ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Jürgen Habermas e Klaus Günther - Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti” *
Che cosa conta di più nella lotta contro la pandemia: la tutela della vita o la libertà? Da giorni questo dibattito rimane sospeso nel discorso pubblico. Ma i diritti fondamentali sono fondamentalmente bilanciabili fra loro? Uno scambio di riflessioni tra il filosofo Jürgen Habermas e il teorico del diritto Klaus Günther.
Aumenta la pressione per allentare le regole severe nella lotta contro la pandemia da Corona. Ma la politica del Governo Federale incontra non solo il contrasto di economisti e di gruppi di interessi economici; il presidente dei ministri del NRW (Nord Rhein Westfalen), Armin Laschet, e il presidente della FDP Christian Lindner si possono richiamare anche ad eminenti giuristi ed altri esperti quando rilevano i notevoli danni sociali, fisici, morali e culturali come effetti secondari della politica di quarantena, e quando contro una “ assolutizzazione della tutela della vita” fanno valere i diritti di libertà e di partecipazione dei cittadini. Già il Comitato Etico tedesco [N.d.R.: organo analogo al nostro Comitato Nazionale di bioetica] aveva precisato: “Il dovere di tutela della vita umana non vale in modo assoluto”; un “rischio generale di vita” dovrebbe “essere accettato da ciascuno”. Il Presidente del Bundestag Tedesco, Wolfgang Schäuble (CDU) ha acuito questo conflitto con l’osservazione: Quando “io sento che di fronte alla tutela della vita tutto il resto dovrebbe cedere, allora devo dire: ciò non è giusto in termini così assoluti. I diritti fondamentali si limitano reciprocamente. Ma se nella nostra Legge Fondamentale esiste un valore assoluto, allora questo è la dignità dell’uomo. Questa è inviolabile. Ma essa non esclude che noi dobbiamo morire”. Come si può allora definire il rapporto tra dignità umana inviolabile e la tutela della vita e dell’inviolabilità fisica? Su queste questioni si sono confrontati il filosofo Jürgen Habermas e Klaus Günther, che dialoga con lui da anni ed è professore di teoria del diritto, diritto penale e diritto processuale penale all’Università Goethe di Francoforte sul Meno.
Jürgen Habermas:
Le dichiarazioni politiche non sono commentari giuridici. Ma nel contesto di riferimento [N.d.R.: la dichiarazione di W. Schäuble] mi inquieta che ora anche giuristi si uniscano al coro di coloro che relativizzano la “tutela della vita”, protetta nel secondo paragrafo del secondo articolo della nostra Legge Fondamentale, nei confronti della “dignità dell’uomo”, di cui all’articolo 1, la quale, in un certo senso, troneggia su tutti i diritti fondamentali. Così ragionando, in qualche modo si abbandona la tutela della vita al “bilanciamento” con tutti gli altri diritti di libertà e di partecipazione. Ciò può condurre a sbandamenti come quello del sindaco di Tübingen Boris Palmer [N.d.R.: che in TV si è interrogato sull’opportunità di bloccare il paese pur di assistere anziani che sarebbero comunque morti dopo pochi mesi]. D’altra parte, Wolfgang Schäuble, nel subordinare la tutela della vita alla dignità umana, si appella ad un’intuizione morale a prima vista evidente: ad una vita umana appartiene un qualcosa di più della semplice “vita”, che noi attribuiamo agli animali – la “buona” vita, come Aristotele l’ha definita.
Oggi è la vita autodeterminata e autoresponsabile ad essere quella “degna”. Possono darsi situazioni che fanno venire meno tale dignità, condizioni come quelle di una malattia incurabile, di soverchiante miseria o di umiliante privazione di libertà, nelle quali una persona preferisce la morte piuttosto che dover condurre una tale vita. Ma, a prescindere da situazioni tragicamente senza uscita, una tale decisione può essere presa soltanto in prima persona, e cioè dallo stesso interessato. Nessun altro, e certamente nessun potere dello stato vincolato ai diritti fondamentali può sottrarre ai cittadini una tale decisione. Lo stato può legittimamente bilanciare la sopravvivenza di alcuni cittadini o anche solo di un singolo a confronto con il benessere, diciamo la vita più o meno buona di grandi gruppi sociali?
Cosa potrebbe arrivare a fare un governo, se nelle attuali circostanze perseguisse una politica che, a fronte di un rischio – scientifico, ma pur sempre fallibile quanto ad entità prevedibile - di sovraccarico dei reparti ospedalieri di terapia intensiva, accettasse un probabile, ancorché evitabile, aumento delle percentuali di morti tra i malati infetti? Davvero ciò potrebbe essere visto solo come un esigere dalle persone interessate l’accettazione di un “generale rischio di vita?” - e ancorché allo scopo legittimo di evitare limitazioni della libertà difficilmente sopportabili e forse a lungo termine persino danni irrimediabili a bambini, scolari e genitori, all’industria e al commercio, a ristoratori e cittadini pronti alla protesta? Che cosa può significare, in questa situazione, il richiesto “bilanciamento” della tutela della vita rispetto a gravi ingerenze in altri diritti fondamentali?
Klaus Günther
La necessità di bilanciare diritti fondamentali deriva dalla circostanza che vi è più di un diritto fondamentale e nessun diritto è privo di limiti. Essi possono collidere l’uno con l’altro. Perciò anche la maggior parte dei diritti fondamentali (come vita e libertà) possono essere espressamente limitati tramite leggi, non solo per evitare prevedibili collisioni, ma anche per realizzare altri scopi legittimi sul piano giuridico - costituzionale.
All’effettivo bilanciamento tra due o più diritti, come da un lato vita e salute dall’altro libertà è, però, preliminare la verifica della proporzionalità dell’intervento. Oltre alla legittimità giuridico-costituzionale dello scopo così perseguito - qui tutela di vita e salute - devono essere verificate la sua obbligatorietà per il raggiungimento di tale scopo e la sua necessarietà rispetto ad alternative che incidano meno intensivamente sul diritto fondamentale - ad esempio la libertà di riunione – senza mettere in pericolo il fine della tutela contro l’infezione.
In questi tre passaggi lo stato - il legislatore, l’amministrazione della sanità - ha una prerogativa di valutazione. L’idea centrale del principio di proporzionalità è che lo stato possa limitare i diritti fondamentali non arbitrariamente né più di quanto sia assolutamente necessario, al fine di garantire il loro rispettivo contenuto essenziale. Solo al quarto e ultimo gradino si tratta di un apprezzamento esclusivamente giuridico, che certamente può essere pre-strutturato tramite un primato del diritto alla vita o con la tutela della dignità.
