ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La giustizia dall’animazione sospesa passa in terapia intensiva: altri sviluppi della legislazione d’emergenza nel processo civile (note a prima lettura alla legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020).
di Franco De Stefano
Sommario: 1. La proroga secca. - 2. Le modifiche in sede di conversione del d.l. n. 18 (Cura Italia). - 3. Novità di ordine generale. - 4. Le modifiche alla fase uno. - 5. Le modifiche alla fase due. - 6. Specificità per i giudizi di cassazione. - 7. Epilogo.
1. La proroga secca.
In materia di Giustizia, già posta in stato di animazione sospesa, intervengono almeno due norme di notevole impatto.
Va prima di tutto segnalato che l’art. 36 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23 (Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali), prevede, al suo comma 1, che il termine del 15 aprile 2020 previsto dall’articolo 83, commi 1 e 2, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 è prorogato all’11 maggio 2020; e si premura di soggiungere che, di conseguenza, il termine iniziale del periodo previsto dal comma 6 del predetto articolo è fissato al 12 maggio 2020.
L’articolo estende la sua applicazione, coi consueti limiti di compatibilità, ai procedimenti di cui ai commi 20 e 21 dell’articolo 83 del decreto-legge n. 18 del 2020; i quali, nel testo originario, precedente cioè la modifica di cui alla legge di conversione, sono: i procedimenti di mediazione ai sensi del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, i procedimenti di negoziazione assistita ai sensi del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti, i procedimenti relativi alle commissioni tributarie e alla magistratura militare.
La proroga al giorno 11 maggio non si applica ai procedimenti penali in cui i termini di cui all’articolo 304 del codice di procedura penale scadono nei sei mesi successivi all’11 maggio 2020 e quindi fino all’11 novembre 2020; e non si applica neppure nel processo amministrativo, se non per i termini per la notificazione dei ricorsi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 54, comma 3, del relativo codice.
Al contrario, la proroga del termine di cui al comma 1, primo periodo, si applica altresì a tutte le “funzioni e attività della Corte dei conti”, come elencate nell’art. 85 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18.
Rimane quindi la distinzione in due fasi, la prima di sospensione generalizzata ed ampia con eccezioni e che impatta in modo deciso sulla funzionalità della giustizia, la seconda di regime articolato intermedio verso una ripresa che si presume – o, più verosimilmente, si auspica – complessiva o definitiva: ma si interviene solo sulla fase uno, che è aumentata fino a quasi due mesi, senza modificare – per ora – il termine finale anche della fase due (al 30 giugno, data sempre più prossima) e quindi riducendo in modo corrispondente la fase due, dell’organizzazione duttile e flessibile, anche territorialmente differenziata, che in origine era articolata su due mesi e mezzo ed ora si limita a poco meno di due, cioè un tempo inferiore a quello dell’emergenza acuta.
In definitiva, si tratta di una scelta probabilmente imposta dall’andamento dell’epidemia, ma ancora una volta inopportunamente indifferenziata, che cristallizza la situazione delle prime ore, dalla quale potrebbe forse adesso trarsi ogni utile spunto per superare il rischio di un immobilismo mortale, comprensibile ed in parte giustificabile solamente nei primi momenti di sbandamento e di priorità, nell’emergenza acuta, dell’imperiosa esigenza di prevenire l’impennata dei contagi e di organizzare la linea del Piave per la ripartenza dell’offensiva alla malattia e soprattutto della società nel suo complesso.
Altre quattro settimane di piena paralisi sono molte, moltissime; oltretutto, la comprensibile rigidità della fase uno impedisce l’adozione, fin d’ora, di strumenti agili e flessibili come quelli previsti dai commi sei e sette, esclusivo appannaggio della fase due, salva l’impervia strada della dichiarazione di urgenza ope iudicis e, beninteso, ferma la trattazione dei procedimenti definiti tali per legge o, auspicabilmente, nei casi dubbi a tale categoria ricondotti da provvedimento ricognitivo del giudice.
Lo stato di animazione sospesa (quasi un coma farmacologico) in cui era stata collocata la Giustizia col d.l. 18 si trova quindi protratto, come una terapia, dall’art. 36 del d.l. 23; ma, al tempo stesso, qualche intervento per limitare gli effetti nefasti che possono temersi dalla protrazione di questo stato di cose si tenta con le modifiche arrecate in sede di conversione del primo: come se, insomma, almeno si volesse trasferire il paziente in terapia intensiva, una volta che questo possa ancora dare segni vitali e potenzialità di ripresa o, almeno, per non rendere quest’ultima ancora più complicata o non lasciare postumi invalidanti permanenti irreversibili.
2. La legge di conversione del d.l. 18/20 (Cura Italia).
All’esito della modifica arrecata al Senato (il 9 aprile 2020), il testo finale della legge di conversione del d.l. n. 18 del 2020 è stato varato dalla Camera dei Deputati il 24 aprile.
L’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 ne risulta trasformato in una norma ancora più complessa di almeno trentaquattro commi.
La disciplina diventa molto frastagliata proprio in ordine all’individuazione delle fasce temporali di applicazione, che vengono pure talvolta differenziate all’interno della tendenziale bipartizione nella fase uno (fino al giorno 11/05) e due (fino al 30/06, almeno allo stato).
Per quanto riguarda il civile e il processo in generale dell’art. 83 d.l. 18/2020 sono stati modificati:
- il comma 3, con l’affinamento dell’elenco dei procedimenti esclusi dalla sospensione nella fase uno;
- il comma 7, con la precisazione delle udienze civili in cui sarà possibile, nella fase due, la modalità da remoto, ma pure con l’estensione di queste alle attività di tutti gli ausiliari di tutti i giudici;
- il comma 20, quanto alla sospensione dei procedimenti di mediazione o risoluzione stragiudiziale delle controversie.
Sempre per il processo civile o in generale sono state:
- previste modalità di deposito telematico di atti nei procedimenti civili in Cassazione;
- abilitate le celebrazioni da remoto delle camere di consiglio, ma nella sola fase due e per i soli procedimenti non sospesi;
- previste modalità di svolgimento da remoto a determinate condizioni degli incontri di mediazione;
- introdotte nuove modalità di conferimento delle procure in ogni procedimento civile, con previsione di un termine finale pericolosamente incerta o mobile.
Non è questa la sede per occuparsi specificamente di modifiche ad altre disposizioni complementari, come l’art. 103 (formalmente dedicato ai procedimenti amministrativi, ma che, con disposizione assolutamente incongrua per la sedes materiae proclamata nella rubrica, potrebbe finire con l’estendersi ai procedimenti esecutivi e concorsuali fino al 15/04/2020, oltre che, secondo quanto già previsto dall’originario comma 6, alle procedure di rilascio fino al 01/09/2020) o l’art. 54-ter (sulla sospensione delle procedure esecutive sulle prime case). Basti allora un cenno al fatto che il primo prevede (al co. 1-bis) una sospensione, curiosamente limitata però al solo 15 aprile 2020, in materia di procedimenti amministrativi, per i “termini relativi ai processi esecutivi e alle procedure concorsuali, nonché ai termini di notificazione dei processi verbali, di esecuzione del pagamento in misura ridotta, di svolgimento di attività difensiva e per la presentazione di ricorsi giurisdizionali” (nonostante questi procedimenti nulla abbiano in comune con i procedimenti amministrativi, come insegna la dottrina processuale da almeno settant’anni); ma si interviene pure sui procedimenti amministrativi per il recupero di somme dovute in materia di lavoro e legislazione sociale, con una ancora più curiosa modulazione del relativo periodo di sospensione, dal 23 febbraio al 31 maggio 2020, estesa anche al relativo termine prescrizionale.
3. Novità di ordine generale.
Incide su norme generali del processo, non solo civile, la liberalizzazione dello svolgimento da remoto di tutte le attività di tutti gli ausiliari del giudice (e, attesi i richiami delle rispettive discipline, anche di quelli dei magistrati), alla condizione generale della salvaguardia del contraddittorio e dell’effettiva partecipazione delle parti: si tratta della lettera h-bis del co. 7: pertanto, è disposizione studiata e dettata per la fase due (12 maggio – 30 giugno 2020) ed anche stavolta tutto è rimesso al provvedimento del capo dell’ufficio giudiziario. Al riguardo, è auspicabile un indirizzo unitario coordinato a livello nazionale dal CSM in sede di adozione delle linee guida, ma comunque a livello distrettuale dal presidente della Corte d’appello. L’ampiezza della lettera della legge dovrebbe consentire una auspicabile corrispondente ampiezza del ricorso a tali modalità, nel rispetto del principio di libertà delle forme e dei soli due obiettivi appena visti come riconosciuti meritevoli di garanzia. Pertanto, in applicazione di principi generali del processo civile, nessuna eventuale nullità derivante dalla violazione delle relative norme, primarie, secondarie o subsecondarie, potrà essere dichiarata ove l’atto abbia comunque raggiunto il suo scopo ed il diritto di difesa della parte non sia stato in concreto pregiudicato.
Incide invece su norme generali del processo, stavolta soltanto civile, la previsione del nuovo comma 20-ter, la cui durata è ancorata ad una data futura ed incerta quale la “cessazione delle misure di distanziamento previste dalla legislazione emergenziale in materia di prevenzione dal contagio COVID-19”: in forza di tale disposizione, nei procedimenti civili la sottoscrizione della procura alle liti può essere apposta dalla parte anche su un documento analogico trasmesso al difensore, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia di un documento di identità in corso di validità, anche a mezzo strumenti di comunicazione elettronica. In tal caso, l’avvocato certifica l’autografia mediante la sola apposizione della propria firma digitale sulla copia informatica della procura. La procura si considera apposta in calce, ai sensi dell’articolo 83 del codice di procedura civile, se è congiunta all’atto cui si riferisce mediante gli strumenti informatici individuati con decreto del Ministero della giustizia. Si tratta di norma che, quindi, per potere concretamente operare necessita di un atto di normazione secondaria peculiare, quale appunto il decreto ministeriale; ma ogni relativa irregolarità (tra cui l’adozione con modalità in parte difformi, se non forse anche l’applicazione di simili modalità prima della formale pronuncia del Ministro), tranne il solo caso delle procure speciali previste per peculiari giudizi (come quello di legittimità), deve potersi sanare ai sensi dell’art. 182 c.p.c., configurandosi al riguardo una potestà del giudice (e, quindi, un suo autentico potere-dovere in tal senso).
Per un periodo diverso ed estraneo alla modulazione della tempistica finora esaminata, siccome individuato tra il 16 aprile ed il 31 maggio 2020, è poi la riduzione a modalità da remoto, fatta salva una diversa ed evidentemente specifica disposizione del giudice (sicché, in mancanza di positivo intervento di questi, si dovrebbe applicare la previsione di cui appresso), degli incontri tra genitori e figli in in spazio neutro, ovvero alla presenza di operatori del Servizio Socio assistenziale, disposti con provvedimento giudiziale. Unica condizione è che siano permesse le comunicazioni audio e video tra il genitore, i figli e l’operatore specializzato, secondo le modalità che saranno individuate dal responsabile del Servizio Socio assistenziale e comunicate al giudice procedente; ma con la clausola di salvaguardia che, mancando un diverso provvedimento di questi, ove non sia possibile assicurare il collegamento da remoto gli incontri sono sospesi; e, nella dinamica dei difficili rapporti tra genitori e figli, un mese e mezzo può essere un periodo intollerabilmente lungo, sicché è auspicabile una particolare attenzione da parte del giudice, che potrebbe pur sempre, informato delle difficoltà tecniche, disporre diversamente e – beninteso – nel rispetto delle esigenze sanitarie.
La peculiarità del giudizio di legittimità specificamente introdotta per rendere trattabili i procedimenti civili dinanzi alla Corte di cassazione merita un cenno a parte, su cui v. infra.
Lo svolgimento in modalità da remoto è esteso poi – dal co. 20-bis – ai procedimenti di mediazione: a condizione del consenso di tutte le parti, questa è una facoltà generale nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, ma si prevede pure (in modo probabilmente non del tutto congruente con la limitazione della previsione al periodo emergenziale) che in tempi successivi, sempre previo quel consenso, gli incontri possano aver luogo in via telematica, ai sensi dell’art. 3, co. 4, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, mediante sistemi di videoconferenza; e si precisa che, in caso di procedura telematica, l’avvocato, che sottoscrive con firma digitale, potrà dichiarare autografa la sottoscrizione del proprio cliente collegato da remoto ed apposta in calce al verbale ed all’accordo di conciliazione. Il verbale relativo al procedimento di mediazione svoltosi in modalità telematica sarà sottoscritto dal mediatore e dagli avvocati delle parti con firma digitale ai fini dell’esecutività dell’accordo prevista dall’art. 12 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.
Con una generalizzazione opportuna (al co. 21), infine, la disciplina dell’intero art. 83, tra cui la suddivisione in due fasi del periodo di crisi, è estesa (oltre che alla giustizia tributaria e militare) anche ai procedimenti di competenza delle giurisdizioni speciali, anche se non contemplate direttamente od esplicitamente dal decreto legge, come pure agli arbitrati rituali, con il consueto limite generale della compatibilità.
4. Le modifiche alla fase uno.
Limitata alla fase uno, di indifferenziata sospensione di termini (salve le sole eccezioni previste), è una serie di precisazioni.
La prima riguarda i procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni in cui è urgente ed indifferibile la tutela di diritti fondamentali della persona: si tratta di dizione volutamente ampia, idonea a garantire una discrezionalità opportuna in un settore dove una generalizzazione ex ante è spesso impropria ed inopportuna; piuttosto, è arduo il contemperamento con l’ultima parte della stessa lettera a) del co. 3, che già prevedeva l’esenzione dalla sospensione dei procedimenti in cui la ritardata trattazione avrebbe potuto produrre un grave pregiudizio alle parti, visto che la valutazione del giudice è indispensabile in entrambi i casi. A non volere ritenere che proprio in materia minorile le parti godano di una tutela minore, si può concludere che le due forme di esenzione, entrambe ope iudicis e quindi abbisognevoli di un provvedimento positivo del giudice (propriamente ricognitivo nel primo caso e costitutivo nel secondo), concorrano, ma non si escludano.
La seconda riguarda la limitazione dell’esenzione dalla sospensione delle cause relative ad alimenti od obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, parentela, matrimonio od affinità ai soli casi in cui vi sia pregiudizio per la tutela di bisogni essenziali. Valgono considerazioni analoghe a quelle appena svolte per la precisazione in tema di urgenza ed indifferibilità della tutela dei diritti fondamentali della persona nei procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni: con la conseguenza che particolare attenzione andrà dedicata dal giudice alla valutazione della ricorrenza dei presupposti della seconda oppure dell’ultima delle ipotesi del primo periodo della lett. a) del comma 3; tuttavia, non dissimilmente che per la precedente, un richiamo indifferenziato o generico all’una o all’altra (anche con formula di congiunzione e, in alternativa, di aggiunta) dovrebbe fondare a sufficienza la determinazione del giudice competente di trattare l’affare.
La terza riguarda i particolari procedimenti elettorali di cui agli artt. 22 a 24 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, intrinsecamente urgenti per l’indifferibilità delle decisioni in materia, soprattutto per il caso in cui le competizioni elettorali cui si riferiscono siano state tenute egualmente nonostante l’emergenza sanitaria.
