ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte Prima: inquadramento storico ed eurounitario.
La valutazione d’idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie.[1]
di Pasquale Serrao d’Aquino
“Les juges de la nation ne sont que… des êtres inanimés, qui n’en peuvent modérer ni la force ni la rigueur” Montesquieu
“Il giudice è il diritto fatto uomo; solo da questo uomo io posso attendermi nella vita pratica quella tutela che in astratto la legge mi promette: solo questo uomo saprà pronuciare a mio favore la parola della giustizia, potrò accorgermi che il diritto non è un'ombra vana.” P. Calamandrei
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il procedimento di valutazione secondo il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei - 3. Cenni storici - 4 La riforma del sistema delle valutazioni di professionalità - 5. L’idoneità alle funzioni giurisdizionali dei MOT - 5.1. L’esito della valutazione - 5.2. Un caso di proroga del tirocinio di MOT e successiva deliberazione di inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
1. Introduzione
Sono trascorsi tredici anni dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007 nel corso dei quali si sono costantemente analizzate le ricadute pratiche e i problemi sollevati dal nuovo sistema delle valutazioni di professionalità, lasciando in soffitta, però, lo stimolante dibattito che l’ha preceduta.
Nella quotidianità le valutazioni di professionali ordinariamente sono vissute dai molti dirigenti come un defatigante adempimento burocratico e dalla maggioranza dei magistrati come un inutile aggravio di adempimenti alla loro progressione in carriera ed economica, almeno da quelli che non sono incorsi in incidenti di carriera o che non sono concentrati sulle <
Non può negarsi, se si guardano le statistiche quasi bulgare di valutazioni positive (infra) che lo cose in buona parte stiano così, ma è altrettanto indiscutibile che il sistema di valutazione di professionalità occupi, invece, uno dei posti centrali nell’ordinamento giudiziario. Esso, infatti, dal punto di vista procedimentale investe l’intera articolazione dell’organizzazione giudiziaria: il presidente di sezione, il dirigente, il consiglio giudiziario, il CSM.
Inoltre, se si guarda all’oggetto del giudizio e alle sue interferenze con altri aspetti ordinamentali, risulta evidente come lo stesso investa tematiche sensibili quali il giudizio disciplinare, il trasferimento per incompatibilità ambientale, la sospensione dal servizio, il conferimento di incarichi direttivi, l’accesso alle funzioni di legittimità, ecc.
Ancora, se si considerano le fonti a cui attingere, l’iter procedimentale finisce con il coinvolgere potenzialmente, quanto al ruolo dei consigli giudiziari, il rapporto tra uffici giudiziari (si pensi alle proposte di acquisizione della valutazione espressa dagli uffici cd. “dirimpettai”, giudicante e requirente) e con l’Avvocatura (il ruolo dei Consigli dell’Ordine nelle valutazioni è respinto o auspicato, con dovizia di argomenti contrapposti, nonché proposto nella riforma della Commissione Vietti del 2016), oltre che, in parte, con l’intera collettività.
Soprattutto, l’estensione, la natura del giudizio, il tipo di garanzie, la centralità assegnata alla funzione giudiziaria, il peso specifico di alcuni indicatori (si pensi al rapporto tra qualità e quantità), la previsione dei cd. prerequisiti assumono un ruolo decisivo nel delineare il modello di magistratura voluto, finendo con l’interessare non solo l’ordine giudiziario, ma anche l’intera collettività.
Fissare il baricentro della valutazione del magistrato è una operazione che presuppone e che al tempo stesso definisce una idea ben precisa del ruolo della giurisdizione nella Comunità. Non è questione tecnica, ma valoriale attribuire o meno rilevanza alla sua attività complessiva oppure a singoli provvedimenti; scegliere se questi ultimi devono prodotti dall’interessato o, invece, estratti a campione; privilegiare l’originalità dell’elaborazione o la sua conformità agli orientamenti dominanti; imperniare tutto sul lavoro giudiziario oppure dare spazio ad attività “parallele” come le pubblicazioni scientifiche e le funzioni svolte fuori ruolo; dare la giusta rilevanza alla sua capacità di organizzazione del lavoro, alle sue capacità relazionali con altri magistrati, col personale amministrativo e con i colleghi; selezionare la tipologia di risultati conseguiti, qualitativi, quantitativi, individuali, globali dell’intero ufficio, etc..
Si tratta, pertanto, di un tema di natura politica, e appartenente alla sfera di indirizzo politico-costituzionale, perché presuppone cosa debba o non debba fare il Giudice, quale sia il modello di giurisdizione e di giudice delineato dalla Costituzione materiale e al quale contribuisce il CSM e, in parte, l’autogoverno locale[2].