L’attuale crisi rende però difficile un tale controllo di proporzionalità, quanto meno con riferimento alle normative generalmente vigenti, e ciò per almeno due ragioni. Non si tratta senz’altro di tutela della vita in senso comprensivo, ma del c.d. mantenersi piatto della curva e dell’abbassamento delle percentuali di contagio sotto l’1%. Deve perciò essere garantito che il sistema della sanità possa reagire in modo adeguato coi mezzi disponibili e non debba confrontarsi con tragiche situazioni decisionali, il che è certamente uno scopo legittimo dal punto di vista giuridico-costituzionale.
La risposta alla domanda se le attuali limitazioni di libertà siano anche appropriate e necessarie al raggiungimento di questo scopo è resa più difficile dalla necessità di considerare molteplici fattori di rilevanti insicurezze prognostiche e non può basarsi, anche solo in parte, su una conoscenza sperimentale o comparativa.
Così introduco il secondo motivo di difficoltà rispetto al principio di proporzionalità: il diritto alla vita dell’art. 2.2 della Legge Fondamentale era originariamente, anzitutto, un diritto di difesa contro uno stato che spesso, con coazione e violenza, ha inciso arbitrariamente sulla vita dei suoi sudditi. Il dover morire in conseguenza di malattie apparteneva, nei tempi passati, al generale rischio di vita, che solo di rado poteva evitarsi o ridursi. Solo da quando disponiamo di un sistema di assistenza medica altamente complesso e dispendioso si pone fondamentalmente la domanda su cosa e quanto stato e società possano e debbano fare per impedire o per ridurre decorsi patologici prevedibilmente rischiosi per la vita.
Nell’ambito del diritto alla vita sorge, così, un secondo componente significativo - l’obbligo dello stato di tutelare vita e salute, e ciò non soltanto, come già in precedenza, nei confronti di aggressioni antigiuridiche di terzi, ma anche tramite la predisposizione di un’adeguata assistenza medica. Ciò è però sottoposto alla riserva del possibile; nessuna società può allocare tutte le sue risorse nel sistema sanitario. A seconda però di quanto una società abbia ben costruito e mantenuto efficiente il suo sistema sanitario, varia il confine tra conseguenze mortali inevitabili ed evitabili dei “rischi generali per la vita”. Qui mi sembra consista l’essenza del conflitto di bilanciamento: vi è diversità di vedute su dove tracciare il confine tra decorsi patologici mortali evitabili e inevitabili a fronte dell’elevato dispendio in rinunce alla libertà dalle conseguenze imprevedibili – tra minimo e massimo.
Jürgen Habermas
La Sua descrizione delle conseguenze imprevedibili della politica di contenimento mi convince. Noi dobbiamo in primo luogo sondare l’ambito per un allentamento delle misure di contenimento che non si esponga a rilievi giuridici. Ma la Sua descrizione tocca il punto controverso solo quando nelle sue premesse afferma che il bilanciamento può essere “pre-strutturato” da un primato del diritto alla vita: deve ciò significare che questa mantiene “sempre” il primato? Su cosa si potrebbe basare questo primato se il diritto alla vita e all’ inviolabilità corporale può essere bilanciato contro tutti gli altri diritti fondamentali?
Già Ronald Dworkin ci ha messo in guardia nei confronti della metafora del piatto della bilancia. I diritti non si riferiscono a “beni” che si possano bilanciare in base al peso. I diritti non sono neanche “valori”, che si possono collocare in una sequenza transitiva fondata su una condivisa preferenza politico-culturale. La decisione se un diritto sia adatto ad un caso consente solo un “si” o un “no”. Nel corso del processo di bilanciamento giudiziale i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro. Ma, alla fine, la prevalenza resta di uno, il che significa che questo fa fuori tutti gli altri, ancorché esso debba, in caso di necessità, essere limitato in considerazione del pregiudizio agli altri diritti fondamentali che “devono arretrare”.
Dalla Sua osservazione incidentale traggo ora che un “arretramento” non può riguardare allo stesso modo la tutela della vita e gli altri diritti fondamentali. La prima traccia, in ogni caso, al bilanciamento uno stretto confine, ove per soddisfare concomitanti pretese di diritti fondamentali un governo dovesse fare il tentativo di accettare il rischio prevedibile della morte di alcuni più o meno anziani, che hanno già vissuto la loro vita. Piuttosto, il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non ha un effetto impeditivo di ogni arretramento, che gli altri diritti fondamentali non hanno?
Klaus Günther
In effetti, la prassi del bilanciamento riguardo al controllo di proporzionalità suggerisce che, con l’eccezione della dignità umana prevista nell’art. 1 GG, tutti i diritti fondamentali si lasciano reciprocamente relativizzare e che si potrebbe attribuire più peso talvolta a questo, talvolta a quello rispetto agli altri. La retorica del bilanciamento esclude che chi deve rispettare la norma debba sforzarsi di fare ciò che Dworkin esige da una buona giudice: interpretare ogni diritto come parte di una comprensiva teoria politico-morale dell’intero ordinamento costituzionale. Che non esista una classifica fra i diritti fondamentali è vero nella misura in cui non esiste un caso concreto di collisione che sia risolvibile senza limitazioni di un diritto a favore dell’altro e viceversa. Perciò anche la riserva di legge permette espressamente limitazioni nel rispetto del principio di proporzionalità e vale espressamente per il diritto fondamentale alla vita, secondo l’art. 1 [N.d.R: errata corrige 2] par. 2 frase 3 Legge Fondamentale.
Ma i casi in materia sono rari. Prima dell’entrata in vigore della Legge Fondamentale ciò valeva per la pena di morte, successivamente per il generale servizio militare obbligatorio. Un altro caso è quello, non del tutto incontestato, del c.d. sparo finale di salvataggio, nel quale è consentito alla polizia, sotto stretti presupposti, di uccidere un sequestratore. Ma qui il diritto alla vita di uno si contrappone a quello dell’altro, mentre noi, attualmente, abbiamo a che fare col rapporto tra vita, libertà ed altri importanti diritti fondamentali.
Coloro che ora in nome dei diritti fondamentali di libertà sostengono la causa di ulteriori allentamenti e si richiamano, in proposito, alla relatività del diritto fondamentale alla vita, credono, presumibilmente, di poter fare ciò perché è così difficile tracciare il confine sopra menzionato tra decorsi patologici mortali ancora evitabili e non più evitabili. Ma essi non dovrebbero allora soltanto dire quanto potrebbe salire il numero dei prevedibili casi di morte senza portare all’assurdo il diritto alla vita, ma dovrebbero inoltre spiegare al primo paziente che non possa essere fatto respirare in conseguenza dell’allentamento, che egli dovrebbe morire per amore della libertà di altri.
