ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Segnalazione di legislazione “oscura, imperfetta od incompleta” da parte del Consiglio di Stato
(nota a Cons. Stato, sez. Consultiva, 9 luglio 2020 n. 1271 e 10 luglio 2020 n. 1278)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Premessa sulla funzione consultiva e giurisdizionale del Consiglio di Stato. 2. La compatibilità della normativa nazionale sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale con la normativa euro-comunitaria. 3. La disapplicazione della normativa nazionale. 4. L’ambito di discrezionalità del Giudice. 5. I limiti della supplenza giudiziaria. 6. La segnalazione di norma oscura, imperfetta od incompleta. 7. Conclusioni sull’unitarietà delle funzioni del Consiglio di Stato.
1. Premessa sulla funzione consultiva e giurisdizionale del Consiglio di Stato
Il caso affrontato dal parere del Consiglio di Stato reso in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato[1] riguarda la segnalazione al Presidente del Consiglio dei Ministri che la normativa sulla revoca delle misure di accoglienza[2] risulta in qualche parte “oscura, imperfetta od incompleta” a seguito della sentenza della Corte di Giustizia[3] che ne ha determinato la disapplicazione. La vicenda è interessante in quanto è stata affrontata sia in sede giurisdizionale e sia in sede consultiva e traccia gli ambiti del potere decisorio del giudice.
La sentenza del giudice amministrativo[4] e i citati pareri del Consiglio di Stato si inseriscono in quella latitudine applicativa del principio di legalità che da “principio di regolazione delle fonti del diritto” si è sviluppato in “principio di certezza oggettiva del diritto degli atti amministrativi e legislativi” e in “principio di prevedibilità soggettiva delle decisioni”, principi che molto spesso sono attuati con l’aiuto dell’interpretazione del giudice[5]. La questione è di notevole attualità e in più sedi si sono instaurati dibattiti sul tema. Vi è stato un serrato confronto nelle Giornate di Studio sulla Giustizia Amministrativa a Modanella nel 2017 proprio sulla (ri)lettura del principio del giusto processo “nella prospettiva dell’assicurazione della giustizia intrinseca della decisione, piuttosto che della sua correttezza” e pertanto della sua declinazione “non più limitata alla procedura ma estesa alla sentenza”[6], e nel 2018 in continuità del tema dell’anno precedente è stato innescato il dibattito sul “diritto alla sicurezza giuridica” posto in relazione alla “ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali”[7].
Il caso complessivamente considerato nella sua sequenza evolutiva evoca la teoria di Santi Romano sulla “unità funzionale” del Consiglio di Stato nella sua conformazione consultiva e giurisdizionale[8].
Com’è noto uno dei fattori di rischio per lo sviluppo di un Paese è costituito dall’incertezza delle regole che presiedono al corretto esercizio dei poteri pubblici (amministrativi e giurisdizionali) con i quali i cittadini e non, gli operatori e gli investitori sono costretti a rapportarsi[9]. Spesso il legislatore risulta essere “incapace, impotente o rinunciatario”[10] in quanto spesso non esercita la funzione d’indirizzo politico e per converso si pecca nell’eccessiva esaltazione del ruolo del giudice nella soddisfazione dei bisogni della collettività creando così la ibridazione della regola dello stare decisis con quella della nomofilachia[11].
Negli ultimi decenni il Consiglio di Stato ha posto una particolare attenzione sulla qualità “sostanziale” della regolazione. Si è notato che una “normazione di qualità implica non solo coerenza e chiarezza da un punto di vista giuridico-formale (regole leggibili sia per gli operatori che per i cittadini) ma anche essenzialità e minore onerosità da un punto di vista economico-sostanziale”[12].
Il Consiglio di Stato dalle sue lontane origini si occupa della qualità della normazione. All’inizio (1831-1859) ha volto solo funzioni consultive, fino al 1865 ha svolto funzioni consultive e giurisdizionali, dopo l’abolizione del contenzioso amministrativo nel 1865 ritornò a svolgere solo le funzioni consultive e in seguito alla creazione della IV sezione nel 1889 e fino ai nostri giorni svolge funzioni consultive e giurisdizionali.
Si può sostenere che l’esercizio delle funzioni consultive fu anche la ragione per la quale nel 1889 furono (ri)attribuite le funzioni giurisdizionali[13].
Oggi la funzione consultiva s’inserisce nel contesto della complessità normativa dovuta a molteplici fattori tra quali vi rientra il fenomeno della delegificazione che ha portato verso una importante trasformazione delle fonti facilitando al contempo un notevole sbilanciamento a favore del Governo a discapito del Parlamento. Essa inoltre s’inserisce nel contesto della qualità e della fattibilità dell’attività normativa e regolamentare, la quale non è più solo una tecnica meramente redazionale ma è diventata materia oggetto di politica generale di Governo[14]. Ad essa si collega l’obiettivo di ridurre il contenzioso per il quale la qualità della normazione costituisce uno snodo fondamentale[15].
Il Consiglio di Stato “si occupa della normativa” non solo “a monte”, nella fase nomogenetica, attraverso l’esercizio della funzione consultiva ma anche a valle in sede giurisdizionale di applicazione delle regole[16]. Infatti, il Consiglio di Stato nell’ambito della sua funzione consultiva è un “formidabile osservatorio sul contenzioso amministrativo”, in quanto è in grado di effettuare ex ante le valutazioni individuando i profili a maggior rischio di litigiosità[17]. Quest’aspetto circolare ed unitario delle funzioni si è palesato in modo particolare nella materia dei contratti pubblici e nell’attuazione della c.d. legge Madia.
Quale sia però oggi il rapporto, e se vi sia un rapporto, tra la funzione consultiva e quella giurisdizionale è un aspetto che fa riemergere il pensiero di Santi Romano, secondo cui la funzione consultiva e quella giurisdizionale implicano entrambe un sindacato sugli atti amministrativi, l’uno preventivo, l’altro repressivo.
2. La compatibilità della normativa nazionale sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale con la normativa euro-comunitaria
Nel concreto la questione affrontata nei pareri che si commentano si inserisce nel contesto della compatibilità della normativa nazionale sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale con la normativa euro-comunitaria e, in particolare, riguarda l’approccio assunto dal giudice nazionale di fronte ad una pronuncia della Corte di Giustizia emessa in sede di rinvio pregiudiziale in un altro Stato. In queste ipotesi, com’è noto, la Corte europea non risolve la controversia nazionale, ma spetta al giudice nazionale sciogliere la questione conformemente alla decisione del giudice europeo che vincola egualmente gli altri giudici nazionali nel caso in cui è sottoposto un problema simile.
La Corte di Giustizia si è espressa sulla portata dell’art. 20, par. 4, della direttiva 2013/33[18] che attribuisce agli Stati membri il diritto di stabilire le sanzioni applicabili quando un richiedente protezione internazionale si sia reso colpevole di una grave violazione delle regole del centro di accoglienza presso cui si trova o di un comportamento gravemente violento[19].
Il caso riguardava un richiedente protezione internazionale ospitato in Belgio in un centro di accoglienza che è stato coinvolto in una rissa fra residenti di origini etniche diverse. A seguito di tali fatti, il direttore del centro di accoglienza ha deciso di escluderlo, per un periodo di quindici giorni, dall’assistenza materiale. Il giudice d’appello chiamato a decidere sulla pronuncia di primo grado che respingeva il suo ricorso contro la decisione di esclusione, ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito sulla possibilità per le autorità belghe di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza di un richiedente protezione internazionale.
La Corte ha stabilito che la disposizione normativa belga, letta alla luce dell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non consente agli Stati membri di infliggere una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza del richiedente relative all’alloggio, al vitto o al vestiario.
Essa ha innanzitutto precisato che le sanzioni di cui all’art. 20, par. 4, della direttiva 2013/33 possono, in linea di principio, riguardare le condizioni materiali di accoglienza e conformemente all’art. 20, par. 5, devono essere obiettive, imparziali, motivate e proporzionate alla particolare situazione del richiedente, e devono, in tutte le circostanze, salvaguardare un tenore di vita dignitoso.
Pertanto la revoca, seppur temporanea, del beneficio di tutte le condizioni materiali di accoglienza o delle condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario è da considerarsi incompatibile con l’obbligo di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso. Una simile sanzione priverebbe il richiedente asilo della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Inoltre, violerebbe il requisito di proporzionalità.
Da quanto precede ne consegue che il diritto giurisprudenziale europeo sia una realtà da cui non si può più prescindere ed essa si assume il ruolo di regolare i fenomeni rilevanti per lo spazio europeo nel quale circolano persone e cose imponendosi sugli ordinamenti nazionali.
3. La disapplicazione della normativa nazionale
Il caso è altresì significativo in quanto evoca il ruolo e i limiti del giudice (nazionale) in presenza di anomalie legislative (rilevate in sede euro-comunitaria).
In concomitanza alla celebrazione del giudizio in sede europea si è posta la questione davanti al Tar Toscana. Il caso riguardava un richiedente protezione internazionale, ammesso alle misure di accoglienza, che nel corso della permanenza sul territorio nazionale è stato deferito all’Autorità Giudiziaria per il reato di furto aggravato in concorso con altre tre persone (anch’esse richiedenti protezione internazionale). Conseguentemente, con provvedimento prefettizio è stata revocata la sua ammissione alle misure di accoglienza in base alla lett. e) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, la quale prevede che “in caso di violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti” il Prefetto dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d’accoglienza.
Inizialmente il Tar aveva disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia la quale nelle pendenze del ricorso al Tar si era pronunciata con la sopra menzionata sentenza nel caso belga. Alla luce di quanto statuito dalla Corte di Giustizia il Tar Toscana si è pronunciato e ha disposto che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lett. e) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento dei ricorsi e annullamento dei provvedimenti impugnati[20].
In dettaglio ha disposto che “le norme interne degli Stati dell’Unione Europea contrastanti con quelle euro-comunitarie, come interpretate dalla Corte di Giustizia, recedono a fronte di queste ultime e, pertanto, devono essere disapplicate nel caso concreto sia in sede giudiziaria che dalla pubblica amministrazione”.
In tale contesto, infatti, osserva il giudice amministrativo che le posizioni giuridiche create dall’Unione “devono essere tutelate in modo uniforme in tutti gli Stati membri” in quanto deve essere garantita “la corretta interpretazione delle norme comunitarie ad opera della Corte di Giustizia le cui pronunce devono irrevocabilmente trovare applicazione all’interno degli Stati”. Di conseguenza “le norme interne contrastanti con quelle eurounitarie non possono trovare applicazione nel caso concreto”.
In sintesi, si può osservare la “statualità del diritto ha ceduto il passo alla globalizzazione dei diritti e delle tutele” nella quali il giudice, nell’ambito della concezione del diritto integrato è chiamato a leggere e interpretare la norma interna in modo che sia compatibile con l’ordinamento configgente.
4. L’ambito di discrezionalità del giudice
Le considerazioni che seguono in merito alla normativa sull’immigrazione in senso lato evocano aspetti che sono di carattere generale e in gran parte rispecchiano la situazione generale inerente la quantità e la qualità della normativa e l’influenza sulla dinamicità e capacità di innovazione del sistema sociale ed economico.
Molte leggi, tra cui quelle che si occupano di immigrazione, sono soggette a un processo in continua rivisitazione legislativa dovuto a una molteplicità di fattori che la rendono spesso instabile.
Nello specifico i mutamenti legislativi sono dovuti alla spinta di situazioni eccezionali derivanti dall’imponente fenomeno dei flussi migratori che toccano i confini esterni della Ue (ad es. nel Mediterraneo) e anche quelli interni (ad es. la rotta Balcanica)[21]. Ad essi si sommano i cambiamenti politici che hanno affrontato il fenomeno in modo diverso, e di recente, in un’ottica di politiche securitarie, che per certi versi sono ignare della matrice personalistica del diritto costituzionale e, potenzialmente in conflitto con i principi dell’ordinamento nazionale ed eurocomunitario[22].
Vi si aggiunge a livello esterno il legislatore euro-comunitario il cui approccio per la questione migratoria, al pari di molti legislatori nazionali, è relegato “dentro un orizzonte geopolitico ristretto e stabile, popolato di individui e Stati nazionali dai confini ben precisi”[23].
In un contesto generale va invece considerata la pluralità dei centri di normazione e la tipologia delle fonti che spesso spostano il baricentro delle competenze dal Parlamento al Governo sia in occasione della decretazione di urgenza e sia in ambito c.d. delegificatorio con fonti governative primarie (decreti legislativi) e fonti di rango secondario (regolamenti).
Alla fine però, molto spesso, è lo sforzo interpretativo della giurisprudenza (in rapporto diretto con il fatto) e della dottrina (che invece procede dal diritto al caso) a dare o cercare di dare una soluzione tra le tante possibili[24]. Infatti, le questioni migratorie non di rado sono oggetto di contenzioso sia avverso provvedimenti o azioni dell’amministrazione pubblica (in ambito amministrativo e ordinario) sia nei contesti (penali) volti a sanzionare comportamenti penalmente rilevanti dei soggetti coinvolti in vicende migratorie, degli immigrati stessi e dei cittadini nei rapporti con gli immigrati[25].
Talchè la legge molto spesso lascia al giudice ampi margini di discrezionalità interpretativa tanto che l’attività giurisdizionale, nei suoi momenti volitivi e cognitivi, è chiamata a svolgere un ruolo determinante identificando “l’interpretazione più plausibile fra molteplici (inevitabilmente) plausibili”[26] che però non possono prescindere dalle “coordinate segnate dalla necessaria attualizzazione e contestualizzazione del disposto normativo”[27].
Tuttavia accade che queste coordinate mancano in quanto il caso è difficile[28] e spesso è reso tale da un quadro normativo oscuro, non chiaro e impreciso o la disciplina normativa è aperta a clausole generali o manca la disciplina sul caso oppure ancora il giudice è tenuto applicare le sentenze della Corte di Giustizia o della Cedu per cui, in sede di giudizio, si richiede al giudice di interpretarle, ricostruendone il significato[29].
Quando il caso non è facile, cioè al di fuori di applicazione di norme puntuali e specifiche, il giudice dispone di “estesi spazi di discrezionalità”[30] che variano a seconda dei casi ora esposti ed è chiamato a decidere enunciando la regola del caso entro dei limiti (esterni) ben definiti.
Il giudice, innanzitutto, non può rifiutarsi di dare la soluzione alla lite (divieto di non liquet).
Recente giurisprudenza si è espressa sulla questione critica che si rinviene nella difficoltà di trovare la soluzione in quanto rimane però “irrisolta la questione di fondo”. Essa ha evidenziando che il giudice assume comunque una decisione in quanto “al giudice non è consentito pronunciare un sostanziale non liquet” sebbene a causa della “infelice formulazione della norma” (…) “la scelta di un criterio interpretativo in luogo dell’altro implica un risultato finale diverso”[31].
Inoltre la sentenza non può peccare di astrattezza.
Significativa è la posizione del Consiglio di Stato secondo la quale “non esiste regola del caso concreto – e tale è, per definizione, la statuizione giudiziale atta a costituire cosa giudicata – che si presenti, già nella sua stessa formulazione, perplessa, incerta, periclitante, perché ciò contraddice l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, che deve essere chiara, sintetica, in funzione della sua certezza e della sua intelligibilità”[32].
In effetti “una motivazione non convinta, da parte dell’organo giudicante, è anche una motivazione non convincente, incapace di esprimere, cioè, in modo sufficiente (…) la pur concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono la statuizione impugnata”.
5. I limiti della supplenza giudiziaria
Nei casi in cui la norma è aperta oppure è oscura o manca la disciplina sul caso concreto il giudice è chiamato a svolgere una sorta di “supplenza giudiziaria”[33]. Si parla anche di “giudice nomoteta”[34].
In queste ipotesi però si palesa il rischio di uno sbilanciamento del potere giudiziario sugli altri poteri, in particolare quando il giudice è chiamato a colmare un vuoto normativo e gli è chiesto di disciplinare un accadimento non normato sebbene si versi nella contraddizione che in un sistema di civil law non possa darsi un diritto di produzione giurisprudenziale[35]. Sempre più spesso il giudice è, infatti, costretto ad assumere l’improprio ruolo di supplente del legislatore ed è poi esposto al rischio di vedersi accusato di compromettere l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa con i suoi interventi[36].
Il discorso è molto più ampio e in questa sede ci si limita solo ad accennare.
In particolare si profilano le varie teorie sull’interpretazione del diritto che il giudice è chiamato a svolgere nell’ambito della sua attività discrezionale che comunque non può prescindere dall’accertamento del fatto.
Una prima teoria avallata maggiormente dalla dottrina muove dal postulato che il creatore della norma non sia il legislatore, ma l’interprete le cui pronunce sarebbero fonti (creazionismo integrale). Una seconda teoria più moderata e accolta dalla giurisprudenza ravvisa l’esistenza di momenti creativi dovuti alla complessità dell’ordinamento o all’ambiguità del linguaggio naturale (creazionismo moderato).
Tuttavia il discorso, ad opinione della dottrina più attenta[37], va impostato su un binario più prudente. In effetti, il fenomeno giuridico è alimentato da una pluralità di centri a cominciare dai privati e dalla pubblica amministrazione fino ad arrivare, in caso di conflitto o di richiesta di tutela, alla giurisprudenza per cui essa è fonte di diritto non perché crea le norme, ma rispettivamente perché “il significato della norma si ricava osservando la quotidiana opera del giudice”[38] o perché “la norma vive nell’interpretazione data dal giudice”[39].