Ancora, il co. 12-quinquies regolamenta le modalità di deliberazione da remoto dei provvedimenti collegiali nei procedimenti civili e penali non sospesi: alla lettera, quindi, poiché di sospensione si parla esclusivamente per la cosiddetta fase uno (mentre per la fase due rimane una ampia gamma di provvedimenti rimessi all’iniziativa dei capi degli uffici, tra i quali non si fa mai menzione della sospensione), la disciplina può applicarsi in via diretta ed immediata esclusivamente a quelli ed a quegli altri, che ordinariamente non sono sospesi, nella fase due. In particolare, dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, nei procedimenti civili e penali non sospesi, le deliberazioni collegiali in camera dì consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Nei soli procedimenti penali, dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l’ordinanza e il provvedimento è depositato in cancelleria ai fini dell’inserimento nel fascicolo il prima possibile e, in ogni caso, immediatamente dopo la cessazione dell’emergenza sanitaria. Nei procedimenti civili, per i quali nulla è previsto in modo esplicito dalla legge, le modalità di deposito degli elaborati restano affidate al provvedimento del singolo capo dell’ufficio, se intervenuto ai sensi del co. 7, oppure, in mancanza, dal giudice (o, in caso di collegio, dal suo presidente) che vi provvede.
5. Le modifiche alla fase due.
Nonostante l’evidente opportunità di una generalizzazione di tali precisazioni, tale disciplina (del co. 12-quinquies) è espressamente limitata anche temporalmente, dal 9 marzo al 30 giugno 2020, benché dall’11 maggio non vi siano più procedimenti sospesi; ma può ritenersi codificazione esplicita di principi della materia, quale quello dell’equiparazione alla camera di consiglio “in presenza” del luogo o dei luoghi da cui si collegano i magistrati dell’organo collegiale, nonché quello del deposito quanto prima dell’originale in cancelleria, oppure quello della delegabilità delle relative funzioni del presidente del collegio.
Pertanto, nulla esclude l’applicazione di analoga modalità di trattazione da remoto, purché però tanto sia reso oggetto di provvedimento ad hoc del capo dell’ufficio ai sensi della lett. f) del medesimo co. 7, adottato nel rispetto delle regole procedurali del comma 6 (vale a dire previa consultazione dell’autorità sanitaria regionale, sentito il Consiglio dell’ordine degli avvocati e comunque d’intesa col Presidente della Corte d’appello o il Procuratore generale della Repubblica presso la medesima, con la sola eccezione di Corte di cassazione e Procura generale presso quest’ultima).
Con simile provvedimento il capo dell’ufficio sarà quindi ancora in facoltà di determinare le modalità di trattazione non solo delle udienze, ma pure delle adunanze (in Cassazione, anche se non partecipate) e delle relative camere di consiglio da remoto: a tale conclusione (di indifferenziato riferimento alle attività comunque espletate dal giudice nello sviluppo del procedimento come regolato davanti a lui) potendo giungersi ora anche sulla base di due nuovi argomenti testuali: in primo luogo, l’esplicita estensione – alla lett. f) – a tutte le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, anche se finalizzate all’assunzione di informazioni presso la pubblica amministrazione; in secondo luogo, l’inserimento della lett. h-bis (anch’essa appunto relativa alla sola fase due), con la previsione dello svolgimento dell’attività da remoto di tutti gli ausiliari del giudice, fatti salvi il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti (per cui, tra l’altro, nulla che presupponga l’esame fisico od obiettivo di cose o persone dovrebbe potersi ricondurre a tale facoltà: non certamente una visita medica sulla persona, ad esempio, o – verosimilmente – un’ispezione di luoghi).
La conclusione che si ricava è che tutte le attività funzionali alla giurisdizione civile, diverse da quelle che esigono la presenza fisica delle parti di persona, sono sostituibili, se non altro finché dura l’emergenza, con le modalità da remoto e, deve ritenersi, a condizione dell’equipollenza del contatto così istituito con quello normalmente esistente nel processo civile, di cui può comunque – e in linea di principio – garantirsi oralità, concentrazione ed immediatezza anche tra persone distanti ma adeguatamente collegate.
6. Specificità per i giudizi di cassazione.
Preliminarmente, può notarsi che, quanto alla firma dei provvedimenti civili della Corte suprema di cassazione, opportunamente il Primo Presidente della Corte di cassazione ha disposto, con suo decreto n. 40 del 18-19 marzo 2020, che, in caso di residenza del presidente o del relatore fuori Roma, possa configurarsi uno degli impedimenti per i quali l’ultima parte dell’ultimo comma dell’art. 132 cod. proc. civ. prevede la possibilità della sottoscrizione da parte del consigliere più anziano. Tale norma, conformemente alle prime valutazioni anche di altri commentatori ed in virtù di un’interpretazione estensiva, necessitata dall’eccezionalità della situazione e della probabilità della diffusione dell’impedimento dovuta alla dimensione nazionale dell’ufficio ed alla dislocazione dei suoi magistrati su tutto il territorio italiano, deve ritenersi applicabile a scalare in caso di impedimento anche del componente del collegio più anziano dopo il presidente, fino a raggiungere ed investire del potere di firma il più anziano dei componenti del collegio che non sia impedito.
Soltanto un cenno poi, per il grande impatto pratico che potrebbe avere per consentire la ripresa decisa delle attività della Cassazione civile ed anzi per costituire un’occasione di superamento di un anacronistico ritardo nell’applicazione delle innovazioni tecnologiche nell’ufficio di vertice della magistratura italiana, può essere qui fatto al co. 11-bis, per il quale, nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, ma – allo stato – sino al 30 giugno 2020, il deposito degli atti e dei documenti da parte degli avvocati può avvenire in modalità telematica nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.
Si precisa che condizione per l’attivazione del servizio è un provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, di constatazione dell’installazione e dell’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici. Va di pari passo l’abilitazione dei difensori delle parti al pagamento del contributo unificato di cui all’art. 14 d.P.R. 30 maggio. 2002, n. 115 (e dell’anticipazione forfettaria di cui all’art. 30 del medesimo decreto), dovuto per il deposito telematico degli atti dì costituzione in giudizio presso la Corte di Cassazione, mediante sistemi telematici di pagamento anche tramite la piattaforma tecnologica di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.
La sperimentazione pare avviata proprio in queste ore.
E proprio in queste ore è stato pubblicato sul sito istituzionale della Corte un protocollo di intesa tra la Corte di cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e la Procura Generale presso la Corte per la trattazione delle adunanze camerali civili (e delle udienze ex art. 611 c.p.p.), dichiarato immediatamente efficace e valido fino al 30/06/2020 e del quale il CNF si impegna a dare ampia pubblicità, in base al quale:
1. il provvedimento di fissazione dell’adunanza o dell’udienza camerale conterrà l’invito ai difensori a trasmettere, ove nella loro disponibilità e secondo le forme di cui agli articoli seguenti del protocollo, entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione stessa, copia informatica - in formato pdf - degli atti processuali del giudizio di cassazione, sia civili che penali, già in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge (per il civile: ricorso, controricorso, nota di deposito ex art. 372, comma 2, c.p.c., provvedimento impugnato); con espresso avvertimento che nel caso in cui non pervengano nel detto termine in cancelleria tali copie, la trattazione della causa, già fissata, potrà essere rinviata a nuovo ruolo ove il collegio non sia in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto;
2.1. il difensore provvederà a trasmettere gli atti richiesti, dei quali abbia la disponibilità, mediante invio dal proprio indirizzo di posta elettronica certificata risultante dal RE.G.IND.E., congiuntamente:
a. agli indirizzi di posta elettronica certificata delle cancellerie della Corte di cassazione e delle segreterie della Procura Generale, che saranno previamente comunicati al Consiglio Nazionale Forense ed adeguatamente pubblicizzati sui rispettivi siti internet dei soggetti che sottoscrivono il presente protocollo,
b. all’indirizzo di posta elettronica certificata dei difensori delle altre parti processuali risultante dai pubblici registri di cui all’art. 16.ter del d.l. n. 179 del 2012 e successive modificazioni;
2.2. l’invio dovrà essere fatto separatamente per ciascuno dei ricorsi per i quali si è ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza ed il messaggio dovrà contenere la chiara indicazione nell’oggetto del numero del ruolo generale, della sezione, civile o penale, della data dell’udienza o adunanza secondo il format che verrà previamente comunicato ed adeguatamente pubblicizzato;
2.3 l’adesione all’invito di cui al presente protocollo implica, in capo ai difensori, l’impegno a trasmettere copie informatiche di contenuto uguale agli originali o alle copie già presenti nel fascicolo cartaceo;
2.4 con analoghe modalità di cui ai punti 2.1. e 2.2. potranno essere trasmesse le memorie ai sensi degli artt. 380-bis, 380-bis 1 e 380-ter c.p.c.;
2.5 resta fermo quanto previsto dai decreti del Primo Presidente della Corte di cassazione innanzi richiamati, quanto alla trasmissione delle memorie e dei motivi aggiunti nei procedimenti civili e penali;
2.6 ciascuna delle parti processuali ha facoltà di trasmettere tutti gli atti del processo, ivi compresi quelli depositati dalle altre parti;
3. la trasmissione degli atti indicati nell’art. 1 dovrà avvenire entro e non oltre il settimo giorno successivo alla ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza o adunanza camerale. Nel caso in cui non pervengano nel detto termine in cancelleria le copie informatiche di tutti gli atti rilevanti, la trattazione della causa, già fissata, potrà essere rinviata a nuovo ruolo ove il collegio non sia in condizione di decidere nella camera di consiglio da remoto, per avere già acquisito le copie di atti e documenti;
4.1. la Procura Generale provvederà a trasmettere agli indirizzi di posta elettronica certificata delle cancellerie della Corte di cassazione ed agli indirizzi di posta elettronica certificata dei difensori di cui al punto 2.1, copia informatica degli atti processuali del giudizio di cassazione, sia civili che penali, già in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge;
4.2. con le stesse modalità potranno essere trasmesse le conclusioni scritte ai sensi degli artt. 380-bis.1 e 380-ter c.p.c., nonché le richieste e le memorie di cui all’art. 611 c.p.p.;
5. La Camera di Consiglio sarà svolta secondo le modalità indicate nei decreti del Primo Presidente nn. 44 del 23 marzo e 47 del 31 marzo 2020;
5.2. per quanto attiene il deposito delle note di cui al punto 2.5, sarà onere delle cancellerie provvedere all’inserimento nei fascicoli cartacei, ai fini della loro completezza;
6. la trasmissione della copia informatica dell’originale cartaceo non sostituisce il deposito nelle forme previste dai codici di rito, civile e penale, né determina rimessione in termini per le eventuali decadenze già maturate.
7. Epilogo.
Qualcosa, insomma, si muove. La Giustizia, colpita al cuore anch’essa da una sciagura senza precedenti e paralizzata per la fase acuta dell’emergenza, può ambire ad essere spostata dall’animazione sospesa prima alla terapia intensiva e poi in corsia, perché vuole dare il suo contributo al Paese; questi provvedimenti, nel complesso, offrono agli operatori qualche strumento per agire in questa direzione: e, impregiudicate beninteso le priorità sanitarie e la sicurezza minima di tutti i lavoratori ed i soggetti coinvolti nelle attività giurisdizionali, starà a loro, nell’ampio ventaglio di possibilità comunque offerto o ricavabile da una normativa comunque complessa, applicarli al meglio delle loro possibilità.
Perché un Paese non può sopravvivere senza cibo, ma non può restare a lungo senza Giustizia. Perché, insieme e se lo si vuole davvero, ce la si può fare.
Covid-19 e sospensione dei termini sostanziali
di Antonio Scarpa
A fronte delle conclusioni, più o meno rassicuranti, cui sono pervenuti i primi commentatori, il testo dell’art. 83, comma 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, suscita notevoli incertezze circa l’applicabilità della sospensione ai termini di prescrizione e di decadenza.
Sommario: 1. La disciplina dei termini nella normativa sull’emergenza COVID-19 – 2. I primi commenti – 3. Un tentativo di riconduzione ai principi – 4.Una breve considerazione finale.
1. La disciplina dei termini nella normativa sull’emergenza covid-19 - Com’è noto, allo scopo di contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attività giudiziaria, l’articolo 83, comma 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni in legge, ha disposto, per il periodo dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 (termine, quest’ultimo, poi prorogato all’11 maggio 2020 dal decreto legge 8 aprile 2020, n. 23), la sospensione del “decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali”. La norma precisa che “si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l'adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali. Ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine di detto periodo. Quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l'udienza o l'attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto”.
Il successivo comma 6 dell’articolo 83 cit. rimette, inoltre, ai capi degli uffici giudiziari, per il periodo compreso tra il 12 maggio 2020 ed il 30 giugno 2020, l’adozione di “misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d'intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”. Tali misure organizzative sono elencate nel comma 7 dell’articolo 83, e vanno dalla “limitazione dell'accesso del pubblico agli uffici giudiziari”, alla “limitazione dell'orario di apertura al pubblico degli uffici”, alla “regolamentazione dell'accesso ai servizi”, alla “adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze”, alla “celebrazione a porte chiuse” delle udienze pubbliche, alla “previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto”, alla “previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020”, allo “svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice”.
Il comma 8 dell’articolo 83 del decreto legge n. 18 del 2020 aggiunge, a sua volta, che “per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui al comma 7 che precludano la presentazione della domanda giudiziale è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi”.
Il comma 20 dell’articolo 83 cit. ha, quindi, sospeso per lo stesso periodo “ i termini per lo svolgimento di qualunque attività nei procedimenti di mediazione ai sensi del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 ... quando i predetti procedimenti siano stati promossi entro il 9 marzo 2020 e quando costituiscono condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.
Ancora, il comma 1-bis dell’art. 108 del decreto legge n. 18 del 2020, inserito all’atto della conversione in legge, prescrive: «1-bis. Per lo svolgimento dei servizi di notificazione a mezzo posta, di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890, e all’articolo 201 del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, gli operatori postali procedono alla consegna delle suddette notificazioni con la procedura ordinaria di firma di cui all’articolo 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890, oppure con il deposito in cassetta postale dell’avviso di arrivo della raccomandata o altro atto che necessita di firma per la consegna. Il ritiro avviene secondo le indicazioni previste nell’avviso di ricevimento. La compiuta giacenza presso gli uffici postali inizia a decorrere dal 30 aprile 2020. I termini sostanziali di decadenza e prescrizione di cui alle raccomandate con ricevuta di ritorno inviate nel periodo in esame sono sospesi sino alla cessazione dello stato di emergenza».
Gli articoli 34 e 42 del decreto legge n. 18/2020 hanno, dal canto loro, individuato una disciplina di proroga o sospensione dei termini decadenziali in materia di prestazioni previdenziali, assistenziali ed assicurative erogate dall'INPS e dall'INAIL.