In tal modo si trascurerebbe anzitutto che è il Tribunale Federale Costituzionale ad attribuire nella sua giurisprudenza un alto rango al diritto alla vita. Il Tribunale Federale Costituzionale, nella sua prima decisione sull’interruzione della gravidanza del 1975, condivide un’argomentazione del futuro giudice federale costituzionale Ernst- Wolfgang Böckenförde, che trae dal diritto fondamentale alla vita l’obbligo per lo stato di porsi in termini di “protezione e sostegno” nei confronti della vita stessa e attribuisce a questa “ un altissimo valore all’interno dell’ordinamento della Legge fondamentale”, non da ultimo con riferimento al passato tedesco. Al riguardo la Corte costruisce anche un rapporto con l’articolo 1, che però non viene spiegato in termini più precisi: il diritto alla vita sarebbe “la base vitale della dignità umana e il presupposto di tutti gli altri diritti fondamentali” – dunque anche del diritto alla libertà.
Jürgen Habermas
In questa sentenza sono in gioco, naturalmente, questioni del tutto diverse. Ma entrambe le espressioni che Ella cita sono istruttive. Il riferimento a “un” anziché “all’ ” altissimo valore mostra l’inadeguatezza del linguaggio di valori: in una loro classifica ci sarebbe sempre, e soltanto, un unico valore supremo. Altrimenti quella formulazione deve intendersi nel senso che - diversamente da quanto ritengono Schäuble e il Comitato etico – il rilievo della “vita” è pari a quello della “dignità umana”. Ad esempio, ipotizziamo di aver abbandonato la zona grigia da Lei descritta e di conoscere con sufficiente sicurezza, ciò che andrebbe accettato in un determinato momento in materia di limitazioni di diritti fondamentali, per poter prevedibilmente escludere un aumento evitabile di percentuali di morte causate dall’epidemia. Un tale criterio ( diciamo: la “ curva piatta” ) indica forse una condizione necessaria per la scelta di giustificate strategie di uscita?
In questa direzione si pone il Tribunale Federale Costituzionale quando definisce la tutela della vita come “presupposto di tutti gli altri diritti fondamentali”. Ma entrambi i primi articoli della Legge Fondamentale sarebbero, allora, da intendere non già come proclamazione di determinati diritti, ma come chiarimento concettuale della concezione dei diritti dell’uomo. Ciò vale senz’altro per il comma 2 del primo articolo. E nella prima frase l’inviolabilità della dignità umana non viene neanche introdotta direttamente come diritto, ma come obbligo di tutela dello stato. Entrambe le cose rappresentano fondamentalmente una spiegazione del significato di diritti dell’uomo: questi devono proteggere una dignità dell’uomo che del significato pre-moderno di una “dignità” dipendente dallo status conserva solo il significato intersoggettivo secondo cui l’autodeterminazione dell’individuo richiede al contempo la responsabilità per la propria condotta giuridicamente rilevante nei confronti di tutti gli altri cittadini e a sua volta è reciprocamente destinata al riconoscimento da parte di tutti gli altri.
Resta ancora da spiegare fondamentalmente a chi si riferiscano i diritti che poi stabiliscono più precisamente la dignità dell’uomo. Ciò non si trova anche nell’articolo 2, se noi intendiamo le sue espressioni non soltanto riferite ai diritti della personalità? Il par. 2 di questo articolo spiega come gli “uomini” bisognosi di tutela siano da intendere come titolari individuali di tali diritti: la dignità s’incorpora in soggetti mortali di carne e sangue, che si muovono intenzionalmente e possono agire. L’obbligo incondizionato dello stato si riferisce allora, per motivi concettuali, non soltanto alla dignità del soggetto di diritto, ma anche alla vita e inviolabilità corporale, come pure alla libertà di movimento e di azione di questa stessa persona. Secondo questo tipo di lettura la tutela stabilita nell’art. 2, comma 2, a causa della sua limitazione concettuale tramite la dignità dell’uomo, non sorge nell’ambito di un diritto di personalità limitabile tramite legge.
Klaus Günther
Questa mi appare come una più precisa ricostruzione dell’intuizione del Tribunale Federale Costituzionale. Eh si, non manca di una certa ironia il fatto che alcuni di coloro che ora vogliono relativizzare il diritto alla vita nei confronti della dignità umana appartengono ad una posizione politica che allora salutò con favore il rifiuto dell’abolizione dei termini nell’interruzione della gravidanza.
D’altra parte vorrei esporre ancora più chiaramente un aspetto del Suo argomento: se l’articolo 2 (con l’articolo 1) chiarisce anche il senso di diritti umani e di persone che ne siano titolari, chiarirei questo “anche” in modo ancora più dettagliato. Secondo questa interpretazione spetterebbe all’articolo 2 un doppio significato – accanto alla spiegazione del contenuto dell’obbligo di tutela di vita, inviolabilità corporale e libertà esso conterrebbe al contempo, come evidenzia il suo tenore letterale, anche diritti soggettivi. Soltanto allora il suo titolare li può far valere contro intrusioni (anzitutto da parte dello Stato) tramite la proposizione di un’azione dinanzi ad un tribunale. Ciò perché la funzione di tutela sopra indicata deve restare garantita anche nei confronti di uno stato che agisca arbitrariamente.
Il contenuto dell’obbligo di tutela da parte di quest’ultimo si determina in una misura anche storicamente condizionata: come nelle società a rischio moderne la vita dei singoli viene sempre più condotta in modo autonomo, ma al contempo dipende da un sistema sociale di funzioni a rete e quindi diventa anche sempre più vulnerabile. Ne sono un esempio la pandemia e la dipendenza da un sistema sanitario funzionante. La funzione di tutela di quella triade di diritti soggettivi deve essere, perciò, posta in rilievo, perché, in tal modo, può essere esclusa una conformazione paternalistica del contenuto dell’obbligo di tutela che contrasta con l’autodeterminazione dei suoi titolari, come, ad esempio, in caso di interruzione del trattamento medico voluta dal paziente. Infine, al potere del legislatore d’incidere su questi diritti, contenuto nell’art. 2 par.1 frase 3, viene attribuito il senso che sono gli stessi titolari dei diritti dell’uomo che, nel ruolo di cittadini co-legislatori, devono conformare non solo i diritti umani come loro diritti fondamentali, ma anche gli interventi legislativi inevitabili in caso di conflitti nel senso esplicativo da loro stessi ricostruito.