Nel caso del Tar Toscana il giudice ha esaurito il potere decisorio non potendo fare altro che accogliere il ricorso esternando la consapevolezza del rischio di un vuoto normativo in quanto a seguito della disapplicazione della sanzione di ci all’art. 23, d.lgs. n.142/2015, l’ordinamento non prevede alcuna altra sanzione a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere violazioni gravi delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti.
Il giudice ha così segnato il suo limite e ha constatato che la sua sentenza era in grado di produrre una lacuna venutasi a creare a seguito della sentenza della Corte di Giustizia.
Null’altro ha potuto fare se non rivolgersi indirettamente al legislatore scrivendo nella sentenza che è “responsabilità del legislatore colmare tale lacuna non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea”.
Il giudice di merito ha instaurato un canale di interlocuzione, sebbene indiretta, con il legislatore.
In una recentissima sentenza in materia di informazione antimafia e garanzia della partecipazione procedimentale, il Consiglio di Stato si rivolge al legislatore affidandosi “alla saggezza” di questi affinchè “nell’ottica di un delicato bilanciamento tra i valori in gioco che hanno una rilevanza, ormai, non solo nazionale” si adoperi per “valutare simili o altri percorsi normativi, che evitino un sacrificio del diritto di difesa sproporzionato, in talune ipotesi che non siano contrassegnate dall’urgenza (…) rispetto alla pure irrinunciabile, fondamentale, finalità del contrasto preventivo alla mafia”[40].
È evidente che in taluni casi il rapporto tra giudice e legislatore è complesso.
Un dato di fatto assodato è che “(è ovvio) che il potere di fare le leggi spetta al Parlamento (art. 70 Cost.), ma è empiricamente falso affermare che il giudice non crei diritto”[41].
Un altro dato di fatto è che l’attività interpretativa del giudice “non può ridursi, come pur si era tentato di prospettare, ad una mero applicatore della legge scritta” in considerazione del “dinamismo insito in tutti i fenomeni umani e, dunque, anche sociali e, conseguentemente, giuridici”[42].
Dall’altro lato però si palesa la preoccupazione “di una dominanza del potere giudiziario sugli altri poteri, sovente amplificata, per ragioni politiche, dalla non regolazione del fenomeno da parte del naturale potere a ciò preposto (il Parlamento) che impone (al giudice) di colmare un vuoto normativo”[43].
Il giudice, in particolare quello di merito, si trova in un contesto in cui da un lato non può non decidere e dall’altro non può sostituirsi al legislatore ma è chiamato, al di là del dato letterale, a capire “l’intenzione” del legislatore ai sensi dell’art. 12 Preleggi e comunque è chiamato a “compiere ogni sforzo (senza limitarsi al dato letterale) per dare alla norma un significato conforme a Costituzione, a pena di inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale”[44].
Talchè il suo perimetro è molto ampio e non di rado è foriero di incertezze in quanto, come appena visto, vi sono casi in cui la norma è “oscura, imperfetta od incompleta”.
Il discorso va comunque ripreso nell’ambito dal principio di certezza del diritto che ha riconfigurato il principio di legalità a cui si lega e il rapporto giudice – legislatore va comunque considerato in una logica collaborativa e non di contrapposizione[45].
6. La segnalazione di norma oscura, imperfetta od incompleta.
La norma può risultare oscura, imperfetta od incompleta non solo per fattori formali ma anche a causa di “fattori patologici e fisiologici”. Acuti osservatori notano il momento patologico nella “traslatio dal momento legislativo a quello applicativo, della mediazione del conflitto” che generano la regola poco chiara o ambigua in quanto “non si è riusciti a comporre il conflitto a livello politico”[46]
L’ambito naturale in cui si palesano le questioni sulla qualità normativa è quello consultivo del Consiglio di Stato in forma tecnica al Governo e anche, ove previsti, in forma di indirizzo alle Camere[47], mentre quello giurisdizionale lo è di meno in quanto situazioni patologiche inerenti la norma demandano al giudice la creazione della regola e non già la mera applicazione[48].
Il profilo soggettivo di Magistratura permette oggi di ritenere che la funzione di consulenza giuridico-amministrativa, possa attribuire al Consiglio di Stato - come alla Corte dei conti nell’esercizio della funzione di controllo - la qualità di Organo, non dello Stato-apparato, ma dello Stato ordinamento.
In tal modo l’attività consultiva è ritenuta un’attività di garanzia, al pari di quella giurisdizionale, secondo i canoni dell’assoluta autonomia e indipendenza, “nell’interesse pubblico” e non “nell’interesse della pubblica amministrazione”[49]. È stato rilevato[50]. che questa sua attribuzione andrebbe inoltre utilizzata “in via continuativa, pur nel rispetto delle attribuzioni di altri organi, amministrativi o legislativi” e questo “non per avidità di esercitare più vasti compiti, ma nella convinzione che ciò sia conforme all’interesse pubblico” [51].
Tra le sue funzioni consultive, per quanto ci riguarda, emerge l’art. 58 del R.D. 21 aprile 1942, n. 444 il quale prevede che qualora nel corso degli affari da esso discussi il Consiglio di Stato si avveda “che la legislazione vigente è in qualche parte oscura, imperfetta od incompleta” può farne rapporto al Capo del Governo[52].
Carlo Anelli nel discorso pronunciato in occasione dell’insediamento del nuovo presidente del Consiglio di Stato, osservava che “di questa norma” (cioè dell’art. 58) “si è fatta rara e limitata applicazione, più che altro per segnalare, in sede di emissione di pareri sull’interpretazione di norme oscure o contraddittorie, l’opportunità di un intervento del legislatore”. Auspicava che “tale forma di ausiliarietà venga, in un prossimo futuro, affinata e incrementata”. Egli palesava le potenzialità della funzione consultiva in quanto “la globale unitaria visione di una normazione secondaria in via di continuo ampliamento meglio consentirà al Consiglio di Stato di indicare, anche alla luce dell’esperienza giurisprudenziale di primo e di secondo grado, imperfezioni o incompletezze della normazione primaria e prospettare ipotesi migliorative e innovative”[53].
Non mancano però occasioni in cui il Consiglio di Stato abbia fatto uso di questo specifico strumento sebbene, da quanto risulta, molto di rado nell’ambito del ricorso straordinario.
Di recente il Consiglio di Stato in occasione del parere sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante disposizioni in materia di istituzione e funzionamento del registro pubblico dei contraenti che si oppongono all’utilizzo dei propri dati personali e del proprio numero telefonico per vendite o promozioni commerciali, ha disposto la segnalazione in base all’art. 58, cit., in quanto “non può sottacere il fatto che il quadro normativo di riferimento sia di difficile interpretazione”. Il Consiglio notava che “la stessa soluzione prospettata dal Ministero nei suoi chiarimenti appare piuttosto il frutto di un’interpretazione manipolativa del testo normativo primario che, se applicato nelle modalità regolamentate, potrebbe generare dubbi sul piano della tenuta costituzionale in relazione al principio di legalità desunto dagli articoli 3, 25 e 97 della Costituzione”[54].
Un altro caso si riferisce al parere chiesto dal Ministero della salute sull’interpretazione dell’art. 2, c. 160, d.l. n. 262/06, in relazione all’incarico di Direttore generale dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (AGENAS)[55]. Il Consiglio di Stato si è avvalso dell’art. 58, cit., in quanto “emerge la differente posizione del direttore generale di AGENAS rispetto a tutte quelle figure cui fisiologicamente deve applicarsi il meccanismo dello spoils system, con conseguente dubbio di compatibilità della norma tuttora in vigore con gli artt. 95, 97 e 98 Cost.” e pertanto il Collegio ritiene necessario trasmettere il parere alla Presidenza del Consiglio dei ministri per l’eventuale assunzione delle iniziative legislative in materia.
Si evidenzia anche il quesito del Ministero dell’interno in materia di valutazioni medico-legali effettuate dalle commissioni medico-ospedaliere in applicazione della normativa riguardante le vittime del dovere, del terrorismo e delle stragi di tale matrice, nonché della criminalità organizzata, delle estorsioni e dell’usura. Sul punto ritenuto necessario tutelare le aspettative dei destinatari dei benefici e considerata la complessità del quadro normativo di riferimento, che necessita di un intervento volto a coordinare, semplificare e rendere verificabili da chiunque i parametri da prendere in considerazione per i diversi trattamenti previsti, la Sezione ritiene che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 58 del regio decreto 21 aprile 1944 n. 444[56]. Da qui emerge in modo vigoroso la qualità del Consiglio di Stato di Organo, non dello Stato-apparato, ma dello Stato ordinamento e la preoccupazione della tutela delle aspettative dei cittadini.
In materia di schemi di polizze tipo per le garanzie fideiussorie previste dagli articoli 103, c. 9, e 104, c. 9, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 il Consiglio di Stato ha ritenuto di segnalare al Ministro richiedente l’opportunità, per il futuro, di assicurare un adeguato coinvolgimento di tutte le categorie interessate, se del caso valutando anche la necessità di una modifica della norma primaria[57].
In tema di applicabilità al ricorso straordinario dell’istituto del patrocino a spese dello Stato per i soggetti non abbienti si era posta l’incongruenza normativa tra la possibilità che il ricorrente non abbiente non paghi alcun contributo unificato in caso di accoglimento del ricorso in sede giurisdizionale, mentre tale possibilità non appare sussistere per il rimedio alternativo del ricorso straordinario[58].
Significativo è anche il parere sul Conferimento della cittadinanza italiana ai sensi degli artt. 5 e 7 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 nell’ambito del quale il Consiglio di Stato si è avvalso dell’art. 58, cit., per stimolare un’eventuale iniziativa di modifica normativa[59].
7. Conclusioni sull’unitarietà delle funzioni del Consiglio di Stato
Notava Santi Romano che la consulenza del Consiglio di Stato trova luogo anche nell’esercizio di una funzione, che ha pure carattere amministrativo, almeno secondo l’opinione che sembra più esatta, ma confina con quella giurisdizionale, cioè nella decisione dei ricorsi straordinari (…)”[60].
Le pronunce rese dal Consiglio di Stato in sede consultiva nel ricorso straordinario fanno emergere un potenziale rapporto tra la funzione consultiva e quella giurisdizionale del Consiglio di Stato.
Il caso affrontato in due pareri concomitanti riguardanti comportamenti penalmente rilevanti dei richiedenti protezione internazionale[61], al di là della questione già nota sull’applicazione dell’art. 23, c.1, lett. e), d.lgs n. 142/2015, è ulteriormente avvincente in quanto il Consiglio di Stato si è espresso nell’ambito di un ricorso straordinario al Capo dello Stato e non già nell’ambito dell’attività consultiva pura previa richiesta di parere dell’amministrazione interessata.
In questo caso, a differenza del giudice amministrativo toscano (cit. supra) che si è rivolto indirettamente al legislatore evidenziandone la responsabilità di colmare la lacuna, il Consiglio di Stato avvalendosi dell’art. 52 ha riferito al Presidente del Consiglio di ministri e al Ministro dell’interno, competente ratione materiae per l’eventuale assunzione delle iniziative normative trasmettendone il parere.
Santi Romano evidenziava l’“unità funzionale” del Consiglio di Stato nella sua conformazione consultiva e giurisdizionale.
In tale contesto specifico il ricorso straordinario rappresenta un interessante banco di prova in quanto è un procedimento fortemente “giurisdizionalizzato” in cui il parere del Consiglio di Stato assume i connotati di una vera e propria decisione vincolante. Com’è noto questa connotazione ha assunto maggiore valore a seguito dell’abrogazione della potestà del Governo di discostarsi rispetto al parere espresso dal Consiglio di Stato e dopo l’introduzione della possibilità, per il Consiglio di Stato in sede consultiva, di rinviare alla Corte costituzionale questioni di legittimità costituzionale.
Lo snodo tra funzione consultiva e funzione giurisdizionale va indubbiamente visto come un valore dato dall’esperienza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. La funzione consultiva è svolta “in favore dello Stato-comunità e nell’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa: quindi, nella medesima posizione di terzietà richiesta al giudice”[62]. Inoltre secondo il pensiero di Caianiello la differenzia tra il giudizio/parere e il giudizio/sentenza non è nella struttura logica, ma nell’uso che ne fa l’ordinamento e nell’efficacia che quest’ultimo gli attribuisce.
Pertanto da questa premessa, e considerando che il giudice amministrativo quando la norma presenta anomalie comunque tende a rivolgersi (sebbene indirettamente) al legislatore (inteso senso lato), sorge chiedersi se l’assunto formulato da attenta dottrina[63] per cui il Consiglio di Stato possa anche indipendentemente da una richiesta di parere segnalare ex art. 52, cit., di sua iniziativa quali settori o aspetti della legislazione vigente meritino di essere riveduti o integrati trovi applicazione nell’ambito della funzione consultiva e in sede di ricorso straordinario oppure possa essere ulteriormente esteso alla sede giurisdizionale.
* * *
[1] Cons. St., sez. Con., 9 luglio 2020, n. 1271 reso sull’affare n. 633/2019 e 10 luglio 2020, n. 1278 reso sull’affare n. 275/2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Cfr. art. 23, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142.
[3] Corte di Giustizia Ue, Grande Sezione, 12 novembre 2019 in C 233/18
[4] Tar Toscana, Sez. II, 6 maggio 2020, n. 540, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Relazione sull’attività della giustizia amministrativa e discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, 12 Febbraio 2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it; Id. Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo, in http://www.unioneamministrativisti.it/wp-content/uploads/2019/10/articolo-Patroni-Griffi-1.pdf.
[6] F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI, La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi. Premessa, in I.d., La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018, p. 7-8.
[7] F. PATRONI GRIFFI, “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”. Introduzione al tema, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, p. 4.
[8] Discorso di insediamento del nuovo Presidente del Consiglio di Stato Santi Romano con l’intervento del Capo del Governo, Adunanza generale del 22 dicembre 1928 - VII.
[9] M. A. SANDULLI, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Conclusioni delle Giornate di Studio sulla Giustizia Amministrativa, Castello di Modanella, Rapolano Terme/Siena, 8-9 giugno 2018, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di) Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit.
[10] F. FRANCARIO, Diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit., p. 26.
[11] Ibidem
[12] M. TORSELLO, Le funzioni consultive del consiglio di stato, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/261561/nsiga_008062.pdf/97a60ba6-1780-09d2-0a85-df9f900a969a
[13] Ibidem
[14] S. LOMBARDO, La politica di governo a supporto della qualità della normazione, in P. CAPPELLO, A. CIAMMARICONI, G. LOMBARDI, S. LOMBARDO, in Il drafting statale, in P. COSTANZO (a cura di), Codice di Drafting, in http://www.tecnichenormative.it/draft/stato4.pdf, p. 31.
[15] Ibidem
[16] G. CARLOTTI, La “nuova” attività consultiva del Consiglio di Stato, in Rass. Avvocatura dello Stato, 2, 2018, p. 31.
[17] Ibidem
[18] Dir. 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, in GU 2013, L 180, p. 96.
[19] C. Giust. Ue, Grande Sezione, 12 novembre 2019, C 233/18.
[20] Tar Toscana, Sez. II, 6 maggio 2020, n. 540, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[21] M. NOCCELLI, Il diritto dell’immigrazione davanti al giudice amministrativo, in Federalismi, 5, 2018. F. FRANCARIO, Pubblica amministrazione e multiculturalismo, in Corr. del mer., 2012, 7, p. 643 ss.
[22] C. SBAILÒ, Immigrazione: il fallimentare approccio europeo e i limiti della risposta neo-sovranista. (Note sui profili di costituzionalità e sulle criticità applicative del decreto-legge 113/2018 /c.d. "decreto sicurezza"), in Federalismi, 3, 2019, p. 1
[23] Ibidem
[24] M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Questione Giustizia, 3, 2019, p.16 ss e 31.
[25] Va considerato inoltre, che per la molteplicità di istituti e diversità di situazioni giuridiche soggettive il riparto di giurisdizione anche in questa materia, tuttavia, è ben lungi dal potersi definire chiaro e lineare.
[26] Ibidem.
[27] M. LUCIANI, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir., Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, 2016, p. 436 ss.
[28] Sul caso facile A. Barak, La discrezionalità del giudice, trad.it. Milano 1995; F. Patroni Griffi, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, in Lo Stato, 12, 2019.
[29] F. PATRONI GRIFFI, op. et loc. ult. cit.
[30] F. PATRONI GRIFFI, Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo, cit., p. 5.
[31] Tar Marche, Sez. I, 23 giugno 2020, n. 394, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[32] Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6711, in https://www.giustizia-amministrativa.it. In particolare il passaggio: “L’iter motivazionale della sentenza impugnata non deve riflettere un irrisolto e tortuoso travaglio interiore del giudice che, proprio in quanto tale, deve rimanere interno alla sfera del proprio convincimento, ma esprimere, con la chiarezza e la sinteticità dovute (art. 3, comma 2, c.p.a.), le ragioni che lo hanno indotto a superare il dubbio, sul piano della ricostruzione dei fatti e della interpretazione delle norme, e a giungere alla soluzione della controversia, enunciando la regola del caso concreto secondo il nostro ordinamento”.
[33] F. PATRONI GRIFFI, Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo, cit., p. 6
[34] F. FRANCARIO, Diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit., 26.
[35] A. RUGGERI, Diritto giurisprudenziale e diritto politico, in Consulta on line, 3, 2019, p. 708.
[36] F. FRANCARIO, “Disputare de potestate”: giustizia nell’amministrazione e giusto processo, in La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018, 13.
[37] M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Questione Giustizia, 3, 2019, pp.16 e 17.