Peraltro, con l’articolo 10, comma 2, del decreto legge 2 marzo 2020, n. 9, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 2 marzo 2020, n. 53, già a decorrere dal 3 marzo 2020 e sino al 31 marzo 2020, per i procedimenti civili pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei Tribunali cui appartenevano i comuni di cui all'allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020, erano stati sospesi “i termini per il compimento di qualsiasi atto processuale, comunicazione e notificazione” da svolgere nelle regioni di appartenenza degli indicati comuni. Il comma 4 dell’articolo 10 del decreto legge n. 9 del 2020, contemplava, sempre soltanto “per i soggetti che alla data di entrata in vigore del presente decreto sono residenti, hanno sede operativa o esercitano la propria attività lavorativa, produttiva o funzione nei comuni di cui all'allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020”, la sospensione dal 22 febbraio 2020 fino al 31 marzo 2020 dei “termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonché dei termini per gli adempimenti contrattuali”. L’articolo 1 della legge di conversione del decreto legge n. 18 del 2020 ha però disposto l’abrogazione del decreto legge 2 marzo 2020, n. 9, comunque restando “validi gli atti ed i provvedimenti adottati” e facendo “salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti” sulla base del medesimo decreto legge.
Col decreto legge n. 18 del 2020 sono stati altresì abrogati gli articoli 1 e 2 del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11, coi quali erano già stati sospesi sino al 22 marzo 2020 “i termini per il compimento di qualsiasi atto” dei “procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari, con le eccezioni indicate all'articolo 2, comma 2, lettera g”.
In definitiva, dopo la conversione in legge del decreto legge n. 18 del 2020, con riguardo espresso ai termini sostanziali di prescrizione e di decadenza, oltre ad alcune norme di settore, rimane vigente la sola esplicita previsione del comma 8 dell’articolo 83 del decreto legge n. 18 del 2020, che però riguarda il periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020.
Il dubbio dell’operatore è: sono sospesi i termini di prescrizione e decadenza per il periodo dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020 ?
2.I primi commenti – I dossier contenenti le schede di lettura predisposte dal sevizio studi del Senato e della Camera dei deputati ai fini dell’esame del d.l. 18/2020 (A.C. 2463) non mostrano grandi perplessità in proposito:
“In base al comma 8 (n.d.r.: dell’articolo 83), se l’adozione delle misure organizzative per il contenimento del contagio preclude la possibilità di presentare una domanda giudiziale, la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei relativi diritti è sospesa fintanto che perdurano le misure stesse. Pertanto, i termini di prescrizione e decadenza sono sospesi di diritto dal comma 2 per il periodo 9 marzo -15 aprile (9 marzo - 11 maggio, in base al decreto-legge n. 23/2020) ma potranno essere sospesi anche successivamente, fintanto che perdurano le misure organizzative di contenimento del virus, se tali misure precludono la possibilità di presentare una domanda giudiziale”.
Anche la Relazione su novità normativa dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo n. 28/2020 del 1 aprile 2020, pur lamentando che la disposizione in esame non è “affatto perspicua”, è giunta alla conclusione che sia “ferma la sospensione dei termini sostanziali di prescrizione e decadenza nella fase di sospensione ex lege di tutti i termini processuali”.
A.Panzarola, M. Farina, L'emergenza coronavirus ed il processo civile. Osservazioni a prima lettura, in http://giustiziacivile.com, hanno dedicato la loro attenzione alla sola previsione contenuta nel comma 8 dell’art. 83, parimenti definendola “non certo perspicua”, ma nella consapevolezza che essa sia destinata al cosiddetto «secondo periodo», e dunque al periodo di efficacia delle misure organizzative di cui al comma 7 che precludano la presentazione della domanda giudiziale. Gli Autori menzionati hanno osservato come, pur essendo la norma ispirata da un “lodevole intendimento”, non si comprende in che modo quelle misure possano impedire tout court la proposizione di una domanda giudiziale. Quindi si sono dedicati a determinare “i diritti (sostanziali) cui la norma si riferisce, i quali, stando al dettato normativo, sono esercitabili «esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti» assunti dal capo dell'ufficio”.
G. Sicchiero, Decreto Cura Italia: le disposizioni in tema di giustizia civile, in https://www.quotidianogiuridico.it, ha, invece, inteso il comma 8 dell’articolo 83 cit. riferito già al primo periodo, argomentando: “data la sospensione dei processi civili e penali dal 9 marzo al 15 aprile (a parte le eccezioni espressamente indicate), il comma 8 prevede che durante tale periodo è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività̀ precluse dai provvedimenti medesimi”.
M. Tarantino, Aspetti critici sulla decorrenza dei termini per impugnare le delibere condominiali durante l’emergenza COVID-19, in http://www.dirittoegiustizia.it, dopo aver richiamato le norme che dettavano esplicite sospensioni dei termini comportanti prescrizioni e decadenze nei provvedimenti approvati, ad esempio, per le popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009, o dal sisma del 24 agosto 2016, ha ravvisato l’operatività della sospensione dei termini sostanziali soltanto nei limiti del comma 8 dell’art. 83, e dunque agganciata “in maniera difficilmente comprensibile” alle due condizioni ivi dettate. Nel prosieguo del commento, tuttavia, l’Autore presta adesione alle conclusioni della richiamata Relazione del Massimario n. 28/2020 del 1 aprile 2020, dando per certa la sospensione dei termini sostanziali di prescrizione e decadenza nel periodo di sospensione ex lege dei termini processuali.
3.Un tentativo di riconduzione ai principi – Il primo principio che viene a mente è quello secondo il quale tutte le norme, contenute nel Codice civile o in altre leggi, che prevedono la sospensione dei termini di prescrizione o di decadenza, integrano disposizioni di carattere eccezionale, a norma dell'art. 14 delle preleggi, con la conseguenza che non sono suscettibili di applicazione oltre i casi e i tempi espressamente e tassativamente considerati dalla legge, dovendosi assicurare certezza e stabilità ai rapporti giuridici. Come facciamo a leggere che siano sospesi i termini di prescrizione e di decadenza in una norma che dispone espressamente la sospensione del “decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali” e che, dopo averli esemplificati, ribadisce di sospendere “in genere, tutti i termini procedurali” ?
A proposito della più nota ipotesi di sospensione ex lege dei termini processuali, ovvero quella prevista dall'art. 1 della legge n. 742 del 1969 per il periodo feriale, sono state dapprima la Corte costituzionale, con le declaratorie di illegittimità in rapporto agli articoli 3 e 24 Cost. (sent. n.380 del 1992; n. 49 del 1990; n. 255 del 1987; n. 40 del 1985), e poi la giurisprudenza ordinaria, in sede interpretativa, ad ampliare la locuzione “termini processuali”, ma al fine di ricomprendere nella sospensione quei soli brevi termini di decadenza fissati per la proposizione dell'atto introduttivo del giudizio, allorché quest’ultimo costituisca, per il titolare del diritto, l'unico rimedio per fare valere tempestivamente il diritto stesso. Il fondamento delle sentenze orientate in tale direzione nasceva dalla considerazione che il carattere processuale di un termine non si rivela solo in base al suo manifestarsi e compiersi dopo l'inizio del processo, ma anche avendo riguardo alla sua funzione, al suo valore di “atto iniziale del processo”, allorché il processo si dimostri come l'unico strumento idoneo a difendere e a tutelare il diritto del singolo, visto che la situazione di chi deve ricorrere ad un legale nel mese di agosto perché rediga un atto d'appello non è diversa da chi deve necessariamente rivolgersi ad un avvocato in quel medesimo periodo dell’anno per impugnare, ad esempio, una deliberazione societaria o condominiale entro il termine previsto dall'ordinamento. Quando, dunque, l’ordinamento conosce mezzi alternativi, anche stragiudiziali, idonei ad impedire la decadenza o ad interrompere la prescrizione, non muta il carattere sostanziale del termine, esplicando l'atto introduttivo del giudizio effetti equipollenti a quelli di tali mezzi alternativi. Viceversa, è il riscontro dell'assenza di altri rimedi, ovvero del collegamento diretto e necessario tra il termine e l'atto introduttivo del giudizio, a far acquistare al primo natura (anche) processuale, dalla quale deriva l'applicabilità della sospensione. Ciò pur sempre, è bene ricordarlo, avendo riguardo alla ratio propria della norma di cui all'art. 1 cit. della legge n. 742 del 1969, che è quella di assicurare agli avvocati una pausa feriale, così che essi, tranne che per gli affari urgenti di cui agli art. 2 e 3, non debbano essere costretti ad interrompere il loro periodo di riposo (Corte cost., sent. n. 225 del 1987, n. 40 del 1985, n. 130 del 1974).
Se si conviene che la lettera dell’articolo 83, comma 2, cit. non riguarda espressamente i termini sostanziali di prescrizione e di decadenza, si potrebbe non di meno, in via interpretativa, far rientrare nella sospensione del “decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili”, ovvero di “tutti i termini procedurali”, non soltanto i termini per il compimento degli atti dei processi già pendenti, ma altresì i termini sostanziali “stabiliti … per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio”, quando si tratti di prescrizioni o decadenze la cui interruzione o il cui impedimento consegue esclusivamente alla proposizione della relativa domanda giudiziale, e non anche ad un atto stragiudiziale di costituzione in mora (si pensi, per fare qualche esempio, all’usucapione, all’azione revocatoria ordinaria, alla rescissione ed all’annullamento del contratto, alle impugnative di delibere, all’istanza del creditore contro il debitore per l’ultrattività della fideiussione in caso di scadenza dell’obbligazione principale, alle azioni possessorie, alla domanda di disconoscimento della paternità naturale, alla revocazione delle donazioni, alle impugnazioni delle rinunzie e transazioni previste dall'articolo 2113 codice civile, alla domanda proposta dal conduttore per ottenere la restituzione di somme corrisposte al locatore in violazione dei divieti e dei limiti previsti dalla legge).
Dunque, l’estensione interpretativa della sospensione dei termini processuali ex articolo 83, comma 2, ai termini sostanziali “con rilevanza processuale” dovrebbe supporre che la possibilità di agire in giudizio costituisca, per il titolare che deve munirsi di una difesa tecnica, l'unico rimedio idoneo a far valere il suo diritto.
Va tuttavia considerato come, per quelle controversie che, ai sensi dell’art. 5, decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, implicano l’esperimento del procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della domanda, il comma 6 del medesimo articolo 5 prevede che “dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale” ed “impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all'articolo 11 presso la segreteria dell'organismo”. Nel singolare meccanismo di conciliazione strutturata sul processo, come allestito dal d.lgs. n. 28 del 2010, viene, quindi, prescelta, quanto meno per alcuni effetti, quali, appunto quelli interruttivi della prescrizione ed impeditivi della decadenza, una equivalenza tra domanda giudiziale e domanda di mediazione, non perché quest’ultima costituisce manifestazione di una volontà sostanziale, bensì in quanto instaura un rapporto diretto a realizzare un accordo conciliativo.
Il già richiamato comma 20 dell’articolo 83 del medesimo d.l. n. 18 del 2020, applica, del resto, la sospensione dei termini allo “svolgimento di qualunque attività nei procedimenti di mediazione ai sensi del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 …. quando i predetti procedimenti siano stati promossi entro il 9 marzo 2020 e quando costituiscono condizione di procedibilità della domanda giudiziale”. Nel testo approvato in sede di conversione, al citato comma 20 la sospensione dei termini viene estesa ai procedimenti di mediazione che “siano stati introdotti o risultino già pendenti a far data dal 9 marzo”, facendosi salvo, con apposito comma 20-bis, nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, lo svolgimento degli incontri di mediazione in via telematica con il preventivo consenso di tutte le parti coinvolte. Il successivo comma 20-ter, sempre introdotto con la legge di conversione del d.l. n. 18/2020, consente, inoltre, fino alla cessazione delle misure di distanziamento previste dalla legislazione emergenziale in materia di prevenzione del contagio da COVID-19, la sottoscrizione della procura alle liti nei procedimenti civili apposta dalla parte anche su un documento analogico trasmesso al difensore.
E’ così tutto da verificare il primo presupposto che renderebbe plausibile l’estensione in via di interpretazione della sospensione dei termini processuali ex articolo 83, comma 2, ai termini sostanziali (o, quanto meno, ad alcuni di essi), e, cioè, l'assenza di altri rimedi rispetto al promovimento del giudizio. Per di più, siffatta estensione dovrebbe attuarsi partendo dalla ratio propria della norma in esame (che, all’evidenza, non è quella, tradizionalmente riscontrata nell'art. 1 della legge n. 742 del 1969, e cioè assicurare un periodo di ferie agli avvocati), in maniera da concludere che, nel periodo corrente dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 (11 maggio 2020) risulti comunque particolarmente difficile, a colui che intenda esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale, munirsi della necessaria difesa tecnica. Ora, né l’art. 83 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, né, nel complesso, le misure sull’emergenza epidemiologica, precludono l’esercizio del diritto di agire in giudizio con la necessaria difesa tecnica. Pur in costanza della sospensione dei termini e delle attività giudiziali per l’emergenza COVID-19, rimane ammissibile impedire la decadenza ed interrompere le prescrizioni, ad esempio, quanto meno per le cause di competenza del tribunale, mediante citazione in via telematica (provvedendo al deposito esclusivamente con le modalità previste dal comma 1 dell’articolo 16, del decreto legge n. 179/2012, convertito dalla legge n. 221 del 2012). Altrimenti, gli stessi effetti sostanziali possono conseguirsi comunicando la domanda di mediazione per le controversie in cui l’esperimento della mediazione funziona quale condizione di procedibilità.
Deve precisarsi che non si rivela affatto risolutiva del problema in esame l’aggiunta del comma 1-bis dell’art. 108, operata con la legge di conversione, ove si dispone, come visto, che «i termini sostanziali di decadenza e prescrizione di cui alle raccomandate con ricevuta di ritorno inviate nel periodo in esame sono sospesi sino alla cessazione dello stato di emergenza». La norma tiene conto delle modalità di svolgimento del servizio postale relativo agli invii raccomandati, collegate alle esigenze di tutela sanitaria, di cui al comma 1 dello stesso articolo (che prescindono dalla sottoscrizione dell'avviso di ricevimento da parte del destinatario), e così stabilisce che il termine di decadenza o di prescrizione, impedito o interrotto con la lettera raccomandata, non riprende a decorrere nuovamente dalla consegna del plico, ma rimane sospeso “sino alla cessazione dello stato d’emergenza”. Una disposizione siffatta lascia supporre, al contrario, che, fino all’inoltro della raccomandata, “i termini sostanziali di decadenza e prescrizione” stiano regolarmente decorrendo e non siano affatto aliunde sospesi sino all’11 maggio 2020. Trattasi, peraltro, di modifica apportata al decreto legge in sede di conversione, e che ha perciò efficacia soltanto dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, non disponendo quest'ultima diversamente (articolo 15, comma 5, legge 23 agosto 1988, n. 400).
Ad una esplicita affermazione di applicabilità ai termini sostanziali della sospensione per ora disposta dall’articolo 83, comma 2, potrebbe altrimenti pensarsi di arrivare con una norma di “interpretazione autentica”, oppure con una norma comunque retroattiva. Alla prima soluzione farebbe resistenza l’argomento che la nuova legge rivelerebbe, in realtà, una portata innovativa; sulla seconda soluzione si dovrebbero considerare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sui limiti posti alla retroattività delle leggi in materia civile sulla base sia dell’art. 6 CEDU che dell’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU.
