicende analoghe occorse anche in Italia, ove pure si sono verificati dei casi controversi di intervento delle forze di polizia che hanno cagionato la morte della persona sottoposta a controllo.
Le risposte fornite dal Professore Tyler hanno messo in evidenza alcuni dei paradossi della società americana, considerata icona degli ideali democratici e liberali, ma al contempo un paese in cui il fenomeno delle segregazioni razziali e delle aggressioni a sfondo razziale ha continuato ad imperversare, senza suscitare, almeno fino in tempi recenti, reazioni di protesta nella maggioranza del popolo americano.
Esse aiutano il lettore a farsi un’opinione consapevole su quanto sta accadendo oltreoceano, ma offrono una chiave di lettura che va oltre l’esperienza nordamericana; dimostrano la necessità che ogni intervento di contenimento nei confronti di persone sottoposte a controlli di polizia vada previsto ed attuato, a prescindere dal paese in cui viene praticato, in modo da salvaguardare i diritti fondamentali alla vita ed alla dignità delle persone.
Anche in questa occasione, il Professore Guido Calabresi è stato autentico interprete degli obiettivi che abbiamo perseguito, non solo guidando la nostra ricerca sulla personalità del mondo accademico statunitense più adatta a fornire degli elementi di conoscenza equilibrata sul tema ma anche revisionando i contenuti in italiano delle risposte.
Un grazie particolare va a Lui.
Giustizia insieme ha deciso di pubblicare l'intervista anche in lingua inglese, in una prospettiva di ampliamento del pubblico interessato.
[In calce i file in pdf dell'intervista
in lingua italiana ed in inglese]
Professor Tyler, dal Tuo osservatorio e dalla Tua esperienza, le lacerazioni razziali che di recente sono tornate ad infuocare gli USA sono state accentuate dalla crisi pandemica o affondano le loro radici in un problema mai del tutto risolto a causa di una storica suddivisione della società?
La disuguaglianza economica e il razzismo strutturale sono stati tratti caratterizzanti della società americana nel corso della nostra storia. Ciò ha portato a periodici scoppi di rabbia collettiva e di violenza, compresi quelli che stiamo registrando oggi.
Le minoranze hanno risentito in modo sproporzionato delle dislocazioni economiche del 2008 e soffrono oggi in modo sproporzionato delle conseguenze del COVID. Inoltre, le stesse minoranze hanno subito e continuano a subire danni sproporzionati da parte delle autorità giudiziarie penali, compresi le elevate percentuali di arresti e di incarcerazione, nonché di atti di violenza da parte delle forze di polizia. Queste disparità derivano da problemi di lunga data e profondamente radicati nella società americana che non sono mai stati affrontati o risolti completamente.
Quale è oggi il ruolo degli organi di polizia negli USA: garanti dei diritti di tutti i cittadini oppure oppressori delle minoranze e delle etnie non bianche?
La polizia impone e rafforza lo status quo. Quando lo status quo viene considerato illegittimo, come accade tra le comunità delle minoranze, la polizia usa la forza per costringere all'obbedienza. In quelle comunità, la polizia è considerata come una forza oppressiva. Tuttavia, anche tra i gruppi minoritari e tra i poveri, c’è un rapporto ambivalente con la polizia. Da un lato queste persone hanno bisogno della polizia e vogliono che protegga le loro comunità. D'altra parte, anche queste stesse persone temono le forze di polizia e l’affrontano con riluttanza.
Almeno fino al recentissimo passato, la maggioranza della società americana si è dimostrata disposta ad accettare episodi di brutali aggressioni da parte degli organi di polizia che hanno destato sgomento in tutto il mondo e che, agli occhi di un cittadino europeo, appaiono tipici dei regimi dittatoriali. Come si può spiegare questo fenomeno a chi guarda a quella stessa società spesso con ammirazione considerando gli Stati Uniti il paese delle libertà e della possibilità di successo per tutti?
L'America è una società di paradossi. È giustamente famoso nel mondo per il suo ruolo pionieristico di democrazia e di faro di libertà e opportunità. Allo stesso tempo, i suoi ideali di libertà e uguaglianza sono stati, sin dall'inizio, in conflitto con la schiavitù e l'eredità del razzismo e dell'oppressione razziale. Inoltre, la società americana si considera una cultura di frontiera. Ciò contiene, da un lato, la promessa di opportunità e libertà per tutti, dall’altro una reverenza nei confronti delle armi e un sostegno alle risposte punitive nei confronti dei criminali, congiuntamente ad una cultura popolare intrisa di sfiducia nei confronti del governo nazionale e delle élite. Ciò ha portato a un modello di forze dell'ordine basato sulla forza, controllato dalle élite locali, in una società che esclude alcuni dalla rappresentanza nella governance locale e al contempo eleva gli ideali della democrazia.
In che misura incide nel verificarsi ricorrente di questi episodi la enorme e sostanzialmente libera disponibilità di armi da fuoco (circa 300 milioni secondo le ultime stime) da parte dei cittadini americani?
Una caratteristica inevitabile della società americana è l’onnipresenza delle armi da fuoco e, di conseguenza, l'alto livello di violenza con conseguenze mortali. I conflitti che potrebbero essere risolti in altro modo senza violenza si trasformano rapidamente in eventi letali quando le persone coinvolte hanno a loro disposizione le armi da fuoco. È difficile dire se i criminali possiedono armi da fuoco perché la polizia ha le armi da fuoco o se la polizia possiede le armi da fuoco perché i criminali sono armati. A questo punto il presupposto che altri potrebbero essere armati è sempre presente. La cultura americana delle armi da fuoco è supportata da un quadro governativo costruito attorno ai diritti delle persone di essere liberi da ogni regolamentazione, combinato con una forte sfiducia populista nei confronti del governo e una cultura affascinata dalla violenza che conferisce lo status di celebrità a veri e propri "eroi d'azione".
Per contrastare questi fenomeni di razzismo, soprattutto da parte delle Forze dell’Ordine, si cominciano a levare voci, anche autorevoli, in favore di una “giustizia razziale”. Come interpreTi questa possibilità? Non vi è il rischio di accentuare una rigida stratificazione della società basata sulle appartenenze etniche e di inasprire i conflitti tra i diversi gruppi?
Le soluzioni ai problemi della sicurezza richiedono alla società di fare un passo indietro dalle evenienze del momento e di riconoscere le questioni fondamentali della disuguaglianza economica e del razzismo strutturale della società. Se questo accadrà non è sicuro. In questo momento ci sono un certo numero di proposte sul tavolo che sono meno profonde, ma che possono migliorare le relazioni che la polizia ha con i diversi gruppi etnici nelle loro comunità. Un aspetto particolarmente importante - fondamentale per la Task Force di Obama sulla polizia del 21°secolo - è quello di rendere, e mantenere, il primo pilastro delle forze di polizia quello della legittimità popolare. La valutazione delle attività delle forze di polizia dal punto di vista delle persone sottoposte a sorveglianza, con una particolare enfasi sulle opinioni dei gruppi di minoranza, produrrà livelli più elevati di giustizia razziale.
Ritieni che le indagini ed i processi per fatti che coinvolgono persone appartenenti a determinate etnie (afroamericani, ispanici, orientali), sia come vittime sia come autori di reato, siano svolti con la stessa efficienza e secondo gli stessi canoni di imparzialità e indipendenza di quelli relativi a cittadini bianchi?
No.
Gli Stati Uniti d’America hanno avuto la capacità di eleggere un Presidente afroamericano. La presidenza Obama è riuscita ad incidere in modo stabile sui diritti delle minoranze etniche? E se no, come sembra dai movimenti di protesta di questi giorni, quali sono le ragioni?
L'elezione di un afroamericano come presidente è stata una pietra miliare nella lunga lotta americana per affrontare la sua storia di schiavitù e oppressione razziale. Tuttavia, questo unico risultato non è sufficiente per cambiare la nostra cultura, anche se ogni passo in questa direzione può essere di aiuto. È errato vedere ciò che sta accadendo oggi in America come un fallimento. Ci sono cambiamenti imponenti e diffusi nel modo in cui gli americani bianchi comprendono la storia del razzismo e le azioni della polizia. Le opinioni degli americani oggi si sono evolute e l'elezione del presidente Obama è stata un passo che ha supportato questa evoluzione.
A Tuo parere, in che misura nei rapporti fra il popolo americano e la polizia ha inciso il colore della pelle?
La polizia ha una lunga storia di controllo dei gruppi che le comunità considerano sospetto o deviante. Questo ha incluso le minoranze etniche e razziali - afro-americane, ispaniche, asiatiche - ma anche minoranze sessuali e gruppi di immigrati. In molti casi parte dei componenti di questi gruppi era povera, il che conduceva alla realizzazione di comportamenti criminali, quindi la polizia ha preso di mira anche questi gruppi come parte dello sforzo complessivo per combattere il crimine.
Il fenomeno degli hates groups quale influenza ha nella esplosione delle questioni razziali e in che misura le Corti americane tollerano questi gruppi, bilanciando o comprimendo un diritto fondamentale come la “freedom of speech”?
Nel corso della storia americana si è registrato sovente un conflitto nel limitare la libertà quando la libertà consente, a sua volta, il razzismo e l'odio. Il legame tra gruppi estremi e razzismo, xenofobia e altre forme di stereotipi, discorsi che incitano all’ odio e persino alla violenza è sempre stato parte della nostra società, come del resto in molte altre società. La sfida di bilanciare i vantaggi di consentire la libertà di espressione con i danni che ne possono derivare è tuttora in corso e l’incremento dell’uso delle piattaforme di social media ha reso ancora più complicato questo bilanciamento
Professor Tyler, sembra che alcuni Stati Americani stiano cominciando a vietare le tecniche di fermo usate dagli agenti di Polizia nel caso Floyd, perché considerate troppo pericolose per la salute della persona sottoposta al fermo. Qual è la Tua opinione su tali decisioni?
Uno degli aspetti più tragici dei molti, recenti decessi di persone che si trovavano in custodia da parte della polizia è che si sono verificati mentre la polizia stava usando tattiche che sono note per essere pericolose e vietate in molti dipartimenti. Uno di questi è il c.d. “chokehold”, che ha come effetto di limitare il flusso di sangue verso il cervello. Un evidente ed importante cambiamento è che i dipartimenti di polizia ora hanno introdotto delle limitazioni che impediscono l’utilizzo di queste tattiche. Questo non pregiudica l’operato della polizia. Queste tattiche non sono necessarie e la polizia può gestire le persone in custodia in altri modi, meno pericolosi.
Le ultime parole di George Floyd sembrano, rilette nella loro tragicità, costituire un inno alla libertà.