[38] F. PATRONI GRIFFI, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, cit., il quale sostiene che “il significato della norma si ricava soprattutto osservando la quotidiana opera del giudice”, e riconosce che la supplenza nomopoietica del giudice è patologica e la giustifica solo in forza della crisi della legislazione (cfr. anche M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, cit.).
[39] G.P. CIRILLO, Sistema istituzionale di diritto comune, Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2018, p. 20.
[40] Sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[41] L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione, 1994, p. 120.
[42] S. GLINIANSKI, Crisi della rappresentanza e metamorfosi del ruolo del Giudice in un contesto di Stato costituzionale europeo, in Lexitalia, 4, 2019.
[43] Ibidem.
[44] A. LAMORGESE, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, in https://www.questionegiustizia.it.
[45] S.GLINIANSKI, op. et loc. ult. cit.
[46] F. PATRONI GRIFFI, “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”. Introduzione al tema, cit., p. 7.
[47] Cfr. Cons. St., Ad. Gen. 25 ottobre 2004, n. 2/04: “L’unica eccezione a questa regola generale può essere costituita dai pareri delle Camere parlamentari, laddove previsti, poiché tali avvisi costituiscono il frutto di una valutazione di natura ontologicamente differente da quella prevista per il parere del Consiglio di Stato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988 o dall’art. 17 della legge n. 127 del 1997. Tali pareri, infatti, negli sviluppi più recenti della prassi, vengono considerati non come atti endoprocedimentali in senso tecnico ma piuttosto come pareri in funzione “politica”, di indirizzo del Parlamento al Governo, in quanto tali estranei al procedimento amministrativo inteso come serie di atti funzionalmente collegati in vista del provvedimento finale, sicché rientra solo nella responsabilità politica del Governo il tenerne o meno conto”.
[48] La rinuncia o l’impossibilità del legislatore di definire preventivamente, in via generale ed astratta, le regole sostanziali destinate a risolvere i possibili conflitti tra gli interessi”, in effetti, lasciano al giudice la creazione della regola e non già la mera applicazione, cfr. F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI, La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi. Premessa, in I.d., La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018, 8.
[49] Discorso pronunciato in occasione dell’insediamento da Pasquale de Lise a Presidente del Consiglio di Stato 22 settembre 2010, egli aveva notato che sotto un profilo finalistico - ai pareri del Consiglio è estranea qualsiasi considerazione o rappresentazione di interessi di parte, ivi compresi quelli dell’amministrazione procedente che richiede il parere.
[50] Discorso pronunciato in occasione dell’insediamento di Giorgio Crisci a Presidente del Consiglio di Stato, 20 marzo 1986, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[51] V. DI CIOLO, Riflessioni sulla qualità giuridica delle leggi e degli atti normativi, cit., p. 574. Si consideri però, che in sede costituente la posizione assunta era diversa. In Assemblea Costituente si era aperto il dibattito sulla collaborazione del Consiglio di Stato, organo anche giurisdizionale, all’elaborazione delle leggi. Dopo l’approvazione della formula “Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo”, fu discusso il seguito della formula che aggiungeva “e del Parlamento” che venne bocciata nel “timore che essa avrebbe diminuito la libertà di azione del Parlamento”.
[52] Aggiornando il tenore di tale disposizione, l’art. 6, d.P.R. 19 luglio 1989, n. 366, prevede che l’Ufficio Centrale per il coordinamento dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa del Governo si avvalga dei rapporti del Consiglio di Stato al fine di segnalare al Presidente del Consiglio le iniziative legislative necessarie per rimuovere incongruenze normative ed antinomie.
[53] Anche Giannini rilevava che è “molto male” lo scarso ricorso del Governo al Consiglio di Stato per curare la tecnica legislativa, cfr. M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1981, p. 136.
[54] Cons. St., Sez. Cons., 9 luglio 2020, numero affare 158/2020, n. 1339/2020, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[55] Cons. St., Sez. Cons., 20 novembre 2019, numero affare 1580/2019, n. 2925/2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[56] Cons. St., Sez. Cons. 4 marzo 2015, numero affare 3105/2013, n. 2881/2015, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[57] Cons. St., Sez. Cons. 12 luglio 2017, n. 1665 in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[58] Cons. St., Sez. Cons. 26 novembre 2014 e 10 giugno 2015, numero affare 03162/2013, n. 1958/2015, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[59] Cons. St., Sez. Cons, 27 gennaio 2010, numero affare 5217/2009, n. 1003/2010, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[60] SANTI ROMANO, Le funzioni e i caratteri del Consiglio di Stato, in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, I, Roma, 1932, p. 20.
[61] Protesta sfociata in atti di aggressione fisica e verbale nei confronti del responsabile della struttura, degli operatori nonché degli altri ospiti del centro.
[62] Relazione sull’attività della giustizia amministrativa e discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, 12 Febbraio 2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[63] M. TORSELLO, op. cit.
Il lascito di Marta Cartabia alla Corte Costituzionale
di Oreste Pollicino
“To be the faithful guardian of the Constitution in this multicultural context, requires the ability to listen to a number of subjects, speaking with different voices and to develop a mindset oriented toward the search for harmony among them through the integration of the multiple factor in play”
Queste quattro righe, contenute nell’ultima pagina del volume pubblicato qualche anno fa da Oxford University Press[1], che Marta Cartabia, nella sua veste accademica, ha firmato insieme a Vittoria Barsotti, Paolo Carozza e Andrea Simoncini, possono a mio avviso rappresentare, se non un manifesto, certamente un distillato della visione che ha caratterizzato il suo essere prima giudice e poi presidente della Corte costituzionale.
Più precisamente, il passaggio prima ricordato è emblematico perché in grado di sintetizzare alcuni degli elementi distintivi della formazione accademica e culturale della prof.ssa Cartabia che non possono non riconoscersi, poi, nelle modalità con cui la Corte, durante il suo mandato presidenziale, ha, da una parte, proseguito il processo di evoluzione e, dall’altra, ha innovato strutturalmente rispetto allo status quo, anche a causa della necessità di assicurare la continuità delle sue funzione essenziali durante la stagione pandemica.
Quali questi elementi?
In primo luogo, la fiducia che Marta Cartabia ha sempre riposto tanto nella dimensione relazionale che lega la Corte ai suoi differenti interlocutori, non solo istituzionali, quanto nella capacità di adattamento della giustizia costituzionale ad un assetto giuridico, sociale ed economico in continua evoluzione, in cui il pluralismo diffuso richiede una sintesi armonica e corale di unità nella diversità.
Si tratta di una visione della giustizia costituzionale e, prima ancora del ruolo della Corte, in una società complessa e sempre più interconnessa, che non dovrebbe stupire chi conosce Marta Cartabia ed il suo essere studiosa, docente e intellettuale impegnata nel dibattito culturale italiano ed europeo.
Il principio di leale collaborazione tra le istituzioni repubblicane, l’attenzione alla tutela dei diritti fondamentali cercando sempre l’equilibrio, assai mobile, tra tensione all’universale della protezione e il rispetto del relativismo culturale e un pluralismo assiologico allergico a qualsiasi apodittica tirannia dei valori sono elementi portanti della carta di identità scientifica, intellettuale e culturale della Presidente uscente.
Come tale dimensione relazionale, che caratterizza, come si è visto, tutto il percorso culturale e scientifico di Marta Cartabia, in cui interconnessione, dialogo e coralità sono le parole chiavi, si è poi concretizzato nei tratti distintivi del suo mandato presidenziale?
Qui è necessario operare una distinzione, a proposito di detto mandato, tra il suo primissimo periodo di fisiologia pre-pandemica e il secondo in cui la Corte costituzionale ha dovuto invece operare in un contesto del tutto nuovo legato all’esplodere della stagione dell’emergenza sanitaria.
A gennaio, la decisione di aprire la Corte alla società civile, e quindi, per un verso, all’ascolto, in linea con la prassi di molte Corti supreme e costituzionali di altri paesi, ai cosiddetti amici curiae e, dall’altra, la possibilità di convocare degli esperti in caso si ritenesse necessario acquisire pareri o informazioni aggiuntive su particolari discipline, ha, a ben vedere, una doppia valenza.
In primo luogo, quella di proseguire lungo il percorso, avviato durante la presidenza di Giorgio Lattanzi, in cui vi era stata l’apertura dei portoni delle carceri ai giudici della Corte, di “umanizzazione” della Consulta.
In secondo luogo, tale umanizzazione si colora anche di profonda umiltà. I giudici costituzionali, pur rappresentando il meglio del patrimonio giuridico italiano, non sono omniscienti. Spesso le questioni in ballo hanno implicazioni scientifiche e tecnologiche assai complesse. In questi casi, il momento della scrittura è preceduto da quello dell’ascolto degli esperti.
L’avvio della stagione pandemica ha richiesto una certa dose di creatività e di adattamento per la Consulta. Capacità che non sono mancate durante la presidenza di Marta Cartabia e che, come si osserva nel volume richiamato in apertura in cui lei è co-autrice, è, a ben vedere, un segno distintivo dell’intero atteggiarsi della Corte costituzionale. Sin dalla sua prima udienza pubblica di una Corte sconosciuta ai più, il 24 aprile del 1956, in cui, a detta del primo presidente Enrico de Nicola, non vi erano neanche le sedie. Una Corte che, cosi come allora ha fatto delle difficoltà uno stimolo per affinare la sua capacità relazionale, anche a marzo scorso, con l’esplodere della pandemia e il necessario distanziamento fisico, sotto la guida della Prof.ssa Cartabia, ha dato prova di grande capacità di adattamento.
Si è deciso di proseguire da remoto i lavori di deliberazione in camera di consiglio, le letture di sentenze e, per un periodo, anche le udienze pubbliche. Lo stesso si dica per tante altre attività interne della Corte, senza dimenticare la firma digitale apportata alle sentenze, i podcast a cura dei differenti giudici costituzionali su temi assai attuali e l’applicazione mobile che consente di avere la giurisprudenza costituzionale nel proprio smarhphone.
Qui si è in presenza di una grande discontinuità rispetto allo status quo. La Corte ha saputo utilizzare, e non era scontato, visto il contesto in cui opera, lo strumento digitale (nell’ambito di un processo di digitalizzazione amplificato dalla pandemia) per garantire, come la stessa Marta Cartabia ha fatto notare, qualche giorno fa, in occasione dei suoi saluti di commiato, il pieno funzionamento della giustizia costituzionale. Molte di queste novità possono a mio avviso e devono essere interiorizzate come fisiologiche nella futura attività della Corte. La dematerializzazione dei flussi documentali è un grande obiettivo raggiunto, a prescindere da qualsiasi pandemia. E si sta lavorando alla realizzazione di un processo costituzionale interamente telematico.
“La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza. La Costituzione, infatti, non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”.
Mi piace chiudere con queste parole con cui la Presidente Cartabia, in occasione dell’ultima relazione annuale, ha messo in chiaro, attingendo a quei principi che si è visto essere geneticamente legati alla sua formazione, come, tanto nel mare in tempesta quanto nei tempi di bonaccia, la bussola da seguire rimane unica: la nostra Carta costituzionale.
Credo che questo possa essere un grande insegnamento anche per gli studenti dell’Università Bocconi che avranno la fortuna, dal prossimo anno accademico, di partecipare al suo corso di diritto costituzionale italiano ed europeo.
[1] V. Barsotti, P. G. Carozza, M. Cartabia, A. Simoncini, Italian Constitutional Justice in Global Context , OUP, 2016.
Nuovi orizzonti per l’azione di classe?
di Elisabetta Silvestri
Sommario: 1. Introduzione – 2. La Cina è vicina (ma forse no) – 3. I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni sparse – 3.1. L’adesione – 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Tra i tanti effetti collaterali della crisi economica mondiale scatenata dalla pandemia da Covid-19 vi è senza dubbio un aumento vertiginoso della litigiosità: è prevedibile, infatti, che nei mesi a venire un vero e proprio tsunami di cause nuove si abbatterà sui sistemi giudiziari, mettendone a dura prova la tenuta. Naturalmente, il problema sembra essere particolarmente preoccupante nei Paesi in cui la giustizia formale è quasi da sempre in affanno e ha navigato con grandi difficoltà le acque poco esplorate della gestione delle cause da remoto, resa indispensabile dalle regole stringenti imposte per evitare l’ulteriore diffondersi del contagio. Pur volendo astenersi da un poco costruttivo catastrofismo, sembra possibile affermare che, in futuro, la situazione italiana si presenterà molto critica: il “resettaggio” del sistema giustizia nei momenti più critici della pandemia, infatti, ne ha messo in evidenza le croniche fragilità, che rischiano di aggravarsi in futuro. Ciò nonostante, nelle stanze della politica non sembra che ci si impegni nel manifestare una vera progettualità, con l’elaborazione di possibili strategie per affrontare in maniera adeguata la prevedibile crescita della litigiosità che è ragionevole attendersi nei prossimi mesi. Sotto questo profilo, infatti, non pare che l’avere previsto una nuova ipotesi di mediazione obbligatoria per le cause in cui l’inadempimento di obbligazioni contrattuali (o il ritardo nel loro adempimento) è stato determinato dalla necessità di adottare le misure di contenimento del contagio costituisca una misura risolutiva, mancando qualunque riferimento alle materie in cui la disposizione dovrebbe trovare applicazione[1]. In altre parole, chi scrive non ritiene che affidarsi alle supposte virtù salvifiche della mediazione obbligatoria possa risolvere i problemi, complessi e in parte imprevedibili, di controversie originate da situazioni che il nostro ordinamento non ha mai sperimentato prima d’ora. In che misura la mediazione potrà contribuire a ridurre la pressione che il flusso dei nuovi casi eserciterà sui tribunali è tutto da dimostrare: com’è noto (e come anche la prassi insegna), rendere la mediazione obbligatoria non significa che le parti saranno necessariamente indotte a raggiungere un accordo.
Ferma restando l’importanza dei metodi alternativi di risoluzione dei conflitti nel ridurre il volume del contenzioso, occorre rilevare che fuori dall’Italia il problema di come gestire il flusso delle nuove controversie in qualche modo connesse con la pandemia e le sue conseguenze è da mesi oggetto di approfondimenti: sotto questo aspetto, sono interessanti le osservazioni di chi, pur augurandosi un ritorno al processo “in presenza”, esorta a non disprezzare le opportunità offerte dalla tecnologia e a non sprecare il bagaglio di conoscenze acquisite nei mesi caratterizzati da udienze virtuali e collegamenti da remoto[2].
In molti ordinamenti, il problema che sembra preoccupare maggiormente gli operatori del diritto è rappresentato dalle azioni giudiziarie intraprese in forma collettiva: più precisamente, negli ordinamenti in cui è previsto l’istituto della class action (nelle sue molteplici varianti, determinate dalle diverse legislazioni nazionali) si è già registrato un aumento esponenziale nelle azioni di classe proposte in collegamento con accadimenti riconducibili al diffondersi del Covid-19 e si paventa che il numero di questo tipo di azioni continuerà a crescere nell’immediato futuro. Negli Stati Uniti, in particolare, il numero delle class actions già proposte è elevatissimo, al punto che la American Bar Association ne ha stilato un elenco dettagliato, suddiviso per materie e in continuo aggiornamento: si va dalle azioni proposte per la cancellazione di voli e la mancata restituzione di quanto pagato per l’acquisto del biglietto aereo, alle azioni relative agli aumenti di prezzo subiti da prodotti disinfettanti; dalle azioni intentate contro le università per la mancata restituzione delle tasse universitarie, il cui versamento è stato comunque richiesto, nonostante i corsi si siano svolti online nel secondo semestre dell’anno accademico appena concluso, alle azioni intentate da dipendenti di varie attività commerciali per licenziamenti intimati senza l’osservanza delle disposizioni previste in condizioni normali[3]. Insomma, scorrendo il lungo elenco delle class actions americane instaurate ai tempi del Covid-19 si è tentati di classificarle come espressione di una vera “fantasia al potere”, talmente ampio (e, per certi versi, incredibile) è lo spettro delle situazioni sottoposte al vaglio dei giudici nelle forme di un’azione di classe. Naturalmente, sembra inevitabile domandarsi se qualcosa di simile possa accadere anche da noi, ovviamente in scala più ridotta, ma comunque segnalando l’inizio di una nuova stagione per l’italica azione di classe che, fino ad ora, non ha dato buona prova di sé, rivelandosi uno strumento poco adatto alla tutela dei diritti condivisi da una pluralità di individui e pregiudicati da una stessa condotta lesiva posta in essere da un unico soggetto responsabile.
2. La Cina è vicina (ma forse no)
Qualche mese fa, si diffuse la notizia relativa alla possibilità di aderire ad un’azione di classe promossa contro il governo cinese per ottenere il risarcimento dei danni “morali e materiali subiti” a causa della diffusione del Covid-19. Secondo la onlus impegnata a promuovere l’azione, esistendo prove della responsabilità del governo cinese nel non avere impedito la diffusione del Coronavirus e, allo stesso tempo, risultando poco probabile che i governi occidentali avrebbero assunto iniziative giudiziarie contro la Cina, l’unica possibilità di tutela per i cittadini (italiani e non) era costituita da un’azione di classe, promossa dinanzi a tribunali italiani, ma anche presso non ben identificati “tribunali internazionali”[4].