4. Una breve considerazione finale- Vorrei concludere con una considerazione finale di carattere del tutto personale. Quanto meno per la parte che disciplina gli effetti sul decorso dei termini, l’articolo 83 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni in legge, è una norma scritta assai male.
N. Bobbio (La certezza del diritto è un mito?, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, XXVIII [1951], 150) insegnava che «la certezza del diritto (è) un elemento intrinseco del diritto, sì che il diritto o è certo o non è neppure diritto».
A mio avviso, l’affannato legislatore delle ultime settimane, quello volto a contrastare in ogni modo l'emergenza epidemiologica da COVID-19, avrebbe potuto anche meritare l’indulgente silenzio degli interpreti e degli operatori del diritto. Tante volte in questi giorni ci hanno però ricordato le parole di Albert Camus, per cui, quando sarà terminato il doveroso silenzio del momento del flagello, occorrerà riprendere l’abitudine della retorica.
[in copertina Giulia Iofrida,
Distanziamento sociale,
25 aprile 2020]
Vulnerabilità, cultura giuridica, Covid-19
di Baldassare Pastore
Sommario: 1. Le molte facce della vulnerabilità – 2. Le sfide dell’emergenza – 3. Una (possibile) tendenza inquietante.
1. Le molte facce della vulnerabilità
Siamo tutti vulnerabili. La pandemia scatenata dal Covid-19 – esempio tragicamente paradigmatico di come l’interdipendenza globale trasformi eventi catastrofici locali in fenomeni planetari – mostra in maniera evidente questa condizione che accomuna gli esseri umani.
Vulnerabilità è parola che indica la suscettibilità di subire ferite (vulnera), di subire danni causati da fenomeni naturali o da attività umane, connessa ad una serie di situazioni, da cui dipende il verificarsi di determinate stati di cose, e che si manifesta in svariate circostanze.
La vulnerabilità è, in primo luogo, legata alla nostra corporeità. Il corpo umano ci espone alla malattia, alla sofferenza, alla morte. Esso porta con sé la possibilità, sempre presente, di essere colpiti e/o di andare incontro ad avversità, che sfuggono al controllo individuale o collettivo. In questo senso, si pone come caratteristica universale, costante, dell’esistenza umana. Essa, però, può essere vissuta da ciascuno diversamente, variando la grandezza e la potenzialità della sua incidenza in rapporto alle reti di relazioni in cui si è coinvolti e alla quantità e qualità di risorse, opportunità, beni posseduti o di cui si può disporre. In proposito, non può non essere sottolineato che vi sono situazioni di disagio sociale e/o personale in cui il grado di vulnerabilità degli individui può aumentare.
Nella nozione di vulnerabilità, quindi, risultano compresenti una dimensione ontologica, esistenziale, e una dimensione situazionale, contestuale, accidentale e variabile. Emerge il volto della fragilità e della finitezza, ma anche della dipendenza. E viene in rilievo, nel contempo, il compito delle istituzioni nel sostenere policies in grado di ridurne l’esposizione, aumentando il grado generale di resilienza, che ha a che fare con le strategie solidali attraverso le quali si può mitigare, compensare, rimediare a, tale vulnerabilità (sui significati e gli usi di tale nozione si rinvia ai contributi pubblicati nel volume Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, a cura di O. Giolo e B. Pastore, Carocci, Roma, 2018).
Il diritto incontra la vulnerabilità umana in vari modi. In primo luogo, perché, tra le funzioni essenziali di qualsiasi ordinamento giuridico, vi è quella di proteggere gli individui da aggressioni, violenze e offese che colpiscono la vita degli individui. Inoltre, perché, avendo il compito di risolvere i problemi di coordinazione delle azioni, il diritto serve a garantire la sicurezza e la simmetria nei rapporti tra individui, sottraendo le vicende umane all’arbitro.
Se, nello spazio delle relazioni intersoggettive, la vulnerabilità designa la condizione di chi è esposto al rischio di un danno causato dall’essere alla mercé di altri, tale concetto può essere utilizzato come “strumento euristico”, “indicatore qualitativo e quantitativo” di situazioni nelle quali rilevano la sofferenza socialmente prodotta, l’esposizione all’offesa e al danno. Siamo di fronte a quella vulnerabilità patogena, che include i casi derivanti da pregiudizi o abusi nei rapporti interpersonali, da ingiustizie, discriminazioni, oppressioni, forme di sfruttamento, marginalizzazioni, diseguaglianze, costruite attraverso dinamiche di potere differenziate e differenzianti. Si tratta di vulnerazioni che ledono la dignità delle persone, colpite in ciò che è loro dovuto: l’eguale considerazione e rispetto. Proprio qui i diritti umani trovano la loro ragione giustificativa. Essi, infatti, costituiscono una risposta (in termini di rifiuto) alle minacce alla dignità, trovando collocazione entro una struttura normativa che richiede impegni e responsabilità sociali, nonché obblighi istituzionali.
Il diritto, così, è chiamato a svolgere un ruolo centrale nel contrastare la vulnerabilità. Ma può operare esso stesso come fattore di vulnerazione, qualora – venendo meno alla sua essenziale ragion d’essere – consenta o faciliti comportamenti che producono negazioni del riconoscimento, connesse all’umiliazione, alla mancanza di rispetto, all’esclusione sociale, alle ingiustificate disparità di trattamento, alla degradazione del valore della persona. Da questo punto di vista, la nozione di vulnerabilità si pone come “campanello d’allarme”, principio critico, elemento dinamico che chiede agli ordinamenti di rilegittimarsi continuamente, interrogandosi sui propri fondamenti ed esiti normativi.
D’altra parte, lo stesso diritto dovrebbe essere inteso, di per sé, come una entità vulnerabile. Le istituzioni, infatti, sono potenzialmente instabili e soggette a sfide e trasformazioni interne ed esterne. Riconoscere tale vulnerabilità implica che si accetti la necessità di un monitoraggio e di una valutazione connessi ad un’auto-comprensione della cultura giuridica, vigile e attenta ai mutamenti in corso. Il diritto può essere considerato una pratica sociale che implica la partecipazione ad un’impresa comune. L’identità di tale pratica è custodita da organi istituzionalizzati (legislazione, giurisdizione, amministrazione), che producono decisioni; dalla dottrina, con le sue concettualizzazioni e opinioni; ma anche da tutti in cittadini, che concorrono, variamente, alla configurazione e realizzazione di tale pratica. La cultura giuridica è frutto di un’opera collettiva, nella quale confluiscono orientamenti normativi, interpretazioni di testi, argomentazioni, costruzioni concettuali, princìpi, e contribuisce a formare il diritto.
2. Le sfide dell’emergenza
Il Covid-19 costituisce una sfida epocale produttiva di effetti sulla vita delle persone, della società, delle istituzioni. Con il suo incidere nell’ambito giuridico sollecita a riflettere sulle conseguenze di uno stato di emergenza che può condurre a notevoli mutamenti e che, se non governato alla luce dei princìpi fondamentali che caratterizzano i nostri ordinamenti, può comportare profonde alterazioni (si veda l’intervista di Franco De Stefano a Corrado Caruso, Giorgio Lattanzi, Gabriella Luccioli e Massimo Luciani: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/961-la-pandemia-aggredisce-anche-il-diritto - 2 aprile 2020). Il rischio, infatti, è che si consolidino tendenze volte a trasformare meccanismi pensati e costruiti per far fronte a situazioni contingenti in strumenti ordinari di funzionamento del sistema.
L’emergenza – come è stato sottolineato da più parti – non ha nulla a che vedere con l’eccezione. Lo stato di eccezione, nella teorizzazione schmittiana, rappresenta una rottura dell’ordinamento che è in netta contraddizione con il principio di legalità. Lo Stato di diritto, però, non ammette deroghe e ogni sua rottura equivale alla sua negazione. Lo stato di eccezione è quello che travolge (e stravolge) l’assetto costituzionale incidendo radicalmente sui diritti fondamentali, sull’articolazione dei poteri, sull’assetto delle fonti, esautorando gli organi dalle loro competenze normativamente stabilite e trasferendole ad autorità d’eccezione. L’emergenza, invece, riguarda momenti temporanei e particolari di necessità che vengono meno con la scomparsa delle circostanze fattuali che li giustificano.
Con riferimento alla pandemia da Covid-19 e alle misure prese per contenerla, limitazioni ai diritti e alle libertà in nome del diritto alla salute degli individui possono essere tollerate solo se viene rispettato il criterio della ragionevolezza, riguardante il corretto rapporto tra atti adottati e scopi perseguiti e la ricerca di soluzioni che comportino il minore stress possibile per la Costituzione (la sua minima, e solo temporanea, vulnerazione) e per tutti i beni e gli interessi che essa protegge (lo ha ben messo in luce Antonio Ruggeri nell’intervista di Roberto Giovanni Conti: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/942-scelte-tragiche-e-covid-19 - 24 marzo 2020). Le limitazioni, inoltre, devono essere proporzionate, non arbitrarie, e configurate attraverso decisioni prese secondo modalità legalmente previste, dunque entro i vincoli formali e sostanziali posti nell’ordinamento. Ciò richiede valutazioni di adeguatezza, pertinenza, congruità. Rilevano, al riguardo, le tecniche del bilanciamento, che consentono di risolvere i conflitti tra diritti in relazione alle specifiche situazioni, mantenendo però sempre la priorità, propria dello Stato costituzionale di diritto, dell’opzione assiologica della dignità della persona. Rimane, comunque, sullo sfondo, ma pesa come un macigno, il ruolo della riserva assoluta di legge come modalità basilare di garanzia in relazione ai diritti fondamentali. Tali diritti, nella nostra democrazia costituzionale, possono essere limitati soltanto attraverso la legge del Parlamento, vincolata al rispetto dei motivi (espressamente indicati dal testo costituzionale) che legittimano l’apposizione del limite per ogni singolo diritto. Così, valgono come limiti la sanità e l’incolumità pubblica in relazione alla libertà di domicilio (art. 14 Cost.); la sanità e la sicurezza per la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.). Emerge, in proposito, l’esigenza di recuperare la correttezza procedurale della produzione normativa, definendo il più possibile, nel tempo e nei contenuti, le deroghe e le sospensioni (si veda G. Brunelli, Democrazia e tutela dei diritti fondamentali ai tempi del coronavirus: www.giuri.unife.it/it/coronavirus/diritto-virale - 7 aprile 2020).
Molte, invero, sono le criticità della normativa emergenziale. Su di essa, in questi mesi, sono stati prodotti contributi di grande interesse e utilità, a testimonianza dell’importanza della funzione sociale dei giuristi. E a conferma che la società, complessivamente considerata, non può fare a meno di una cultura giuridica cui pertiene un impegno di vigilanza critica.
Le riflessioni e le analisi si sono concentrate sui diversi aspetti connessi alle ricadute della pandemia da Covid-19 sui vari ambiti ordinamentali. Ci si è trovati, in primo luogo, di fronte ad una produzione giuridica che ha introdotto una massa di imposizioni comportamentali, finalizzati a prevenire il contagio, invero limitative dei diritti fondamentali. Si tratta di una produzione giuridica che incide sul tema (costitituzionalistico, ma anche teorico-generale) delle fonti del diritto e delle tecniche normative utilizzate. In gioco, però, vi sono tante altre questioni che toccano il diritto civile (si pensi agli inadempimenti contrattuali, alle rinegoziazioni dei contratti, alla responsabilità per eventi lesivi e/o letali negli ospedali), il diritto penale (in relazione, ad esempio, alla valutazione dei comportamenti commessi in stato di necessità e alle condotte del personale sanitario), il diritto dell’esecuzione penale (con riguardo alla condizione dei detenuti negli istituti penitenziari), il diritto processuale, il diritto del lavoro (in relazione alla sicurezza dei dipendenti, ai licenziamenti, alle retribuzioni), il diritto tributario, il diritto amministrativo. Per non parlare del tema della privacy, riguardante l’uso delle tecnologie informatiche per il tracciamento e la sorveglianza della popolazione infetta e per il trattamento dei dati sanitari ai fini del suo censimento.
A tutto ciò si legano notevoli difficoltà interpretative, riflesso di una stratificazione normativa alluvionale, che incide sulla condotta dei cittadini e sull’attività degli operatori giuridici.
Emerge, qui, un aspetto saliente della vita del diritto, che tocca il tema dell’interdipendenza strategica e normativa. I cittadini, infatti, accettano e usano le regole giuridiche, come standards comuni di azioni, all’interno di una rete di aspettative stabili che consenta di esercitare l’autonomia personale in una logica d’interazione. I cittadini sanno che l’esistenza delle disposizioni giuridiche dipende da come essi comprendono cosa viene richiesto da tali disposizioni. Ma ciò dipende, a sua volta, da come si aspettano che i funzionari interpretino le disposizioni. Questi ultimi, a loro volta, devono comprendere e interpretare le disposizioni secondo quello che i cittadini si aspettano che essi facciano. Siamo di fronte ad una dinamica interattiva in cui la comprensione di ogni interlocutore dipende dalle aspettative e dalla comprensione degli altri. Tali aspettative non riguardano solo ciò che gli altri di fatto faranno, ma muovono anche dalla convinzione che gli altri siano in qualche modo obbligati a comportarsi in un certo modo e ad avere un certo tipo di aspettative, sicché è possibile legittimamente pretendere che essi si adeguino. La reciprocità è data dalla condivisione del carattere normativo dei significati intersoggettivi, entro cui gli individui articolano le loro intenzioni, le loro credenze, e pongono in essere i loro comportamenti (B. Pastore – F. Viola – G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 45, 48-50).
In risposta alla velocità di propagazione del coronavirus, e con una progressione temporale fulminea, sono stati adottati decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, decreti-legge, ordinanze ministeriali e conseguenti circolari applicative, ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile, ordinanze dei Presidenti delle Regioni e dei Sindaci, ordinanze prefettizie. Gli esiti di tale profluvio normativo mostrano il modo peculiare di funzionamento delle nostre istituzioni e la crisi che affligge il sistema delle fonti (ormai invero destrutturato) (in argomento mi limito a rinviare agli scritti di M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in “Rivista AIC”, 2, 2020, p, 109 ss., e A. Ruggeri, Il coronavirus, la sofferta tenuta dell’assetto istituzionale e la crisi palese, ormai endemica, del sistema delle fonti, in “Consulta online”, 1, 2020, p. 210 ss.). Le conseguenze sono state la confusione nei rapporti tra Stato e autonomie territoriali, l’incertezza delle competenze, con conflitti e sovrapposizioni che hanno determinato, non poche volte, scarsa efficienza, ma anche un senso di smarrimento nell’opinione pubblica, frastornata dal caos comunicativo e dalla diffusione di una quantità di informazioni di diversa origine e dal fondamento spesso non verificabile, con il connesso ampliamento dell’area dell’incomprensione. Ne è risultato un quadro affastellato e confuso che rende estremamente difficoltoso, per i cittadini, individuare i comportamenti leciti, distinguendoli da quelli vietati. A ciò si unisce la genericità delle prescrizioni che ricade sulla loro applicazione, potenziando la discrezionalità degli organi chiamati a darne esecuzione. Non è difficile immaginare che uno degli effetti di una tale situazione, foriera di conflitti interpretativi, sarà l’aumento dei contenziosi.