È la mia faccia, amico
non ho fatto nulla di grave, amico
ti prego
ti prego non riesco a respirare
ti prego amico
qualcuno mi aiuti
ti prego amico
non riesco a respirare
non riesco a respirare
ti prego
(parte non comprensibile)
amico non respiro, la mia faccia
devi solo alzarti
non riesco a respirare
ti prego, un ginocchio sul mio collo
non riesco a respirare
merda
lo farò
non posso muovermi
mamma
mamma
non ce la faccio
le mie ginocchia
il mio collo
sono finito
sono finito
sono claustrofobico
mi fa male lo stomaco
mi fa male il collo
mi fa male tutto
un po’ d’acqua, o qualcosa
vi prego
non riesco a respirare, agente
non mi uccidere
mi stanno ammazzando
ti prego, amico
non riesco a respirare
non riesco a respirare
mi stanno ammazzando
mi stanno ammazzando
non riesco a respirare
non riesco a respirare
per favore, signore
ti prego
ti prego
ti prego non riesco a respirare
Ritieni che l’assassinio di quest’uomo - perché di questo sembra trattarsi - possa veramente contribuire al superamento delle discriminazioni razziali o si trattera’ dell’ennesima vittima presto dimenticata ed ancora una occasione persa tra proteste, rivolte, saccheggi e repressioni?
Sfortunatamente, questo caso è solo l’ultimo di una serie, come voi stessi sottolineate. Probabilmente nessuna tragedia cambierà la società americana, ma i recenti eventi fanno ritenere che la successione delle recenti tragedie che hanno coinvolto la violenza delle forze di polizia sta conducendo ad atteggiamenti profondamente diversi nel pubblico americano. Questa non è un'opportunità persa, ma un altro passo avanti in un lungo viaggio verso una maggiore responsabilità nell’operato della polizia.
Racial lacerations in the U.S.: understanding the phenomenon
Gery Ferrara interview with Prof. Tom Tyler (Professor of Law at Yale University)
Giustizia Insieme did decide to analyse the phenomenon of racial lacerations that flared up in the United States, due to some cases of Police mistreatments leading to the death of the people under their custody.
The case of George Floyd has inflamed America, spreading its pandemic effects throughout the West and rising up protests against the excessive use of force by police officers; sometime the demonstrations degenerated into an iconoclastic fury hitting, in American as well as in other countries, numerous monuments, considered as symbols of racist and discriminatory ideologies.
To achieve our objective, Gery Ferrara interviewed Tom Tyler, Professor of Law and Psychology at the Yale Law School, who oriented his studies on the topics of the role of justice in group relations.
In our perspective, the comprehension of a phenomenon, its grounds and the reasons for its occurrence, need figuring out the society in which it takes place and the context of personal relationships featuring this same society.
Thus, we tried, on the one hand, to contextualise the recent events occurred in USA and, on the other side, to assess whether the conducts of the American Police present a kind similarity with some events occurred in Italy, whereas controversial police interventions and behaviours caused or contributed to the death of the arrested person.
The answers provided by Professor Tylor highlighted some paradoxes of American society, at the same time considered an icon of a democratic and liberal ideals and a country where the phenomenon of racial segregations and racially motivated attacks continued to rage, without provoking strong reactions by the majority of the American people; at least until recent times.
They can help the reader to make a conscious opinion on what is happening overseas, but also offer a reading key going beyond the North American experience.
Finally, they demonstrate the necessity that each kind of containment intervention of people subjected to police controls, regardless of the country, must be foreseen and implemented to safeguard the fundamental rights to life and dignity of people.
Also on this occasion, Professor Guido Calabresi was a true interpreter of our goals and a guide in our research for the identification of the most suitable person in the American academic world for providing us elements of balanced knowledge on the subject. He also supported us in reviewing the Italian translation of the answers.
To him we owe a special debt of gratitude.
Besides, Giustizia Insieme decided to publish the full interview in English, with the aim of enlarging the interested audience in such sensitive topics.
[Below the pdf files of the interview both in English and Italian]
Professor Tyler, from your perspective and experience, as far as the racial lacerations are shaking the USA are concerned do you consider them accentuated by the pandemic crisis or they were rooted in problems never completely solved due to a historic stratification of the society?
Economic inequality and structural racism have been features of American society throughout our history. This has led to periodic outbreaks of collective anger and violence, including those that we are seeing today. Minorities suffered disproportionately from the economic dislocations of 2008 and they are suffering disproportionately from COVID. In addition, they have experienced and continue to experience disproportionate harm from criminal justice authorities, including high rates of arrest and incarceration and of violence at the hands of the police. These disparities flow from long-standing and deeply rooted problems in American society that have never been completely addressed or resolved.
What is the role of the police in the USA nowadays: guarantors of the rights of all citizens or oppressors of minorities and non-white ethnic groups?
The police enforce the status quo. When the status quo is viewed as illegitimate, as it is in many minority communities, the police use force to compel obedience. In those communities, the police are experienced as oppressors. However, even in minority communities and among the poor, people have an ambivalent relationship with the police. On the one hand people need the police and want them to protect their communities. On the other hand, these same people also fear the police and deal with them reluctantly.
At least until the recent past, the majority of the American society has proven to be willing to acquiesce episodes of brutal attacks by the police organs arousing dismay all over the world and that, to a European citizen, look like typical of dictatorial regimes. How could you explain this phenomenon to people often looking at the same society often with admiration and considering the United States the country of freedom and of possibilities of success for everyone?
America is a society of paradoxes. It is justly world famous for its pioneering role as a democracy and as a beacon of freedom and opportunity. At the same time its ideals of freedom and equality have, from the beginning, been in conflict with slavery and the legacy of racism and racial oppression. Further, American conceives of itself as a frontier culture. This contains the promise of opportunity and freedom, but also a reverence of guns and an embrace of punitive responses to criminals, contained within a popular culture laced with distrust of national government and elites. This has led to a force based model of law enforcement, controlled by local elites, in a society that excludes some from representation in local governance at the same time that it elevates the ideals of democracy.
To what extent does the enormous and substantially free availability of firearms (approximately 300 millions according to the latest estimates) affect the recurring occurrence of these episodes?
An inescapable feature of American society is the ubiquity of firearms and, as a consequence, the high level of lethal violence. Conflicts that might otherwise be resolved without violence quickly escalate to lethality when those involved have guns. It is hard to say whether criminals have guns because the police have guns or whether the police have guns because criminals have guns. At this point the assumption that others might be armed is ever present. The American gun culture is supported by a government framework built around people’s rights to be free of regulation, combined with a strong populist distrust of government and a cultural that glamorizes violence and confers celebrity status upon real and fantasy “action heroes”.
To effectively tackling these phenomena, especially when committed by police, some authoritative voices are beginning to call for a “racial justice". What would exactly it mean and how do you interpret this possibility? Could it determine a side-effect in increasing the rigid stratification of society based on ethnicity and of exacerbating the conflicts between different ethnic groups?
Solutions to the problems of policing require society to step back from the moment and recognize the fundamental issues of economic inequality and structural racism. Whether this will happen is uncertain. At this time there are a number of proposals on the table that are less far reaching, but that can improve the relationship that the police have with different ethnic groups in their communities. A particularly important one, central to the Obama Task Force on 21st Century Policing, is to make creating and maintaining popular legitimacy the first pillar of policing. Evaluating policing from the perspective of those being policed, with a particular emphasis on the views of minority groups, will produce higher levels of racial justice.
Do you believe that investigations and trials concerning facts related to people belonging to certain ethnic groups (Afro-American, Hispanic, Oriental), both as victims and as perpetrators, are carried out with the same efficiency and according to the same standards of impartiality and independence of those related to white citizens?
No.
The United States of America were able to elect an African American as a President. Did the Obama presidency manage to have a stable impact on the rights of ethnic minorities? And if not, as it seems looking at the recent protest movements, which are the reasons of this failure ?
The election of an African American as President was an important milestone in America’s long struggle to come to grips with its history of slavery and racial oppression. This one achievement is not enough to change our culture, but each step helps. It is wrong to view what is happening in America now as a failure. There are striking and widespread changes occurring in the way White Americans understand the history of racism, as well as the actions of the police. American’s views today have evolved, and the election of President Obama was one step that supported this evolution.
In your opinion, how much have been the relationships between the American people and the police influenced by the color of the skin?
The police have a long history of controlling groups that communities view as suspect or deviant. This has included ethnic and racial minorities - African-Americans, Hispanics, Asians - but also sexual minorities and immigrant groups. In many cases a segment of the members of these groups were poor, something which motivates criminal behavior, so the police also targeted these groups as part of their effort to manage crime.
Which is the influence of the so called “hates groups” on the outburst of racial issues and to what extent do American courts tolerate these groups, balancing as well as compressing a fundamental right such as "freedom of speech"?
Throughout American history there has been conflict about limiting freedom when allowing freedom enables racism and hatred. The link of extreme groups to racism, xenophobia and other forms of stereotyping, hate speech and even violence has always been a part of our society, as it has been in many other societies. The challenge of balancing the benefits of allowing free speech against its harms is ongoing, and the rise of social media platforms has complicated this task.
Professor Tyler, we heard that some American States are forbidding the stop techniques used by Police in the Floyd case because they look like too dangerous for the safety of the person in custody. What’s your opinion about that?
One of the most tragic aspects of several of the recent deaths of people in police custody is that they have occurred while the police were using tactics that are known to be dangerous and are prohibited in many departments. One is the chokehold, which restricts blood flow to the head. An obvious and important policy change is for police departments to restrict officers and prevent them from using these tactics. Doing so does not undermine the police. These tactics are not necessary, and the police can manage those in custody in other, less dangerous, ways.
Nevertheless in its tragedy, George Floyd's last words seem to constitute a hymn to freedom.
“ It's my face, friend
I didn't do anything serious, man
please
please
please I can't breathe
please friend
somebody can help me
please friend
I can not breathe
I can not breathe
please
friend I don't breathe,
my face
you just have to get up
I can not breathe
please, one knee on my neck
I can not breathe
shit
I will do it
I can not move
mom
mom
I can not do it
my knees
my neck
I am finished
I am finished
I'm claustrophobic
I have a stomach ache
my neck hurts
everything hurts
a little water, or something
I beg you
I beg you
I can't breathe, officer
do not kill me
they are killing me
please, friend
I can not breathe
I can not breathe
they are killing me
they are killing me
I can not breathe
I can not breathe
please, sir
please
please
please can't breathe”.
Do you think that his murder - because this seems the case - can truly contribute to defeat racial discrimination or he will soon be the umpteenth victim forgotten and this will be again a lost opportunity amid protests, riots, looting and repressions?
Unfortunately, this case is only one of a series, as you note. No one tragedy is likely to change American society, but recent events suggest that the succession of recent tragedies involving police violence is leading to fundamentally different attitudes in the American public. This is not a lost opportunity but another step forward on a long journey toward greater accountability in policing.
Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo.
Maria Alessandra Sandulli, Prof. ordinario di diritto amministrativo e di giustizia amministrativa, Università “Roma Tre”.
Sommario: 1. Premessa: brevi cenni sulle norme emergenziali sul processo amministrativo dal d.l. n. 9 del 2 marzo al d.l. n. 28 del 30 aprile. - 2. La sospensione “mutilata” dei termini processuali disposta dal d.l. n. 23 dell’8 aprile. - 3. segue: una proposta correttiva. - 4. Ulteriori proposte correttive. - 5. L’apertura “condizionata” al contraddittorio orale nel d.l. 28 del 30 aprile.