Non è dato sapere quanti siano coloro che, ad oggi, hanno compilato il modulo a disposizione sul sito della onlus promotrice, modulo che valeva quale manifestazione di interesse, nella prospettiva di aderire all’azione di classe nel momento in cui sarebbe stata effettivamente proposta. Ugualmente, non si sa se le difficoltà sperimentate dai tribunali italiani abbiano ritardato o meno l’instaurazione dell’azione di classe appena menzionata o di altre iniziative analoghe promosse da associazioni di consumatori[5]. Sia come sia, e senza neppure considerare gli ostacoli che rendono problematico, se non impossibile, convenire uno Stato straniero innanzi ad un giudice italiano, sembra difficile ipotizzare che un’azione di classe di questo genere riuscirebbe a superare indenne il vaglio iniziale di ammissibilità, previsto dall’art. 140-bis c. cons. Né pare possibile che un’azione di gruppo contro il governo cinese per non avere fornito le informazioni necessarie a prevenire il dilagare della pandemia abbia sorte migliore quando entrerà in vigore la nuova disciplina dell’azione di classe, dettata dalla legge n. 31 del 12 aprile 2019. Com’è noto, l’entrata in vigore della legge di riforma, originariamente prevista per l’aprile di quest’anno, è stata prorogata al 19 novembre 2020, ufficialmente a causa dei ritardi nella predisposizione dei sistemi informativi necessari per rendere possibili le procedure informatizzate (nell’ambito del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia) previste per vari passaggi del procedimento. Non sembra potersi escludere l’eventualità di un nuovo rinvio e, in ogni caso, va tenuto a mente che l’art. 7, c. 2, l. 31/2019 prevede espressamente che le nuove disposizioni trovino applicazione soltanto “alle condotte illecite poste in essere successivamente alla data [dell’]entrata in vigore” della legge, mentre “Alle condotte illecite poste in essere precedentemente continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti prima della medesima data di entrata in vigore”.
A tacere delle complicazioni cui darà vita la coesistenza delle nuove norme con quelle previgenti, per le azioni di classe già pendenti oppure proposte con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore della legge 31/2019, va sottolineato che, se l’intento del legislatore era quello di rivitalizzare la tutela collettiva, superando i molti ostacoli procedurali che la disciplina del Codice del consumo frapponeva ad una sua più ampia utilizzazione, i risultati non sembrano esaltanti, soprattutto se si considera la lunga gestazione della riforma. Se è vero che “l’azione di classe è [...] strumentazione complessa quanto vitale, non tanto e non solo per i creditori ma a più ampio raggio, per la società moderna”[6], allora sembra inevitabile rilevare che nella nuova disciplina prevale l’elemento della complessità e non, invece, l’attenzione per la “vitalità” dell’istituto, votato probabilmente ad un destino non diverso da quello che ha reso ben poco significativo quello tuttora vigente.
3. I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni sparse
Come si è appena accennato, la disciplina della nuova azione di classe, risarcitoria e inibitoria, è notevolmente complessa: considerati i numerosi contributi dottrinali che hanno già dissezionato la nuova normativa[7], in questo scritto si tratteggeranno solo alcuni aspetti della riforma, nella consapevolezza che gli approfondimenti necessari per dare conto in maniera compiuta di una disciplina ad alto tasso di tecnicismo richiederebbero sia un esame non superficiale delle disposizioni, sia una verifica delle loro applicazioni concrete: chi scrive, infatti, nutre la convinzione che la qualità delle norme non possa essere valutata in vitro, ma postuli necessariamente un attento studio di come quelle stesse norme sono interpretate e applicate nella prassi.
Un primo dato significativo e non puramente formale è il trasferimento dell’intera disciplina dei ricorsi collettivi (per utilizzare la terminologia adottata dalle iniziative dell’Unione Europea in materia di azioni di gruppo[8]) nel codice di procedura civile, liberandola dal “ghetto” del codice del consumo in cui era relegata[9]. Le norme, infatti, sono poste in coda al Libro Quarto codice, nel nuovo Titolo VIII-bis. Si conferma in questo modo la validità dell’icastica definizione data da Virgilio Andrioli al Libro Quarto: “una specie di upim”[10], un supermercato di tutele, in cui collocare tutti i procedimenti di cui non si sa bene cosa fare.
Detto questo, però, non si può negare che il trasferimento delle azioni collettive nel codice di procedura civile ha, quanto meno, un aspetto positivo, rappresentato dal loro essere configurate come uno strumento di tutela generale, non più riservato ai soli “consumatori ed utenti”, come è previsto ora dagli artt. 140 e 140-bis c. cons. Sempre nella prospettiva di un positivo ampliamento dell’ambito di operatività dell’istituto, l’art. 840-bis c.p.c. – con riferimento all’azione di classe c.d. risarcitoria – parla genericamente di azione proponibile nei confronti dell’autore di una innominata “condotta lesiva”, prefigurando quindi la possibilità che l’azione sia proposta a fronte di un illecito non tipizzato, a differenza di quanto si legge nell’art. 140-bis c. cons., che contiene un preciso catalogo di situazioni tutelabili.
Attraverso la nuova azione di classe, quindi, possono essere fatti valere in giudizio i “diritti individuali omogenei” di coloro che compongono la “classe”, un’entità per così dire ideale, che diventerà concreta nel momento in cui altri soggetti aderiranno all’iniziativa del proponente. Tralasciando qualunque approfondimento sul profilo della legittimazione ad agire (riconosciuta – appunto – ad ogni componente della ipotetica classe, ma anche agli enti iscritti in un apposito elenco del Ministero della giustizia, ex art. 840-bis, cc. 2 e 3 c.p.c.), la disciplina riformata, non diversamente da quella contenuta nel codice del consumo, fa della “omogeneità” dei diritti il criterio dal quale discende la loro tutelabilità in forma collettiva. Ma quando due o più diritti possono considerarsi “omogenei”? Sul punto, la dottrina ha riversato fiumi di inchiostro e questa ricca elaborazione tornerà utile all’interprete che dovrà valutare, in concreto, in presenza di quali condizioni i diritti vantati dagli appartenenti alla classe si potranno qualificare come “omogenei”. In chi scrive, tuttavia, resta l’impressione che un concetto metagiuridico, quale quello di “omogeneità”, non renda un buon servizio alla fruibilità della tutela: in effetti, è stato giustamente sottolineato che la categoria dei “diritti individuali omogenei”, mutuata dal Código Modelo de procesos colectivos para Iberoamérica, è del tutto fittizia e rappresenta una sorta di escamotage creato al solo scopo di giustificare la protezione in forma collettiva di determinati diritti individuali appartenenti ad un numero imprecisato di soggetti[11]. Quanto questa finzione risulti utile nella pratica appare comunque dubbio e rende condivisibile l’opinione di chi sostiene che il legislatore della riforma ha perso una buona occasione per fornire “una definizione legale ben più specifica del concetto di «omogeneità»”[12].
Come si è detto, esula dai limiti di questo saggio un’analitica ricognizione della nuova disciplina. Per l’azione di classe risarcitoria è confermata la scansione in più fasi: due, la prima delle quali riservata alla verifica dell’ammissibilità dell’azione o, secondo un’altra opinione[13], tre, si si vuole considerare come autonoma la fase successiva alla pronuncia di accoglimento dell’azione, quando tale pronuncia conclude in senso favorevole alla classe la fase di trattazione della causa.
Quanto al procedimento, per le azioni di classe risarcitorie la scelta è caduta sul procedimento sommario di cognizione ex artt. 702-bis ss. c.p.c., ma con alcune, non trascurabili “variazioni sul tema”, come stabilito dall’art. 840-ter, c. 3 c.p.c. Inspiegabile appare la diversa soluzione prevista per l’azione inibitoria collettiva (art. 840-sexies c.p.c.), sottoposta alle “forme del procedimento camerale, regolato dagli articoli 737 e seguenti, in quanto compatibili” (art. 840-sexesdecies c.p.c.): se l’intento del legislatore era quello di inaugurare una disciplina generale dei procedimenti collettivi davvero user-friendly, non si comprendono le ragioni sottese alla previsione di procedimenti diversi, ognuno dei quali, fra l’altro, caratterizzato da deroghe più o meno marcate rispetto al modello codicistico di riferimento. La semplificazione, evidentemente, non è nelle corde del legislatore italiano.
Vi sono altre novità che meritano di essere segnalate, innanzi tutto, quelle in materia di mezzi istruttori utilizzabili, con particolare riferimento al possibile uso di dati statistici e all’ordine di esibizione di prove “rilevanti” nella disponibilità del convenuto e al relativo corredo di sanzioni (pecuniarie e non) applicabili in caso di inottemperanza all’ordine, su modello di quanto previsto con riguardo alle azioni per il risarcimento del danno derivante da violazioni della normativa antitrust dagli artt. 3 e 6, d. legisl. 19 gennaio 2017, n. 3. Interessanti sono anche le due nuove dramatis personae nominate dal giudice nella sentenza che accoglie l’azione di classe (art. 840-sexies, c. 1, lett. f) e g) c.p.c.), ossia il giudice delegato per la procedura di adesione e il rappresentante comune degli aderenti alla classe. Dell’adesione all’azione si tratterà nel paragrafo che segue: per ora, sembra sufficiente ricordare che è con l’adesione che prende effettivamente corpo la classe, fermo restando che spetta al giudice definire nella sentenza con cui l’azione è accolta “i caratteri dei diritti individuali omogenei [...], specificando gli elementi necessari per l’inclusione nella classe” e stabilendo la documentazione da prodursi per dimostrare la titolarità dei diritti stessi (art. 840-sexies, c.1, lett. c) e d) c.p.c.). Qui, le cose si fanno molto complesse, perché i ruoli svolti dal giudice delegato e dal rappresentante comune degli aderenti si intrecciano: se, da un lato, spetta al primo pronunciarsi sull’accoglimento delle domande di adesione e condannare il convenuto al pagamento delle somme spettanti ad ogni aderente con un decreto dotato di efficacia esecutiva (art. 840-octies, c. 5 c.p.c.), dall’altro lato è il secondo che deve redigere un “progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti” (art. 840-octies, c. 2 c.p.c.). In realtà, i còmpiti assegnati all’uno e all’altro si affastellano in una sola norma – appunto, l’art.840-octies c.p.c. – in cui è difficile rinvenire una sequenza logica. Altrettanto difficile è comprendere quale sia esattamente la veste del rappresentante comune degli aderenti, che viene scelto tra soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentare ed acquista lo status di pubblico ufficiale: un pubblico ufficiale sui generis, posto che ogni aderente all’azione deve conferirgli poteri di rappresentanza e, specificamente, il potere “di compiere nel suo interesse tutti gli atti, di natura sia sostanziale sia processuale” relativi al diritto individuale omogeneo di cui l’aderente si afferma titolare (art. 840-septies, c. 2, lett. h) c.p.c.).
Molte sono le altre novità che meriterebbero un approfondimento: dalle norme sulle impugnazioni esperibili contro i provvedimenti che chiudono le diverse fasi del giudizio alle disposizioni in materia di spese; dalla disciplina dell’esecuzione forzata in forma collettiva promossa dal rappresentante comune degli aderenti alle peculiarità proprie delle disposizioni in tema di accordi transattivi. Come si è detto, però, una trattazione esauriente dell’intera riforma richiederebbe ben altro spazio e, soprattutto, ben altro studio della materia.
3.1. L’adesione
Tra le molte ragioni che hanno reso l’azione di classe risarcitoria disciplinata dall’art. 140-bis c. cons. uno strumento velleitario e di trascurabile utilità pratica, si annovera, in particolare, il meccanismo dell’adesione, in virtù del quale i potenziali membri della classe si affiancano al soggetto che ha proposto l’azione e, in questo modo, diventano soggetti agli effetti della decisione finale che, in caso di accoglimento dell’azione, sancirà il loro diritto al risarcimento o alle restituzioni che il convenuto, accertata la sua condotta lesiva, è tenuto a soddisfare. Come si è detto, il sistema del c.d. opt-in adottato dal nostro legislatore non è la sola causa del fallimento dell’azione di classe risarcitoria, come disciplinata dal codice del consumo. Tuttavia, si tratta certamente di un elemento che limita di molto la “appetibilità” dello strumento: l’onere di adesione per i potenziali membri della classe che intendano trarre profitto dall’azione intentata dal proponente può essere gravoso, specie se la pretesa che il soggetto vanta è di entità modesta, nonostante l’art. 140-bis , c. 3 c. cons. preveda che l’adesione non necessita dell’assistenza di un difensore. Nella sostanza, il gioco non vale la candela, soprattutto in un sistema come quello italiano, in cui i tempi della giustizia sono oltremodo lunghi e non vanno certo a vantaggio dei c.d. one-shotters, ossia individui (consumatori o non) che non hanno contatti frequenti con le istituzioni e, in particolare, con il sistema giustizia, e che, in genere, non dispongono di grandi risorse finanziarie[14]. Com’è noto, all’estremo opposto rispetto all’opt-in sta l’opt-out (caratteristico della class action secondo il modello statunitense[15]), in virtù del quale tutti i soggetti che rientrano nel perimetro della classe, alla luce dei requisiti individuati dal quadro normativo di riferimento, sono considerati membri della classe stessa e, senza che sia loro richiesto di assumere iniziative o di partecipare al procedimento, possono beneficiare della decisione, nel caso in cui l’azione sia accolta e la classe risulti vittoriosa in giudizio: questo, a meno i membri della classe non se ne dissocino espressamente, allo scopo di conservare il diritto di promuove un’azione individuale.
Anche la nuova disciplina dei ricorsi collettivi ripropone il meccanismo dell’opt-in, con nuove regole relative alle modalità di adesione (che dovrà avvenire mediante una procedura informatizzata, ex art. 840-septies c.p.c.) e al tempo dell’adesione (possibile in due momenti diversi[16]), ma con i problemi che già erano stati evidenziati con riferimento all’art. 140-bis c. cons. Uno fra i tanti è quello relativo alla qualificazione giuridica dell’adesione, problema che, a sua volta, solleva altre questioni, ad esempio quella relativa agli effetti dell’adesione e al ruolo che gli aderenti possono concretamente svolgere nel procedimento o anche quella riguardante la natura del rapporto che lega gli aderenti al loro rappresentante comune[17].
Per quanto l’opt-in sembri contribuire a rendere l’azione di gruppo uno strumento di tutela ben poco user-friendly, va comunque riconosciuto che la scelta compiuta dal legislatore italiano nel confermare il sistema dell’adesione è in linea con gli orientamenti delle istituzioni europee in tema di ricorsi collettivi. In particolare, nella Raccomandazione del 2013 con cui la Commissione ha elaborato principi comuni in materia di ricorsi collettivi sono previste espressamente una serie di regole in materia di “Costituzione della parte ricorrente secondo il principio dell’adesione (opt-in)”[18]. In altre parole, per le azioni collettive risarcitorie, secondo la Commissione la classe “dovrebbe essere costituita sulla base del consenso espresso delle persone fisiche o giuridiche che pretendono di avere subito un pregiudizio (principio dell’adesione, o opt-in)”[19]. Nel manifestare una indiscussa preferenza per il meccanismo dell’opt-in, la Commissione fa riferimento al fatto che l’adesione appare maggiormente rispettosa delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri[20]. In realtà, anche la scelta a favore dell’adesione e contraria, almeno in linea di principio, all’opt-out rientra nella strategia della Commissione volta ad “evitare che si sviluppi una cultura dell’abuso del contenzioso nelle situazioni di danno collettivo”, rischio che può essere prevenuto soltanto evitando l’importazione in Europa del “toxic cocktail” statunitense delle class actions [21], composto dai “risarcimenti «punitivi», [dal]le procedure invadenti di accesso ai mezzi probatori prima del processo (pre-trial discovery procedures) e [da]i risarcimenti eccessivi riconosciuti dalle giurie”[22]. A torto o a ragione, infatti, sembra che le istituzioni europee abbiano sviluppato una vera idiosincrasia nei confronti del modello statunitense di class action, modello che, ovviamente, non è perfetto, ma non sembra neppure tale da giustificare timori irrazionali, anche in considerazione dell’insuperabile difficoltà di ipotizzare che un suo trapianto integrale nei sistemi giuridici dell’Unione risulti possibile.
4. Conclusioni
L’esperienza decennale dell’azione di classe risarcitoria prevista dal codice del consumo si è rivelata fallimentare e, come si è cercato di illustrare nei paragrafi che precedono, anche la nuova disciplina (se e quando entrerà in vigore) presenta molti aspetti che non consentono di prevedere ottimisticamente un vero “cambio di rotta” nella fruibilità della tutela collettiva.
In un famoso saggio sulle class actions statunitensi, Arthur Miller suggeriva l’opportunità di discutere dell’istituto in maniera obiettiva, abbandonando l’approccio “emozionale” che, a seconda dei casi, fa sì che le class actions siano considerate come “Frankenstein monsters” oppure come “Shining Knights”[23]. Chissà se, in futuro, anche da noi, il dibattito sulle azioni di gruppo assumerà toni di una querelle ideologica. Per ora, e per il futuro prossimo venturo, non sembra proprio che l’azione di classe nostrana possa ragionevolmente essere considerata (rimanendo nella metafora di Miller) alla stregua di un “cavaliere senza macchia e senza paura”. Al contrario, molti elementi della sua disciplina vigente – ma anche di quella riformata – inducono tristemente a ritenere che si tratti più che altro di un novello mostro di Frankenstein, apparso nel panorama delle tutele giurisdizionali messe a disposizione dal nostro ordinamento.