3. Una (possibile) tendenza inquietante
L’emergenza da Covid-19, per molti versi, fa “saltare” alcune coordinate generali e alcune rilevanti categorie giuridiche e fa emergere alcune condizioni di vulnerabilità che toccano l’ordinamento. Un inquietante indizio in tal senso mi pare possa essere rintracciato nella previsione del processo “da remoto”, introdotta dall’art. 83 comma 12 bis della legge n. 27 del 24 aprile 2020 di conversione del decreto-legge n. 18 del 17 marzo 2020, con integrazioni e modifiche dettate dal decreto-legge n. 28 del 30 aprile 2020.
Il collegamento “da remoto”, attuato grazie al sistema informatico, ha lo scopo di contemperare l’esigenza di assicurare il distanziamento sociale (rectius: umano) e quella di garantire lo svolgimento delle attività giudiziarie. Peraltro, molte sono le prospettive riguardanti l’impiego delle tecnologie informatiche per la gestione delle attività processuali giustificate da ragioni di efficienza (tra questi sicuramente rientrano la digitalizzazione degli atti processuali e la creazione di un fascicolo telematico dove possano convergere tutti i dati del procedimento, man mano che si dipana), così come molti sono i problemi che si aprono, superata la fase acuta dell’epidemia, con l’utilizzo dei mezzi informatici e telematici come strumenti per disegnare un ordinario nuovo regime del processo civile e penale (rinvio, sul tema, alle interviste di Franco De Stefano a Filippo Donati e Giorgio Spangher: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1051-la-giustizia-da-remoto-adelante-con-juicio-prima-parte - 1° maggio 2020, e a Giorgio Costantino e Massimo Orlando; https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1058-la-giustizia-da-remoto-adelante-con-juicio-seconda-parte - 2 maggio 2020).
Il punto riguarda, in questo ambito, il possibile utilizzo futuro del processo da remoto (a distanza) per la celebrazione delle udienze penali. Notevoli sono le perplessità che una simile prospettiva solleva (si vedano gli interventi di O. Mazza, Distopia del processo a distanza, in “Archivio penale”, 1, 2020, pp. 1-10, e di E. Bandiera, Il processo penale dallo ieros kuklov agli autómatoi: www.giuri.unife.it/it/coronavirus/diritto-virale - 29 aprile 2020). Il rischio – lo si ribadisce con riferimento alla giurisdizione penale – è che meccanismi pensati per far fronte ad una emergenza contingente possano diventare strumenti ordinari di svolgimento dell’attività giudiziaria, alterando la natura stessa del processo. Certamente la modifica dettata dall’art. 3 del decreto-legge n. 28 del 30 aprile 2020, e che prevede che le disposizioni dell’art. 83 comma 12 bis «non si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti» corregge, in parte, il tiro. È bene però che l’attenzione rimanga desta.
La smaterializzazione fisica dei luoghi connessa al processo a distanza produce una vulnerazione dei princìpi fondamentali riguardanti il diritto di difesa e il “giusto processo”, riconosciti nella Costituzione (art. 24 e art. 111), nonché nelle fonti internazionali e sovranazionali (si considerino gli artt. 10, 11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, l’art. 6 CEDU, l’art 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici).
Nel processo penale sono in gioco diritti e garanzie (indisponibili) che devono avere una consistenza materiale assicurata da uno spazio scenico tangibile. Il “giusto processo” è caratterizzato dal contraddittorio tra le parti, le quali, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale (ossia, sotto i suoi occhi, al suo cospetto), partecipano allo svolgimento dibattimentale (pubblico) nelle modalità di un’interazione dialettico-discorsiva. Il principio del contraddittorio caratterizza strutturalmente la fairness processuale. Un suo aspetto indefettibile è costituito dal diritto di difesa, posto che, ove mancasse la possibilità di difendersi, non vi sarebbe spazio per il confronto tra parti contrapposte, che “si fanno sentire” (e vedere) ”in presenza”, potendo esporre le ragioni proprie e controbattere quelle avversarie. Tale principio, però, assume una valenza che riguarda non solo la situazione dei portatori di interessi in conflitto, ma anche l’assetto della giurisdizione, collegandosi alla necessaria presenza dell’organo giudicante “terzo”, indipendente e imparziale, che decide dopo aver ascoltato e visto le parti su ogni questione di cui è investito. L’essenza del contraddittorio, infatti, sta proprio nel confronto di argomenti su ogni tema decisorio e nella pratica comunicativa espressa dalla regola audiatur et altera pars, avendo un essenziale valore epistemico in quanto metodo per la formazione della prova. Risulta pertanto difficile pensare ad una prova formata in un contesto di distanziamento, che esclude la partecipazione fisica all’udienza di tutti gli attori. Presenza fisica e presenza virtuale non sono fungibili. Non va dimenticato, inoltre, che il contraddittorio si pone come elemento indispensabile di controllo del procedimento che conduce alla decisione.
L’unità di luogo della celebrazione del processo rappresenta un tratto imprescindibile della giurisdizione. Soltanto nell’aula giudiziaria può realizzarsi l’interazione, ritualmente mediata e proceduralmente strutturata, tra soggetti, tutti contemporaneamente presenti. Qui trova consistenza il “giusto processo” come categoria ordinante di portata generale, clausola di giustizia procedurale, espressione della cultura della legalità nell’odierno Stato di diritto.
L’emergenza da Covid-19 non può – né deve – essere una scorciatoia per cambiamenti che possono incidere, talvolta considerevolmente, sul modo di essere e di funzionare dell’ordinamento. Il diritto può essere vulnerato. La cultura giuridica, fedele ai princìpi costituzionali che positivizzano i valori basilari della convivenza civile, è chiamata a curarne le ferite e a custodirne il senso.
Le radici della nostra democrazia e quel passato che è bene rievocare anche nel tempo increscioso della pandemia
di Antonio d’Andrea
Nella non semplice gestione dell’emergenza sanitaria che adesso ci riguarda e al di là della paradossale proposta avanzata – via facebook – da qualche politico di trasformare la ricorrenza della Liberazione nel ricordo cumulativo dei caduti di tutte le guerre e dei tanti deceduti proprio a causa del Covid 19 (proposta che mi pare si prefigga, e non è la prima volta, di negare il significato storico e istituzionale sino ad ora riconosciuto al 25 aprile nel nostro Paese), può aiutare ritornare a riflettere sul significato evocativo ed attualissimo di quella data nel contesto bellico di settantacinque anni fa.
Sommario: 1. La peculiarità della vicenda storica italiana e il superamento dello Stato autoritario. - 2. I rischi (inevitabili) delle democrazie occidentali e la ricorrente tentazione di risposte autoritarie. - 3. La riscoperta dei vincoli solidaristici interni (non solo la richiesta della solidarietà europea).
1.La peculiarità della vicenda storica italiana e il superamento dello Stato autoritario.
Non credo si possa sostenere – e in ogni caso non mi sentirei di farlo – che la Storia è “attendibile” solo se riesce ad essere “oggettiva”, ossia scevra da qualsiasi pretesa valutativa tale da offrire una ricostruzione ragionata degli eventi secondo una prospettazione “di parte”. La Storia è in effetti molto più della mera cronaca, e lo storico deve essere in grado anche di fornire una interpretazione critica come pure una valutazione di contesto degli accadimenti manifestatisi nella realtà: da questo punto di vista si tratta di un mestiere complicato che sarebbe bene lasciare a mani sapienti e avvezze a maneggiare con cura un insieme di dati da incrociare e da soppesare con criteri diversi, e che possono investire sensibilità peculiari (giuridica, economica, sociologica), tutte reciprocamente interferenti. La stessa maggiore o minore attenzione che si ritenga di riservare ad alcune vicende può costituire, alla fine, una precisa opzione valutativa indirizzata, se si vuole, ideologicamente. Ma i fatti, ancorché interpretati, restano comunque fatti!
Non essendo uno storico mi è comunque consentito soffermarmi su alcuni episodi che, mi pare, testimonino il formidabile passaggio registratosi nell’ordinamento italiano da un assetto del tutto estraneo ai principi del costituzionalismo occidentale (già sviluppatosi altrove e non solo nei suoi presupposti teorici, pur con tante contraddizioni e arretramenti a partire dalla fine del XVII Secolo) a una democrazia evoluta, quale è oggi il nostro Paese, in grado cioè, almeno in astratto, di limitare l’esercizio del potere politico e garantire diritti e libertà alla persona in quanto tale.
Tutto ciò premesso, partendo dalla proclamazione effettuata dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI), il 25 aprile 1945, in ordine alla mobilitazione generale in vista della liberazione di tutti i territori ancora sotto il controllo delle truppe armate tedesche – presenti nel nostro Paese che, sotto il regime fascista, aveva ritenuto di condividere la scelta bellica promossa dal governo nazista hitleriano – , l’anniversario della Liberazione rappresenta senz’altro il consolidamento della nuova, diversa pagina della nostra storia nazionale che, come è noto, tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, si era instradata verso il superamento di quel regime, prima defenestrando il capo del Governo e duce del fascismo, Mussolini e poi concludendo l’armistizio con gli Stati alleati belligeranti contro la Germania. Storia nazionale che vedrà, al termine del Secondo conflitto mondiale, in poco più di due anni, l’avvento della democrazia repubblicana incentrata sulla Costituzione in vigore dal 1 gennaio 1948.
Come noto, questo giorno che si identifica con la Liberazione è equiparato dall’art.2 della l.27 maggio 1949 n.260, alla Festa Nazionale che ricade il 2 giugno (art.1 l.n.260/1949) e che, a sua volta, rievoca quanto accaduto l’anno successivo, nel 1946, allorché il popolo italiano a suffragio universale optò per la forma repubblicana dello Stato superando quella monarchica che aveva retto sino a quel momento il Regno d’Italia e contestualmente elesse l’Assemblea Costituente la quale avrebbe deliberato, il 22 dicembre 1947, con una larghissima maggioranza (solo 62 voti contrari su 515 votanti) la Costituzione del “nuovo” Stato. Una Costituzione a giusta ragione definita di “compromesso” sulla quale costruttivamente convennero, anche per la lungimiranza e l’autorevolezza delle rispettive leadership, i partiti antifascisti che avevano occupato la scena politica oltre a conquistare larghi strati dell’elettorato, i quali erano espressione di diverse e ben riconoscibili sensibilità ideologiche che ricomprendevano il variegato filone cattolico, quello della sinistra prevalentemente marxista nonché quel che restava del liberalismo pre-fascista.
Da un lato, dunque, la Liberazione del territorio italiano dalla presenza di truppe tedesche, divenute forze militari di occupazione concentrate al Nord una volta liberata Roma il 4 giugno 1944 e contrastate sul territorio da formazioni della Resistenza armata, nonché l’abbattimento della residuale presenza fascista – anche con metodi sommari e violenti – rappresentata da uno Stato fantoccio quale era la Repubblica di Salò a capo della quale i tedeschi avevano riproposto lo stesso Mussolini, liberandolo con un “blizt” dalla prigionia cui era stato confinato; dall’altro lato, il proposito di edificare un diverso Stato democratico in linea con il costituzionalismo occidentale e in particolare europeo (si pensi a tutta la fase c.d. transitoria, con la tregua istituzionale, dopo il ritiro del Re , Vittorio Emanuele III e la nomina del figlio Umberto alla Luogotenenza del Regno, tra la monarchia e i partiti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale i quali si assunsero la responsabilità di gestire i rapporti con gli Alleati preparandosi alla nuova fase costituente già prevista con il decreto legge luogotenenziale 25 giugno 1944 n.151): quelle richiamate rappresentano vicende consequenziali di un intreccio storico avviatosi nell’ordinamento agli inizi degli Anni Venti con il tracollo del debole Stato liberale e la progressiva implementazione del regime fascista sotto le insegne della pallida monarchia sabauda e, sul piano costituzionale, dello stesso Statuto Albertino mai formalmente superato durante il ventennio. In ogni caso lo sbocco finale del rievocato intreccio, o se si vuole, il suo lieto fine mi pare inequivocabilmente rappresentato dalla svolta costituzionale impressa all’ordinamento italiano, una volta conquistata la Liberazione.
Le complicazioni del tempo presente non possono e non devono far dimenticare il doloroso travaglio che ha investito il nostro Paese prima che potesse approdare, sostanzialmente dopo aver perduto la guerra nella quale era entrato a fianco dell’alleato tedesco in seguito abbandonato, ad una sponda democratica lasciandosi così alle spalle un modello “semplificato” di organizzazione statuale che accentrava nelle mani di un capo assoluto il potere di indirizzo politico al di fuori di qualsiasi forma di dialettica istituzionale a maggior ragione dopo il superamento dell’elettività della Camera (ovviamente rappresentativa della porzione di elettorato maschile cui si attribuiva il diritto di voto) e la sua sostituzione con la Camera dei fasci e delle corporazioni. Ed è perciò superfluo rievocare la compressione dei classici diritti di libertà come pure le persecuzioni nei confronti degli oppositori e le vergognose politiche perseguite sul piano interno (si pensi alle leggi razziali) e su quello internazionale di cui si è detto.
L’antifascismo (XII disp. trans. Cost.) come pure il ripudio di qualsiasi totalitarismo (è nota la promozione sul piano costituzionale del pluralismo, a partire dal riconoscimento del ruolo essenziale dei partiti politici vincolati al rispetto, quantomeno all’esterno, del “metodo democratico”, art. 49 Cost., e dalla garantita autonomia dei diversi livelli di governo territoriale, a partire dalle Regioni configurate quali enti di natura politica in grado di utilizzare la leva della legislazione, art. 117 Cost.), costituiscono, pertanto, a partire dall’entrata in vigore della vigente Costituzione, caratteri identificativi e principi irrinunciabili – beninteso insieme ad altri riguardanti i diritti fondamentali e gli obiettivi di riequilibrio economico-sociale – dell’ordinamento giuridico italiano.
2.I rischi (inevitabili) delle democrazie occidentali e la ricorrente tentazione di risposte autoritarie.
Il tema del momentaneo “regresso” delle opportunità offerte dai sistemi democratici, incluso il nostro, si è già posto da ben prima che il pericolo per il mantenimento dei livelli di libertà e autodeterminazione provenisse dal rapido diffondersi della insidiosa pandemia che, come è noto, obbliga le autorità politiche a considerare e ad adottare misure afflittive che costituiscono una vera e propria sospensione delle nostre abitudini oramai forgiate dalla piena fruizione di un elevato tasso di libertà assicurato dalle norme costituzionali. Ogniqualvolta si registrano eventi (sia che si tratti di episodi che abbiano a che fare con azioni violente e sanguinarie ispirate da finalità sovversiva interna o da strategia terroristica internazionale, sia che si tratti di emergenze legate a catastrofi naturali o, come nel caso del coronavirus, epidemiologiche ancora da inquadrare esattamente nelle sue cause scatenanti) che per essere fronteggiati richiedono comunque il concretizzarsi del potere reattivo delle autorità statuali (quanto non della stessa Comunità internazionale), si è indotti a domandarsi entro che misura sarebbe possibile derogare, certo pro-tempore, a regole e a procedure ordinarie (dunque conformi al diritto interno e internazionale) così da preservare ovvero meglio garantire la conservazione della tenuta democratica dell’ordinamento – nel caso della pandemia appare piuttosto in gioco, almeno al momento, la salute pubblica, sembrerebbe oltretutto con un differente grado di possibile compromissione a seconda dell’età e del luogo dove si vive – minacciata pericolosamente da una imprevista evenienza che, per essere favorevolmente risolta, potrebbe richiedere “misure eccezionali”, appunto extra ordinem.