Valutare la professionalità, inoltre, non è solo giudicare la capacità, laboriosità, impegno e diligenza nell’esercizio della funzione giudiziaria ma anche verificare il rispetto di regole deontologiche, dell’accertamento di indipendenza, imparzialità ed equilibrio; per tale motivo la sua disciplina incide sensibilmente sullo status costituzionale dei magistrati.
È questa la ragione per la quale “Spettano al C.S.M., secondo le norme di ordinamento giudiziario”, tra le altre materie, “le promozioni dei magistrati” (art. 105 Cost.). La legge 24.3.1958, n. 195 istitutiva del Consiglio Superiore, all’art. 10 ribadisce tale attribuzione: “Spetta al Consiglio Superiore deliberare: 1) sulle assunzioni in Magistratura, assegnazioni di sede e di funzioni, trasferimenti e promozioni e su ogni altro provvedimento sullo stato dei magistrati…”.
Del resto, il procedimento di verifica della professionalità non può non essere modellato tenendo conto delle irrinunciabili guarentigie di indipendenza della giurisdizione e non potrebbe, quindi, pretermettere il tema dei limiti da porre al suo ambito, al suo oggetto, alla procedura di verifica.[3]
La prima parte di questo studio sulle valutazioni di professionalità dei magistrati riporta gli orientamenti eurounitari circa la metodologie di valutazione e i rischi per l’indipendenza del giudice e opera, inoltre, un sintetico inquadramento storico; successivamente esso affronta specificamente il tema della valutazione di idoneità alle funzioni giudiziarie dei magistrati ordinari in tirocinio.
La seconda parte ricostruisce invece, il quadro generale delle valutazioni di professionalità previste dalla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006-2007 in base agli atti consiliari e alla giurisprudenza amministrativa e disciplinare, per poi esaminarne i nodi problematici.
2. Il procedimento di valutazione secondo il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei
Anche gli organi eurounitari sono pienamente consapevoli della rilevanza delle valutazioni per l’indipendenza della magistratura.
La Raccomandazione CM/Rec (2010) n. 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli stati membri sui giudici[4], premettendo che <
La Magna Carta dei giudici del 2010, approvata dal Consiglio consultivo dei giudici europei, al punto 5, sulle garanzie di indipendenza, prevede che «le decisioni sulla selezione, la nomina e la carriera debbono essere basate su criteri obiettivi determinati dall’organo di tutela dell’indipendenza».
Già nel 2006 la relazione generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati (UMI), basata su una complessa e articolata attività di studio e comparazione tra i diversi sistemi ordinamentali, indica che la procedura valutativa deve applicare criteri chiari e definiti in precedenza, la motivazione o la fondatezza del giudizio non possono far parte della valutazione del giudice, a meno che non risulti chiaramente che sia arrivato a conclusioni di diritto errate in casi così numerosi da rendere ciò inaccettabile. La riforma delle decisioni, di per sé, non indica che il giudice non sia competente.[5] La citata Raccomandazione 12/2020 (par. 70) indica sul punto, quanto alla responsabilità, anche disciplinare dei magistrati che<< I giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione.>>.
Il 24 ottobre 2014 il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei, organo consultivo del Consiglio d'Europa in materia di indipendenza, imparzialità e competenza dei giudici, ha adottato l'Opinione n. 17, sulla valutazione del lavoro dei giudici, la qualità della giustizia e il rispetto per l'indipendenza giudiziaria[6].
Con tale documento si rappresenta come la valutazione del lavoro individuale del giudice possa migliorare la qualità della giustizia senza incidere sull'indipendenza, per poi procedere all'analisi delle prassi in atto negli Stati membri nonché dei problemi e soluzioni emersi e adottati nei diversi Stati.
Nella Opinione si afferma che le valutazioni di professionalità devono avere per fondamento previsioni normative chiare e dettagliate, eventualmente integrate dalla normativa secondaria dei Consigli di Giustizia e devono basarsi, per evitare personalismi, favoritismi, raccomandazioni e influenze politiche, su criteri oggettivi di merito, che tengano conto della qualificazione, integrità, abilità, efficacia del singolo magistrato.
Inoltre, richiamando i principi elaborati in materia dalla Rete dei Consigli di Giustizia e le Raccomandazioni di Kiev del 2010, si afferma che le valutazioni devono essere condotte sulla base sia di criteri qualitativi che quantitativi.
Quanto al parametro qualitativo bisogna prendere in considerazione la competenza professionale (la conoscenza del diritto, la capacità di condurre procedimenti giudiziari, la capacità di scrivere decisioni motivate), le competenze personali (la capacità di far fronte al carico di lavoro, la capacità di decidere, l’apertura alle nuove tecnologie), le competenze sociali, vale a dire la capacità di mediare, il rispetto per le parti; inoltre, la capacità di dirigere per coloro le cui posizioni lo richiedono.