[1] Cfr. art. 3, c. 1-quater, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, in l. 25 giugno 2020, n. 70. Con riferimento alla mediazione, ma anche agli altri strumenti di risoluzione delle controversie alternativi al processo, cfr. le osservazioni di F. Cuomo Ulloa, La mediazione al tempo dell’emergenza, all’indirizzo https://www.aulacivile.it/documento/it/pubblicazione/maggioli/processo.civile/approfondimento/2020/app106/scheda.approfondimento E. Dalmotto, L’arbitrato, la mediazione, la negoziazione assistita e gli altri ADR durante il Covid-19, all’indirizzo http://www.ilcaso.it/articoli/1264.pdf (29 luglio 2020); S. Cusumano, Mediazione online e firma digitale: il d.l. “Cura Italia” consente di superare il formalismo di Cass. 8473/2019?, all’indirizzo http://www.judicium.it/mediazione-line-firma-digitale-d-l-cura-italia-consente-superare-formalismo-cass-84732019/ (7 luglio 2020).
[2] Particolarmente interessante è il saggio di Richard Susskind, The future of courts, consultabile all’indirizzo https://thepractice.law.harvard.edu/article/the-future-of-courts/. L’autore, professore presso l’Università di Oxford e presidente della Society for Computers and the Law, fra l’altro, è l’ideatore di un sito, costantemente aggiornato, che illustra la risposta dei diversi ordinamenti alle sfide della pandemia nel campo dell’amministrazione della giustizia: il sito è liberamente accessibile all’indirizzo https://remotecourts.org/.
[3] Cfr. A. Merminod & N. Awj, Covid-19 class actions forecast (Summer 2020 newsletter), all’indirizzo https://www.americanbar.org/groups/tort_trial_insurance_practice/publications/committee-newsletters/covid-19_class_actions_forecast/.
[4] Si fa riferimento alle informazioni pubblicate sul sito della onlus ONEurope, all’indirizzo https://www.covid19classaction.it/covid19-class-action/
[5] Cfr., ad esempio, la proposta di preadesione ad una azione di classe risarcitoria da proporsi sempre contro il governo cinese pubblicata sul sito del Codacons, all’indirizzo https://codacons.it/risarcimento-cina/.
[6] Così C. Consolo, La terza edizione della azione di classe è legge e entra nel c.p.c. Uno sguardo d’insieme ad una amplissima disciplina, in Corr. giur., 2019, p. 737.
[7] Cfr., ad esempio, I. Speziale, La nuova azione di classe: riflessioni critiche sulla riforma, in Corr. giur., 2020, p. 963 ss.; C. Consolo, L’azione di classe, trifasica, infine inserita nel c.p.c., in Riv. dir. proc., 2020, p. 714 ss.; G. Caruso, La nuova azione di classe: una peinture d’impression (14 luglio 2020), all’indirizzo http://www.judicium.it/?s=caruso; A. Carratta (a cura di), La Class action riformata – I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni a prima lettura, in Giur. it., 2019, p. 2297 ss.; F. Tedioli, Tra nuove regole e vecchi problemi la class action trova collocazione nel codice di procedura civile, in Studium Iuris, 2019, p. 1413 ss.; A. Giussani, La riforma dell’azione di classe, in Riv. dir. proc., 2019, p. 1572 ss.
[8] Cfr. infra, par. 3.1.
[9] Parla di “procedimento collettivo non più ghettizzato nel Codice del consumo e percorso da qualche (inelegante ma) vivida velleità di riuscire incisivo” R. Pardolesi, La classe in azione. Finalmente, in Danno resp., 2019, p. 301 ss.
[10] Cfr. V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Jovene, 1972, p. 52.
[11] Cfr. A. Gidi, Derechos Difusos, Colectivos e Individuales Homogéneos in A. Gidi-E. Ferrer Mac-Gregor (coordinadores), La tutela de los derechos difusos, colectivos e individuales homogéneos. Hacia un Código Modelo para Iberoamérica2, Editorial Porrua, 2004, p. 35, con riferimento all’art. 1, c. 2 del Código Modelo de procesos colectivos para Iberoamérica, nel quale i diritti individuali omogenei sono definiti come “el conjunto de derechos subjectivos individuales, provenientes de origen común, de que sean titulares los miembros de un grupo, categoria o clase”. Il Código Modelo è disponibile all’indirizzo https://fislem.org/codigo-modelo-de-procesos-colectivos-para-iberoamerica/
[12] Così R. Donzelli, L’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire, in B. Sassani (a cura di), Class action – Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, Pacini Editore, 2019, p. 12.
[13] Cfr. C. Consolo, L’azione di classe, trifasica, infine inserita nel c.p.c., cit., p. 719 s.
[14] L’espressione one-shotters è presa a prestito dal famoso saggio di Marc Galanter, Why the “Haves” Come Out Ahead: Speculations on the Limits of Legal Change, in R. Cotterrell (ed.), Law and Society, Dartmouth, 1994, pp. 165 ss. Nel saggio (pubblicato per la prima volta nel 1974), Galanter contrappone questa categoria di litiganti ai repeat players, che hanno migliori probabilità di risultare vittoriosi in giudizio, grazie alla maggiore familiarità con il sistema giudiziario e alla superiore disponibilità di risorse finanziarie, non temono il rischio di grande perdite economiche: tutto ciò li rende pronti ad affrontare i costi di un processo che, al contrario, potrebbe avere conseguenze devastanti per coloro che sono qualificabili come one-shotters.
[15] Non è possibile concentrare in una nota la vastissima letteratura in argomento: tra gli scritti più recenti e interessanti, anche per comprendere come il tema possa essere trattato da diverse angolazioni e con opinioni molto diversificate, cfr., ad esempio, B. T. Fitzpatrick, Why Class Actions Are Something Both Liberals and Conservatives Can Love, in Vanderbilt L. Rev., vol. 73, 2020, p. 1147 ss.; S. B. Burbanks & S. Farhang, Class Actions and the Counterrevolution against Federal Litigation, in U. Pennsylvania L. Rev., vol. 165, 2017, p. 1495 ss.; R. Marcus, Brending in the Breeze: American Class Actions in the Twenty-First Century, in DePaul L. Rev. , vol. 65, 2016, p. 497 ss.; L. S. Mullenix, Ending Class Actions as We Know Them: Rethinking the American Class Action, in Emory L. J., vol. 64, 2014, p. 399 ss.
[16] L’adesione è possibile non solo dopo che l’azione è stata dichiarata ammissibile (come previsto anche dall’art. 140-bis, c. 9, lett. b) c. cons.), ma pure successivamente, dopo che è stata pronunciata la sentenza che accoglie l’azione (art. 840-sexies, c. 1, lett. e) c.p.c.): in entrambi i casi, sono fissati dal giudice i termini per l’adesione, termini rispetto ai quali il legislatore ha previsto che siano compresi tra un minimo ed un massimo.
[17] In tema, cfr. diffusamente R. Fratini, L’adesione, in B. Sassani (a cura di), Class action – Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, cit. p. 121 ss., con ampi riferimenti bibliografici.
[18] Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013 relativa a principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione, art. V (§§ 21-24), consultabile all’indirizzo https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52013DC0401&from=EN. Sulla Raccomandazione e sulla Comunicazione che la accompagnava, sia consentito il rinvio a E. Silvestri, Group Actions ‘À la Mode Européenne’: A Kinder, Gentler Class Action for Europe?, in C. B. Picker – G. I. Seidman (eds), The Dynamism of Civil Procedure – Global Trends and Developments, Springer, 2016, p. 203 ss.
[19] Cfr. Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, cit. supra, nota 18, § 21.
[20] Ivi, considerando (13).
[21] La definizione della class action come “toxic cocktail”, ossia come una venefica combinazione di elementi pericolosi, compare per a prima volta (almeno in Europa) nel comunicato stampa relative alla pubblicazione, nel novembre 2008, del Green Paper on Consumer Collective Redress, presentato dalla Commissione e consultabile all’indirizzo https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2008/EN/1-2008-794-EN-F1-1.Pdf.
[22] Cfr. Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, cit. supra, nota 18, considerando (15).
[23] Cfr. A. R. Miller, Of Frankenstein Monsters and Shining Knights: Myth, Reality, and the “Class Action Problem”, in Harvard La. Rev., vol. 92, 1979, p. 664 ss.
Nodo prescrizione: dove eravamo rimasti?
di Ciro Angelillis
Sommario: 1. Premessa - 2. Dalla ‘ex Cirielli’ alla ‘spazzacorrotti’ passando per la ‘riforma Orlando’ - 3. Prescrizione nel corso delle indagini preliminari e coerenza del sistema - 4. L’allineamento con la disciplina della responsabilità degli enti - 5. Il processo che verrà.
1. Premessa
L’emergenza pandemica ha sopito il dibattito sulla prescrizione del reato, tema che dopo la riforma Orlando del 2017 e, soprattutto, dopo la legge c.d. spazzacorrotti n. 3 del 9 gennaio 2019, è rimasto a lungo sotto i riflettori, anche in ambienti extra accademici, per via delle ricadute degli effetti della norma sul versante socio-politico, divenendo motivo di scontro politico se non di polemiche proposte di controriforma.
Oggi il dibattito appare congelato dalla pandemia che ha calamitato l’attenzione di giuristi ed opinione pubblica su altri versanti, ma è evidente che il fuoco cova sotto la cenere e lo scenario che si prospetta rimane dagli sviluppi imprevedibili in quanto, trattandosi di una riforma ‘a scoppio ritardato’ che si applica ai reati commessi dal 1° gennaio 2020 in poi, i suoi detrattori non mancheranno in futuro di rivitalizzare la contesa.
Le valutazioni critiche della riforma si sono dispiegate su due piani distinti, ma collegati: il primo, più alto, in cui chi stigmatizza la novella rileva come essa coltivi una visione delle garanzie come un possibile ostacolo all’efficienza del sistema processuale quando invece esse costituiscono la salvaguardia del suo funzionamento; il secondo, più pragmatico, in cui si fa notare che la realtà delle nostre aule giudiziarie ci consegna la chiave per una lettura inevitabilmente scettica della riforma: il decorso della prescrizione, nel sistema ante riforma, impedisce i tempi lunghi del processo e funge, di fatto, da sponda al principio della sua ragionevole durata, sicchè la scomparsa di questa ‘valvola di sfogo’, che ha sistematicamente contenuto gli effetti del male endemico che affligge il processo penale, comporta il rischio di rendere il processo ‘immortale’, lasciando l’imputato nella situazione di incertezza che inevitabilmente si accompagna a tale condizione. Sotto altro e speculare profilo non si è mancato di evidenziare il rischio che la riforma proietti i suoi effetti nefasti sul versante della organizzazione dell’attività giudiziaria in relazione alla quale una parte della magistratura paventa un aumento esponenziale delle pendenze nelle Corti d’appello ed in Corte di cassazione.
Si pongono, pertanto, le condizioni per formulare, rispetto a tali valutazioni, qualche breve riflessione, l’inizio delle quali non può prescindere dal richiamo di un paio di punti fermi della riforma, senza alcuna pretesa di esaustività, nei limiti imposti dalla consapevolezza che il lettore conosce molto bene la materia.
2. Dalla ‘ex Cirielli’ alla ‘spazzacorrotti’ passando per la ‘riforma Orlando’
Storicamente il tema della prescrizione costituisce il terreno sul quale devono trovare la loro composizione esigenze contrapposte legate alla variabile del tempo, che impongono la ricerca di un punto di equilibrio tra istanze di tutela del diritto fondamentale del cittadino a non essere sottoposto a procedimenti penali interminabili e le aspettative del Paese di esercitare utilmente la pretesa punitiva nell’ipotesi di violazione di un precetto penale. Il legislatore è intervenuto ripetutamente nel corso degli ultimi quindici anni in entrambe tali opposte direzioni, generando, però, un fenomeno di stratificazione ed instabilità normativa che ha pregiudicato la qualità della legislazione in un settore di notevole impatto nella quotidianità della giurisdizione penale.
Il sistema, rimodulato in vario senso dalla novella del 2005 (L. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli), ha registrato una vera e propria svolta, dagli effetti dirompenti, con la legge del 2017 (L. 23 giugno 2017, n. 103, c.d. riforma Orlando) e, ancor più, con la legge c.d. ‘spazzacorrotti’ che ha inteso superare il modello normativo costruito solo un anno e mezzo prima, impedendo, in pratica, di sperimentarne gli effetti concreti. Il meccanismo della riforma Orlando, che prevede la sospensione della prescrizione per tempi definiti, in pendenza dei giudizi di appello e cassazione, a partire dal termine di deposito della sentenza precedente, ha ceduto, così, il passo al blocco definitivo della prescrizione per tutti i reati, a partire dalla sentenza di primo grado. Le novelle del 2017 e 2019 non hanno modificato l’assetto della disciplina dell’istituto che rimane quello introdotto nel 2005 con la legge c.d. ‘ex Cirielli’, ancorato all’editto del singolo reato, sulla base, perciò, di valutazioni contingenti e specifiche che, rispetto al previgente sistema basato sulle fasce di gravità dei reati, prescindono da rilievi sistematici e generali, nè hanno ceduto alla tentazione di aumentare semplicisticamente i termini base previsti dall’art. 157 c.p., ma hanno egualmente modificato funditus lo scenario del processo, in quanto, la prima, ha inciso sul meccanismo di sospensione del corso della prescrizione del reato correlato alle fasi del giudizio di secondo e terzo grado, limitatamente all’ipotesi in cui sia stata pronunciata una sentenza di condanna, facendo dipendere, il tempo necessario a prescrivere il reato, dall’esito del processo e non già dalla sola gravità del reato o dalla complessità del procedimento; la seconda ha previsto un meccanismo che, ad onta della rubrica dell’articolo 159 c.p.(sospensione del corso della prescrizione) che ospita il cuore della riforma, non configura una sospensione e, per la verità, neanche un’interruzione del corso della prescrizione (che, in realtà, non riprende più a decorrere), ma prevede, semplicemente, una regola che riguarda il nuovo termine finale, in forza della quale la prescrizione non rimarrà sospesa dopo la sentenza di primo grado o dopo il decreto di condanna, ma resterà definitivamente bloccata.
Anche se, come è evidente, la legge c.d. spazzacorrotti propone una soluzione ben più radicale rispetto alla novella del 2017, è possibile sostenere che essa si inscriva nel solco tracciato dalla riforma Orlando, in quanto il sostrato culturale che emerge dalle due normative è lo stesso e risiede nella diversa valenza del decorso del tempo dopo la sentenza di primo grado rispetto alle fasi precedenti ed, in particolare, a quella delle indagini preliminari che, pur risultando il segmento maggiormente affetto dalla ‘patologia’ della prescrizione, rimane inalterato.
3. Prescrizione nel corso delle indagini preliminari e coerenza del sistema
E’ questo un aspetto di entrambe le riforme che merita di essere ripreso.
Secondo i dati resi disponibili dal Ministero nel 2017, oltre la metà delle prescrizioni si verifica nel corso delle indagini preliminari (nel 2010 erano addirittura il 70%), e ciò aiuta a comprendere la logica di questa opzione legislativa, secondo la quale l’esercizio dell’azione penale determina il dissolvimento delle ragioni che sono a fondamento dell’istituto e rende, per questo, meno giustificata la rinuncia del potere punitivo dello Stato nella fase processuale.
Dopo la commissione del reato l’esercizio dell’azione penale costituisce una prima tappa a giustificazione del trascorrere del tempo del processo che, vieppiù dopo la sentenza di primo grado, non è più il tempo dell’oblio, che accresce le difficoltà probatorie o il rischio della persecuzione penale, è, invece, il tempo in cui la potestà punitiva dello Stato si manifesta e, dunque, il sacrificio della pretesa punitiva del reato non può giustificarsi.
Non così per la prescrizione che matura nel corso delle indagini preliminari in relazione alla quale le ragioni fondanti dell’istituto trovano cittadinanza piena.
Il dato restituito dalle statistiche che, peraltro, nel corso degli anni non ha mostrato segnali di inversione di tendenza, costituisce un punto dolente che offusca l’immagine della nostra nazione nel consesso europeo, ma, evidentemente, il legislatore ha preso atto che non esiste un sistema giudiziario in grado di trasferire nel processo l’intera domanda di intervento repressivo di un paese, per cui, se, per questa ragione, in altre nazioni il sistema giudiziario è ispirato al principio di discrezionalità dell’azione penale, nella nostra, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale comporta inevitabilmente un costo in termini di accantonamento di un certo numero di procedimenti aventi ad oggetto, per lo più, reati a prescrizione breve.
Naturalmente, un dato così elevato desta preoccupazione poiché costituisce la cifra di una denegata giustizia che riguarda settori di forte impatto sociale caratterizzati da beni giuridici sensibili come quelli dell’ambiente, della sicurezza sul lavoro ma anche della leale concorrenza tra le imprese, dei corretti rapporti commerciali ecc..
Per questa ragione, fermo restando l’impianto normativo in tema di prescrizione, il legislatore ha inteso spingere per altra via i procedimenti verso la fase processuale, lo ha fatto, per esempio, con la L. 23 giugno 2017 n. 103 che ha riformato ‘l’Avocazione obbligatoria’ delle indagini preliminari da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Appello, per mancato esercizio dell’azione penale nei termini prestabiliti.