Jürgen Habermas
Si, sono del tutto d’accordo. I diritti dell’uomo solo attraverso il processo democratico di formazione della volontà possono ottenere validità positiva come diritti fondamentali. Quando però cittadini democratici si limitano ad ubbidire alle leggi generali che essi si sono dati da soli, e tutti insieme, essi non possono anche approvare una politica che contro la loro parità di trattamento, metta in gioco la vita di alcuni per gli interessi di tutti gli altri.
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Spunti da un dialogo d’oltralpe sui diritti fondamentali alla prova del fuoco
Lo scambio di opinioni fra il filosofo Jurgen Habermas e il giurista Klaus Günther, ospitato dalla più autorevole testata di approfondimento in Germania (die Zeit) colloca nel dibattito pubblico tedesco (richiamando voci come quelle del Presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble e del Comitato etico) e nel contesto valoriale obiettivato in quell’ordinamento un interrogativo divenuto infuocato in tutte le società spazzate dalla pandemia nel giro di pochi mesi: quanto i conseguenti provvedimenti drastici di limitazione di libertà considerate come acquisite in via definitiva possano giustificarsi per prevenire i rischi a vita e incolumità personale dei cittadini.
Il tema si colloca a ben vedere al centro delle questioni, di ordine giuridico ed extragiuridico, sollevate dagli interventi adottati con urgenza per contrastare la diffusione del virus: fra le più rilevanti, quelle che attraversano tanto la politica, con il ruolo prioritario assunto dalle decisioni governative e l’articolazione fra il livello centrale e quello locale, quanto il ruolo del sapere tecnico come supporto e suggello delle scelte politiche, quanto il rapporto con l’assistenza sanitaria e la sua organizzazione sul territorio, quanto infine le conseguenze economiche e i risvolti psicologici di un fermo prolungato delle attività.
Rispetto ad uno scenario così ampio e complesso, l’uscita dalla fase più acuta dell’emergenza è stata ovunque caratterizzata da un braccio di ferro fra i fautori l’esigenza di fare ripartire una società ed una economia ingessata e quelli che invece richiamano i rischi di fare rialzare i tassi di diffusione del virus e aumentare le conseguenti vittime. Benché ogni Paese abbia finito per decidere autonomamente i termini specifici per la soluzione della questione, articolando piani più o meno differenziati per la riapertura delle varie attività - il che peraltro non stupisce visto che anche la fase dell’adozione dei provvedimenti restrittivi aveva visto i vari Paesi muoversi in ordine sparso, anche in relazione ai diversi tempi di diffusione del virus - la questione di fondo della scelta del punto di equilibrio fra le due contrapposte esigenze si è presentata in termini fondamentalmente comuni a qualunque decisore politico e in qualsiasi riflessione teorica sviluppata nelle nostre società.
L’interesse generale del dibattito fra i due pensatori è poi rafforzato dal dato che esso si sviluppa intorno a portata e limiti dei diritti umani in caso di collisioni reciproche, e dunque concerne una problematica politica e giuridica caratterizzato da uno statuto che travalica i singoli ordinamenti positivi dai vari Paesi e si staglia con una dimensione ultra o sovranazionale, grazie anche alle Carte internazionali che li riconoscono. Il convincimento che il dibattito riportato meriti un’attenzione anche più ampia rispetto al suo contesto di origine non deve fare trascurare che gli argomenti a cui i due disputanti ricorrono sono essenzialmente tratti dalle norme di apertura della fonte costituzionale tedesca (la Legge Fondamentale), e ricorrono anche alla relativa interpretazione della giurisprudenza di quel Paese. Interessante in proposito è il richiamo nel contesto attuale di una fondamentale sentenza della Corte costituzionale tedesca in materia di aborto, che nel 1975 dichiarò l’illegittimità della legge che adottava la soluzione temporale, in quanto non rispettava a sufficienza l’obbligo a carico dello Stato posto dall’art. 2 della Legge Fondamentale di tutelare la vita. Rispetto a temi così fondamentali, nel dialogo solo un accenno si fa ad un pensatore di lingua inglese, richiamato per arricchire il nucleo di argomenti addotti. Un atteggiamento così attento al circuito interno potrebbe ascriversi alla tendenza tradizionale e più generale degli autori tedeschi di matrice giuridica di non indulgere in ampie indagini comparatistiche, preferendo prevalentemente il dibattito interno per le proprie analisi.
Tuttavia, qui la presenza di un filosofo della statura internazionale di Habermas, unitamente all’oggettiva congruenza fra i temi approfonditi e questioni che - come quella del bilanciamento fra diritti fondamentali e della relativa gerarchia costituzionale – sono penetrate nelle Corti costituzionali di molti Paesi, Europei e non, consentono anche al lettore straniero di rinvenire motivi di riflessione importanti dallo sviluppo del dialogo. Senza poter menzionare tutti i punti degni di interesse, per la varietà e la profondità di essi, basterà segnalare il dato che al di là della ripetutamente dichiarata concordia di posizioni con cui si aprono i rispettivi interventi, i rispettivi iter si profilano con tratti ben differenziati.
Il filosofo perviene ad una più netta difesa della priorità della vita del singolo come non bilanciabile con gli interessi alla libertà di collettività più o meno estese. Invece il penalista e teorico del diritto sviluppa un’argomentazione più articolata, in cui muove dall’affermazione di principio che tutti i diritti fondamentali sono bilanciabili, ma poi riconosce che i vari livelli di controllo della decisione legislativa in materia non assicurano esiti sicuri e determinati e che lo stato mantenga una “prerogativa di valutazione” in proposito. Ancora, sempre il giurista, nel richiamare la riserva di legge che consente la limitazione dei diritti fondamentali della vita, incolumità fisica e libertà, se rinvia al processo di formazione democratica della volontà comune sul punto di bilanciamento fra di essi, d’altra parte pone in dubbio che il principio di proporzionalità possa tracciare il confine fra le morti evitabili e quelle inevitabili in caso di allentamento delle misure di contenimento: per la difficoltà di spiegare “al primo paziente che non possa essere fatto respirare [a causa della saturazione dei posti in terapia intensiva dovuta alla Pandemia], che egli dovrebbe morire per amore della libertà di altri”.
Affiora così sullo sfondo dell’intero dialogo l’impressione che nel contesto tedesco il bilanciamento fra vita ed incolumità fisica da un lato e libertà dell’altro (che nell’art. 2 par. 2 della Legge fondamentale sono equiparati almeno quanto a possibili limitazioni tramite legge) rimanga fortemente condizionato da una particolare concezione della “dignità dell’uomo” come valore supremo dell’ordinamento (non a caso così richiamata da Schäuble proprio nel contesto in esame). Essa, per trovare una interpretazione che la riempia di contenuti e che al contempo ne eviti una tirannia su ogni altro diritto fondamentale, finisce per recuperare, dopo la tragedia della storia tedesca nel periodo in cui se ne distaccò, il valore dell’imperativo categorico di Kant: trattare l’uomo sempre anche come fine, e mai come mezzo, sia pure al fine di allentare misure che limitino la libertà, almeno quando le relative conseguenze mettano in gioco la vita altrui. Insomma, la formula ancora diffusa in Germania del “generale rischio di vita” come fattore da accettare nelle svariate attività umane non può più suonare come l’antico motto della lega anseatica “navigare necesse, vivere non necesse”.