1.Premessa: brevi cenni sulle norme emergenziali sul processo amministrativo dal d.l. n. 9 del 2 marzo al d.l. n. 28 del 30 aprile.
Il 4 maggio, con una settimana di anticipo rispetto agli atri processi e contestualmente all’avvio della, tanto attesa, ma per molti versi altrettanto temuta, “fase 2” (e alla conseguente riapertura degli studi professionali), il processo amministrativo esce dal periodo di sospensione straordinaria dei termini processuali avviata dalla legislazione emergenziale.
Come noto, i termini del processo amministrativo erano stati inizialmente sospesi, analogamente a quanto disposto per gli altri processi, dall’art. 10 del d.l. n. 9 del 2 marzo 2020, fino al 31 marzo (con espresso richiamo alla possibilità di rimessione in termini per errore scusabile dei termini scaduti nel periodo dal 23 febbraio al 2 marzo), per le sole “zone rosse” di cui all. 1 al d.P.C.M. 1 marzo 2020.
Con l’aggravarsi della pandemia, unitamente all’immediata sospensione delle udienze, la sospensione dei termini è stata poi generalizzata (con la sola esclusione di quelli dei procedimenti cautelari) dall’art. 3 del d.l. n. 11 dell’8 marzo per il periodo dall’8 al 22 marzo, per essere ulteriormente estesa dall’art. 84, comma 1, d.l. n. 18 del 17 marzo[1], ora convertito nella l. n. 27 del 28 aprile, dal 23 febbraio al 15 aprile (ultimo giorno della prevista fase di sospensione delle udienze, camerali e pubbliche) e, da ultimo, ma limitatamente ai termini per la notificazione dei ricorsi giurisdizionali, fino al 3 maggio (ultimo giorno della “fase 1”) dall’art. 36 del d.l. n. 23 dell’8 aprile (pubblicato sulla G.U. del 9 aprile).
L’estensione generalizzata del rimedio della tutela cautelare monocratica, chiamato ex lege a sostituire l’udienza cautelare fino al 15 aprile (salva una “apertura” straordinaria anticipata nel periodo dall’8 al 15 aprile nei casi previsti dall’art. 84, comma 2, del d.l. n. 18) e l’equilibrato utilizzo tendenzialmente fattone dagli organi giudicanti (spesso sin da subito riuniti informalmente da remoto per assumere decisioni condivise)[2] hanno peraltro consentito alla giustizia amministrativa di continuare ad offrire il suo “servizio” anche in fase di pandemia.
Nel frattempo, il legislatore “affinava” le disposizioni per la celebrazione delle udienze, cercando faticosamente di bilanciare la temporanea sospensione della discussione orale, protratta fino al 30 giugno, con la presentazione di “brevi note” di udienza (cfr. ancora l’art. 84 del d.l. n. 18, che, abrogando l’art. 3 del d.l. n. 11, aveva, tra l’altro, soppresso la previsione dell’udienza telematica).
Le ultime disposizioni di legge hanno tuttavia messo profondamente in crisi il principio del contraddittorio, che contraddistingue il “processo” dal “giudizio” e costituisce regola fondamentale e “naturale” di civiltà giuridica, coerentemente enunciata dall’art. 111, co. 2, Cost. (oltre che dall’art. 6 CEDU e dall’art. 47 della Carta di Nizza) e ribadita a chiare lettere dall’art. 2 del codice del processo amministrativo[3].
Mi riferisco alla “sospensione mutilata” dei termini processuali disposta dal citato art. 36 del d.l. n. 23 e alla disciplina della discussione orale contenuta nel d.l. n. 28 del 30 aprile.
2. La sospensione “mutilata” dei termini processuali disposta dal d.l. n. 23 dell’8 aprile.
La protrazione fino al 3 maggio dei soli termini per la notificazione dei ricorsi disposta dall’art. 36 del d.l. n. 23 (al di là dei problemi derivanti dalla sua mancata considerazione nella legge n. 27 che, due settimane dopo, ha convertito in legge il d.l. n. 18, confermando la sospensione di tutti i termini processuali fino al 15 aprile[4]) ha sollevato serie perplessità nella parte in cui ha introdotto una inedita e irragionevole discriminazione tra la posizione dei ricorrenti (categoria nella quale, come chiarito anche dalla Relazione illustrativa al decreto e dalla Direttiva esplicativa adottata dal Presidente del Consiglio di Stato il 20 aprile 2020, rientrano evidentemente coloro che propongono/ripropongono qualsiasi tipo di azione dinanzi al giudice amministrativo: ricorsi in primo grado e in sede di impugnazione, in via principale e incidentale, introduttivi e per proporre motivi aggiunti o trasporre ricorsi straordinari, con la sola eccezione dei ricorsi meramente cautelari: azioni cautelari ante causam e appelli avverso le ordinanze cautelari di primo grado; analogamente, la sospensione dovrebbe valere per la riassunzione e la riattivazione del processo, nonché, come giustamente rilevato da autorevole dottrina, per i termini perentori previsti per la formulazione di eventuali eccezioni e per la riproposizione di eccezioni e censure in grado di appello) e quella di chi è chiamato invece a difendersi dalle altri censure, eccezioni e deduzioni.
Come osservato in sede di primo commento alla novella[5], infatti, una volta che il Governo aveva ritenuto che, anche per il giudizio amministrativo (sia pure in termini ridotti rispetto a quelli stabiliti per i processi civile, penale, tributario e contabile), l’emergenza Covid-19 costituisse, almeno fino al 3 maggio, un oggettivo ostacolo all’effettivo esercizio del diritto di difesa, correttamente riconoscendo che essa implica indubbie difficoltà operative per la parte e per il difensore, non vi era ragione per “riservare” la “protezione” alle “azioni”, inopinatamente pretermettendo i diritti delle parti resistenti (in primo grado, quindi, connaturalmente, le amministrazioni) e controinteressate (in primo grado, il vincitore di una gara o di un concorso, il titolare di un permesso, ecc.), e, più in generale, la piena garanzia di “tutte” le parti di difendersi, “in ogni stato e grado del processo” dalle altrui azioni, eccezioni e controdeduzioni, nel richiamato doveroso rispetto del principio del contraddittorio.
Non vi è dubbio, invero, che, pure per le attività “difensive”, anche e forse ancor più nei processi amministrativi (che hanno come parte una pubblica amministrazione e che tendenzialmente richiedono un’attenta e compiuta disamina di fascicoli documentali articolati e complessi), la straordinaria e imprevedibile emergenza Covid-19 ha creato difficoltà analoghe a quelle create per le “azioni” (si pensi, oltre alle attività di raccolta della procura, a quelle legate al reperimento, recapito, stampa e consultazione della documentazione, alle ricerche di dottrina e di giurisprudenza, alla possibilità di un adeguato confronto dialettico-documentale tra cliente/avvocato, ai limiti di utilizzabilità dei locali e delle risorse degli studi professionali, ecc.).
La “spiegazione” data nella Relazione illustrativa, riferendosi allo “sfasamento tra la notifica del ricorso e il deposito delle correlative difese” previsto per la fase cautelare, non coglie evidentemente nel segno, in quanto tarato esclusivamente sulle attività difensive da svolgere nei ricorsi che si giovano del periodo di sospensione.
Orbene, a parte l’eventualità (peraltro non rara) in cui lo stesso ricorrente ritenga di non giovarsi della sospensione, la discriminazione colpisce soprattutto – e seriamente – i giudizi in cui il ricorso è stato notificato prima del periodo di sospensione, e per i quali, nonostante la grave emergenza che ha giustificato la sospensione dei termini di tutti i processi fino all’11 maggio e di quelli per la notificazione dei ricorsi giurisdizionali amministrativi fino al 3 maggio, i termini per gli atti difensivi hanno continuato, autonomamente, a decorrere.
Non può invero sicuramente dirsi “equo e imparziale” e rispettoso del principio “della parità delle parti” un processo in cui le parti (tendenzialmente quelle resistenti e controinteressate, ma non di rado anche gli stessi ricorrenti chiamati a rispondere alle altrui eccezioni e controdeduzioni) che, per mera (drammatica e assolutamente non prevedibile) (s)ventura, si sono trovate a incorrere nelle scadenze dei termini per il deposito dei documenti, memorie e repliche in vista dell’udienza nel periodo tra il 16 aprile e il 3 maggio, sono private del diritto a difendersi in modo adeguato contro le censure, le eccezioni e i rilievi che le loro controparti hanno potuto “tranquillamente” redigere e “documentare” in un periodo anteriore all’emergenza (circostanza che, evidentemente, consente a queste ultime una più agevole e limitata produzione documentale e difensiva in vista dell’udienza).
Il pregiudizio è ancora più grave quando si consideri che, nello stesso periodo, i procedimenti amministrativi sono stati sospesi[6] (sospensione che il medesimo d.l. 23 ha peraltro protratto al 15 maggio, termine ancora diverso da entrambi quelli di sospensione processuale) proprio per la riconosciuta difficoltà di operare degli uffici pubblici, pur fondamentali per il recupero dei documenti e per la redazione delle memorie, e, che, all’epoca dell’adozione del d.l. 23, in forza dell’art. 84, co. 5, d.l. 18 del 2020, almeno fino al 30 giugno, era impossibile una trattazione orale e che tale possibilità è tuttora preclusa fino al 30 maggio e, come si dirà, resa estremamente difficile fino al 31 luglio.
Quest’ultima circostanza dovrebbe, oggi più che mai, indurre il legislatore e i giudici ad assicurare massima garanzia di effettività al contraddittorio “scritto”. Proprio nella consapevolezza dei limiti della trattazione orale nel processo amministrativo, il codice del processo amministrativo, introducendo la memoria di replica “ai documenti e alle memorie” depositati dalle altre parti “in vista dell’udienza”, ha fermamente voluto che il giudice, prima di definire la causa nel merito, fosse “pienamente” edotto delle diverse posizioni fatte valere in giudizio. E, per questa ragione, il d.l. 18 del 17 marzo (art. 84, co. 5)[7], smentendo il parere reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato sull’art. 3 del d.l. 11 dell’8 marzo[8], si era espressamente preoccupato di garantire la rimessione in termini a chi, impedito, per effetto della sospensione dei termini processuali (dall’8 marzo al 15 aprile), della possibilità di rispettare i surrichiamati termini di deposito, desiderasse comunque avvalersene, e ha conseguentemente condizionato all’accordo di tutte le parti la “rinuncia” a tale forma di contraddittorio scritto.
La necessaria simmetria tra il diritto di azione e quello di difesa è del resto confermata dalla legge di conversione del d.l. 18 (successiva, si ricorda, di ben due settimane, al d.l. 23), nella parte in cui, aggiungendo un comma 1-bis all’art. 103 dello stesso decreto, afferma (in via retroattiva e dunque interpretativa, con valenza generale) che la sospensione temporale dal 23 febbraio al 15 aprile trova applicazione anche “ai termini (…) di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di ricorsi giurisdizionali”.