Una riforma che ha avuto il dichiarato intento di eliminare le ‘stasi arbitrarie’ e i ‘tempi morti’[1] nella gestione dei procedimenti nella fase delle indagini preliminari da parte del Pubblico Ministero che, tardando il momento del trasferimento del fascicolo dal suo ufficio a quello del Giudice, rendeva più concreto il rischio della prescrizione. Se, infatti, la sanzione della inutilizzabilità degli atti di indagine tardivi aveva indotto il Pubblico Ministero a rimanere vigile con riferimento ai tempi del potere investigativo, il naufragio operativo della sanzione avocatoria, prevista sul versante dei tempi dell’esercizio dell’azione penale o della richiesta di archiviazione, aveva finito per determinare, in molti uffici di Procura, una deriva che ha indotto il legislatore ad intervenire. La riforma dell’avocazione obbligatoria non ha rimosso l’impianto preesistente, che rimane inalterato in via principale sotto il profilo della doverosa coincidenza tra la scadenza del termine per le indagini e quello per la definizione del procedimento, ancorchè non più sanzionato con l’avocazione del Procuratore Generale, ma ha concesso al Pubblico Ministero una più realistica alternativa, in via subordinata, costituita dalla creazione della sottofase o fase cuscinetto che separa plasticamente il termine delle indagini preliminari da quello delle determinazioni finali sull’alternativa giudizio/archiviazione (pari, in generale a 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, prorogabile per altri 3 e a 15 per alcune tipologie di procedimenti) che ha collocato sotto i riflettori, agganciando al suo superamento l’intervento avocativo obbligatorio del Procuratore Generale.
4. L’allineamento con la disciplina della responsabilità degli enti
Ma il nuovo quadro normativo appare coerente, sotto il profilo sistematico, anche per altro verso.
La peculiarità della riforma richiama alla mente la disciplina della prescrizione prevista dal d.lg n. 231 del 2001, relativo alla responsabilità amministrativa degli enti dipendente dal reato commesso, nel loro interesse o vantaggio, dalle persone fisiche che per essi agiscono.
La regola generale posta dall'art. 22 del decreto stabilisce che “le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato”, salvo la presenza di atti interruttivi (individuati nella richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e nella contestazione dell'illecito amministrativo) che determina il decorrere di un nuovo periodo di prescrizione.
Anche se, stando al testo della norma, ciò che si prescrive è la sanzione, la causa estintiva attinge evidentemente anche l'illecito amministrativo stesso, in quanto il riferimento alla consumazione del reato e l'indicazione di specifici atti interruttivi che precedono il processo, rendono evidente come il fenomeno estintivo riguardi l'intera fattispecie di responsabilità da reato dell'ente e non già meramente le conseguenze sanzionatorie.
Il comma 4 dell'art. 22 prevede, nell'ipotesi in cui l’interruzione sia avvenuta mediante la contestazione dell'illecito di cui all'art. 59, che “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. In sostanza, dopo la tempestiva emissione della richiesta di rinvio a giudizio (o di citazione diretta a giudizio), il tempo necessario alla celebrazione del processo non deve essere computato ai fini della prescrizione che, perciò, diventa di fatto impossibile. Il rigore della disposizione è solo parzialmente mitigato dalla previsione dell'art. 60, a norma del quale l'estinzione per prescrizione del reato impedisce all'accusa di procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo ma non di portare avanti il procedimento già incardinato.
Dunque, se fino a ieri questa disciplina è stata reputata distonica rispetto al regime della prescrizione previsto per le persone fisiche agli artt. 157 ss. c.p., anche sotto il profilo dei tempi della sua maturazione, oggi, dopo la rapida successione delle riforme Orlando - Bonafede, non può non rilevarsi un tendenziale allineamento normativo tra le due tipologie di illecito, rispettivamente riconducibili alla persona fisica e all’ente, nel senso che, nel primo caso, il reato diventa imprescrittibile dopo la sentenza di primo grado, nel secondo, l’illecito amministrativo diventa imprescrittibile dopo la contestazione che chiude la fase delle indagini preliminari.
Naturalmente questo avvicinamento delle normative è limitato, come si ripete, al profilo della imprescrittibilità degli illeciti a determinate condizioni, in quanto per il resto, la scelta di fondo del legislatore del d.lg. n. 231/01 di prevedere un termine fisso di cinque anni per la prescrizione dell’illecito amministrativo, con l’effetto di svincolare la durata del tempo necessario per la sua estinzione dalla gravità del fatto che ne costituisce presupposto e di omologare i tempi di estinzione di illeciti assai diversi, contraddistingue un netto distacco rispetto all’assetto previsto dal codice penale.
Ma, quanto meno, esso lascia ragionevolmente prevedere una forte contrazione dei casi in cui il reato base compiuto dalla persona fisica, da cui discende la responsabilità dell’ente, si prescrive ed il processo penale prosegue solo ed esclusivamente per accertare la responsabilità amministrativa della persona giuridica. Si pensi alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale richiamate dall’art. 25 undicies d.lg n. 231 del 2001 che si prescrivono nel termine massimo di quattro anni più uno, termine destinato oggi a maturare inesorabilmente nel corso del processo per via dei tempi medi di quel tipo di procedimenti, spesso caratterizzati da indagini complesse.
Il sistema ante riforma trova il suo fondamento nel principio di ‘autonomia delle condanne’ di cui all’art. 8, in forza del quale il giudizio di responsabilità amministrativa non può prescindere dall'accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato, anche in assenza della condanna del responsabile e la stessa Corte di cassazione, nel recente passato, ha ritenuto infondata la questione di legittimità posta in relazione alla presunta irragionevolezza di questa disciplina della prescrizione (rispetto a quella prevista per le persone fisiche), atteso che il suo regime derogatorio è giustificato dalla diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente; tuttavia, il sentore di una carenza di sintonia tra le due normative, generato dalla necessità di veicolare l’accertamento di tale illecito all’interno dei binari del procedimento penale anche nelle ipotesi in cui il processo prosegua solo nei confronti dell’ente, oggi è destinato a scomparire.
5. Il processo che verrà
Tornando al dato empirico, che, come si diceva, più di altro, motiva la prognosi inquietante sulla durata illimitata del processo che verrà e costituisce il perno attorno al quale si avvita il ragionamento degli scettici, esso deve essere inquadrato sotto tutti gli angoli visuali, senza pregiudizi e ipocrisie, compreso quello della prevedibile incidenza della riforma in termini di spinta dell’imputato verso i riti alternativi.
Sembra evidente che proprio alcune distorsioni dell’esercizio del ‘diritto di prescrizione’ durante lo svolgimento dei processi, hanno motivato il legislatore delle due riforme. Talvolta, infatti, la prospettiva della prescrizione agisce come fattore di rallentamento dell’iter processuale in quanto la strategia difensiva è quella di tenere in vita il processo allo scopo di lucrare la prescrizione che estingue il reato. L’imputato è, allora, disincentivato alla scelta di riti alternativi, perché la prospettiva di uno sconto di pena non è paragonabile a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizione, con il risultato di ingolfare il rito dibattimentale.
Chi teme che il sistema che ci consegna la riforma sarà posto sotto pressione dai c.d. maxiprocessi e dalle inchieste caratterizzate dai grandi numeri, deve considerare che proprio questi processi sono quelli che oggi, nel sistema ante riforma, comportano il costo sociale più elevato e rendono evidente il fallimento della pretesa punitiva dello Stato.
Un po’ di tempo fa la Procura di Bari condusse un’indagine riguardante un sistema complesso di associazioni per delinquere operanti sul territorio regionale, in cui singoli gruppi associati costituiti da informatori e capi area di alcune case farmaceutiche si intersecavano con associazioni costituite da medici e farmacisti, con il comune obbiettivo di procedere alle richieste di rimborsi al Servizio Sanitario Nazionale per prescrizioni mediche false. Furono contestati agli imputati (tutti appartenenti alle categorie professionali dei medici, farmacisti e informatori scientifici) i reati di associazione per delinquere finalizzate alla corruzione, alla truffa e al falso. Nel corso delle indagini preliminari furono disposte 106 misure cautelari personali coercitive (distribuite in 5 ordinanze nell’arco di due anni) di cui 103 furono confermate dal Tribunale del riesame o dalla Corte di Cassazione, nonché misure di tipo patrimoniale in previsione della confisca di cui all’art.322 ter cpp. Dopo aver definito la posizione di 20 indagati con sentenze di patteggiamento che includevano il risarcimento dei danni, la Procura, a distanza di tre anni dalla prima iscrizione nel registro degli indagati, chiese il rinvio a giudizio di 110 imputati. Il processo di primo grado si concluse dopo quasi 5 anni dalla richiesta di rinvio a giudizio con una sentenza di condanna per, praticamente, tutti i reati contestati che, però, in grado di Appello, furono, in grandissima parte, dichiarati prescritti.
Alcuni dei professionisti che avevano patteggiato la pena, risarcito il danno e (soprattutto) affrontato complicati procedimenti disciplinari dinanzi agli organi di giustizia dei rispettivi ordini professionali, non mancarono di manifestare la loro frustrazione in quanto, grazie alla prescrizione, posizioni processuali sovrapponibili alla loro o, persino, più compromesse, avevano potuto beneficiare di una sentenza di proscioglimento.
Ora, non v’è dubbio che molte delle richieste di patteggiamento furono motivate dal proposito di creare condizioni più favorevoli in cui formulare le richieste di revoca o sostituzione delle misure cautelari in corso, altre dalle condizioni economiche dell’imputato, ma non può non rilevarsi come la strategia processuale vincente, decisamente più costosa per l’imputato, si rivelò quella che aveva puntato sulla carta della prescrizione.
Non è in discussione, ed è persino ultroneo precisarlo, il diritto difensivo di utilizzare questa freccia che il legislatore consente all’imputato di avere al suo arco e che determina le strategie difensive, ma sembra corretto sottolineare che, insieme al rischio che il processo diventi ‘immortale’, il legislatore si faccia carico di quello che la prescrizione costituisca fonte di disparità di trattamento tra gli imputati.
Parallelamente all’inchiesta nei confronti delle persone fisiche, furono aperti 9 procedimenti collegati, a carico di nove società farmaceutiche, per gli illeciti di cui agli artt. 24 e 25 del D. lvo 231/01. La Procura di Bari contestava alle 9 multinazionali del farmaco (tra le più grandi al mondo) l’inadeguatezza dei modelli organizzativi, quanto meno con riferimento alle forme di controllo dei dirigenti e sottoposti, imputati nel procedimento contro le persone fisiche. I procedimenti furono tutti definiti con sentenze di patteggiamento, previa modifica e adeguamento di ciascun modello organizzativo delle nove società, e pagamento di somme di danaro per l’ammontare di circa 7 milioni e mezzo di euro versati dalle società stesse, a titolo di risarcimento del danno, nelle casse della Regione Puglia.
Anche se non è possibile ricavare certezze da un ragionamento che rimane ipotetico, vale la pena inserire nel novero degli elementi di valutazione di questa riforma il grave indizio che, nella vicenda processuale richiamata, sia stato proprio il blocco della prescrizione previsto dalla disciplina sulla responsabilità degli enti - sovrapponibile a quello oggetto di riforma, nei termini di cui si è detto- a determinare le strategie processuali delle case farmaceutiche imputate.
In attesa di preannunciate ed indispensabili riforme strutturali in grado di accelerare i tempi del processo, proprio l’incremento dei riti alternativi potrebbe contribuire ad allargare il collo di bottiglia e dare la stura ad un processo ordinario che abbia una durata ragionevole.
[1] cfr. ordine del giorno n. 53 approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 14 giugno 2017.
L’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 e l’interpretazione degli atti sottoposti al registro: The End!
di Giuseppe Melis
Sommario. – 1. Le origini del dibattito. – 2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – 3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – 4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – 5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine.
La tormentata vicenda dell’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 (e dei suoi antecedenti storici, prima l’art. 19, d.p.r. n. 634/1972 e prima ancora l’art. 8, R.D. n. 3269/1923), giunge finalmente, a quasi un secolo dall’avvio del dibattito, ad una conclusione grazie alla precisa sentenza n. 158/2020 della Consulta, la quale ha negato che la modifica normativa recata dalla L. n. 205/2017, in specie consistente nella sostituzione del termine “atti” con “atto”, nell’esclusione della possibilità di riferirsi nell’interpretazione dell’atto ad elementi extratestuali e a negozi collegati (oltreché nel richiamo all’art. 10-bis, L. n. 212/2000), possa ritenersi in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.. Si tratta, infatti, di modifiche che conformano l’imposta di registro alla sua tradizionale natura di imposta d’atto, senza che la diversa soluzione proposta dalla Cassazione possa considerarsi costituzionalmente necessitata. Grazie poi all’assist involontario – rivelatosi un boomerang – della suadente ipotesi di inammissibilità “interpretativa” prospettata dall’Avvocatura dello Stato, la Consulta preclude ulteriori fantasiose interpretazioni della modifica normativa, bollandole come interpretatio abrogans, consentendo così di ritenere attuale testo dell’art. 20 ormai assestato nel suo significato squisitamente letterale. Si ripercorrono, di seguito, i passaggi storici della vicenda, evidenziando, da un lato, come la soluzione normativa adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali, anche alla luce del coordinamento con il più generale istituto dell’abuso del diritto; e, dall’altro, come la certamente non impeccabile (ma efficace) formulazione finale sia dovuta a scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito, scelte peraltro rivelatesi, anche alla luce delle modalità con cui si è articolato l’ultimo round dinanzi alla Consulta, del tutto azzeccate.
1. Le origini del dibattito. – Con la sentenza n. 158 del 2020 la Corte costituzionale mette la parola fine ad una tra le più tormentate e risalenti querelles interpretative che mai abbiano interessato il diritto tributario italiano, avviatasi già negli anni ‘30 dello scorso secolo con riferimento all’art. 8, co. 1, della abrogata legge del registro (R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269) e giunta, finalmente, all’epilogo.
La pubblicazione avvenuta nel 1937 del brillante lavoro del giovanissimo Jarach sui “Principii per l’applicazione delle tasse di registro”, aprì infatti un ampio dibattito, dai toni non raramente accesi, sul problema se l’interpretazione degli atti sottoposti all’imposta di registro dovesse avvenire secondo principi e concetti giuridici ovvero economici, proprio in considerazione di quanto affermato dall’art. 8 sull’applicazione della tassa di registro “secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti e dei trasferimenti se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.
L’analisi del problema fu strettamente intrecciata con la questione del rapporto tra diritto tributario e diritto civile, quando il primo operava riferimento a concetti già elaborati dal secondo. L’utilizzo di tali termini si reputava avvenire per motivi di ordine pratico, al fine di designare non l’istituto civilistico, bensì un determinato fenomeno della vita economica. La portata dell’istituto richiamato non era quella assunta nell’ordinamento civilistico di provenienza, ma quella rappresentata dalla sua funzione economica normale.
Secondo Jarach, l’art. 8 avrebbe previsto “l’ipotesi che l’atto compiuto dalle parti non abbia ricevuto la forma giuridica normale, che è pure quella che la tariffa contempla come oggetto del tributo, e dispone, in analogia al criterio contenuto nella legislazione germanica, affermato dalla giurisprudenza svizzera e conforme ai principi fondamentali del diritto tributario, che in tale ipotesi si deve aver riguardo, nell’applicazione delle tasse proporzionali, progressive e graduali, alla portata economica degli atti compiuti e non al loro aspetto giuridico”. Due atti sostanzialmente identici, anche se con forme giuridiche civilistiche diverse, dovevano essere sottoposti per il principio di eguaglianza ad identico tributo, in quanto ciascuna imposta “ha un oggetto che costituisce l’indizio che il legislatore prende in considerazione per stabilire l’esistenza di una capacità contributiva”: per il principio di capacità contributiva “a parità di capacità contributiva deve corrispondere uguale imposta”.
Tale fu anche la posizione di Griziotti che ritenne rilevante il contenuto economico dell’atto, dal momento che il tributo del registro non era una tassa, ma un’imposta, e come tale colpiva fatti economici. Facendo leva sulla rilevanza della natura di imposta di un determinato tributo ai fini dell’indagine sul contenuto economico della fattispecie, Egli estendeva il ragionamento anche all’imposta di ricchezza mobile.
A tale costruzione A. Berliri oppose che l’idoneità di un fatto a manifestare la capacità contributiva, cioè la capacità di pagare le imposte, costituiva un giudizio riservato al legislatore e non demandato all’interprete. È il legislatore che sceglie se e quale capacità contributiva sia desumibile da un atto piuttosto che da un altro atto: conseguentemente, se il legislatore erra in un simile giudizio, il suo errore non può essere corretto dall’interprete.
La prevalenza del contenuto giuridico su quello economico e, quindi, il diritto delle parti di scegliere la forma di un contratto anziché un altro per regolare i loro rapporti, fu sostenuta anche da A. Uckmar. È vero sì che il fisco può tassare il contratto che le parti hanno realmente posto in essere indipendentemente dall’intenzione delle parti stesse, ma ciò “non deve portare all’estrema conseguenza di dover applicare un’aliquota più elevata di quella dovuta su un determinato atto, per il solo motivo che le parti hanno raggiunto uno stesso scopo che avrebbero potuto ottenere stipulando un altro contratto soggetto ad aliquota maggiore”. Due negozi giuridici diversi, anche se producono sostanzialmente identici effetti economici, possono scontare aliquote diverse. Le tabelle del registro contemplano negozi giuridici e non atti economici e le aliquote variano a seconda del negozio giuridico, indipendentemente dagli effetti economici: basterebbe pensare ai negozi nulli, i quali scontano l’imposta di registro, sebbene non producano alcun effetto economico.
V. Uckmar ebbe infine il merito di evidenziare con forza il tema della certezza del diritto in un suo scritto in cui criticava due pronunzie della Commissione tributaria centrale, le quali avevano ritenuto che “la cessione dell’intero pacchetto azionario di una società, ponendo l’acquirente in condizione di fare proprio il patrimonio sociale, è soggetta all’imposta proporzionale di registro, anche se la società abbia assolto l’imposta di negoziazione”, entrambe basandosi sul duplice argomento secondo cui: i) la cessione metterebbe virtualmente il titolare della totalità delle azioni in condizione di far proprio il patrimonio della società ponendo la stessa in liquidazione; ii) la cessione, nella realtà economica, potrebbe avere la “funzione strumentale” di trasferire il patrimonio sociale.