Si tratta a mio avviso di una questione mal posta.
In effetti anche nella non semplice gestione dell’emergenza sanitaria che adesso ci riguarda e al di là della paradossale proposta avanzata – via facebook – da qualche politico[1] di trasformare la ricorrenza della Liberazione nel ricordo cumulativo dei caduti di tutte le guerre e dei tanti deceduti proprio a causa del Covid 19 (proposta che mi pare si prefigga, e non è la prima volta, di negare il significato storico e istituzionale sino ad ora riconosciuto al 25 aprile nel nostro Paese), può aiutare ritornare a riflettere sul significato evocativo ed attualissimo di quella data che, nel contesto bellico di settantacinque anni fa, certamente metteva a fuoco un’impellenza da affrontare e risolvere in via di fatto per la provvisoria e clandestina autorità di governo, il CNLAI. Occorre dunque prestare attenzione alla rilevante distinzione che passa tra il potere di fatto, che non è un potere giuridico ed è sostanzialmente non comprimibile (trattasi del governare estemporaneamente gli eventi, secondo “impeti” che, come nel caso della guerra di Liberazione, potremmo definire di natura rivoluzionaria) e l’esercizio di potere giuridico che, per definizione, viene circoscritto in primo luogo dalle regole costituzionali che intervengono, una volta cessato l’impeto rivoluzionario, e si renda necessaria la stabilizzazione del quadro ordinamentale. Come in effetti è accaduto dopo la Liberazione con l’approvazione della nostra Legge Fondamentale!
La Liberazione, oltretutto, proprio quest’anno, richiama più che mai quella frontale e ardimentosa contrapposizione resistenziale nei confronti della barbarie nazifascista messa in atto dai tanti giovani e giovanissimi di allora che hanno vissuto da vicino la fondamentale svolta costituzionale per il nostro Paese (alcuni dei quali, come si è tristemente appreso, sono stati sottratti alla vita e alla diretta testimonianza di quella straordinaria stagione di lotta per la democrazia proprio dal coronavirus, i cui effetti letali, come viene ripetutamente detto, tendono ad essere riservati alle persone più anziane).
Resta dunque l’ impegno morale nei confronti di quella straordinaria generazione di continuare a ricordare che la democrazia rappresenta ancora una relazione formalizzata dalle norme costituzionali tra chi esercita legittimamente il potere e coloro i quali sono tenuti a conformarsi ai “comandi”; ciò non toglie che non sia affatto semplice assumersi la piena responsabilità di fronteggiare in modo efficace eventi eccezionali - quale quello che ci riguarda da ultimo - senza oltrepassare i confini costituzionali che delimitano l’azione di indirizzo politico e non ne consentono impropri sviamenti tanto sul piano formale quanto su quello sostanziale. Tuttavia è bene ricordare che governare una Comunità statuale significa assumersi una gravosa responsabilità, che dovrebbe sempre rievocare, in quanti sono chiamati ad esercitarla, lo sforzo intrapreso e il prezzo pagato dalle passate generazioni per consegnarci la democrazia che oggi conosciamo e che presuppone l’uso controllato del potere politico da chiunque esercitato e in qualunque situazione ci si venga a trovare.
3.La riscoperta dei vincoli solidaristici interni (non solo la richiesta della solidarietà europea).
Partendo dalla stretta attualità che implacabilmente ci ricorda come a causa della pandemia le manifestazioni pubbliche quest’anno, in occasione della Festa della Liberazione, finiscano per essere condizionate dalle note disposizioni che obbligano a “restare a casa” e che comporteranno il non poter frequentare la “piazza” da parte di chi desidererebbe farlo, si potrebbero forse più facilmente riscoprire “vincoli solidaristici” che la vigente Costituzione limpidamente contempla e, in verità, impone, collegando il riconoscimento dei diritti individuali e l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art.2). Se, come naturale e persino giusto, si pretende concreta “solidarietà” dalle Istituzioni europee e dagli Stati dell’Unione a causa delle maggiori afflizioni subite dall’Italia per la deflagrazione del virus qui da noi più che altrove , è bene ricordare che non ci si può sottrarre agli stessi impegni solidaristici interni in virtù dei quali, ad esempio, il “peso economico” della crisi che scaturisce dalla complicata gestione dell’epidemia sarebbe naturale che gravasse su quanti possono (singoli o categorie professionali) meglio sopportarlo. Egualmente sarebbe opportuno ricordare che l’emergenza nazionale in atto, se finisce per interessare alcuni territori più di altri – a prescindere dal perché ciò è accaduto e accade e dalle specifiche responsabilità della classe politica regionale coinvolta – non dovrebbe tanto essere affrontata elevando steccati tra zone rosse chiuse in entrata e in uscita e la restante parte dello Stato, da considerare pure zona impermeabile per ragioni opposte di contenimento del contagio (il che, ovviamente, potrebbe essere, specie nel breve periodo, una scelta logica e costituzionalmente giustificata) quanto piuttosto promuovendo la concreta disponibilità dei territori meno colpiti nel sobbarcarsi, per come possibile, il peso non necessariamente economico – ad esempio assistenziale rispetto alla cura e/o alla degenza post-ospedaliera dei malati e dei convalescenti o, più genericamente, di ausilio gestionale – delle Regioni più esposte agli effetti dell’epidemia, così da contribuire ad alleviare le difficoltà sopportate da alcune popolazioni selettivamente martoriate, al contrario di altre, dalla diffusone dei contagi. Anche questa tipologia di relazioni solidaristiche tra Regioni dell’unica e indivisibile Repubblica italiana - così recita l’art.5 Cost. – dovrebbe sollecitare la Festa della Liberazione del 2020; Liberazione della quale ha beneficiato l’intero Paese, sebbene la decisiva Resistenza armata, come ricordato, sia stata opera prevalente di quanti proprio nel Settentrione – che oggi conosce la maggior parte dei deceduti per effetto del coronavirus – si sono battuti a costo della vita per la conquista delle libertà democratiche di tutto il popolo italiano, anche di quella parte che, al Centro-Sud, nell’aprile 1945, non aveva già più la necessità di “andare in montagna” e battersi contro il comune nemico da sconfiggere per rifondare democraticamente lo Stato.
[1] Il quotidiano La Repubblica del 18 aprile 2020 (“Polemica sul 25 aprile, Fratelli d’Italia: ‘Ricordiamo i caduti di tutte le guerre e del Covid, la canzone del Piave al posto di Bella ciao’ “), ha riportato una dichiarazione del sen. La Russa in questi termini:” Con una diretta Facebook insieme a Edoardo Sylos Labini e ad alcuni parlamentari abbiamo avanzato una proposta rivolta a tutti, senza distinzioni politiche e culturali: da quest’anno il 25 aprile diventi, anziché divisivo, giornata di concordia nazionale nella quale ricordare i caduti di tutte le guerre, senza esclusione alcuna. E in questa data si accomuni il ricordo di tutte le vittime del Covid 19 che speriamo cessino proprio in aprile. Sarebbe il modo migliore per ripartire in una Italia finalmente capace, dopo 75 anni da quel lontano 1945, di privilegiare ciò che ci unisce e che ci rende tutti orgogliosi di essere italiani. Nel ricordo dei caduti, chi vorrà, sabato prossimo potrà listare a lutto un tricolore e cantare la canzone del Piave che da sempre le Forze armate dedicano ai caduti di ogni guerra”.
Contratto e Covid-19. Dall'emergenza sanitaria all'emergenza economica.
Vincenzo Roppo e Roberto Natoli
Giustizia Insieme ha il piacere di raccogliere le riflessioni di due autorevoli studiosi del diritto civile che indagano a tutto tondo il rapporto contrattuale per coglierne sapientemente la forza di resistenza, ma anche il lato più debole e vulnerabile rispetto agli effetti prodotti dall’emergenza epidemiologica.
L’analisi di Roppo e Natoli si alimenta in questo modo di contributi importanti che per un verso indugiano sulle risposte di ordine normativo della legislazione dell’emergenza per verificarne la congruità e coerenza con l’originario impianto -prevalentemente codicistico- del contratto e, per altro verso, si soffermano sul come la fissità del regolamento negoziale voluto dalle parti in una condizione di normalità possa essere messa in discussione per le sopravvenienze pandemiche per l’appunto non soltanto correlate a fattori sanitari, ma anche e soprattutto rivolte a scrutinare il mutamento di contesto economico e sociale nel quale il rapporto contrattuale è destinato a vivere.
La ricerca di risposte ulteriori rispetto a quelle che le parti avevano predeterminato, all’atto della conclusione del contratto, con un orizzonte non comprensivo dell’emergenza, volge così lo sguardo attento dei due giuristi verso altri territori che mettono in gioco le categorie giuridiche tradizionali, attingendo ai principi costituzionali, croce e delizia dei civilisti.
In questa prospettiva, il rinvio ai canoni della solidarietà e della buona fede sembra così confermare una prospettiva che amplia il contenuto del rapporto e che, pur guardando comunque alla libertà negoziale come elemento cardine della negoziazione, affida al legislatore ed al decisore di turno ruoli e compiti di straordinaria rilevanza, mettendo non soltanto in discussione la fisionomia stessa dell’intesa e di chi è chiamato a ridefinirla, ma anche delineando una configurazione del contratto che entra in dialogo con il tradizionale dogma della «sanctity of contract».
Il tempo futuro sarà probabilmente quello in cui si misureranno le spinte che Roppo e Natoli hanno sapientemente ipotizzato, senza peraltro dimenticare che l’impianto codicistico venuto alla luce nel ’42 ha resistito, indenne, alla seconda guerra mondiale proprio attraverso l’opera adeguatrice del diritto vivente, capace di introiettare progressivamente i canoni costituzionali all’interno del contratto, offrendone una visione idonea a salvaguardare comunque i diritti della persone, oggi più che mai considerati per l’effetto concentrico prodotto dalle Carte nazionali e sovranazionali.
Il compito del giurista e del giudice si arricchirà dunque, come sempre più spesso siamo soliti constatare, di ulteriori complessità.
Forse alla teorizzazione , assai intrigante, seguirà ancora una volta un segmento non secondario che andrà lasciato ai singoli casi ed alle dinamiche che, volta per volta, consentiranno di misurare i principi, gli istituti e le categorie vecchie e nuove.
Roberto Conti
1) Qual è, a vostro avviso, l’impatto di Covid-19 sul diritto dei contratti? Si apre una stagione dell’emergenza contrattuale?
Vincenzo Roppo
Il contratto su cui l’emergenza Covid-19 impatta con il massimo di forza e di estensione è ovviamente il contratto di lavoro. L’impossibilità di rendere materialmente e materialmente ricevere nei modi tradizionali la prestazione lavorativa altera nel profondo il fisiologico svolgimento del rapporto contrattuale, inducendo laddove possibile una significativa trasformazione delle sue modalità (smart working). Per altro verso, la situazione di difficoltà economica e finanziaria in cui molte imprese si trovano (e/o si troveranno al momento della “ripresa”) minaccia di pregiudicare la continuità aziendale e con essa la conservazione del rapporto (licenziamenti), chiamando massicciamente in causa gli ammortizzatori sociali che lo presidiano. Tutto questo non in modo puntiforme, ma a scala di massa. I giuslavoristi avranno di che farsi fumare il cervello a ripensare la loro materia, ben più dei civilisti.
Quanto ai contratti di “puro” diritto civile o commerciale, direi che Covid-19 segna il trionfo dei regimi delle sopravvenienze (impossibilità ed eccessiva onerosità sopravvenuta) e dell’inadempimento.
Penso soprattutto all’inadempimento di obbligazioni pecuniarie: banalmente, le imprese che contano su flussi di cassa generati dall’attività quotidiana, nel momento in cui subiscono il blocco dell’attività e quindi il blocco dei flussi finanziari in entrata, si trovano in un difetto di liquidità che gli rende impossibile pagare i fornitori di beni e servizi. Noi insegniamo che l’impotenza finanziaria non giustifica l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, assistite da un regime di responsabilità oggettiva che prescinde per definizione dalla colpa del debitore. Ma saremmo disposti ad applicare senza battere ciglio questo principio ai mancati pagamenti che ho appena richiamato? O invece la straordinarietà della “fattispecie Covid-19” ci indurrebbe a cercare vie concettuali per sfuggire al suo rigore?
Per ciò che riguarda le prestazioni contrattuali non pecuniarie, Covid-19 è la tipica “sopravvenienza” che da un lato giustifica l’inadempimento sollevando da responsabilità il debitore inadempiente, dall’altro può mettere in discussione il rapporto contrattuale: nella sua persistenza (prospettiva risolutoria) ma anche e soprattutto nei suoi contenuti (modifiche della prestazione dovuta).
Il produttore che non esegue le forniture promesse in quanto la capacità produttiva della sua impresa è azzerata per l’ordine dell’autorità che chiude le aziende, è evidentemente esonerato da responsabilità per l’impossibilità di prestare – a lui non imputabile – determinata dal factum principis. E per sapere se il contratto si scioglie o vive, si applicherà la norma sull’impossibilità temporanea (art.1256, comma 2 c.c.).
Covid-19 moltiplica altresì le fattispecie di impossibilità sopravvenuta ex latere creditoris, quando cioè la sopravvenienza mette il creditore nell’impossibilità di fruizione della prestazione: fattispecie non prevista normativamente, ma trattata in giurisprudenza secondo criteri che l’accostano alla disciplina della sopravvenuta impossibilità di prestare. Del tema si è occupato specificamente il legislatore dell’emergenza, con norme che ricorderemo più avanti.
E chissà che per certe situazioni non possa venire in gioco la vecchia buona figura della presupposizione. Penso ai contratti di locazione immobiliare. Per le locazioni abitative la pandemia valorizza la prestazione attesa dal conduttore (state tutti a casa!). Esattamente il contrario per le locazioni aziendali: se l’attività d’impresa è bloccata, il conduttore non se ne fa nulla di avere a disposizione l’immobile; e se ciononostante paga il canone, questa per lui è una perdita secca, senza corrispettivo di utilità.
Ebbene, per queste ultime non potrebbe soccorrere la presupposizione? Forse che il contratto non è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva? Forse che la fattispecie non è abbastanza simile ai coronation cases (locazione di finestre per assistere al corteo reale, poi cancellato per indisposizione del sovrano) che si considerano un po’ i progenitori – in ambiente di common law – della presupposizione di diritto continentale? E se si applica la presupposizione, quali le conseguenze sul rapporto contrattuale? Magari a quest’ultimo interrogativo mi capiterà di rispondere con la prossima domanda.
Infine. Nelle cronache sportive di queste settimane si è letto che Roberto Stellone, allenatore dell’Ascoli, è stato “esonerato” dalla società (e sostituito in panchina da Guillermo Abescal fino a quel momento allenatore della Primavera) con la motivazione che Covid-19 avrebbe determinato a carico della società la “eccessiva onerosità” del rapporto col tecnico. Per dare un giudizio bisognerebbe saperne di più.