Vincenzo Militello
* Il 7 maggio 2020, nel corso di un’intervista sulle questioni che si agitavano attorno alla pandemia in Germania rilasciata al Corriere della sera il Direttore del settimanale tedesco Die Zeit Giovanni Di Lorenzo riferiva di un’importante intervista che stava per essere pubblicata in Germania sul tema della vita e della dignità.
Giustizia Insieme ha ottenuto i diritti di riproduzione di quell’intervista pubblicata il 9 maggio 2020 da Die Zeit col filosofo Jürgen Habermas ed il teorico del diritto Klaus Günther – Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”–. La traduzione in italiano è stata curata dal Presidente Enrico Altieri e dal Prof.Vincenzo Militello. Quest‘ultimo ha poi steso in calce alcune importanti riflessioni (Spunti da un dialogo d’oltralpe sui diritti fondamentali alla prova del fuoco) che offrono al lettore rilevanti chiavi di lettura per collocare i contenuti dei dialoghi nell’esperienza giuridica tedesca. Grazie ai protagonisti di questa ulteriore iniziativa comparatistica sul ruolo dei diritti fondamentali che la Rivista, in linea di continuità con quella che ha dedicato un focus all'esperienza statunitense – Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia – ha inteso promuovere a margine della crisi epidemiologica al fine di favorire la conoscenza ed il dialogo fra culture diverse, ma affini e complementari. (Die Zeit, 9 maggio 2020)
Postilla a La giustizia di fronte all’emergenza Coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo.
Fabio Francario
Si segnala che il parere reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo 2020 esclude che il richiamo dell’art. 54 d lgs 104/2010 da parte dell’art. 3 del dl 11/2020 comporti una vera e propria sospensione dei termini processuali nel periodo che va dall’entrata in vigore del dl 11/2020 al 22 marzo 2020. La Commissione si è espressa infatti nel senso che “il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.)” e non anche gli altri termini endoprocessuali. La conclusione viene raggiunta muovendo dalla duplice considerazione che “con precipuo riguardo al termine per il deposito del ricorso (art. 45 c.p.a.) e soprattutto a quelli endoprocessuali richiamati dal già citato art. 73, comma 1, c.p.a., non si ravvisano le medesime esigenze che hanno giustificato la sospensione delle udienze pubbliche e camerali perché trattasi di attività che il difensore può svolgere in via telematica e senza necessità di recarsi presso l’ufficio giudiziario. Non appare esservi, dunque, alcun pericolo per la salute dei difensori né si moltiplicano le occasioni di contatto sociale e dunque le possibilità di contagio” ; e che “se la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali”. Secondo il Consiglio di Stato, in buona sostanza, non si tratta affatto di un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, ma di una sospensione del solo termine per la notifica del ricorso giustificata da una ratio normativa che si prefigge di evitare gli spostamenti delle persone e la loro riunione presso gli uffici giudiziari.
Al riguardo si segnala altresì che le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato con il decreto 71 del 10 marzo 2020 precisano che “trattasi di avallo esegetico che, seppur autorevole, non ha efficacia cogente per i giudici chiamati a decidere sul caso concreto, sicchè non può che confidarsi, al fine di una effettiva, pronta e corale reazione alla diffusione epidemiologica che non sacrifichi oltremodo l’efficienza e la capacità di risposta del sistema giudiziario amministrativo, in un atteggiamento pienamente collaborativo dell’avvocatura e dei singoli avvocati che si traduca in una sostanziale rinuncia ad avvalersi, per quanto concerne il deposito telematico degli atti defensionali di cui all’art. 73, comma 1, c.p.a., della sospensione di cui all’art. 3 comma 1 del DL 11/2020”.
Si riporta di seguito il testo del parere.
La giustizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo.
Fabio Francario
Sommario: 1. Premesse - 2. Sospensione dei termini processuali - 3. Rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari - 4. Possibilità di trattazione, a richiesta e comunque senza discussione in camera di consiglio, delle istanze cautelari durante il periodo di sospensione dei termini processuali - 5. Trattenimento in decisione di ricorsi e domande cautelari senza discussione in udienza pubblica o camerale, salvo che non venga espressamente chiesta anche da una sola delle parti e con possibilità di collegamento da remoto - 6. Peculiari modalità di deposito di atti e documenti
1. Premesse
Il decreto legge 8 marzo 2020 n. 11 prevede misure straordinarie e urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria anche con specifico riferimento al processo amministrativo.
Le disposizioni che interessano il processo amministrativo sono recate dall’art. 3.
In deroga alla disciplina generalmente dettata dal d. lgs. 104/2010., le nuove norme introducono misure che nel loro complesso prevedono:
-la sospensione dei termini processuali;
-il rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari;
-la possibilità di trattazione, a richiesta e comunque senza discussione in camera di consiglio, delle istanze cautelari durante il periodo di sospensione;
-il trattenimento in decisione di ricorsi e domande cautelari senza discussione in udienza pubblica o camerale, salvo che non venga espressamente chiesta anche da una sola delle parti e con possibilità di collegamento da remoto;
-peculiari modalità di deposito di atti e documenti.
2. Sospensione dei termini processuali.
La prima misura introdotta consiste nella sospensione dei termini processuali nel periodo compreso tra l’8 marzo 2020, data di pubblicazione in GU del decreto, e il 22 marzo 2020. La sospensione dei termini processuali è generalmente disciplinata, con riferimento al periodo feriale, dall’art 54 deld lgs. 104/2010, al quale fa rinvio il comma 1, primo cpv, dell’art 3. La disciplina generale della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, in ragione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e, con esso, della esclusione della possibilità di ammettere soluzione di continuità nella tutela cautelare, esclude che la sospensione si applichi anche ai procedimenti cautelari (art 54, comma 3, cod. proc. amm.). In linea con il suddetto principio generale, il decreto legge 11/2020 prevede che la tutela cautelare rimanga fruibile anche nel periodo di sospensione dallo stesso introdotto, sebbene soltanto nella forma del rito monocratico di cui all’art 56 d. lgs 104/2010 (v. infra).
Nessun particolare problema si pone per i termini che si pongono ad es. per la notifica o il deposito del ricorso. Questi s’interrompono e riprenderanno a decorrere al termine del periodo di sospensione.