Si trattava, va evidenziato, di una giurisprudenza di merito che si discostava da quella di legittimità che, al contrario, accoglieva allora la tesi secondo cui gli atti andavano tassati per gli effetti giuridici da essi prodotti, rilevando che “la Finanza non ha nessun obbligo di compiere indagini su fatti e circostanze che non risultano dall’atto, ma deve basarsi esclusivamente sull’atto così qual è, obiettivamente, nella sua impostazione giuridica”, e che “una ricerca dell’Ufficio sul fine ultimo economico giuridico che le parti hanno voluto raggiungere con l’atto, al fine di determinare la tassa in relazione a questo fine, mentre da nessuna disposizione di legge è prescritta, è contraria a quel criterio di certezza, che deve presiedere alla identificazione del contenuto giuridico degli atti, dovendosi l’imposta applicare in base alle pattuizioni emergenti da detti atti” (Cass., 19 agosto 1947).
A proposito della certezza, così scriveva V. Uckmar: “l’applicazione delle imposte non può essere rimessa alla discrezione, se non addirittura all’arbitrio, dell’Amministrazione; è canone fondamentale della scienza delle finanze, insegnatoci dallo SMITH, che l’imposta che ciascun individuo è obbligato a pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria. Mi sembra che tale certezza verrebbe meno qualora si rimettesse all’Ufficio del registro la potestà di sindacare se un determinato atto, che giuridicamente non produce trasferimento di beni, sia tassabile in quanto “nella realtà economica” potrebbe essere traslativo di ricchezze”. Il riferimento alla realtà economica “porrebbe nel nulla, come ha rilevato anche la Cassazione, una delle necessità fondamentali dell’imposizione, e cioè la certezza”.
2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – La modifica attuata dal legislatore con il nuovo art. 19, d.p.r. n. 634/1972, poi trasfuso nell’art. 20, n. 131/1986, consistente nell’inserimento nell’enunciato normativo dell’aggettivo “giuridici” – “l’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” – avrebbe dovuto definitivamente eliminare ogni appiglio per affermare la possibilità di ricorrere a giudizi di equiparazione basati sul risultato economico perseguito con l’operazione complessivamente posta in essere, riconducendo l’interpretazione della disposizione interessata al suo significato di consentire all’Amministrazione finanziaria un’indagine sulla natura giuridica dell’atto posto alla registrazione al fine di verificarne la sua rispondenza ad un tipo normativo piuttosto che ad un altro e così determinarne gli effetti rilevanti in termini di imposizione di registro: in altri termini, una ricerca sulla “sostanza giuridica”.
Diverse erano poi le implicazioni che se ne ritraevano.
In primo luogo, di autorizzare un’interpretazione del contratto sottoposto a registrazione differenziata e autonoma da quella civilistica, con la conseguenza che, da un lato, sarebbe stato possibile colpire il negozio al di là degli effetti voluti dalle parti e quindi con riferimento sic et simpliciter agli effetti giuridici che la legge ricollegava al mero schema negoziale adottato dalle parti medesime, anche se non voluti; e, dall’altro, che talune disposizioni in punto di interpretazione non avrebbero trovato applicazione, come ad esempio quelle in ordine al comportamento complessivo delle parti.
In secondo luogo, di escludere non solo la rilevanza degli effetti economici dell’attività negoziale posta in essere, ma anche la possibilità che gli effetti giuridici connessi alle ipotesi di collegamento negoziale potessero essere apprezzati alla luce della “causa concreta”.
In terzo luogo, che non potesse essere assegnata all’art. 20 d.p.r. n. 131/86 la stessa funzione dell’art. 37-bis d.p.r. n. 600/73, trattandosi di disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi sottoposti a registrazione, e non già di norma antielusiva: il negozio perfettamente corrispondente alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non avrebbe quindi potuto essere disconosciuto anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta.
In sintesi, essendo interpretazione e qualificazione operazioni oggettive, poiché tale è l’interpretazione, che mira alla ricostruzione della volontà delle parti così come oggettivata nel contratto, e tale è altresì – in quanto mera individuazione degli elementi qualificanti la fattispecie – l’inquadramento nel tipo corrispondente della fattispecie stessa, l’Amministrazione deve sicuramente ricostruire la volontà delle parti, ponendosi la rilevanza della regola in esame essenzialmente sul diverso profilo dell’efficacia giuridica potenziale del negozio, la cui tassazione dovrà tenere conto non solo degli effetti voluti dalle parti, ma anche di quelli che esso è idoneo a produrre in forza della fattispecie normativa in cui si inquadra.
Infine, non poteva essere escluso che, sia pur in via eccezionale, alcuni elementi interpretativi di natura “extratestuale” (comportamento successivo delle parti, in particolare quello esecutivo) potessero valere a definire in concreto la portata di un atto altrimenti indefinibile nel suo significato oggettivo e testuale.
3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – La giurisprudenza di legittimità, a partire dai primi anni 2000, ha iniziato tuttavia a fare un uso – oggetto di critiche costanti ed unanimi della dottrina tributaria – dell’art. 20 prima quale norma “antielusiva”, poi quale norma “speciale” sull’interpretazione applicabile al solo settore dell’imposizione del registro (che darebbe rilevanza alla c.d. “causa in concreto”).
Questa seconda variante è temporalmente collocabile dopo l’avvenuta introduzione del nuovo art. 10-bis nella L. n. 212/2000, che, estendendo l’abuso del diritto/elusione fiscale a tutti i tributi, rendeva la tesi antielusiva evidentemente non più persuasiva. L’auspicio della dottrina che l’introduzione dell’art. 10-bis, L. n. 212/2000, in quanto applicabile a tutti i tributi, avrebbe definitivamente risolto la questione e ricondotto l’interpretazione dell’art. 20 nel suo alveo originario, si era dimostrato vano. La giurisprudenza – con l’unica eccezione di una sentenza che ha disconosciuto la possibilità di legittimare una lettura “sostanzialistica” degli atti sottoposti al registro mediante l’art. 20 (Cass., n. 2054/2017; sul necessario rispetto dello “schema negoziale tipico”, salva esistenza di un disegno elusivo, v. anche Cass. n. 722/2019 e n. 6790/2020) – ha infatti insistito sulla propria linea “sostanzialistica”, ritenendo irrilevante l’intervento legislativo in materia antiabuso ed aggiustando, come detto, il tiro. Da ciò conseguendone: i) che l’art. 10-bis, pur applicabile a tutti i tributi, risultava di fatto privato di qualsiasi portata applicativa nel solo settore dell’imposizione del registro, assolvendo “di fatto” a tale funzione l’art. 20 anche nella nuova versione “interpretativa”, ma in assenza delle garanzie previste dall’art. 10-bis; ii) che il settore del registro fosse l’unico ad essere regolato da norme interpretative “speciali” (sia pure “ordinarie” nella prospettiva civilistica), rompendo così “l’unità” del sistema impositivo.
L’elaborazione “compiuta” di tale secondo indirizzo meramente “interpretativo” è ben compendiata da Cass., 2007/2018, secondo cui:
In questa versione, che può ritenersi quella definitiva, non si tratterebbe dunque più – come nella originaria prospettiva “antielusiva” – di una regola di interpretazione giuridica “speciale” rispetto al diritto civile, bensì della mera applicazione delle regole civilistiche sull’interpretazione dei negozi alla luce dell’operazione complessiva. Anche qui, tuttavia, conseguendone effetti “singolari”, poiché l’interpretazione della legge del registro diverrebbe a questo punto “speciale” rispetto a tutte le altre branche dell’ordinamento tributario, in cui, a contrario, non varrebbero le “ordinarie” regole interpretative civilistiche sulla rilevanza dell’intenzione delle parti e del loro comportamento complessivo. Non manca, naturalmente, la benedizione dell’art. 53 Cost., cui già in passato – si pensi alle notissime sentenze delle Sezioni Unite sull’abuso del diritto del 2008 – la Cassazione ha riconosciuto una vera e propria funzione normogenetica, vale a dire l’idoneità a disciplinare direttamente le fattispecie, incompatibile con il principio di riserva di legge.
Le assonanze con l’apparato concettuale proprio delle tesi della Scuola di Pavia sono all’evidenza fortissime, sia pure presentate, nella versione finale, quale mera applicazione delle ordinarie regole interpretative civilistiche: l’autonomia dei criteri di qualificazione tributari rispetto alle ordinarie ipotesi interpretative civilistiche, la preminenza assoluta della causa reale o della causa in concreto sull’assetto cartolare, la necessità di assicurare per tale via il rispetto del principio di eguaglianza di trattamento tra le forme giuridiche scelte dal contribuente per raggiungere un determinato risultato economico, la prevalenza della sostanza sulla forma, il rispetto del principio di capacità contributiva.
Naturalmente, negli anni ’30 il concetto di causa “in concreto” neanche era stato concepito – e si è peraltro affacciato in giurisprudenza ben dopo anche il 1972 e il 1986, risalendo la prima enunciazione giurisprudenziale agli anni ‘2000, con esiti peraltro considerati non sempre felici (V. ROPPO, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. Dir. civ., 2013, p. 963) – imponendosi all’epoca il concetto oggettivo di “causa” utilizzato dal legislatore del 1942 con la coincidenza tra causa e tipo.
Tale concetto ha come noto subito un ripensamento in dottrina – arrivato, come detto, molto più tardi in giurisprudenza e comunque mai nella forma così radicale in cui è stato applicato in materia tributaria (è sufficiente pensare alla mancanza di causa originariamente sostenuta in presenza di operazioni aventi esclusiva finalità fiscale: Cass., nn. 20398 e 22932/2005) – nella direzione di un concetto di “causa” come intento pratico-individuale, teso a far risaltare le esigenze e gli interessi di uno o più contraenti. La tipicità individuerebbe, in una operazione negoziale rientrante in un tipo legale, la disciplina applicabile per la realizzazione degli interessi perseguiti dalle parti. La causa diviene dunque l’interesse stesso, desumibile da tutto il quadro dell’operazione economica realizzata col negozio, delineando così una ragione concreta del contratto che spinge alla ricerca del significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che, sia pure tacitamente, sono entrate nel contratto.
Le conseguenze di siffatta impostazione sono molteplici.
In primis, laddove il contratto non risponda ad un tipo legale si pone un problema di controllo della causa che non è diverso rispetto a quello dei contratti nominati, non essendo la semplice coincidenza del contratto con uno schema legale sufficiente a verificare la meritevolezza dell’interesse perseguito e dovendosi pertanto in ogni caso ricercare la causa concreta del contratto.
In secondo luogo, emerge la contestazione della causa come elemento avente virtù individuative del tipo, sia che la si identifichi con la funzione del negozio, sia che la si identifichi come “sintesi degli effetti essenziali”.
In terzo luogo, si opera il recupero dei “motivi”, poiché dalla descrizione della causa come momento attraverso il quale la regolamentazione negoziale palesa nella sua interezza l’assetto di interessi in essa divisato, emerge la possibilità di attribuire rilevanza alle posizioni soggettive delle parti, insuscettibili di essere ridotte sul piano delle mere rappresentazioni psicologiche dei contraenti.
In quarto luogo, la rilevanza emerge con riferimento alle operazioni complesse risultanti da una pluralità di negozi tra loro collegati in vista della realizzazione di un risultato unitario diverso da quello prodotto da ciascuno dei singoli negozi utilizzati. In tal caso, infatti, il giudizio di liceità viene ritenuto dover essere condotto non tanto con riferimento alla meritevolezza dei singoli negozi, quanto alla meritevolezza dell’operazione complessa risultante dal collegamento, riassumendo in una valutazione unitaria tutti gli atti e i comportamenti nei quali in concreto si svolge il potere di autonomia dei privati in vista di un risultato pratico unitario, senza che tuttavia ciò implichi l’irrilevanza giuridica dei singoli passaggi dell’operazione.
Infine, la causa “in concreto” esplica i suoi effetti sul profilo dell’interpretazione e della qualificazione del contratto, dovendo il significato dell’accordo essere determinato in relazione all’interesse pratico e unitario perseguito (c.d. “interpretazione funzionale”) e il contratto essere inquadrato nell’ambito degli schemi qualificatori in base al medesimo interesse, venendo i motivi leciti rilevanti selezionati mediante l’interpretazione del contratto e in particolare mediante il criterio ermeneutico del comportamento complessivo delle parti.
Non è ovviamente nostra intenzione ascendere le vette della teoria generale della “causa”, peraltro lontana dall’essere approdata a risultati univoci in dottrina e in giurisprudenza.
Due osservazioni in tema di autonomia negoziale devono tuttavia essere fatte.
In primo luogo, la causa “concreta”, nel suo riferirsi al disegno economico complessivo, si presta a difformi valutazioni in termini di “autonomia negoziale”. Se infatti essa costituisce un superamento dell’impostazione del rapporto tra autonomia negoziale ed ordinamento statuale in termini di autorizzazione della prima da parte del secondo, e quindi di conformità delle iniziative private alle direttive politiche, economiche e sociali dell’ordinamento – apparendo il negozio lo strumento per la realizzazione di interessi non più solo privati, ma anche di finalità generali – essa comporta comunque la considerazione del negozio quale oggetto (e non più strumento) di controllo sulla compatibilità dei valori espressi dal negozio e quelli espressi dall’ordinamento.
In secondo luogo, l’autonomia negoziale ha un contenuto articolato, potendo le parti non solo pervenire alla definizione di un assetto di interessi che arricchisca o restringa la portata del tipo contrattuale, ma anche giungere alla definizione di un assetto di interessi del tutto atipico e quindi ad uno schema non previsto dal legislatore. L’autonomia contrattuale implica quindi non soltanto la libertà di contrarre, nel senso che le parti si vincolano unicamente se (e con chi) vogliono, ma anche la libertà contrattuale, di dare cioè agli accordi il contenuto che le parti preferiscono, decidendo anche in quale “tipo” contrattuale calare l’operazione che si persegue, privilegiando l’uno oppure l’altro dei tipi legali codificati, ovvero anche concludendo contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.
Esse potranno infine ricorrere a negozi “indiretti” – per mezzo dei quali, secondo la tesi della causa “tipica”, le parti utilizzano un determinato schema contrattuale per realizzare un scopo che corrisponde non alla sua causa, ma alla causa di un diverso contratto – leciti in linea di principio, a meno che non costituiscano il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa di legge o a realizzare motivi illeciti comuni ad entrambe le parti; oppure al collegamento negoziale, la cui operatività congiunta è necessaria per realizzare l’operazione programmata dalle parti, anch’esso pratica del tutto lecita – perseguendo i vari rapporti negoziali un interesse immediato che è strumentale rispetto all’interesse finale dell’operazione – purché non utilizzata per eludere divieti di legge.
Così stando le cose, anche a voler dare ingresso nella materia tributaria, in una prospettiva moderna ed evolutiva, alla nozione di “causa in concreto”, ne emergono con evidenza i relativi limiti: la più qualificata dottrina italiana (A. FEDELE, La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, in Riv. Dir. Trib., 2020, II, p. 14 ss) ha osservato, a proposito della notissima (ri)qualificazione in una “vendita diretta” dell’abbinamento contrattuale conferimento di azienda-cessione delle partecipazione, che la vendita, “lungi dal costituire una necessaria conseguenza dell’individuazione della causa concreta dell’operazione, comporta una “equiparazione” di fattispecie che supera e forza proprio il “concreto” assetto di interessi realizzato con l’operazione (id est, la titolarità delle partecipazioni e non del bene) e tale equiparazione si giustifica solo in ragione del disconoscimento, nel singolo caso, di vantaggi fiscali indebiti secondo lo schema tipico dell’intervento antielusivo”. Per raggiungere tale risultato di “sostituzione”, non è sufficiente dunque un mero giudizio di “non meritevolezza fiscale” dell’operazione nel suo complesso, ma occorre la presenza di un espresso “divieto” di conseguire risparmi fiscali indebiti, che, consentendo di superare le forme negoziali in cui i singoli passaggi si esprimono a favore di una loro considerazione unitaria, legittimi la “ri-qualificazione” dell’operazione nel suo complesso e l’applicazione della corrispondente tassazione.
Nell’imposta di registro – ma così avviene per ogni altra imposta, non potendosi riconoscere all’art. 20 alcuna “specialità” rispetto ad altri sottosistemi impositivi e certamente non più alla luce della richiamata modifica normativa del 1972 – il “collegamento” eventualmente esistente tra i più negozi non autorizza pertanto a “riqualificare” (giuridicamente) i negozi medesimi se economicamente equivalenti, ma solo a determinarne i corretti effetti giuridici eventualmente alla luce del collegamento – ma solo se questo formi oggetto di una previsione ad hoc – ovvero del comportamento successivo delle parti – ma solo ove esso valga a definire il contenuto dell’atto precedente; nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a contestare la simulazione, potendo invece la “equivalenza degli effetti economici raggiunti” essere contrastata soltanto con un meccanismo di “inefficacia” fiscale qual era quello originariamente contemplato dall’art. 37-bis d.p.r. 600/73 e ora previsto dall’art. 10-bis, L. n. 212/2000, idoneo a ricondurre i negozi posti in essere nell’ambito di una diversa configurazione – pur sempre giuridica – conforme alla “operazione economica” complessivamente realizzata.