Come già osservato, l’asimmetria creata dal d.l. 23 (ma, come detto, già inaccettabilmente prospettata dal parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato in riferimento al d.l. 11 e opportunamente esclusa, almeno fino al 15 aprile, dall’art. 84 del d.l. 18) induce allora tristemente a chiedersi, soprattutto se, come chi scrive, si crede nell’importanza del ruolo del giudice amministrativo[9], perché questa gravissima e inaccettabile limitazione del diritto di difesa, con palesi effetti sperequativi per le parti “non attrici” (sofferti, si insiste, in primis, dall’amministrazione) viene introdotta proprio e soltanto nel giudizio amministrativo, chiamato dalla Costituzione a garantire, accanto alla tutela degli amministrati “nei confronti della pubblica amministrazione” (art. 103), anche, e ancor prima, “la giustizia nell’amministrazione” (art. 100). La risposta è ancora più difficile quando si confronti la scarsa considerazione riconosciuta dal d.l. 23 alle parti resistenti e controinteressate con quella che il codice del processo amministrativo ha dimostrato di voler loro, correttamente, riconoscere, quando ha ridisegnato le tempistiche e le garanzie della fase cautelare[10], proprio per assicurare che anche dette parti fossero poste “effettivamente” in grado di rappresentare al giudice le proprie ragioni e che quest’ultimo potesse “effettivamente” decidere “cognita causa”. Il riconoscimento (doveroso e corretto) di questa esigenza in fase cautelare rende ancora più gravemente irragionevole la sua assoluta pretermissione nella fase del merito.
3. segue: una proposta correttiva.
Un doveroso spirito costruttivo aveva pertanto indotto la scrivente a cercare possibili soluzioni per evitare prevedibili eccezioni di illegittimità costituzionale della disposizione asimmetrica e prevedibili impugnazioni (con rinvio) delle decisioni eventualmente assunte in sua applicazione, con conseguente, fondato, rischio di un allungamento della durata del processo ben maggiore di quelli, purtroppo “fisiologici”, legati all’emergenza Covid-19.
Provando a ragionare sulle tempistiche processuali e sugli effetti dell’art. 84, comma 5, del d.l. 18 - che, come detto, riconosce, comunque, il diritto alla rimessione in termini per recuperare quelli (calcolati “a ritroso” dalla data di udienza) rientranti nel periodo “simmetrico” di sospensione dall’8 marzo al 15 aprile (e retroagiti pertanto ex lege al 7 marzo) - sono infatti comunque a rischio di rinvio:
- per i riti abbreviati, tutte le udienze calendarizzate, fino al 6 maggio incluso (per le quali anche i “primi” termini a ritroso, ovvero quello di 20 gg liberi per il deposito dei documenti, ricadrebbe nel periodo di sospensione); e,
- per i riti ordinari, tutte le udienze calendarizzate fino al 26 maggio incluso (per le quali anche i “primi” termini a ritroso, ovvero quello di 40 gg liberi per il deposito dei documenti, ricadrebbero nel periodo di sospensione).
Dopo tali date, per effetto della sospensione “mutilata” prevista dall’art. 36, comma 3, del d.l. 23, sarebbero però esposte al rinvio per rimessione alla Corte costituzionale o, peggio, al rischio di nullità per violazione del giusto processo anche le udienze celebrate fino al 25 maggio per i riti abbreviati e fino al 15 giugno per quelli ordinari.
Si era dunque proposto di “emendare” (in via di massima urgenza) il testo dell’art. 36, co. 3, d.l. 23, estendendo la sospensione fino al 3 maggio incluso anche ai termini processuali di cui all’art. 73, comma 1, del codice del processo amministrativo (deposito di documenti, memorie e repliche), “temperandola”, in ragione delle esigenze organizzative dei giudizi amministrativi, con la dimidiazione degli stessi termini anche per i riti ordinari con riferimento alle udienze fissate fino al 15 giugno, per le quali le scadenze dei termini ordinari cadevano nel periodo dall’8 marzo al 3 maggio.
Tale sistema, ferma la possibilità delle parti di accettare comunque il passaggio della causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. n. 18, avrebbe consentito di garantire la legittimità di tutte le udienze (pubbliche o camerali diverse da quelle cautelari), anche dei riti ordinari, calendarizzate a partire dal 25 maggio (per le quali i “nuovi” termini di scadenza sarebbero tutti successivi al 4 maggio).
4. Ulteriori proposte correttive.
Si era altresì (vanamente) suggerito di cogliere l’occasione per stabilire che, in deroga alle regole generali del codice del processo amministrativo (che la giurisprudenza interpreta nel senso della indisponibilità dei termini “a difesa”, in quanto posti anche a garanzia di una piena cognizione della causa da parte de giudice), i depositi di cui all’art. 73, comma 1, effettuati nel periodo di sospensione, potessero ritenersi validi se le parti ne avessero fatto congiuntamente richiesta entro 6 giorni liberi (dimidiati a 3 per i riti abbreviati) dall’udienza.
Da ultimo, si era segnalato che il Governo aveva perso un’importante occasione per risolvere la grave incertezza sulla sospensione dei termini per la presentazione dei ricorsi straordinari (e per l’opposizione agli stessi)[11] e per i giudizi pendenti dinanzi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche[12].
Altri autorevoli commentatori avevano condivisibilmente rappresentato l’esigenza di eliminare la previsione della possibilità di decidere nel merito in sede cautelare ex art. 60 c.p.a. “omesso ogni avviso alle parti”[13].
Nessuna di queste indicazioni è stata tuttavia presa in considerazione e, anzi, il d.l. n. 28 del 30 aprile ha inferto un nuovo, durissimo, colpo al principio del contraddittorio e della parità delle armi nel processo amministrativo.
5. L’apertura “condizionata” al contraddittorio orale nel d.l. 28 del 30 aprile.
Come anticipato, il cd “decreto Credito o decreto Liquidità” è nuovamente intervenuto sul processo amministrativo emergenziale disegnato dall’art. 84 d.l. 18 del 17 marzo convertito nella l. 27 del 24 aprile per disciplinare le prossime modalità di svolgimento delle udienze.
I fondati dubbi di legittimità costituzionale espressi da due “commentatissime” ordinanze gemelle del 21 aprile scorso della sesta sezione del Consiglio di Stato sul “contraddittorio cartolare coatto”[14] e l’esigenza di un sollecito ritorno alla discussione orale rappresentata – in varie sedi – anche dagli avvocati amministrativisti e dalle relative associazioni e fortemente sostenuta da autorevoli esponenti dell’accademia e della magistratura[15], in un coro unanime a favore del contraddittorio orale, inducevano a confidare nell’imminenza di una “effettiva” apertura delle udienze (camerali e pubbliche) con la partecipazione delle parti in modalità da remoto.
Il d.l. 28, che dedica alla giustizia amministrativa l’art. 4, ha però deluso le aspettative[16].
Le disposizioni di più immediato interesse sono contenute nel comma 1 e costituiscono purtroppo un grave esempio di confusione e di incertezza.
La novella, perdendo un’opportuna occasione per riparare alle criticità e alle carenze sopra rappresentate, è, come anticipato, intervenuta soltanto sulle udienze.
L’art. 4 si apre innanzitutto con la proroga di un mese (dal 30 giugno al 31 luglio) del termine del periodo in cui le udienze dovranno essere celebrate con le modalità “emergenziali”.
A tale proposito, giova ricordare che l’art. 84, comma 5, del d.l. n. 18, convertito nel frattempo (senza modificazioni) nella l. 27 del 24 aprile, dispone che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell'articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l'ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all'articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”.
La riferita (mera) proroga di un mese del termine del 30 giugno (senza ulteriori modifiche del surriportato comma 5) implica dunque che, fino al 31 luglio, la discussione orale potrà essere sostituita dalle “brevi note”, da presentare entro due giorni liberi prima dell’udienza.
A parte i dubbi (a mio avviso non condivisibili, ma comunque meritevoli di segnalazione per l’autorevolezza della loro provenienza[17]) sul carattere perentorio del termine e sulla sua dimidiabilità nei riti abbreviati, merita, al riguardo, evidenziare che, come segnalato in altra occasione[18], la coincidenza del momento per rinunciare alla rimessione in termini con quello della presentazione delle brevi note può creare un ulteriore problema di garanzia del contraddittorio, in quanto non consente repliche a tale forma “straordinaria” di difesa scritta che, proprio per la sua valenza sostitutiva della discussione, può contenere eccezioni e controdeduzioni che avrebbero indotto a chiedere il rinvio e alle quali non sembra costituzionalmente legittimo precludere a priori il diritto di replica.
Il secondo periodo dell’art. 4, mitigando la notizia negativa della suddetta proroga, aggiunge poi che “dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei difensori all'udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici”.
La disposizione è di difficile interpretazione e lascia già avvertire le insidie che saranno meglio articolate e dettagliate nei successivi passaggi della novella.
La prima investe lo stesso periodo della sua operatività. Dal momento che il 31 luglio è indicato anche come termine del periodo emergenziale (sicché, dal 1 agosto, almeno le udienze cautelari, dovrebbero in tesi poter essere celebrate in presenza), pare coerente pensare che le date si riferiscano alla celebrazione delle udienze e non alla presentazione delle istanze. È però a questo punto difficile comprendere il senso dell’individuazione del dies a quo nel 30 maggio, che è un sabato, invece che nel 1 giugno, che è un lunedì, e per giunta il primo giorno del mese Sembra appena il caso di osservare che, se il termine fosse riferito alla presentazione dell’istanza, la possibilità di celebrare udienze con discussione orale sarebbe ulteriormente dilazionata (di 5 giorni per le udienze cautelari e di 10 o addirittura 20 giorni per quelle di merito).
Il generico riferimento alla presentazione di un’istanza, senza ulteriori precisazioni o condizioni, fa (falsamente) illudere quanti, di fronte alla bozza del decreto-legge, avevano immediatamente rilevato l’inaccettabilità della regola (contenuta in quella originaria versione), che subordinava la discussione orale a una “istanza congiunta”. Purtroppo l’illusione dura poco e la lettura del terzo periodo aggrava l’amarezza del risveglio di un 1° maggio in lock down. I possibili limiti all’accoglimento dell’istanza erano del resto, a ben vedere, già preconizzati nel riferimento (nella seconda parte del secondo periodo) alle “modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza”. La formula, estremamente generica, rischia invero di aprire il fianco alla possibilità di condizionare (in ogni caso) l’accoglimento dell’istanza non soltanto alla sussistenza di idonee “modalità tecniche”, ma anche all’effettiva possibilità, per varie ragioni personali, dei singoli difensori (o delle parti nei casi in cui essi non siano necessari) di connettersi da remoto. Preoccupa parimenti l’inciso “comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici”. Nasce a questo punto spontanea la domanda se, nel disegno del d.l. 28, la discussione orale sia, come dovrebbe essere, un diritto effettivamente esercitabile dal 30 maggio (recte, dal 1 giugno) o semplicemente un auspicio, che può realizzarsi solo all’esito del superamento di una serie di “soffocanti” ostacoli.