Il problema sussiste invece per i termini che, calcolati a ritroso da un’udienza già fissata dopo la scadenza del periodo di sospensione, verrebbero a scadere durante il periodo della sospensione, ad es. per il deposito memorie e documenti. In tal caso, infatti, differentemente dall’ipotesi generale della sospensione feriale, le parti non hanno previamente avuto contezza dell’esistenza del periodo di sospensione e sarebbero nell’impossibilità di compiere quelle attività processuali i cui termini sarebbero già scaduti. Il problema dovrebbe trovare soluzione nell’esercizio del potere presidenziale di riordino dei calendari e dei ruoli d’udienza previsto dal successivo comma 2 (v. infra) e comunque nella facoltà di chiedere la rimessione in termini contemplata dal comma 7 con riferimento all’esercizio del suddetto potere presidenziale. Ove l’udienza non sia già stata rinviata d’ufficio, l’istanza di rimessione potrebbe infatti determinarne anche il rinvio al fine di consentire il rispetto del contraddittorio.
3. Rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari
Dal momento che la sospensione dei termini processuali viene introdotta con riferimento ad un periodo in cui risultano già fissate udienze pubbliche e camerali (tanto cautelari, quanto dei riti speciali), il primo comma dell’art 3, al secondo cpv, ne dispone il rinvio “d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”. Come chiarisce il Comunicato del 9 marzo dell’ “Ufficio stampa e comunicazione istituzionale della giustizia amministrativa”, si tratta di una “misura drastica ma necessaria al fine di consentire su tutto il territorio nazionale comportamenti coerenti con gli obbiettivi di contenimento del virus in questa prima fase in cui ci si attende il picco epidemiologico” e volta ad ottenere che “nessuna udienza sarà celebrata”. Il rinvio viene disposto ex lege per le udienze già calendarizzate fino al 22 marzo, ivi comprese le camere di consiglio previste per la discussione delle domande cautelari, che, a richiesta della parte, potranno essere eventualmente esaminate soltanto ai sensi dell’art. 56d.lgs 104/2010.
L’art 3 prevede poi che i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate possano adottare “linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze coerenti con le eventuali disposizioni dettate dal Presidente del Consiglio di Stato” e possano altresì disporre il rinvio delle udienze “a data successiva al 31 maggio 2020, assicurando in ogni caso la trattazione delle cause rinviate entro la data del 31 dicembre 2020 in aggiunta all’ordinario carico programmato delle udienze fissate e da fissare entro tale data”. I rinvii a mezzo dei suddetti decreti presidenziali a data successiva al 31 maggio vanno comunque disposti dopo avere sentito sia l’autorità sanitaria regionale che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio e, differentemente dal rinvio disposto ex lege per le udienze calendarizzate fino al 22 marzo, in tal caso non riguarda le udienze camerali per le domande cautelari e i ricorsi elettorali, che potranno svolgersi secondo le modalità indicate dal successivo comma 4. Analoga possibilità è prevista per le cause rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, ma in tal caso è necessario che l’urgenza sia previamente dichiarata dai presidenti di cui al comma 2 con decreto non impugnabile.
4. Possibilità di trattazione, a richiesta e comunque senza discussione in camera di consiglio, delle istanze cautelari durante il periodo di sospensione dei termini processuali.
La sospensione dei termini processuali, in linea con il principio generale, non opera con riferimento alle domande cautelari. E’ tuttavia previsto il mutamento del rito, nel senso che durante il periodo di sospensione, e cioè fino al 22 marzo, le domande cautelari possono essere trattate solo seguendo il rito monocratico di cui all’art 56d lgs 104/2010, e sempre che vi sia un’espressa richiesta di parte in tal senso. La trattazione collegiale sarà in tal caso fissata “in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020”. La misura assicura così il rispetto tanto del principio che non ammette soluzioni di continuità nella possibilità di fruizione della tutela cautelare, quanto dell’esigenza di evitare di tenere qualunque tipo di udienza dall’entrata in vigore del decreto legge fino al 22 marzo 2020.
5. Trattenimento in decisione di ricorsi e domande cautelari senza discussione in udienza pubblica o camerale, salvo che non venga espressamente chiesta anche da una sola delle parti e con possibilità di collegamento da remoto
Misure a carattere derogatorio vengono previste non solo con riferimento al periodo della sospensione dei termini processuali, che termina il 22 marzo, ma anche con riferimento ad un secondo periodo, che si suppone di transizione verso il ripristino della normalità, di durata fino al 31 maggio 2020.
Fino al 31 maggio 2020 si prevede in sostanza un procedimento semplificato per la decisione delle controversie, sia nel merito che per la cautela, che di regola esclude anche in tale periodo la discussione in udienza pubblica o camerale: “tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione sulla base degli atti” (art 3, comma 4). Differentemente dal primo periodo temporale destinato a concludersi il 22 marzo, nel quale opera la sospensione e nel quale la tutela cautelare può essere concessa solo e unicamente secondo il rito monocratico di cui all’art 56 d. lgs 104/2010, in questo secondo periodo che va fino al 31 maggio 2020 è comunque possibile che, a richiesta di almeno una delle parti, la causa venga trattata in udienza camerale o in udienza pubblica. A tal fine è necessaria la presentazione di apposita istanza che va notificata alle altre parti costituite e va depositata almeno due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Sempre il già citato comma quarto si preoccupa di precisare che “i difensori sono comunque considerati presenti a tutti gli effetti”, anche se non sia stata richiesta la discussione.
In ogni caso, in deroga all’articolo 87, comma 1, d. lgs 104/2010 “fino al 31 maggio 2020 le udienze pubbliche sono celebrate a porte chiuse” (art 3, comma 6).
Nel caso in cui sia stata chiesta la discussione, il comma 5 dell’art 3 consente ai presidenti (titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate) di organizzare lo svolgimento delle udienze pubbliche e camerali che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante collegamenti da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori alla trattazione dell’udienza. In tal caso, sempre secondo il citato comma 5, “il luogo da cui si collegano magistrati, personale addetto e difensori delle parti è considerato aula di udienza a tutti gli effetti di legge”. La decisione deve essere ovviamente giustificata dalla situazione concreta di emergenza sanitaria e il verbale deve dare atto delle modalità con cui si accerta l’identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti.