L’applicazione dell’art. 20 per “riqualificare” i singoli negozi nell’ambito di una operazione economica complessiva – modulando l’imposizione su effetti non riconducibili ad alcun contratto voluto e concluso dalle parti – appare dunque priva di fondamento. Ma essa è anche inutile – oltreché dannosa per via della confusione tra le categorie generali del diritto tributario e del diritto civile che essa genera – se rapportata al risultato che la Cassazione intendeva perseguire: meglio sarebbe stato fare anche qui applicazione (non condivisibile ma coerente) del principio dell’abuso del diritto sic et simpliciter, senza stravolgere i principi generali della materia. E del resto, a ben guardare, le fattispecie in cui la Suprema Corte ha fatto applicazione dell’art. 20 in funzione “antielusiva” consistevano, quasi sempre, proprio in una “speciale” ed anomala concatenazione negoziale preordinata al risparmio dell’imposta di registro (salvo valutare se tale risparmio potesse considerarsi “indebito” alla luce dei principi generali dell’imposizione di registro).
L’art. 20 d.p.r. n. 131/86 è dunque disposizione sull’interpretazione e qualificazione dei negozi sottoposti a registrazione, e non già norma interpretativa “speciale” del registro (con o senza funzioni antielusive): il negozio perfettamente corrispondente alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non potrà quindi essere disconosciuto con l’art. 20 anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta.
4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – Al di là del merito della questione, è noto che l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 20 ha comunque determinato rilevanti incertezze nei traffici giuridici, accadendo tra l’altro che: cessioni del 100% delle quote di una società fossero tassate ai fini del registro come se si trattasse di una cessione dell’azienda, nonostante l’evidente diversità dei relativi effetti giuridici; cessioni di fabbricato poi demoliti per essere ricostruiti, venissero tassati quali cessioni di terreno edificabile, attribuendo rilevanza a comportamenti delle parti e finanche a provvedimenti amministrativi esterni all’atto, all’opposto di quanto concluso ai fini delle imposte sui redditi, dove la giurisprudenza ha costantemente disconosciuto la possibilità di tassare la relativa plusvalenza a titolo di cessione di terreno edificabile, senza ricorrere a “cause in concreto”; i conferimenti di azienda seguiti dalla cessione delle relative quote, venissero tassati quali cessioni di azienda, quando ai fini delle imposte dirette si tratta di operazione che viene addirittura esclusa espressamente dal legislatore da qualsiasi sindacato di ordine “sostanziale” ed antielusivo essendo le due operazioni alternative considerate come poste su un piano di parità (art. 176, co. 3, TUIR).
In una simile situazione di urgenza indifferibile, due erano le possibilità a disposizione del legislatore: abrogare tout court l’art. 20 oppure riformarlo.
Chi scrive aveva sostenuto, in un breve intervento del 2017 (Patrimonio sociale: per la cessione, tasse da rivedere, in Il Sole 24 ore, 17 settembre 2017, p. 17), l’opportunità di procedere all’abrogazione espressa dell’art. 20.
Mancando a quel punto una specifica norma di supporto, agli atti sottoposti al registro avrebbero trovato applicazione le ordinarie regole di interpretazione civilistiche, alla stregua di qualsiasi altro tributo, senza spazio per collegamenti negoziali al di fuori di quello rilevante per le norme antielusive (o per le specifiche norme del registro). Se, pertanto, anche per il diritto civile, l’atto sottoposto al registro poteva essere “qualificato” diversamente da come le parti hanno fatto, inquadrando la fattispecie in un diverso e corrispondente schema legale, allora anche ai fini del registro a tale atto avrebbe potuto essere attribuita una diversa qualificazione, applicando la tassazione per essa prevista. Si tratta di una conseguenza che non richiede una previsione normativa, essendo pacifico il potere dell’Amministrazione finanziaria prima, e del giudice poi, di qualificare correttamente un atto indipendentemente dalla sua forma o dal nomen juris, purché ciò avvenga in ossequio alle ordinarie regole civilistiche. Col senno di poi, non è tuttavia certo che questo risultato si sarebbe raggiunto, poiché i giudici avrebbero potuto sostenere l’applicabilità dell’art. 1362, co. 2, c.c., quale norma generale civilistica, anche in mancanza dell’art. 20: così facendo, tuttavia, venendo a mancare la ipotetica disposizione “speciale” del registro, la “causa concreta” si sarebbe dovuta applicare a tutti i tributi, con effetti talmente dirompenti sul sistema da imporre una desistenza generale.
Laddove poi le parti fossero ricorse ad una concatenazione anomala di atti finalizzata ad eludere l’imposta di registro e a conseguire un risparmio di imposta che potesse qualificarsi come “indebito”, ben avrebbe potuto trovare applicazione la norma antielusiva contenuta nel nuovo art. 10-bis, L. n. 212/2000, poiché applicabile a tutti i tributi.
In presenza, infine, di atti separati finalizzati a mascherare sotto la veste di più atti documentali un unico negozio (ad es., la cessione “spezzatino”), il Fisco avrebbe potuto accertare gli effettivi termini delle operazioni fiscalmente rilevanti (oltreché applicare la qualificazione ai fini Iva, poiché presupposto della relazione di alternatività Iva-registro).
Il risultato sarebbe stato di allineare l’imposta di registro a tutti gli altri settori del diritto tributario, aggiungendo un tassello fondamentale alla costruzione di un sistema tributario equo, certo ed unitario.
Il legislatore non è rimasto sordo alle esigenze del mondo produttivo, ma non se la è sentita di giungere al rimedio estremo dell’abrogazione, preferendo intervenire chirurgicamente sulla disposizione con una serie di rilevanti modifiche chiaramente finalizzate a spuntare le armi alla tesi sostanzialista.
Ciò è avvenuto mediante la sostituzione, con L. n. 205/2017, del riferimento agli “atti” con quello al singolo “atto” sottoposto al registro; escludendo la possibilità di fare riferimento sia ad elementi extratestuali che a negozi collegati; infine, ribadendo l’applicabilità dell’art. 10-bis anche all’imposizione di registro. In altri termini, si è proceduto all’eliminazione di ogni appiglio per continuare a sostenere l’interpretazione avversata.
Una soluzione, dunque, che si avvicina per effetti molto all’abrogazione, anche se con qualche perplessità, come l’eliminazione tout court della possibilità di riferirsi agli elementi extratestuali che, come detto, potevano occorrere in casi eccezionali a definire il contenuto dell’atto, con conseguente esclusione dell’art. 1362, co. 2, c.c., o ancora il riferimento all’art. 10-bis, la cui portata generale non è stata mai in discussione.
Si tratta, tuttavia, di scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito. Da un lato, infatti, ha evidentemente prevalso il timore che attraverso gli elementi extratestuali dell’art. 1362, co. 2, c.c. potesse rientrare dalla finestra la rilevanza dell’operazione complessiva uscita dalla porta; dall’altro, si è voluto ricordare che esiste anche l’art. 10-bis, con tutti i suoi corollari procedimentali, poiché, in questo Paese di santi, poeti, navigatori, allenatori ed … interpreti, la chiarezza non è mai abbastanza. Basta pensare a quanto a suo tempo accaduto con il comma 12 dello stesso art. 10-bis, che dispone che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione … di specifiche disposizioni tributarie: disposizione sicuramente ovvia, ma non se si pone mente all’applicazione “catch-all” che Amministrazione finanziaria e giurisprudenza avevano fatto dell’abuso del diritto, includendovi una serie di fattispecie del tutto estranee – quali antieconomicità, transfer pricing, simulazione, evasione, interposizione reale, ecc. – al punto da indurre la più acuta (e sarcastica) dottrina italiana (Falsitta) a coniare l’espressione di “concetto onnivoro”.
Del resto, a noi pare che la soluzione adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali. Ai sensi dell’art. 10-bis le operazioni devono infatti realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”, intendendosi tali “i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (co. 2, lett. b): la “finalità” essenziale deve, dunque, essere quella di eludere l’imposizione ponendosi in contrasto con la ratio delle disposizioni o dei principi dell’ordinamento tributario (in questo caso, riferiti al registro). Sotto questo profilo, è stata mantenuta la logica della “frode alla legge” tributaria già alla base dell’art. 37-bis, ma meglio esplicitando la circostanza che il vantaggio fiscale deve essere “indebito”. Ebbene, come osserva un importante civilista italiano, “per valutare se un’opportuna combinazione di negozi fra loro collegati (…) integra frode alla legge, che cosa fanno i giudici se non ricostruire – attraverso la rilevazione di specifici elementi del contratto o della combinazione di contratti – la relativa causa concreta? Non c’è bisogno che lo enuncino: in un’indagine come quella imposta al giudice dall’art. 1344 c.c., l’identificazione della causa come causa concreta è per così dire in re ipsa” (V. ROPPO, op. ult. cit., p. 963).
Fatta la norma, si è tuttavia subito posto il problema della sua “retroattività”, esclusa all’unanimità dalla Cassazione ed ammessa solo “parzialmente”, con una soluzione più politica che giuridica, dall’Amministrazione finanziaria per gli atti sottoposti a registrazione prima dell’entrata in vigore della modifica ma non ancora oggetto di atti di liquidazione. Ciò che ha comunque indotto il legislatore ad intervenire nuovamente con L. n. 145/2018 affermando la natura di interpretazione autentica delle modifiche normative del 2017.
Immediata è stata la reazione della Cassazione, cui, a sommesso avviso di chi scrive, deve tuttavia muoversi un duplice “rimprovero”.
Il primo, di diritto. Di aver cioè ritenuto che la propria interpretazione dell’art. 20 fosse l’unica costituzionalmente legittima e possibile e che la tassazione del singolo atto sottoposto al registro non esprimesse capacità contributiva tout court. A tutta la dottrina tributaria è invece apparso subito evidente l’esatto contrario: sicché, in considerazione dell’ampia discrezionalità di cui notoriamente gode il legislatore in materia di definizione del presupposto del tributo, è stato dato per scontato che la ricostruzione della Corte di Cassazione non integrasse una soluzione costituzionalmente necessitata, con conseguente infondatezza della questione sollevata.
Il secondo, di politica del diritto. Di non avere cioè avuto la sensibilità di comprendere che l’intervento del legislatore era a favore del “Paese Italia”, non dei contribuenti – tutti ricordiamo la ben diversa vicenda che aveva originato la stizzita ordinanza di remissione della Cassazione alla Corte di giustizia relativamente alla definizione agevolata delle controversie pendenti in Cassazione da oltre dieci anni con doppia conforme favorevole (Cass., n. 18055/2010) – nell’ottica esclusiva di restituire quella certezza all’ordinamento tributario la cui assenza scoraggia gli investimenti stranieri in Italia. Intervento, peraltro, neanche “episodico”, poiché posto in piena continuità con la più generale politica di “certezza” perseguita in quegli anni dal Ministero Padoan con interventi quali: la riforma degli interpelli, con la generalizzazione della sanzione di nullità degli atti impositivi adottati in difformità della risposta; l’interpello “rafforzato” per i nuovi investimenti, che preclude sin anche il revirement dell’Agenzia; la riforma delle sanzioni penali, che sottrae al regime sanzionatorio penale fattispecie connotate da ampi margini di indeterminatezza o dall’assenza di danni erariali (ad es., l’abuso del diritto, le valutazioni, gli errori sulla competenza); la “codificazione” e l’unificazione con l’elusione fiscale, del principio dell’abuso del diritto; l’individuazione e soluzione di serie di problematiche specifiche relative alla determinazione del reddito di impresa (perdite su crediti, prezzi di trasferimento tra imprese residenti, ecc.); da ultimo, appunto, l’art. 20 della legge sul registro.
5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine. – Se ai danni reputazionali non v’è stato rimedio – gli investitori esteri hanno ritenuto incomprensibile questa “resistenza” giurisprudenziale rispetto ad un intervento legislativo che risolveva una querelle che durava da quasi 90 anni – ad eliminare, invece, i residui dubbi giuridici ci ha pensato, con una sentenza asciutta ed esemplare, la Consulta.
Ciò è avvenuto anche grazie all’aiuto involontario dell’Avvocatura dello Stato che, probabilmente imbrigliata dal suo ruolo anche di assistenza all’Erario in sede di legittimità sulle vicende interessate, ha proposto, sotto l’ammiccante prospettazione della “inammissibilità” della questione, una a dir poco curiosa ricostruzione interpretativa secondo cui il divieto di far ricorso ad elementi extratestuali o desumibili da atti collegati contenuto nell’art. 20 avrebbe avuto il solo e limitato significato di escludere la rilevanza degli elementi “fuori contesto” od “extra-vaganti” (cioè privi di riferimenti all’atto da registrare o con effetti non incidenti su questi). In sostanza, secondo l’Avvocatura, la Cassazione ben avrebbe potuto continuare a tassare il conferimento dell’azienda seguito alla cessione della partecipazione alla stregua di una cessione dell’azienda, non essendo ciò impedito dal nuovo art. 20!
Sul punto, la Consulta, con inconsueta (e in questo caso meritatissima) durezza, osserva che la lettera della disposizione non pone tale distinzione, e che così interpretandola, si giungerebbe ad “un’arbitraria e illogica interpretatio abrogans delle disposizioni censurate”. Questa vicenda, che evoca quella dei pifferi di montagna, conferma che le precauzioni del legislatore – nella specie, di escludere espressamente la possibilità di riferirsi agli elementi extratestuali e di richiamare espressamente l’art. 10-bis – non sono mai abbastanza dinanzi alla fantasia degli interpreti di turno, e che è meglio una parola in più che una in meno. I contribuenti devono tuttavia ringraziare l’Avvocatura, per aver consentito alla Consulta di sancire subito l’inconsistenza di una tesi che sarebbe altrimenti sicuramente emersa dopo la sentenza, con esiti imprevedibili.
Venendo al merito della vicenda nei (più lineari) termini prospettati dalla Cassazione, la tesi della Consulta è che la modifica normativa ha legittimamente “conformato” l’art. 20 alla natura dell’imposta di registro quale imposta sull’atto – come del resto sostenuto dalla giurisprudenza più risalente sopra richiamata (anche Cass., 28 luglio 1972, n. 2577) – e che questa rappresenta una legittima opzione legislativa, trattandosi di una (magari non moderna ma sicuramente) tipica espressione di capacità contributiva e sussistendo ampia discrezionalità in materia. Anzi, la Consulta lascia chiaramente intendere che la vicenda si sarebbe dovuta chiudere già una cinquantina di anni fa con l’introduzione dell’aggettivo “giuridici” nell’art. 19, d.p.r. n. 634/1972.
Interessante è peraltro il richiamo alle pronunce di indirizzo contrario (le già richiamante sentenze n. 2054/2017, n. 722/2019 e n. 6790/2020), per rilevare che il legislatore è intervenuto “anche in conseguenza di tale contrasto”. Precisazione, quest’ultima, che, nel porre il contrasto interpretativo quale occasio legis, anticipa quella che sarà la verosimile risposta all’inopinata nuova remissione sollevata dalla CTP di Bologna con ordinanza del 13.11.2019, che, oltre a reiterare le questioni appena dichiarate infondate, prospetta anche una violazione dei principi di retroattività, richiamando addirittura a favore dello Stato le disposizioni della CEDU rivolte per loro natura a tutelare i diritti del soggetto privato contro il potere dello Stato medesimo!
Dalla piena legittimità dell’indice di contribuzione prescelto dal legislatore, consegue, ovviamente, l’esclusione di qualsiasi violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.. Come è infatti stato evidenziato (G. FRANSONI, La “riforma” dell’art. 20 TUR supera l’esame di costituzionalità. Commento a Corte Costituzionale, sent. 21 luglio 2020, n. 158, https://fransoni.it/argomenti/la-riforma-dellart-20-tur-supera-lesame-di-costituzionalita/), l’eguaglianza va rapportata al presupposto concretamente scelto dal legislatore e non già rispetto ad altri ipotetici presupposti parimenti idonei. Pertanto, il modulo argomentativo spesso utilizzato dalla Corte a giustificazione della propria interpretazione “sostanzialistica”, secondo cui la medesima si imporrebbe per eliminare ogni discriminazione tra chi realizza il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale e chi con più atti collegati, perde completamente di significato laddove il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli è riservata, abbia scelto di conformare l’imposizione di registro come imposta sul singolo atto anziché sull’operazione economica complessiva.
Assai apprezzabile è, infine, il completamento dell’argomentazione svolto dalla Consulta con riferimento all’art. 10-bis, laddove ha rilevato che i) il ricorso alla “causa reale”, tassando un negozio diverso da quello posto in essere, si sostanzierebbe in una applicazione “antielusiva” dell’art. 20, senza tuttavia riconoscere le garanzie proprie dell’art. 10-bis; ii) le preoccupazioni dell’ottenimento di vantaggi indebiti vengano meno proprio per effetto della possibilità di applicare tale disposizione generale antielusiva. Profilo, quest’ultimo, sul quale va apprezzata l’immediata presa di posizione dall’Amministrazione finanziaria nel ritenere che la cessione indiretta d’azienda, attuata mediante il conferimento seguito della cessione della partecipazione, poiché si sostanzia in una legittima alternativa alla cessione diretta di azienda, posta su un piano di parità, non realizza alcun vantaggio indebito (Risposte Interpello n. 196 del 18 giugno 2019; n. 13 del 19 gennaio 2019; n. 138 del 13 maggio 2019).
A distanza di quasi un secolo dall’avvio delle “scaramucce”, e salvo l’ulteriore fastidio di respingere anche la velleitaria ordinanza di remissione bolognese, siamo finalmente giunti ai titoli di coda.
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