Il primo, enorme, ostacolo è purtroppo svelato già dal terzo periodo: l’istanza, in realtà, deve essere accolta (sempre che sussistano le predette condizioni) soltanto se presentata “congiuntamente da tutte le parti costituite”!!.
La disposizione solleva ictu oculi rilevanti questioni di ordine sostanziale e procedimentale.
Sul piano sostanziale: premesso che la discussione è momento fondamentale del contraddittorio non soltanto per una interlocuzione diretta col giudice, ma anche per consentire un effettivo diritto di replica alle difese delle altre parti, come può essere effettivamente garantito un contraddittorio che vede prevalere la posizione di chi vieta alle altre parti di un loro diritto?
Sul piano procedimentale: innanzitutto, cosa vuol dire “congiuntamente”? Al di là della facile ironia su un termine che in questa fase emergenziale sta offrendo massimo stimolo alla nostra fantasia, non si può certo pensare che la richiesta debba essere unica/contestuale (complicazione evidentemente inutile) e si deve dunque più logicamente ritenere che essa debba essere semplicemente concorde/condivisa da tutte le parti costituite.
Un ulteriore (e tutt’altro che minimale) problema è determinato dalla scansione temporale dei termini di presentazione dell’istanza, se valutati in rapporto con i termini per i depositi in vista dell’udienza. Il tema è di massima e immediata evidenza per le udienze cautelari, per le quali le parti possono costituirsi fino al giorno dell’udienza e depositare scritti e documenti fino a due giorni liberi (ridotti a uno nei riti abbreviati) o addirittura, se autorizzati dal presidente, fino all’apertura della stessa udienza (art. 55 c.p.a.). Ne consegue che la decisione “congiunta” deve essere presa “al buio” in un momento in cui il contraddittorio è evidentemente incompleto. Il problema si pone peraltro anche per le udienze pubbliche, atteso che la coincidenza del termine per l’istanza con quello per il deposito delle repliche ripropone la questione rappresentata con riferimento alla coincidenza del termine per la richiesta di rimessione in termini e quello per la presentazione delle brevi note di cui all’art. 84, comma 5, d.l. 18.
Sembra dunque che, ancora una volta, il legislatore abbia preso in considerazione soltanto le esigenze organizzative degli uffici della giustizia amministrativa, sicuramente fondamentali, ma evidentemente non uniche, senza tenere in debito conto la garanzia di un contraddittorio effettivo pur ampiamente curata dal codice processuale.
La lettura degli ulteriori passaggi della novella non offre purtroppo elementi di conforto.
“Negli altri casi – si legge nel quarto periodo – il presidente del collegio valuta l’istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto”. Si conferma dunque che le parti non interessate o contrarie alla discussione orale (le “altre parti”) possono (oltre a non presentare la relativa istanza) rappresentare la propria impossibilità di partecipare all’udienza (circostanza che, a regime, può già determinare un rinvio se il presidente lo accorda), o anche semplicemente “opporsi” a che l’istante o gli istanti discutano (!). Starà dunque ai presidenti (e alla loro sensibilità, inevitabilmente condizionata dall’affollamento dei ruoli e dalle esigenze organizzative) operare un bilanciamento dei contrapposti interessi e accogliere o meno l’istanza alla luce del comportamento (semplicemente inerte, più o meno giustificatamente, contrario, o, magari, anche tardivamente adesivo) delle “altre parti”. In assenza di un termine massimo entro il quale queste ultime possono esternare le ragioni di mancata presentazione dell’istanza, gli originari presentatori di questa saranno però lasciati nell’incertezza sul relativo accoglimento.
L’incertezza sull’apprensione delle concrete modalità di celebrazione dell’udienza (con o senza discussione orale) è confermata dal quinto periodo, che – opportunamente – prevede la possibilità che, anche in assenza di istanza di parte, il presidente del collegio disponga, comunque, qualora lo ritenga necessario, “con decreto”, la discussione orale da remoto.
Manca però anche in questo caso l’indicazione del termine entro il quale le parti saranno rese edotte della decisione assunta.
Il tema è di notevole importanza dal momento che, come visto, l’art. 84 del d.l. 18 “bilancia” l’impossibilità di discussione orale con la presentazionedi “brevi note”, che le parti devono dunque avere il tempo di predisporre.
Il sesto periodo si limita invece a prevedere che “in tutti casi in cui sia disposta la trattazione da remoto, la segreteria comunica, almeno un giorno prima della trattazione, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento”. La comunicazione riguarda dunque soltanto le modalità organizzative, ma presuppone, evidentemente, una decisione già assunta e, per quanto detto, necessariamente già resa nota alle parti.
A sua volta, la formula “almeno un giorno prima” per la comunicazione della segreteria è tutt’altro che chiara: ragionevolmente, dovrebbe essere letta come “entro le h 24 dell’antivigilia” dell’udienza (retroagenti alle h 24 del primo giorno non festivo se l’antivigilia fosse festivo).
Il settimo e l’ottavo periodo “entrano” nella nuova “udienza”, stabilendo rispettivamente che il verbale di udienza dia atto delle modalità con cui si accerta l’identità dei partecipanti e la libera volontà delle parti (da eventuali illeciti condizionamenti) anche ai fini della disciplina sulla privacy; e che il collegamento da remoto è considerato udienza (camerale o pubblica) a tutti gli effetti.
Gli ultimi due periodi cercano ulteriori strumenti per arginare il rischio di “appesantimento” dell’udienza nell’ipotesi in cui, nonostante gli ostacoli già disseminati sull’arduo percorso di chi intende valersi del diritto a discutere, le udienze da remoto stimolino una maggiore mole di discussioni orali.
Il nono periodo, per “incentivare” la rinuncia in extremis alla discussione, introduce infatti la possibilità che “in alternativa alla discussione (verosimilmente nei casi diversi da quello in cui sia stata disposta in via ufficiosa dallo stesso giudice ai sensi del quinto periodo) possono essere depositate note di udienza fino alle ore 9 (del tutto ultronea, tanto più in un contesto così avaro di precisazioni, la specificazione “antimeridiane”) del giorno dell’udienza stessa o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza”. La rinuncia alla discussione, come nell’udienza in presenza, non preclude evidentemente in questo caso la discussione delle altre parti.
Si tratta peraltro di una regola che, come più volte suggerito, potrebbe essere introdotta anche a regime, ma che richiederebbe una chiara e rigorosa delimitazione dimensionale delle suddette note di udienza.
Tanto più che la seconda misura “anti appesantimento” delle udienze prevista dal decimo e ultimo comma dell’art. 4, comma 1, d.l. 28 riguarda l’introduzione, dopo il tanto criticato contingentamento delle dimensioni degli scritti difensivi, di quello dei tempi della discussione, che la novella demanda di stabilire a un apposito decreto del Presidente del Consiglio di Stato recante misure di “digitalizzazione” che dovrebbe riguardare, inter alia, l’introduzione di modalità telematiche anche nel procedimento per ricorso straordinario[19].
Riemerge dunque la preoccupazione, sollevata in questi giorni da molti commentatori, che le norme emergenziali possano essere uno strumento per introdurre disposizioni che possano seriamente incidere, a regime, sull’effettivo esercizio di diritti fondamentali[20].
[1] Su cui cfr. M.A. Sandulli, “Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di Giustizia Amministrativa: l’art. 84 del Decreto Cura-Italia”, in Lamministrativista.it e in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19, Documentazione); F. Francario, “L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa: le nuove misure straordinarie per il processo amministrativo”, ibidem; C. Saltelli, “La tutela cautelare dell’art. 84 d.l. n. 18 2020”, in www.giustizia-amministrativa.it; e F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.lexitalia.it. Cfr. anche le Direttive del Presidente del Consiglio di Stato del 19 marzo, in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19) cit., con commento di M.A. Sandulli, “I primi “chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul “Decreto Cura-Italia””.
[2] Cfr. i “monitoraggi” delle prime applicazioni del d.l. n. 84 effettuati da B. Gargari, V. Sordi e T. Cocchi, in giustamm.it e il report di G. Veltri, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Sul punto, cfr. l’intervento di M. Ramajoli nel webinar del 24 aprile 2020, su “Processo amministrativo e Covid-19”, coordinato da M.A. Sandulli, con interventi di F. Francario, M. Lipari, L. Maruotti, G. Montedoro, G. Morbidelli, P. Portaluri, M. Ramajoli, C. Saltelli, S. Santoro, R. Savoia, G. Severini, M. Spasiano, liberamente ascoltabile su youtube, all’indirizzo .
[4] Sulle problematiche sollevate dal mancato coordinamento tra la l.n 27 e l’art. 36 del d.l. n. 23 punto cfr. F. Volpe, Ancora sulla disciplina emergenziale del processo amministrativo, in lexitalia, 2 maggio 2020, nonché, con più specifico riferimento alla conferma del termine del 15 aprile anche nel nuovo comma 1-bis dell’art. 103, del d.l. 18, le osservazioni di G. Strazza, L’emergenza Covid-19 e la sospensione (incerta) dei termini dei procedimenti e del processo amministrativo, in lamministrativista.it, 2 maggio 2020.
[5] M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è “riservata” alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al “pieno” contraddittorio difensivo, in federalismi.it del 9 aprile 2020, con Postilla per una possibile soluzione del 10 aprile. Analogamente, in senso critico, F. Francario, Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19, in www.giustiziainsieme.it, 14 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più speciale”, in lamministrativista.it e in giustamm.it; M. Lipari, “L’art. 36, comma 3, del decreto legge n. 23/2020: la sospensione parziale dei termini processuali è giustificata? Verso una lettura ragionevole della norma”, in federalismi.it del 29 aprile. Diversamente, R. De Nictolis, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in federalismi.it. 15 aprile 2020.
[6] Sulla sospensione dei termini del procedimento, M.A. Sandulli, N. Posteraro, Procedimento amministrativo e COVID-19. Primissime considerazioni sulla sospensione dei termini procedimentali e sulla conservazione dell’efficacia degli atti amministrativi in scadenza nell’art. 103, in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19), marzo 2020; L. GIANI, Alcune considerazioni sulla “stratificazione” delle previsioni di sospensione dei termini procedimentali, ivi, marzo 2020.
[7] Su cui cfr. gli AA. citati alla nota 1.
[8] In Laministrativista.it e federalismi.it, (osservatorio emergenza COVID-19), con considerazioni critiche di M.A. Sandulli, Vademecum di prima lettura sulle misure urgenti per la giustizia amministrativa e comunicato ufficio stampa giustizia amministrativa,. Sull’art. 3 del d.l. n. 11 cfr. anche F. Francario, L’emergenza Coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, ibidem.
[9] Da ultimo, M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss., leggibile anche in www.giustizia-amministrativa.it, e ivi ulteriori richiami.