6. Peculiari modalità di deposito di atti e documenti
Il decreto legge prevede infine che, durante il periodo della sospensione dei termini processuali, ovvero entro il 22 marzo 2020, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate, per quanto di rispettiva competenza, possano adottare le misure organizzative necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, e le prescrizioni di cui all’allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020, al fine di evitare assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone. Oltre alle già ricordate linee guida per la fissazione e la trattazione delle udienze e al rinvio delle udienze a data successiva al 31 maggio 2020, le misure organizzative possono prevedere la limitazione dell’accesso agli uffici giudiziari ai soli soggetti che debbono svolgervi attività urgenti; la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici o, in ultima istanza e solo per i servizi che non erogano servizi urgenti, la sospensione dell’attività di apertura al pubblico; la predisposizione di servizi di prenotazione per l’accesso ai servizi, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, e adottando ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento; la sospensione dell’obbligo del deposito di almeno una copia del ricorso in forma cartacea sia sospeso.
Tali misure devono armonizzarsi con le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato o dal Segretariato generale della Giustizia Amministrativa e devono essere comunque adottate dopo aver sentito l’autorità sanitaria regionale e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio.
Alfredo Morvillo
di Leo Agueci
Ho conosciuto Alfredo Morvillo nei terribili giorni del luglio 1992 quando, appena arrivato in applicazione volontaria alla Procura di Palermo, fui brutalmente accolto dalla strage di via d’Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino ed agli agenti della sua scorta.
Lo sconforto tra i colleghi dell’ufficio appariva evidente e comprensibilmente fortissimo perché erano trascorsi meno di due mesi dall’altra terribile strage, della quale erano state vittima Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e perché il Procuratore Aggiunto Paolo Borsellino era molto amato all’interno della Procura e costituiva il fondamentale punto di riferimento per chiunque volesse realmente combattere la mafia.
Ma ebbe presto a manifestarsi anche una tenacissima volontà di rivalsa della quale Alfredo Morvillo divenne indiscusso protagonista.
L’impatto emotivo della strage aveva reso evidente la delicata situazione all’interno dell’ufficio, dovuta soprattutto alla mancanza di autorevolezza e credibilità del Procuratore capo, al quale veniva addebitato tra l’altro il boicottaggio attuato in passato verso il Procuratore Aggiunto Giovanni Falcone (che aveva costituito una delle ragioni della decisione di quest’ultimo di trasferirsi a Roma) e, più recentemente, i suoi notori rapporti di amicizia con esponenti politici locali compromessi con la mafia.
In questo drammatico frangente Alfredo Morvillo non ebbe alcuna remora nel rendere pubblica la situazione che si era determinata in Procura, facendosi interprete del forte disagio dei sostituti (soprattutto quelli della DDA) e nel promuovere con altri iniziative e documenti di denunzia che, portati a conoscenza del Procuratore, lo convinsero a lasciare l’ufficio.
Grazie anche al suo contributo, la Procura di Palermo – nel suo momento più difficile e lacerante – ha saputo dimostrare a tutti solida e determinata capacità di reazione al durissimo attacco mafioso e ritrovare al suo interno l’energia morale e la determinazione necessarie ad avviare la grande stagione di riscossa delle Istituzioni contro la mafia.
La stagione delle stragi per lui - fratello di Francesca Morvillo e cognato di Giovanni Falcone – è stata particolarmente dolorosa e lacerante per averlo colpito anche e soprattutto nella dimensione, profonda e privata, dei suoi affetti più cari.
Rispetto ai suoi legami familiari ha però sempre mantenuto un atteggiamento esterno di assoluto e religioso riserbo, tanto da manifestare evidente fastidio nell’essere chiamato in causa – e spesso è avvenuto – semplicemente come “...fratello di…” o “…cognato di…”.
Ma, quando è stato necessario per proteggere il ricordo di Giovanni Falcone o di Francesca Morvillo, e difendere il profondo legame affettivo che li univa, non ha avuto alcuna esitazione nell’intervenire energicamente, come è avvenuto in occasione della sua conclamata (e sacrosanta) protesta rispetto alla inopportuna delibera di accogliere nella chiesa di S. Domenico, Pantheon dei palermitani, le sole spoglie di Giovanni Falcone, così separandole da quelle della moglie, che pure ne aveva condiviso fino all’ultimo il tragico destino.
Ed ancora è nota la sua intolleranza verso le tante persone – magistrati, e non solo – che nel corso degli anni si sono auto attribuite una asserita “eredità morale” da Giovanni Falcone, senza averne posseduto alcun titolo e piuttosto averlo al contrario avversato in vita, ovvero lo hanno abitualmente menzionato, pur non avendo avuto effettivi rapporti con lui, con il confidenziale nome “Giovanni”
In contrapposizione a costoro, Alfredo Morvillo, quando si trova a parlare in pubblico di lui, lo fa sempre con delicatezza e rigoroso distacco ostentatamente chiamandolo con nome e cognome per intero.
I suoi interventi pubblici in materia di mafia sono appassionati e coinvolgenti. A differenza di altri, non indulge in autocelebrazioni ma richiama abitualmente il concetto che la lotta alla mafia non rappresenta solo un affare di magistrati e di polizia, ma deve costituire obiettivo corale di tutte le componenti della società.
Si rivolge con particolari accenti critici alla classe dirigente, soprattutto politica, denunziandone l’insufficiente impegno nel contrastare ed eliminare connivenze, infiltrazioni e condizionamenti mafiosi e l’indisponibilità a fare tesoro, a tal fine, delle imponenti informazioni che le indagini giudiziarie riportano in misura molto più ampia rispetto a quanto destinato a costituire specifico oggetto dell’azione penale, alla quale soltanto – in definitiva – si finisce per fare riferimento.
Alfredo Morvillo è stato uno dei magistrati di punta della formidabile stagione, succeduta a quella delle stragi, nella quale gli uffici giudiziari di Palermo hanno profuso il massimo impegno nella lotta alla mafia, conseguendo risultati di storica rilevanza, con gli arresti e le condanne definitive di tutti i principali esponenti di cosa nostra (con un’unica eccezione), con la ricostruzione di gravissimi intrecci criminali e di strette connivenze con vertici politici, amministrativi ed economici, con l’efficace repressione delle manifestazioni mafiose più violente e sanguinarie (fino alla loro quasi totale scomparsa), con la riconquista, da parte dello Stato, di aree territoriali, economiche e sociali sottratte al controllo dalla criminalità.
Tra le tante operazioni da lui gestite e coordinate, dapprima come Sostituto Procuratore e quindi come Procuratore Aggiunto, merita di essere ricordata quella che ha portato all’arresto del boss mafioso latitante Salvatore Lo Piccolo (in quel momento vertice assoluto delle famiglie palermitane) frutto di un’indagine particolarmente articolata ed impegnativa, condotta con estrema tenacia ed ostinazione.