Roberto Natoli
Indubbiamente sì. Covid-19 ha messo in crisi intere filiere produttive e le filiere produttive sono regolate da contratti. L’impossibilità di adempiere prestazioni contrattuali — o impedite per fatto dell’autorità, o impedite di fatto da difficoltà finanziarie impreviste e imprevedibili — ha generato un pernicioso effetto domino. L’emergenza, dunque, non riguarda il singolo contratto e sarebbe sbagliato intenderla in modo atomistico. Tanto per dire che, di fronte a un’emergenza sistemica, il diritto contrattuale è niente più che un ufficiale di complemento per un duplice ordini di ragioni. A un livello generale, perché è un diritto della microrelazione economica, tendenzialmente disinteressato all’intrecciarsi delle relazioni contrattuali tra soggetti diversi (pur se si registra qualche apertura recente, ad esempio in tema di prestiti personali finalizzati, in cui l’inadempimento del fornitore reagisce, travolgendolo, sul finanziamento: art. 125-quinquies TUB). A un livello particolare, perché, almeno nella parte generale (la disciplina dei contratti tipici è, infatti, assai più variegata), i rimedi sinallagmatici prestano poca attenzione alla “cura” del contratto, privilegiando opzioni risolutorie: di fronte all’alterazione dell’economia dello scambio (per impossibilità o per eccessiva onerosità sopravvenute della prestazione), la tradizionale risposta codicistica è nel senso di sciogliere il vincolo, piuttosto che di mantenerlo in vita, adeguandolo al mutato scenario.
Rispetto all’emergenza economica figlia dell’emergenza sanitaria generale, i contratti sono, al più, uno strumento di attuazione della politica economica generale. Lo sono, in particolare, i contratti di credito, posto che l’helicopter money, cioè il trasferimento diretto di risorse monetarie, è stato attuato solo in favore delle famiglie (la nota misura dei 600 euro), mentre, per il trasferimento alle imprese, la cinghia di trasmissione delle politiche economiche emergenziali è offerta, more solito, dalle banche. In questo scenario, un ruolo determinante hanno le regole di condotta precontrattuale: penso, anzitutto, alla valutazione del merito di credito, che oggi, nell’emergenza, dovrebbe rispondere a criterî meno stringenti di quelli tradizionalmente utilizzati, e ciò a maggior ragione in presenza di garanzie forti come quella statale, diretta e/o indiretta (per il tramite della SACE). È notizia di stampa che le procedure standardizzate con cui operano le banche rappresenta però un grave ostacolo all’erogazione di credito “emergenziale”, lasciando già intravedere l’ampio contenzioso che con ogni probabilità si aprirà nel dopo emergenza, quando non poche imprese lamenteranno di non essere state prontamente soccorse dal sistema bancario (sul tortuoso iter nel quale si imbatte un’impresa che abbia diritto al credito agevolato, tutt’altro che semplificato, v. Dario di Vico sul Corriere Economia del 20 aprile 2020: Coronavirus e decreto liquidità: cosa si chiede a un’azienda per avere il prestito).
D’altro lato, però, ci sono i contratti in essere, “pensati” per la normalità economica e stravolti dall’emergenza, il cui funzionamento si è inceppato a causa del lock down: rispetto ai quali le recenti regole dettate dal legislatore d’urgenza mi sembrano ancora più inappaganti delle regole codicistiche. Ma di questo dirò più avanti.
2) In che modo i principi costituzionali, oggi, possono venire in soccorso del civilista?
Vincenzo Roppo
Quali principi? Non ho esitazione nell’indicarne uno su tutti gli altri, come particolarmente prezioso per gestire le problematiche civilistiche – e soprattutto quelle contrattuali – aperte da Covid-19: il principio di “solidarietà… economica e sociale” che l’art. 2 Cost. indica come materia di “doveri inderogabili” cui tutti sono tenuti.
Proviamo ad applicarlo al caso della locazione non abitativa, vanificata per il conduttore dall’impossibilità di usare l’immobile aziendale; e immaginiamo di approdare all’idea che – in forza della presupposizione – non sia civilisticamente né razionale né giusto fare finta di nulla, cioè lasciare che il contratto proceda indisturbato, e che il conduttore (abbia o non abbia la possibilità di usare l’immobile, poco importa) continui a essere tenuto al pagamento del canone contrattuale. E che si debba trovare una soluzione diversa, più conforme a razionalità e giustizia. Bene, ma quale?
Mi viene da rispondere: una soluzione ispirata al principio costituzionale di solidarietà. Una soluzione cioè che parta dal rilievo che il fenomeno della pandemia non solo non è imputabile né all’una né all’altra parte, ma per la sua natura “globale” neppure può dirsi intervenuto nella sfera di una parte piuttosto che nella sfera dell’altra. E su questa base allochi le conseguenze negative in modo appunto “solidaristico”, secondo la logica per cui le perdite derivanti dall’evento siano sopportate non da una sola parte e totalmente evitate dall’altre, ma distribuite “un po’ per uno”.
Questa impostazione da un lato esclude che il rapporto contrattuale resti intatto e proceda come se nulla fosse, perché il risultato sarebbe addossare tutta la perdita al conduttore, mentre il locatore ne uscirebbe totalmente immune da perdite. Ma a mio avviso dovrebbe escludere anche un’indiscriminata facoltà del conduttore di sciogliere il contratto (salve, naturalmente, le eventuali previsioni che gli accordino un diritto di recesso): una soluzione che al contrario metterebbe l’intero peso della sopravvenienza di Covid-19 a carico del locatore.
Come può tradursi in regole operative? Limitandomi a un paio di indicazioni grossolane (un’esplorazione più approfondita della questione è offerta, peraltro in prospettiva un po’ diversa, da A. A. Dolmetta, Locazione di esercizio commerciale (o di studi professionali) e riduzione del canone per misure di contenimento pandemico, in il caso.it, 23 aprile 2020), direi così:
* accordare al conduttore, interessato a proseguire la locazione in vista della “riapertura”, una riduzione del canone per il tempo dell’impossibilità di utilizzare l’immobile (di quanto? in mancanza di altri più appropriati e attendibili criteri, direi del 50%, espressione aritmetica di una “solidarietà” perfettamente paritaria);
* se invece il conduttore fosse interessato a chiudere il rapporto, sottoporre la sua pretesa risolutoria a uno scrutinio secondo buona fede, che porti a respingerla tutte le volte che si riveli come una pretesa puramente opportunistica (cioè tutte le volte che lo sbocco risolutorio non sia giustificato dall’incidenza di Covid-19 sul business del conduttore, ma corrisponda a qualche suo particolare interesse – non tutelato dal contratto – che prescinde dall’evento pandemico).
Ho richiamato la buona fede: ed è noto che i migliori maestri legavano strettamente la buona fede civilistica alla solidarietà costituzionale.
Roberto Natoli
Premetto che non ho mai nutrito particolare affezione per l’uso che dei princìpi costituzionali si è fatto negli ultimi anni, nel ragionamento civilistico non solo teorico ma, soprattutto, pratico. Sostengo da tempo l’idea (che ancora recentissime pronunce della Cassazione, come quella delle sezioni unite sulle c.d. nullità selettive, mi confermano) che l’evocare i princìpi costituzionali serva fin troppo spesso a sottrarsi alla fatica del concetto, raggiungendo per vie brevi soluzioni che si potrebbero razionalmente argomentare attraverso il richiamo puntuale a norme positive. Tanto premesso, sono però convinto che se c’è un momento nel quale i princìpi costituzionali possono venire in soccorso del civilista, quel momento è l’attuale. E non mi riferisco soltanto al principio di solidarietà, giustamente evocato dai non pochi autori (me compreso: v. Benedetti – Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it, Editoriale del 25 marzo 2020) che si sono fin qui cimentati nel tentativo di articolare riflessioni civilistiche per affrontare il tempo dell’emergenza; penso, forse ancor prima, al principio lavorista, fondativo della nostra comunità repubblicana, dal quale, credo, emergano fondamentali corollarî per affrontare il tempo attuale e quello che verrà. Ho già detto che la crisi dei contratti è una crisi di sistema, conseguente alla drammatica contrazione del prodotto interno lordo nazionale ed estero: sì che la contrazione della ricchezza prodotta si riflette direttamente sull’intera catena produttiva, coinvolgendo indistintamente tutti i suoi anelli. Ora, di fronte a una simile emergenza, è necessario operare una scelta di fondo e decidere chi, e in che misura, debba sopportare una distruzione di ricchezza che a nessuno può essere imputata. Trattandosi di una scelta di fondo, non operabile tramite il richiamo a norme e istituti pensati per la normalità economica, l’interprete non può che farsi guidare dalle opzioni di vertice dell’ordinamento giuridico. La prima delle quali è la tutela del lavoro, in tutte le sue forme (subordinato o autonomo). Se la possibilità del lavoro si comprime per fatti straordinari e imprevedibili, non si può chiedere al lavoratore di attingere ai propri risparmi per preservare la possibilità dell’attività futura. Così, per esemplificare e dare corpo al ragionamento: nel conflitto tra il proprietario dell’immobile che reclama il suo canone e il conduttore che oppone la chiusura (di diritto o semplicemente di fatto: si pensi ai professionisti legali, la cui attività giudiziale è stata sostanzialmente sospesa) dell’attività, accordare tutela al proprietario, sul rilievo che l’obbligazione di corresponsione del canone, avendo natura pecuniaria, non è mai impossibile, significa privilegiare, contro i principi fondativi del sistema, la rendita sul lavoro. Con l’aggravante che, superata l’emergenza, la rendita potrà riprendere il suo corso, mentre il lavoro potrà nel frattempo essere scomparso. Ed è probabilmente superfluo aggiungere che nel prossimo futuro, considerato il crescente indebitamento cui lo Stato dovrà ricorrere per affrontare l’attuale fase avversa del ciclo economico, occorrerà fare di tutto per preservare ogni attività capace di creare ricchezza e produrre gettito fiscale.
3) Come giudicate le prime risposte normative in materia privatistica?
Vincenzo Roppo
La legislazione dell’emergenza Covid-19 ha toccato diverse aree del diritto privato (lato sensu inteso): dalla già menzionata materia del lavoro alla materia societaria (blocco degli obblighi di ricapitalizzazione a fronte di perdite di capitale, neutralizzazione del criterio di continuità aziendale, disapplicazione della postergazione dei finanziamenti soci e intragruppo); dalle crisi d’impresa (slittamento di un anno dell’entrata in vigore del “codice Rordorf”) a numerosi interventi in materia contrattuale. Ha minacciato di toccare anche la responsabilità sanitaria, e lo avrebbe fatto se fossero passati emendamenti intesi a deresponsabilizzare operatori e strutture sanitarie per eventi infausti legati al contagio da coronavirus.
Io però vorrei concentrarmi sugli interventi nella materia contrattuale. La previsione in apparenza più notevole, per la sua portata sistemica, è quella introdotta dall’art. 91 del decreto legge 18/2020, per cui “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Norma che (a parte le perplessità suscitate da alcuni passaggi, come quello relativo alle “decadenze”) mi sembra avere due difetti. Da un lato, il richiamo all’art. 1218 c.c. appare perfettamente superfluo. Anche in assenza di essa, quale giudice – senza bisogno di sentirselo dire espressamente dal legislatore - avrebbe mancato di “valutare” il rispetto delle misure di contenimento del contagio (impossibilità di spostamenti, blocchi produttivi ecc.) quali possibili cause di esclusione della responsabilità? Dall’altro lato, il richiamo all’art. 1223 c.c. si presenta oscuro e difficilmente decifrabile. La norma riguarda il nesso di causalità “giuridica” (fra danno-evento e danno-conseguenza) ai fini della determinazione del risarcimento dovuto e della necessaria selezione fra danni risarcibili e non risarcibili. Cosa significa che il lockdown deve essere valutato al fine di escludere la risarcibilità del danno? L’unica risposta sensata sembra essere: che il lockdown interrompe il nesso di causalità giuridica, rendendo irrisarcibili i danni che il creditore (o in genere il danneggiato) avrebbe ugualmente subito per effetto dell’inadempimento (o dell’illecito extracontrattuale) anche in assenza di lockdown. Ma se è così, il richiamo appare di nuovo superfluo memento di una chiara regola già esistente.
Più fornita di senso l’introduzione di una norma settoriale come l’art. 28 del decreto legge 9/2020. Essa riguarda tutti coloro che abbiano acquistato titoli di viaggio (biglietti ferroviari, aerei, per autobus di linea, navi, traghetti ecc.) e non siano in grado di utilizzarli per ragioni di impedita mobilità da misure anti-contagio (soggetti in quarantena, abitanti in zone rosse, diretti in paesi stranieri che negano l’ingresso) oppure non abbiano più interesse a utilizzarli per altre ragioni legate a dette misure (il concorso o la manifestazione o lo spettacolo per cui intendevano spostarsi sono stati cancellati o rinviati). La previsione è che il vettore rimborsi il prezzo del biglietto o emetta un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno. Ovvio che (trattandosi di obbligazione alternativa, in cui la scelta spetta al debitore ex art. 1286, comma 1) il vettore sceglierà di emettere il voucher piuttosto che restituire i soldi (mentre il viaggiatore altrettanto ovviamente preferirebbe i soldi). Ma è la soluzione più equa perché, salvando il contratto di viaggio anziché cancellarlo, ripartisce il peso dell’evento in modo “solidaristico”. Non sono sicuro che possa dirsi lo stesso per la regola sui pacchetti turistici, per cui è dato sì al viaggiatore diritto di recesso, ma in tal caso l’organizzatore è facoltizzato ad attribuirgli – in luogo del denaro da lui pagato come prezzo del pacchetto – un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno: data la differenza empiricamente registrabile fra l’acquisto di un pacchetto turistico e quello un semplice titolo di viaggio, la soluzione mi pare un po’ sbilanciata a favore dell’organizzatore (che certamente si libererà col voucher) e a danno del viaggiatore: un migliore equilibrio si sarebbe raggiunto prevedendo un voucher di valore in qualche misura (10%? 20?) superiore al prezzo del pacchetto.
L’art. 88 del decreto legge 18/2020 estende questa disciplina ai contratti di soggiorno (in strutture alberghiere o assimilate), ai contratti per l’accesso a spettacoli di ogni genere, nonché a musei o altri luoghi della cultura.
Si può notare una cosa: il legislatore riconduce tutte queste situazioni sotto l’ombrello dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, richiamando espressamente l’art. 1463 c.c. In realtà qui vengono in gioco casi in cui è impossibile non già l’erogazione della prestazione ad opera del debitore ma la fruizione di essa da parte del creditore. Il legislatore non è così sottile da distinguere: ma nella sostanza non fa altro che allinearsi alla giurisprudenza, la quale riconduce entrambe le fattispecie sotto il medesimo ombrello normativo.
E può porsi una domanda: si possono lamentare omissioni, buchi di disciplina che sarebbe stato bene riempire? Forse sì, forse almeno uno. La legislazione dell’emergenza si fa carico delle difficoltà finanziarie indotte dalla pandemia a carico di chi risulta debitore periodico di moneta nell’ambito di contratti di durata: e così stabilisce una moratoria nel pagamento delle rate e dei canoni in determinati contratti di mutuo e di leasing. Non dispone nulla di analogo a favore dei conduttori, e si può capire: qui il creditore non è una robusta entità finanziaria come una banca o una società di leasing, ma può essere una persona fisica che vive dei proventi del suo immobile locato. Però il legislatore avrebbe almeno dovuto codificare quella riduzione dei canoni delle locazioni non abitative, che ho patrocinato sopra: se la soluzione convince, conviene che sia affidata a una puntuale previsione normativa di applicazione facile e sicura, piuttosto che all’alea e alle varietà delle decisioni giudiziali.