[10] Cfr. le considerazioni svolte in M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[11] Su cui si rinvia a M.A. Sandulli, Brevissime considerazioni sulla sospensione dei termini relativi ai procedimenti sui ricorsi amministrativi (tra gli artt. 84 e 103 del d.l. n. 18 del 2020), in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19).
[12] Per i quali, con decreto del 3 aprile 2020, il Presidente f.f. ha (autonomamente) stabilito (i) il differimento per legge dell’udienza collegiale del 22 aprile “in quanto non assicura l’integrale rispetto del termine fissato a ritroso per il deposito delle memorie” e (ii) che “le udienze ed adunanze collegiali del 13 maggio, 27 maggio, 10 giugno e 24 giugno 2020 saranno tenute a condizione che tutte le parti costituite richiedano congiuntamente che le cause in esse fissate siano chiamate e passino in decisione sulla base dei soli documenti e scritti difensivi, senza discussione orale né presenza delle parti e dei difensori”, precisando però che la suddetta richiesta “dovrà essere presentata od invita almeno 15 giorni prima del giorno fissato per l’udienza”; e (iii) ha altresì disposto il rinvio delle udienze istruttorie (nelle quali sono di norma trattate le istanze cautelari) calendarizzate tra il 6 maggio e il 17 giugno 2020 a date comprese tra il 1° luglio e l’11 novembre, con la precisazione che “le parti potranno segnalare che alcune di esse, per legge od obiettive e gravi condizioni, necessitano di trattazione urgente, nel qual caso verrà valutata la possibilità di fissarle prima e/o con particolari modalità”. In tema, cfr. amplius M. Collevecchio, Le peculiarità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e del suo rito nella gestione dell'attività nel corso dell'emergenza Covid-19, in federalismi.it (osservatorio emergenza COVID-19).
[13] Cfr. ancora gli interventi al webinar del 24 aprile, cit.
[14] Cons. St., sez. VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539.
[15] Cfr, per tutti, ancora una volta, gli interventi nel menzionato webinar del 24 aprile e il contributo di C. Volpe, Pandemia, processo amministrativo e affinità elettive, in www.giustizia-amministrativa.it, 27 aprile 2020.
[16] Cfr. le considerazioni critiche svolte a primissima lettura in Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, in Lamministrativista.it. Analogamente, F. Volpe, Ancora sulla disciplina emergenziale, cit.
[17] C. Saltelli, intervento al webinar del 24 aprile, cit. e M. Lipari , op. cit..
[18] Cfr. chiusura del webinar del 24 aprile, cit.
[19] Anche su questo punto, cfr. le perplessità espresse da F. Volpe, Ancora sulla disciplina emergenziale, cit.
[20] In questo senso, cfr. F. Francario, Il non processo amministrativo, cit., nonché, inter alia, l’intervento di S. Cogliani nel corso del webinar del 30 aprile 2020, su “Emergenza sanitaria, diritto e (in)certezza delle regole”, coordinato da M.A. Sandulli, ascoltabile su youtube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=o8vebWv7iKw
La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19.
di Salvatore Dovere
Sommario: 1. Dalla sanità pubblica alla salute dei lavoratori, in particolare – 2. Il Protocollo del 14.3.2020. La forza delle cose – 3. Un altro passo, nella medesima direzione – 4. L’intreccio comincia a districarsi? – 5. A proposito di sanzioni – 6. Il convitato di pietra: la responsabilità da reato degli enti morali.
1. Dalla sanità pubblica alla salute dei lavoratori, in particolare.
L’agognato apparire della luce in fondo al tunnel (flebile? nitida? Mentre scrivo non è ancora noto), travisato in una locuzione dall’apparente neutralità (‘fase 2’), si è annunciato anche con una crescente produzione di prescrizioni che vedono quale destinatario il datore di lavoro. Ma anche con un chiaro mutamento di prospettiva.
Riepiloghiamo brevemente. Con il d.l. n. 6 del 23.2.2020 si impose alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica, fornendo una elencazione esemplificativa delle possibili misure, nella quale un posto di primo piano aveva la sospensione di molte attività; tra queste le attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle compatibili con la modalità domiciliare.
Sulla scorta di tale previsione il d.p.c.m. dell’8 marzo dispose, per le aree del Paese maggiormente interessate alla diffusione del virus, la sospensione di molte attività e per tutte quelle non sospese (pertanto anche per le imprese poste altrove), raccomandò ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie e di fare ricorso al lavoro agile, rendendo solo eventuale il previo accordo individuale con i lavoratori e alleviando il connesso obbligo informativo.
Furono quindi utilizzati gli strumenti della raccomandazione e della facilitazione del ricorso a istituti volti a favorire la assenza dei prestatori d’opera dal luogo di lavoro.
Un intervento più penetrante fu fatto l’11 marzo - nel frattempo con il d.p.c.m. del 9 marzo le misure erano state estese a tutto il territorio nazionale -, quando con altro d.p.c.m. furono dettagliamente individuate le attività economiche sospese e per quelle non sospese, oltre a ribadire la sollecitazione al massimo utilizzo del lavoro agile e all’incentivazione delle ferie e dei congedi retribuiti, si raccomandò la sospensione delle attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; l’assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non possibile il rispetto della distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, l’adozione di strumenti di protezione individuale; l’incentivazione di operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro; la limitazione al massimo degli spostamenti all'interno dei siti e il contingentamento dell’accesso agli spazi comuni nelle attività produttive.
Con encomiabile sollecitudine il 14 marzo le parti sociali definirono il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, con il quale si sono formulate con nettezza vere e proprie prescrizioni a contenuto cautelare[1], alla cui osservanza i datori di lavoro delle associazioni di categoria sottoscrittrici erano tenuti sul piano civilistico ma che ben presto, in forza della previsione contenuta nel d.p.c.m. del 22.3.2020, ha assunto natura vincolante per tutti i datori di lavoro, essendo stato disposto, in uno alla drastica limitazione del novero delle attività non sospese, che questi hanno l’obbligo di rispettare i contenuti del descritto protocollo (art. 1, co. 3).
2. Il Protocollo del 14.3.2020. La forza delle cose.
In quel primo accordo le misure definite sono comunque esplicitamente segnalate come ‘non esaustive’, giacchè suscettibili di essere integrate da altre equivalenti o più incisive, secondo le peculiarità della specifica organizzazione. Tali misure, alcune delle quali chiaramente facoltative (come il controllo della temperatura corporea del personale all’acceso in azienda), nel complesso sono riconducibili all’informazione ai lavoratori e a chiunque entri in azienda; alla disciplina degli accessi in e delle uscite dall’azienda; alla pulizia e sanificazione degli ambienti di lavoro e delle aree accessorie; alle precauzioni igieniche personali da adottare; all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale; alla gestione degli spazi comuni; alla ri-organizzazione delle attività aziendali; alla mobilità interna e alle attività in presenza; alla gestione di una persona sintomatica in azienda; alla prosecuzione dei servizi di sorveglianza sanitaria e alla costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione, con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.
La struttura delle disposizioni è quella delle linee guida; esse svolgono in primo luogo una funzione di descrizione di un ambito ‘sensibile’, meritevole di essere governato (“Per l’accesso di fornitori esterni individuare procedure di ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite, al fine di ridurre le occasioni di contatto con il personale in forza nei reparti/uffici coinvolti”); in secondo luogo hanno una funzione di supporto, offrendo indicazioni operative ritenute pertinenti ed utili al governo del rischio, e tuttavia lasciando ampi spazi alla discrezionalità dei datori di lavoro in merito alle modalità della sua attuazione (“l’accesso agli spazi comuni, comprese le mense aziendali, le aree fumatori e gli spogliatoi è contingentato, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all’interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di 1 metro tra le persone che li occupano”; infine, alcune di esse presentano la struttura tipica del comando (“l’azienda mette a disposizione idonei mezzi detergenti per le mani”).
Quale sia lo scopo di tali misure è dichiarato sin da principio: “La prosecuzione delle attività produttive può infatti avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione… È obiettivo prioritario coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”. E’ pur vero che nel documento si può leggere che “l’obiettivo del presente protocollo condiviso di regolamentazione è fornire indicazioni operative finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento adottate per contrastare l’epidemia di COVID-19” e che “il COVID-19 rappresenta un rischio biologico generico, per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione”. Ma tanto mi sembra alluda al fatto che le misure da adottare sono quelle previste in generale; tuttavia, si aggiunge, esse vanno calate nella specificità dell’ambiente di lavoro. In altri termini, l’obiettivo delle misure, in ambito lavorativo, non è (solo) quello di evitare che dall’ambiente di lavoro fuoriescano vettori di contagio che accentuino la diffusione del virus; ma è prioritariamente quello di evitare che i lavoratori, dovendo prestare la loro opera, e quindi non potendo ‘godere’ delle misure previste per la restante parte dei consociati, vengano esposti al rischio (che non li investirebbe nella medesima misura se rimanessero nei rispettivi domicili).
Ma ben oltre le enunciazioni teleologiche vanno le specifiche previsioni del Protocollo; ad esempio quella, già menzionata, secondo la quale “nella declinazione delle misure del Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda, si adotteranno i DPI idonei”. L’evocazione di una valutazione dei rischi è connessa alla ‘declinazione delle misure’, nel senso che deve tener conto dei rischi già censiti. Le misure vanno attuate tenendo presente i rischi presenti nel luogo di lavoro, in modo da non risultare disfunzionali. V’è la consapevolezza della interazione tra le misure ‘precauzionali’ di nuovo conio e quelle ‘cautelari’ che vanno a costituire il sistema di gestione della sicurezza del lavoro. Ben si attaglia alla situazione venutasi a determinare quanto si legge nel recente “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-19 nei luoghi di lavoro e strategia di prevenzione” predisposto dall’Inail: “il sistema di prevenzione nazionale ed aziendale realizzatosi nel tempo, con il consolidamento dell’assetto normativo operato dal D. Lgs 81/08 e s.m.i., offre la naturale infrastruttura per l’adozione di un approccio integrato alla valutazione e gestione del rischio connesso all’attuale emergenza pandemica”.
Le parti sociali hanno mostrato di avere pronta consapevolezza dell’intreccio delle dimensioni pubblica e lavorativa; tanto che anche quando sul versante datoriale si è ritenuto di non aggiornare la valutazione dei rischi ci si è affrettati a ipotizzare la necessità di addenda, di integrazioni, di appendici al relativo documento. Nei fatti, gli imprenditori hanno applicato il patrimonio di conoscenze sedimentato nel quarto di secolo che ormai ci separa dal d.lgs. n. 626/1994.
3. Un altro passo, nella medesima direzione.
Nei giorni successivi il quadro si è arricchito di nuovi tasselli.
Dapprima le parti sociali hanno sottoscritto un ulteriore Protocollo; quindi è intervenuto il D.P.C.M. del 26 aprile 2014, il cui art. 2, al comma 6, stabilisce: “Le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 6, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso dì regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 7, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 8. La mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell'attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”[2].