Alfredo Morvillo ha sempre esercitato un carisma trascinante verso i colleghi, soprattutto i più giovani, per effetto della notoria esuberanza e capacità comunicativa con cui ha saputo trasmettere impegno appassionato sul lavoro, senso di giustizia, grande forza interiore, rifiuto di compromessi e schiettezza di giudizi.
Un suo connotato specifico è sempre stato costituito dal desiderio e dalla capacità di “fare squadra” con i colleghi, in tutte i momenti della sua esperienza professionale. È stato un convinto assertore del lavoro di gruppo, nel quale valorizzare le singole personalità. Si è così tenuto lontano da atteggiamenti di egocentrismo ed autoreferenzialità (vizio comune a molti Pubblici Ministeri) per operare da catalizzatore di energie, professionalità ed esperienze diverse da armonizzare e far crescere in vista di un risultato comune da perseguire con unica ed indistinta determinazione.
Di questa meritoria funzione è stato efficace interprete nelle sue diverse esperienze di “semidirettivo”, quale Procuratore aggiunto di Palermo e quindi di “direttivo” come Procuratore della Repubblica di Termini Imerese e di Trapani, costituendo ogni volta rapporti di pieno affiatamento e reciproca fiducia con i colleghi a lui affidati, testimoniati dall’affetto e dal rimpianto lasciati ad ogni trasferimento d’ufficio.
Alfredo Morvillo, in definitiva, costituisce da sempre – e certamente lo sarà anche in futuro – l’immagine, concordemente riconosciuta, di magistrato corretto e rispettoso dei diritti di tutti, ma nello stesso tempo determinato ed intransigente sul lavoro. Per chi ha lavorato al suo financo, esempio vivente di collega limpido leale ed affidabile, dal quale sai che non potrai mai ricevere tradimenti o delusioni.
In definitiva, uno splendido magistrato ed un vero uomo …. e non è che in giro se ne vedono tanti!!
Recensione di Paola Belsito a "Le unghie rosse di Alina" di Christine Von Borries
Prendi quattro giovani donne curiose, spiritose, intriganti, impegnate, apparentemente forti e decise anche se, dietro all’apparenza, nascondono notevoli tratti di fragilità e di insicurezza, in particolare per quel che concerne le loro vite private e i loro rapporti sentimentali.
Immagina che quelle quattro giovani donne siano saldamente legate l’una all’altra, accomunate da quel sentimento di solidarietà che spesso contraddistingue e qualifica positivamente i rapporti personali declinati al femminile, un vincolo fatto di affetto, vicinanza e complicità, così stretto da farle sentire parte di un gruppo in cui ciascuna completa e sostiene l’altra; amiche per la pelle, insomma, che non riescono a lungo a fare a meno l’una dell’altra perché il legame che le unisce è così forte che, senza le altre, ciascuna di loro si sente privata di una delle due ali che le servono per volare.
Inserisci quelle donne in una cornice unica e affascinante, Firenze, la città nella quale tutte loro vivono e che grazie ai loro incontri, attraverso i loro sguardi, possiamo cogliere in alcuni squarci intensi e vivaci, ora una strada, ora una piazza, ora un noto locale del centro cittadino, ora i meravigliosi colli che la circondano esaltandone la straordinaria bellezza.
Una cornice all’interno della quale irrompe prepotentemente l’omicidio di una giovanissima e bella ragazza, una prostituta ucraina, un delitto che inizialmente coinvolge solo due delle amiche fiorentine, Valeria, pubblico ministero e madre di due bimbi, in attesa del terzo, magra, capelli fini biondi, sorriso luminoso e un tono di voce morbido e gentile, ed Erika, poliziotta, sportiva e mamma single del piccolo Tommaso, una massa di capelli rossi alla prese con un esame per diventare ispettore di polizia; un’inchiesta che in breve vedrà partecipi a tempo pieno anche le altre due amiche, Monica, commercialista, vivace e appassionata del suo lavoro, accogliente e generosa, e non soltanto per il suo gradevole aspetto fisico, e Giulia, giornalista d’inchiesta, capelli corti, decisa e naturalmente curiosa, dagli apparenti modi bruschi e in perenne lotta con un ambiente maschilista che cerca inutilmente di escluderla dalle indagini più scottanti.
Dopo “A noi donne basta uno sguardo” l’autrice scrive un altro capitolo della serie incentrata sulle quattro amiche fiorentine e ci regala un nuovo giallo di attualità, “Le unghie rosse di Alina”, la narrazione di un’indagine per omicidio che si interseca e si dipana intorno alla vita delle sue protagoniste che, mosse dall’amicizia che le lega ma anche da una istintiva curiosità e da quel pizzico di temerarietà e avventatezza che non guasta alla costruzione di un clima di crescente suspense, si ritrovano ad investigare riuscendo infine, tutte insieme, a svelare le ragioni dell’efferato delitto e a smascherare il colpevole.
Sullo sfondo il motivo conduttore del romanzo e dell’indagine trattata dalle nostre quattro intraprendenti amiche, un tema delicato e controverso quale è il desiderio di maternità, l’aspirazione di molte, tante donne di poter avere un bambino indipendentemente dalla possibilità biologica di concepirlo; il concatenarsi degli eventi ci porta così nel mondo della fecondazione assistita, e ci fa intravedere come dietro ad un atto d’amore si possano nascondere interessi economici rilevanti e finalità illecite camuffate con la necessità di abbreviare dei tempi spesso troppo lunghi e di bypassare la burocrazia e le limitazioni all’accesso all’assistenza sanitaria previste dalla legge vigente nel nostro paese.
Il tema viene affrontato dall’autrice con leggerezza e sensibilità, oltre che con una particolare attenzione per la vittima del reato, ancora una volta una giovane immigrata che paga con la vita il desiderio di costruirsi un futuro dignitoso nel nostro paese.
Il risultato è un thriller sentimentale che si legge tutto d’un fiato, godibile, scorrevole, equilibrato e ben costruito che, via via che si dipana la storia, si fa più avvincente, tanto da celare proprio nelle ultime pagine, quando tutto sembrava oramai definitivamente chiarito, un ultimo colpo di scena. L’autrice centra ancora una volta l’obbiettivo di divertire e appassionare il lettore alternando alla vicenda criminale e giudiziaria le storie professionali e personali delle quattro amiche che, tra una chiacchierata e una confidenza, si buttano anima e corpo in una storia che riuscirà a mettere a repentaglio la sicurezza ora dell’una, ora dell’altra, ma che sapranno risolvere in maniera corale e rocambolesca. Christine si conferma così scrittrice in grado di narrare storie di grande attualità con garbo e invidiabile naturalezza, e con una dose di delicatezza che è caratteristica e pregio dell’animo femminile.
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