Un altro problema civilistico emerso con la pandemia riguarda, nei casi di separazione o divorzio, le modalità di frequentazione dei figlia da parte del genitore non affidatorio: problema aperto soprattutto dai divieti di mobilità. Ma qui il mancato intervento del legislatore appare giustificato: le modalità alternative alla frequentazione fisica (sessioni skype o quant’altro) potranno emergere dall’accordo fra i genitori interessati, o nei casi estremi (e si confida rari) di mancato accordo essere fissate dal giudice.
Roberto Natoli
A parte una disposizione nel primo d.l. dell’emergenza sul rimborso dei titoli di viaggio (art. 28, d.l. 9/2020), e una disposizione sui contratti di prestazione dei servizi direttamente travolti dall’emergenza sanitaria (spettacoli, musei e altri luoghi culturali: art. 88, d.l.18/2020), la risposta che ambirebbe a essere generale è contenuta nell’art. 91 del d.l. 18/2020, c.d. Curaitalia. Si tratta, però, di norme non solo disorganiche e frammentate, ma potenzialmente produttrici di più problemi di quanti siano in grado di risolvere. Il punto è che il diritto civile è un sistema e, quando si interviene su di esso, anche in un’ottica emergenziale, bisogna tenerlo a mente. Provo a spiegarmi con un esempio. Dicevo che il legislatore d’urgenza è intervenuto con una norma (l’art. 91 cit.) di portata tendenzialmente generale, perché non confinata nel perimetro di alcun singolo contratto; anzi, neppure confinata nel perimetro della parte generale del contratto perché, ancora più a monte, ha ad oggetto la disciplina generale dell’obbligazione. Con questa norma, dettata sotto la rubrica “Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento”, si dispone che “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La norma, proprio per il suo richiamo alla disciplina della responsabilità da inadempimento e del conseguente danno, è o assai banale o potenzialmente sovversiva. Il riferimento all’esclusione dell’art. 1218 c.c. in caso di rispetto delle misure di contenimento è banale perché ribadisce quanto già previsto dall’art. 1256, cpv., c.c. (“se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”). Il richiamo all’art. 1223 c.c. è, invece, potenzialmente sovversivo perché la disattivazione del dispositivo dell’art. 1218 porta con sé anche la disattivazione della conseguente responsabilità per l’ovvia ragione che se non c’è responsabilità, non può esserci danno: pertanto, un’interpretazione che potrebbe dare un senso alla norma, altrimenti di dubbia utilità, è di estendere il richiamo all’art. 1223 alla responsabilità da fatto illecito, giusta l’espresso rinvio operato — per regolare il quantum debeatur aquiliano — dell’art. 2056 c.c. Non si tarda però a comprendere che, ritenendo la sospensione dell’art. 1223 c.c. operante anche in quell’àmbito, se ne dovrebbe dedurre — con un’interpretazione probabilmente ostile alla mens legis, ma non al dato testuale e sistematico — come il rispetto delle misure di contenimento escluda la possibilità, per il danneggiato, di ottenere il risarcimento del danno che sia conseguenza immediata e diretta della condotta, pur gravemente colposa, del danneggiante: con tutte le ovvie ripercussioni sul futuro (e già prevedibile) contenzioso in materia di responsabilità medico-sanitaria.
Certamente più opportuna sarebbe stata, invece, una norma relativa ai rimedi sinallagmatici, tesa a stabilire se, e in che misura, l’emergenza (che non è data solo dal rispetto delle misure di contenimento, posto che nelle filiere produttive tutto si propaga) possa giustificare la sospensione della prestazione, sterilizzando così non tanto la richiesta di risarcimento, quanto la domanda di risoluzione: magari distinguendo contratto da contratto, perché — com’è evidente — non tutte le operazioni economiche sono uguali, e per tipologia e per qualifica dei soggetti contraenti.
La Germania, ad esempio, è prontamente intervenuta con la “Legge per la mitigazione delle conseguenze della Pandemia COVID-19 nel diritto civile, fallimentare e della procedura penale” del 27 marzo 2020, prontamente tradotta su dirittobancario.it (https://www.dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/articoli_1_-_5_legge_tedesca.pdf), il cui art. 5 ha introdotto delle “Norme contrattuali contingenti alla pandemia Covid-19” che consentono, ad esempio, una sospensione dei pagamenti a consumatori e microimprese (come disciplinate dalla Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/EC del 6 maggio 2003); un termine di grazia per i conduttori di immobili non in condizioni di corrispondere il canone; un differimento di tre mesi dell’ammortamento dei prestiti al consumo. Un’attenzione molto opportuna, nella legislazione tedesca dell’emergenza (invece assente nell’analoga legislazione italiana), è dedicata a reprimere fenomeni di moral hazard dei debitori, in questa fase straordinariamente inclini a sospendere o ridurre il flusso dei pagamenti anche se non versano in una crisi di liquidità, adducendo quale pretesto l’emergenza sanitaria. La sospensione dei pagamenti da parte dei consumatori è, infatti, subordinata alla duplice dimostrazione che la difficoltà di adempiere è conseguenza di circostanze connesse alla pandemia e che l’adempimento regolare metterebbe in pericolo il livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia. In generale, si tratta di norme apprezzabili perché ancorate a parametri misurabili (dunque giudizialmente sindacabili ex post) e perché espressive di valori di rango costituzionale, come la dignità personale, che, in quanto tali, offrono solide basi all’effetto redistributivo che producono.
Non solo per il pessimo confronto nel paragone comparatistico, il legislatore italiano dell’urgenza ha dunque dato pessima prova di sé nel dettare norme privatistiche. E, purtroppo, non c’è neppure da stupirsi, se si considera che, nella compagine delle innumerevoli task force chiamate a governare l’emergenza (certamente non nella commissione Colao), non mi pare compaiano civilisti, giuscommercialisti, né processualcivilisti.
4) Covid-19 può essere l’occasione per ripensare alcune categorie ordinanti del diritto civile o per costruirne di nuove?
Vincenzo Roppo
In un certo senso le categorie, le regole, i principi contenuti nel codice (specie quelli su inadempimento, responsabilità e sopravvenienze), con le integrazioni e gli affinamenti operati dagli interpreti, potrebbero sembrare idonei a coprire le esigenze e i problemi aperti da Covid-19, senza necessità di rilevanti innovazioni sistematiche. È significativo che lo stesso legislatore dell’emergenza dichiari (sia pure in modo ridondante) l’applicabilità – nella presente congiuntura – di norme fondamentali del codice come gli artt. 1218, 1223 e 1463. E come non ricordare che dopotutto il codice del 1942 è stato elaborato e varato nel bel mezzo di una guerra mondiale?!
Questo però vale nella sola misura in cui – di fronte a inadempimenti e soprattutto sopravvenienze – l’unico rimedio concepibile per affrontare questi fattori di disturbo del rapporto contrattuale sia lo scioglimento di questo. È la logica del codice. Ma è logica insufficiente, nel momento in cui emerge che in tante occasione il rimedio appropriato per gestire i disturbi del rapporto non è la sua cancellazione ma piuttosto la sua manutenzione con aggiustamenti: in principalità per via di rinegoziazione, in subordine per via di aggiustamento giudiziale. Ecco, questo mi pare il più significativo “ripensamento ordinamentale” ricavabile dall’emergenza (e v. in tal senso anche l’editoriale di A. M. Benedetti e R. Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it, 25 marzo 2020). Che però non sarebbe una novità assoluta, visto che lo si trova assunto come una delle linee direttive da impartire al legislatore delegato in base al disegno di legge delega dell’anno scorso (n. 1151/2019) per la riforma del codice civile.
Ma voglio aggiungere che annusando l’aria che si respira con la pandemia, soprattutto nella prospettiva delle sue conseguenze economiche di medio periodo, forse può cogliersi il preannuncio (o almeno la possibilità) di un’altra notevolissima novità di forte impatto sistemico, destinata a incidere profondamente sui “fondamentali” dell’ordinamento privatistico. E non solo di quello italiano.
Nella sua lettera aperta al Financial Times, pubblicata dal quotidiano inglese il 25 marzo 2020, Mario Draghi delinea gli scenari dell’economia mondiale che saranno presumibilmente determinati dall’esigenza di affrontare le conseguenze della pandemia. Fra l’altra rileva che “livelli di debito pubblico molto più alti diventeranno un aspetto permanente delle nostre economie”, ma soprattutto – questo mi sembra più impressionante – “saranno accompagnati da una cancellazione di debiti privati” (“will be accompanied by private debt cancellation”). Verso la fine del suo contributo, l’ex presidente della BCE riprende il concetto in termini ancora più specifici e circostanziati: osserva che alcune imprese le quali pensino di riuscire ad assorbire la crisi potranno essere indotte ad “aumentare il loro indebitamento per poter mantenere la propria manodopera occupata”, ma “se l’esplosione del virus e i conseguenti lockdown dovessero protrarsi” allora queste imprese “potrebbero realisticamente rimanere sul mercato solo se i debiti fatti per mantenere nel tempo l’occupazione fossero alla fine cancellati” (“… only if the debt raised to keep people employed during the time were eventually cancelled”).
Non c’è bisogno di aggiungere molto. Quella che Draghi ipotizza con estrema chiarezza è una gigantesca esdebitazione di massa: di portata – sembra di capire – enormemente più estesa di quella che siamo abituati ad associare all’esito di procedure concorsuali (pur con le notevoli estensioni del meccanismo prefigurate dal nuovo codice delle crisi d’impresa). Se l’ipotesi si avverasse, ci sarebbe da rimeditare nel profondo la figura stessa dell’obbligazione, col suo carattere di vincolatività e col presidio della garanzia patrimoniale che l’assiste.
Roberto Natoli
Assolutamente sì, e lo dimostra proprio quanto ho detto fin qui. Da un lato nella parte generale del contratto non v’è alcuna tensione verso la manutenzione dei contratti (in particolare, di durata) e questo è un limite (da tempo denunciato dalla moderna dottrina civilistica) che, nella drammaticità del momento attuale, sta emergendo con prepotenza. Dall’altro lato, le risposte del legislatore dell’urgenza tradiscono la fretta indotta dall’emergenza e si risolvono, nella migliore delle ipotesi, in un sostanziale nulla di fatto.
La prima categoria ordinante del diritto contrattuale che andrebbe sottoposta a revisione è quindi quella espressa nella formula pacta sunt servanda: proprio il dibattito svoltosi negli ultimi due decenni (che proprio in questo periodo di emergenza contrattuale ha sùbito ripreso piede) sull’obbligo di rinegoziazione è spia della necessità, se non del superamento del principio, quanto meno di un suo contemperamento con altri non meno rilevanti, come quello rebus sic stantibus. Tutto ciò mostra l’opportunità di introdurre per via legislativa un generale obbligo di rinegoziazione che non debba cercare la sua fonte nelle pieghe della fin troppo usurata buona fede integrativa e il suo rimedio in obblighi di contrarre di dubbia plausibilità. Si potrebbe, al riguardo, accelerare l’approvazione della norma sul tema contenuta nell’art. 1, lettera i), del d.d.l. delega n. 1151 del 2019 di riforma del codice civile, magari stralciandola dalla complessiva riforma per introdurla immediatamente: «prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti».
Il ripensamento generale che l’allentarsi del principio pacta sunt servanda sottende collima con le esigenze delle filiere produttive, nelle quali i contratti sono per lo più destinati a spiegare i propri effetti nel tempo e che pertanto sono esposti al variare anche significativo delle circostanze sulla cui base furono conclusi. Si tratta, del resto, di un meccanismo già noto all’ordinamento, sebbene sperimentato nel territorio del diritto della famiglia: lì dove l’art.710 c.p.c. dà sempre la possibilità, tanto all’obbligato quanto al creditore, di chiedere al giudice la revisione delle condizioni della separazione. La necessità di un rimedio per adeguare il contenuto dei contratti all’impreveduto mutamento di circostanze, che l’attuale emergenza ha fatto affiorare, potrebbe dunque portare in dono al futuro diritto dei contratti questo frutto: uno strumento informato al principio di conservazione del valore economico della relazione contrattuale, da mantenere in vita anziché da abbandonare a una risoluzione che, in tanti casi, altro non comporta se non distruzione di ricchezza e perdita di investimenti che neppure il ritorno al mercato (idea implicita nella risoluzione ex art. 1467 c.c.) potrebbe consentire di recuperare se non, ma non sempre, in parte.
Al di là di ciò, credo che andrebbe definitivamente ripensato il rapporto tra diritti e tecniche, soprattutto non processuali, di attuazione. L’incredibile sospensione delle attività giurisdizionali (sostanzialmente limitate, per il settore civile, ai soli procedimenti che investano diritti fondamentali della persona: art. 83, comma 3, lett. a, d.l. 18/2020), oltre ad aver messo a nudo l’inadeguatezza tecnologica (anzitutto in termini di cybersecurity) delle infrastrutture che governano il PCT, ha altresì dimostrato che l’astratta proclamazione di diritti, in assenza di pronti rimedi per attuarli, è un vano esercizio retorico. Il risultato sotto gli occhi di tutti è che da mesi, nell’emergenza e dunque quando ci sarebbe più bisogno di regole, gli operatori economici sono abbandonati a sé stessi. A una tale esigenza di regole — non necessariamente eteroimposte ma, anzitutto ed auspicabilmente, negoziate tra i contraenti — potrebbero fruttuosamente rispondere sistemi di ADR governati da terze parti (penso, ad esempio, a camere arbitrali amministrate) o affidati agli stessi avvocati (penso, in questo caso, alla negoziazione assistita).
Un altro frutto che l’emergenza potrebbe portare in dono è dunque la definitiva messa a punto di un serio, organico e coerente quadro di sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, che non siano visti dalle parti come inutile e costoso ostacolo all’esercizio del diritto di azione costituzionalmente tutelato, ma come effettivo strumento di rapida ed efficace soddisfazione di interessi che troppo spesso appaiono soltanto astrattamente tutelati dalle norme sostanziali.
Purtroppo, però, allo stato — al di là di alcune condivisibili iniziative promosse dal mondo accademico (v., ad es., il Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione, pubblicato il 28 marzo 2020 a firma del Prof. Mauro Bove e di altri colleghi: in http://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/editoriali/manifesto-della-giustizia-complementare-alla-giurisdizione) — il legislatore dell’urgenza, nella sua bulimia normativa, pur avendo immediatamente pensato a serrare le porte dei Tribunali persino per i procedimenti cautelari, non ha, almeno fin qui, ritenuto di introdurre un meccanismo di negoziazione assistita tra debitori e creditori o qualsiasi altra forma di ADR per affrontare l’emergenza (per alcune proposte in merito v. Rabitti, Pandemia e risoluzione delle future controversie. Un’idea “grezza”, in dirittobancario.it, Editoriale del 23 aprile 2020).
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