Tenuto conto del fatto che anche questo d.p.c.m. costituisce attuazione di un potere regolamentativo attribuito al Presidente del Consiglio dal decreto legge[3], non sembra dubitabile che la disposizione sopra riportata imponga un obbligo di osservanza ai suoi destinatari: le misure previste dai protocolli sono doverose.
Sul piano dei contenuti il nuovo Protocollo in primo luogo ribadisce quanto già era stato affermato con il precedente; non sostituisce quello adottato nel marzo scorso ma esprime la vocazione ad integrarne le previsioni.
Esso non fa che riproporre le misure già individuate, articolandone alcune con maggior dettaglio. Non è quindi mutata la filosofia dell’accordo, inteso a fornire linee guida condivise tra le parti per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio.
Gli obblighi informativi vengono ulteriormente denotati, essendo previsto che l’informazione impartita deve essere “adeguata sulla base delle mansioni e dei contesti lavorativi, con particolare riferimento al complesso delle misure adottate cui il personale deve attenersi in particolare sul corretto utilizzo dei DPI per contribuire a prevenire ogni possibile forma di diffusione di contagio”. Si tratta di una previsione che riecheggia quanto previsto dall’art. 36 TUSL, che per l’appunto impone una informazione ‘adeguata’, che oltre ad afferire al generale contesto entro il quale si colloca il lavoratore, lo renda edotto dei rischi specifici ai quali egli è esposto a causa delle mansioni espletate; e sempre tenendo presente – e quindi modulandosi secondo – le capacità di comprensione del lavoratore, considerando in specie eventuali difficoltà linguistiche.
Anche l’accesso in azienda dei lavoratori risulta oggetto di ulteriormente attenzione, prevedendosi nuovi compiti del datore di lavoro, tenuto a fornire la massima collaborazione all’autorità sanitaria competente che abbia disposto misure aggiuntive specifiche, per prevenire l’attivazione di focolai epidemici, nelle aree maggiormente colpite dal virus.
Dall’ulteriore previsione, secondo la quale l’ingresso in azienda di lavoratori già risultati positivi all’infezione da COVID 19 deve essere preceduto da una preventiva comunicazione avente ad oggetto la certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza, è ragionevole ricavare che il datore di lavoro sia tenuto a vietare l’accesso di quei lavoratori se non abbiano presentato la pertinente certificazione medica.
Per ciò che concerne la presenza in azienda di terzi, il nuovo accordo articola con maggior dettaglio la relazione con le aziende terze che operano nello stesso sito produttivo (quali, ad esempio, i manutentori, fornitori, addetti alle pulizie o vigilanza). In primo luogo, viene previsto che ove lavoratori da esse dipendenti risultassero positivi al tampone COVID-19, l’appaltatore dovrà informare immediatamente il committente ed entrambi dovranno collaborare con l’autorità sanitaria fornendo elementi utili all’individuazione di eventuali contatti stretti.
In secondo luogo, si stabilisce che l’azienda committente è tenuta a dare, all’impresa appaltatrice, completa informativa dei contenuti del Protocollo aziendale e deve vigilare affinché i lavoratori della stessa o delle aziende terze che operano a qualunque titolo nel perimetro aziendale, ne rispettino integralmente le disposizioni.
Anche questa previsione riecheggia disposizioni del TULS; segnatamente l’art. 26 TULS, che pone obblighi di informazione in capo ai datori di lavoro committenti in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonchè nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbiano la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo. Per tale contesto è espressamente previsto che il datore di lavoro committente fornisca all’impresa appaltatrice o al lavoratore autonomo “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività”.
La salubrità degli ambienti è perseguita con un aggiuntivo obbligo posto a carico dei titolari o gestori di imprese site nelle aree geografiche a maggiore endemia o nelle quali si sono registrati casi sospetti di COVID-19; per essi è previsto che, alla riapertura, sia eseguita una sanificazione straordinaria degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni, ai sensi della circolare 5443 del 22 febbraio 2020.
L’obiettivo della massima igiene personale ha suggerito di aggiungere, al previsto l’obbligo per l’azienda di mettere a disposizione dei detergenti per le mani, quello di collocare tali detergenti in modo che siano accessibili a tutti i lavoratori anche grazie a specifici dispenser collocati in punti facilmente individuabili.
L’adozione dei DPI viene meglio specificata, prevedendo che essa sia modulata “sulla base del complesso dei rischi valutati e, a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda”; con il che sembra escluso che possa essere sufficiente la fornitura a tutti i lavoratori di uno stesso tipo di DPI, dovendo all’inverso essere individuato quello più adeguato al livello di rischio al quale è esposto il singolo lavoratore. Una valutazione sul piano generale è però fatta dall’accordo stesso, il quale prevede che per tutti i lavoratori che condividono spazi comuni deve essere previsto l’utilizzo di una mascherina chirurgica.
Nell’ambito degli interventi che attengono all’organizzazione aziendale, viene previsto in modo innovativo che ai fini del rispetto della regola del distanziamento sociale devono essere rimodulati gli spazi di lavoro, sia pure compatibilmente con la natura dei processi produttivi e degli spazi aziendali. Anche l’articolazione del lavoro entra nel fuoco delle misure adottabili, essendo previsto che essa “potrà essere ridefinita con orari differenziati che favoriscano il distanziamento sociale riducendo il numero di presenze in contemporanea nel luogo di lavoro e prevenendo assembramenti all’entrata e all’uscita con flessibilità di orari”.
Ancorché il Protocollo lasci libertà di decisione al datore di lavoro circa la adozione o meno di orari differenziati (o la rimodulazione degli spazi), non sembra dubitabile che esso positivizzi quelle che – per le parti, ma anche per l’Esecutivo – sono le regole cautelari imposte dal tipo e livello di rischio e risultano allo stato concretamente attuabili. Pertanto, mentre la discrezionalità esclude che una eventuale omissione possa di per sé essere ragione di sanzione, non si potrà escludere che siffatte linee guida vengano intese come fonti di regole cautelari la cui violazione può sostanziare un addebito per colpa in caso di evento infausto. Ovviamente, è ben possibile vincere questa sorta di presunzione, dimostrando che la previsione non ha efficacia cautelare, diversamente dalla misura in concreto adottata.
Meno salda è l’estensione di una simile conclusione anche alla ulteriore previsione del nuovo Protocollo, secondo la quale, al fine di evitare aggregazioni sociali anche in relazione agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro e rientrare a casa, “andrebbero incentivate forme di trasporto verso il luogo di lavoro con adeguato distanziamento fra i viaggiatori e favorendo l’uso del mezzo privato o di navette”. Davvero troppo rarefatto il contenuto precettivo e modale dell’enunciato per poterne derivare un obbligo datoriale dal definito profilo.
In relazione alla gestione in azienda di un lavoratore sintomatico, si dispone che questi al momento dell’isolamento deve essere subito dotato, ove già non lo fosse, di mascherina chirurgica.
Accresciuta attenzione si manifesta anche a riguardo del coinvolgimento del medico competente, per il quale si prevede l’obbligo di applicare le indicazioni delle Autorità Sanitarie. Si rimarca, prospettando una ‘possibilità’ che in realtà non oscura il dovere, che il medico competente “potrà suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori”. Si prevede che alla ripresa delle attività il medico competente sia coinvolto (“è opportuno…”) per le identificazioni dei soggetti con particolari situazioni di fragilità e per il reinserimento lavorativo di soggetti con pregressa infezione da COVID 19 e che la sorveglianza sanitaria ponga particolare attenzione ai soggetti fragili anche in relazione all’età.
Senza dubbio prescrittiva è la previsione secondo la quale per il reintegro progressivo di lavoratori dopo l’infezione da COVID19, il medico competente, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza, effettua la visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”, anche per valutare profili specifici di rischiosità e comunque indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.
4. L’intreccio comincia a districarsi?
Molto si è discusso sulla natura di simili previsioni, in specie considerando la ‘appropriazione’ fattane dall’Esecutivo. Ancor più controversa è la relazione che simili misure intrattengono con il complesso sistema di tutela della sicurezza del lavoro incentrato sul d.lgs. n. 81/2008.
Fatti salvi gli operatori del comparto sanitario, per i quali nessuno ha dubitato che la particolare contingenza abbia elevato il rischio professionale, così da imporre la piena attuazione delle procedure e delle misure previste dal d.lgs. n. 81/2008, per tutti gli altri lavoratori addetti ad attività non sospese, il dispiegamento di una regolamentazione fortemente connotata dalle sottostanti ragioni di salute pubblica e dalla chiamata in campo di istituzioni per solito prive di competenza in materia di sicurezza del lavoro ha ragionevolmente indotto a sostenere che l’apparato prevenzionistico venuto a configurarsi risulti ‘altro’ rispetto a quello incentrato dal d.lgs. 81/2008 sulla valutazione dei rischi, con l’effetto di escludere l’obbligo datoriale di aggiornarla, di precludere la vigilanza da parte degli organi ordinariamente deputati al settore, di rendere inapplicabile il consueto corredo sanzionatorio[4]. In verità almeno l’estromissione degli organi ispettivi e l’interdizione delle sanzioni recate dal TULS sembrerebbero previsti letteralmente dal d.l. n. 19/20; ma l’una e l’altra risultano connessi alle sole misure previste dal legislatore dell’emergenza. Sicchè è proprio implicazione della ipotesi negatoria, per la quale non ci sono spazi per l’aggiornamento della valutazione dei rischi, a condurre ad un risultato che somiglia alla definizione di una enclave temporale nella tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
In altra occasione ho esaminato quella tesi ed esposto le mie obiezioni[5]. L’ulteriore dispiegamento di misure di prevenzione, con la sempre maggiore inerenza delle stesse al rischio che investe il lavoratore in quanto tale, mi sembra confermi la fondatezza di quella posizione critica[6]. Vero è che il rischio di contagio è prima di tutto un rischio ubiquitario, che investe l’intera popolazione; e che quindi, in linea di massima, le misure che fronteggiano tale rischio svolgono la loro funzione anche per i lavoratori. Allo stesso tempo, il rischio che incombe negli ambienti di lavoro minaccia, ove non fronteggiato, di produrre i suoi effetti ben oltre il perimetro aziendale, potendo divenire il lavoratore un vettore dell’agente biologico verso l’esterno e quindi la collettività. Sicchè, ben si comprende che le misure adottate per governare il rischio al quale sono esposti i lavoratori nello svolgimento della loro attività finiscono per assumere valenza anche per la salute pubblica. Ma questa pluralità di funzioni non è del tutto nuova. In fin dei conti, anche le norme che il TULS dedica alle misure per il rischio da agenti biologici (la cui presenza è connessa al processo produttivo) rappresentano uno scudo a protezione del lavoratore ad essi esposto ma indirettamente anche uno strumento di prevenzione della diffusione dell’agente biologico all’esterno dell’azienda.
Ma a sgombrare il campo da ogni residuo dubbio mi sembra venga ora una delle previsioni del Protocollo cantieri. Si dispone che “Il coordinatore per la sicurezza nell'esecuzione dei lavori, ove nominato ai sensi del Decreto legislativo 9 aprile 2008 , n. 81, provvede ad integrare il Piano di sicurezza e di coordinamento e la relativa stima dei costi”. Si prevede quindi esplicitamente una integrazione del PSC, che rappresenta il principale documento di valutazione dei rischi per lo specifico contesto dei cantieri temporanei e mobili[7].
5. A proposito di sanzioni.
Anche su questa Rivista si è riflettuto sulla legittimità di una responsabilità penale che mette radici nei provvedimenti germinati dall’emergenza pandemica[8]. E’ possibile che l’eco costituzionale della disciplina dispiegatasi con i d.p.c.m. risuoni nelle aule giudiziarie alle prime occasioni. Intanto a tutti gli operatori si propone anche la questione che attiene alla ricostruzione dei rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo. L’art. 4, comma 1, del d.l. n. 19/2020, dispone: “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3”.
Non sembra dubbio che il convincimento sotteso alla disposizione sia quello di aver definito misure di contenimento anti-contagio valevoli “su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso”, come si esprime l’incipit del primo comma dell’art. 1 del d.l. n. 19/2020. Pertanto, la volontà è stata quella di stabilire sanzioni per violazioni di misure volte alla tutela della salute pubblica. Lo denuncia a chiare lettere anche l’esplicita esclusione della applicabilità dell’art. 650 cod. pen. e delle disposizioni di legge attributive di poteri per ragioni di sanità.
Senonché, come dimostra il dibattito che si è acceso intorno al rapporto tra regolamentazione emergenziale e disciplina della sicurezza del lavoro, ci troviamo di fronte a piani che si intersecano (persino aggrovigliano) e che richiedono quindi un attento tracciamento di confini[9].
La clausola di sussidiarietà che apre il primo comma dell’art. 4, in combinazione con l’esplicita abiura dell’art. 650 cod. pen., è emblematica; la sua funzione è quella di sedare in via preventiva il conflitto tra norme. In realtà finisce per aprire alla competizione tra universi.
Per chi ritiene che le misure delle quali si scrive abbiano delineato un “sistema speciale di gestione dell’emergenza” che si impone all’ordinario sistema di gestione del rischio da lavoro, è giocoforza concludere che le relative violazioni “non paiono soggette all’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 81/2008”. La clausola di sussidiarietà importerebbe che “la prevalenza delle sanzioni penali del d.lgs. n. 81/2008 potrebbe forse postularsi solo ove le misure previste dai Protocolli coincidessero con i precetti penalmente sanzionati del d.lgs. n. 81/2008”[10].
In modo speculare, se si ritiene che quelle misure siano destinate ad inserirsi nel sistema delineato dal d.lgs. n. 81/2008, a cominciare dalla loro considerazione nel contesto della valutazione dei rischi di cui agli artt. 15, 17, 28 e 29 TULS, allora è agevole concludere che sarebbe “irragionevole, proprio considerando la natura di reati’ di molti degli obblighi di prevenzione, sostenere che l’apparato regolativo “Covid-19” comporti, con riguardo alle misure di prevenzione emergenziali sui luoghi di lavoro, la non applicazione della specifica normativa prevenzionistica, escludendo dunque sia la competenza degli organi di vigilanza speciali (ASL, INL, ecc.), sia la possibile applicazione del sistema sanzionatorio di cui al TUS (per non parlare ovviamente del codice penale)”. In questa prospettiva, il sistema di controlli e di sanzioni prefigurato dall’art. 4 atterrebbe “alle misure, diciamo così, più squisitamente di ordine pubblico (sospensione attività, divieti circolazione, etc.)”[11].
A mio avviso la ricostruzione interpretativa deve procedere in senso inverso. Invero, la clausola di sussidiarietà che apre il comma 1 dell’art. 4 d.l. n. 19/2020 (“salvo che il fatto costituisca reato”) risolve l’ipotetico concorso apparente di norme a favore del precetto penale. Nel far ciò non seleziona tipologicamente le norme incriminatrici destinate a prevalere. Al pari di altre clausole del medesimo genere, essa evoca la comparazione di specifiche fattispecie. Comparazione che denuncerà il concorso (apparente) a condizione che le fattispecie siano strutturalmente coincidenti. Orbene, per quanto ampio sia il catalogo delle contravvenzioni previste dal TULS, principale sospettato di competizione, specie tenuto conto delle previsioni dei protocolli già stipulati, appare improbabile che le misure ritagliate sulle peculiarietà del rischio da Covid-19 possano specchiarsi nelle disposizioni del d.lgs. n. 81/2008. Il quesito, quindi, non pare dover trovare soluzione a partire dall’opzione sui fondamentali; sia che le misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli vengano considerate come trama di un sistema congiunturale sia che esse intrattengano relazioni (di integrazione, di inclusione, di specificazione et similia) con il sistema incentrato sul TULS, quel che rileva, almeno per l’applicazione della sanzione, è che il fatto integrato dalla violazione delle misure sia anche violazione di una (almeno per ora) preesistente norma incriminatrice[12].
6. Il convitato di pietra: la responsabilità da reato degli enti morali.
E’ noto che ormai dal 2007 la tutela della sicurezza dei lavoratori si avvale anche del sistema disciplinare delineato dal d.lgs. n. 231/2001. Non sfugge, quindi, che la discussione sulla riconoscibilità di un sistema emergenziale a carattere speciale valevole anche per i luoghi di lavoro o, specularmente, sulla necessità di integrare le misure nell’ordinario impianto del sistema di gestione della sicurezza del lavoro, mette in gioco anche gli obblighi discendenti dal decreto 231. In altri termini: l’attuazione delle misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli ha riflessi sugli adempimenti in tema di modello organizzativo di gestione previsto dal d.lgs. n. 231/2001?
Alcuni hanno espresso decisa opinione positiva: “la predisposizione del ‘protocollo anticontagio” – si è scritto – “va ad integrare il modello adottato” e impone la “rivalutazione complessiva dei processi e … (la) implementazione dei modelli di organizzazione e gestione”[13].
Sono dell’avviso che la ricognizione del dato normativo fornisce solide basi a una simile tesi.
Si può prendere le mosse dall’art. 6 del decreto 231, il quale prevede tra i compiti dell’organismo di vigilanza anche quello di curare l’aggiornamento del modello organizzativo. La disposizione non specifica quali siano i presupposti che impongono l’aggiornamento del modello; che pertanto resterebbe connesso alla sola generica necessità di mantenerlo efficace. Tuttavia, già l’art. 7, co. 4 del medesimo decreto dispone che “L'efficace attuazione del modello richiede: a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività…”.
Risultano quindi enunciate le situazioni fattuali che impongono la rivisitazione del modello. Il limite di tali previsioni è nel fatto che l’aggiornamento del modello per effetto di mutamenti dell’organizzazione o dell’attività è disposto solo dall’art. 7, ovvero dalla disposizione che definisce i presupposti della responsabilità dell’ente in caso di reato commesso da soggetto sottoposto a poteri altrui. Il dato assume rilevanza, alla luce della diffusa opinione circa la alterità dei due modelli.
Ma decisivo ai nostri fini è il comma 4 dell’art. 30 TULS, che non solo impone di adottare un modello che preveda un idoneo sistema di controllo sulla sua attuazione e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate; ma ribadisce esplicitamente – e questa volta non più con riferimento al solo caso del reato commesso dal soggetto sottoposto -, che il riesame e l'eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.
Se ne può ragionevolmente dedurre che l’adozione delle misure anti-contagio in azienda impone l’aggiornamento del modello almeno se e in quanto quella determini dei mutamenti organizzativi. Se si conviene su tale affermazione, potrebbe risultare persino privo di rilievo che le misure in questione attengano esclusivamente alla dimensione della salute pubblica piuttosto che anche all’area della salute dei lavoratori.
[1] Non deve ingannare il riferimento, nel testo del Protocollo, alla natura precauzionale delle misure e alla ‘logica della precauzione’ alla quale esse sarebbero improntate. A chi opera nel campo del diritto penale il termine ‘precauzione’ evoca immediatamente forti contrapposizioni culturali, alternativi modelli disciplinari, pericoli di deviazione dallo standard costituzionale della responsabilità per fatto proprio colpevole. Ma escluderei che le parti sociali abbiano inteso alludere a materia tanto complessa. D’altronde, anche nel d.lgs. n. 81/2008 si menzionano frequentemente le ‘precauzioni’, intendendo le cautele.
[2] Il Protocollo per i cantieri costituisce specificazione di settore rispetto alle previsioni generali contenute nel Protocollo del 14 marzo 2020, come integrato il successivo 24 aprile 2020; le linee guida oggetto dell’accordo stipulato il 20 marzo prevedono adempimenti per ogni specifico settore nell’ambito trasportistico, ivi compresa la filiera degli appalti funzionali al servizio ed alle attività accessorie e di supporto correlate.
[3] Si veda, per i primi d.p.c.m., l’art. 3 del d.l. n. 6 del 23.2.2020, convertito con modificazioni dalla legge 5.3.2020 n. 13; il d.l. n. 19 del 25.3.2020 ha abrogato tutte le disposizioni del d.l. n. 6/2020, eccezion fatta per l’art. 1, co. 6-bis e l’art. 4. Ma con esso si è riproposto – all’art. 2 – il già utilizzato schema, ovvero il conferimento a successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri della funzione di adottare le misure descritte dall’art. 1 del d.l.
[4] P. Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 117 ss. e in part. 128 ss.
[5] S. Dovere, Covid-19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi, in questa rivista, 22.4.2020.https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1016-covid-19-sicurezza-del-lavoro-e-valutazione-dei-rischi
[6] Propendono, con varietà di argomenti, per la applicazione delle previsioni del TUSL, a cominciare da quelle in tema di valutazione dei rischi, A. Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo?, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4; [6] F. Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020, 4; G. De Falco, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in questa rivista, 22.4.2020; R. Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5. https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1025-salute-e-sicurezza-nei-luoghi-di-lavoro-covid
[7] Per incidens, nel documento il controllo della temperatura corporea del lavoratore in ingresso al cantiere sembra divenuto obbligatorio.
[8] Sui dubbi di tenuta costituzionale della legislazione emergenziale, in particolare di quella inerente il diritto penale, T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da coronavirus, in questa rivista, 30.3.2020 e 19.4.2020.
[9] G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 413/2020, scrive : “l’assoluta novità della vicenda è determinata proprio dalla “promiscuità” del nuovo rischio, dall’incrocio quasi inestricabile, in questo caso, tra effetti, e relativi rimedi, del rischio “Covid-19” sulla generalità della popolazione ed effetti, e rimedi, nei luoghi di lavoro”.
[10] E’ il ragionamento sviluppato da P. Pascucci in S. Dovere- P. Pascucci, Covid-19 e sicurezza dei lavoratori, in D.l.r.i., 2020, in corso di pubblicazione.
[11] G. Natullo, op. cit., 16.
[12] Con questa precisazione rettifico in parte quanto ho affermato, più recisamente, in S. Dovere, op. cit.
[13] C. Corsaro – M. Zambrini, Compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3.
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