Quanto, invece, al parametro quantitativo, si afferma che una valutazione del magistrato non dovrebbe essere mai il risultato della considerazione di soli dati statistico-quantitativi né essere incentrata solo sulla produttività. Quest'ultima può essere infatti influenzata da più fattori, quali le risorse a disposizione del giudice, per la messa a disposizione delle quali in modo adeguato ed efficiente sussiste una precisa responsabilità dello Stato.
Già nell’Opinione n. 11 del 2008 il CCGE aveva considerato che “la qualità, e non solo la quantità, delle decisioni giudiziarie deve essere al cuore della valutazione”. A tal fine i valutatori devono concentrarsi sul metodo adottato dal giudice nel suo lavoro piuttosto che sul merito delle decisioni individuali, considerando tutti gli aspetti che costituiscono “una buona prestazione giudiziaria, in particolare le conoscenze giuridiche, la capacità di comunicazione, la diligenza, l’efficienza e l’integrità.” [7].
È opportuno anche ricordare che la citata Opinione del 2014 raccomanda che le fonti di informazione siano affidabili e messe a disposizione dell’interessato.
Inoltre, essa chiarisce che, benché valutazione e ispezione debbano rimanere distinte, i fatti scoperti nel corso di un’attività ispettiva possono essere utilizzati a fini valutativi.
Ancora, aggiunge che il giudice sotto valutazione ha il diritto di esprimere il suo punto di vista; può essere eventualmente sentito; ha diritto ad impugnare la valutazione davanti ad una autorità indipendente o ad una corte.
I risultati della valutazione, seppur non debbano portare ad una sorta di graduatoria tra i giudici, possono essere utilizzati a fini di promozione, individuazione di bisogni normativi o attribuzione di risorse aggiuntive.
Il CCGE è ben consapevole anche del rapporto tra valutazione della professionalità e indipendenza del giudice: “È di cruciale importanza trovare il corretto bilanciamento tra tutela dell’indipendenza e necessità di valutazione; trasparenza delle regole, criteri oggettivi, diritto al contraddittorio, valutazione qualitativa del lavoro giudiziale nel suo insieme, eccezionalità di soluzioni estreme quali la destituzione costituiscono garanzie di un buon bilanciamento”. I criteri devono essere pubblici, ma le singole valutazioni devono restare confidenziali, per evitare di rendere vulnerabile il giudice ed esporlo ad attacchi verbali o di altro tipo. Inoltre, non può essere tenuto in considerazione il giudizio della pubblica opinione su un giudice in quanto esso può basarsi su “informazioni incomplete o persino su un completo fraintendimento del lavoro del giudice”. I risultati della valutazione in principio devono rimanere confidenziali e non resi pubblici. Ciò potrebbe infatti mettere a rischio l’indipendenza per l’ovvia ragione che tale pubblicazione potrebbe screditare il giudice agli occhi della collettività.
3. Cenni storici
“La magistratura ha una costituzione rigorosamente gerarchica”, affermava nel 1909 il guardasigilli in carica Vittorio Emanuele Orlando, in una intervista al Corriere d’Italia. Era consolidata, inoltre, la distinzione tra “alta” magistratura, composta dai giudici della Cassazione e dai vertici degli uffici distrettuali (presidenti di Corte di appello, procuratori generali, procuratori del re), e “bassa” magistratura, della quale faceva parte un nutrito numero di pretori, giudici di tribunale e sostituti procuratori del re. A quella distinzione corrispondevano, oltre a differenze di trattamento economico e di censo, due statuti diversi per guarentigie e percorsi di carriera[8].
Su iniziativa dei “giudici di sott’ordine”, venne fondata nel 1909 l’Associazione generale dei magistrati italiani (Agmi). Costoro richiedevano non solo un più adeguato trattamento economico, ma anche semplificazione della carriera e ruoli aperti, eleggibilità del C.s.m. da parte di tutti i gradi della magistratura ed estensione delle guarentigie della magistratura giudicante anche al pubblico ministero. Nel 1921 fu ottenuta l’estensione della inamovibilità ai pretori e l’elettività del C.s.m. da parte di tutto il corpo giudiziario. Ma con il fascismo tutto cambiò e la gerarchizzazione e il controllo politico divennero molto più intensi.
Il disegno di una magistratura fortemente gerarchizzata trovò il suo coronamento con l’ordinamento giudiziario del 1941, cd. ordinamento Grandi dal nome del Ministro Guardasigilli all’epoca dell’emanazione del R.D. 30.1.1941, n. 12.
Caduto il Regime, nonostante la Costituzione repubblicana distingua i magistrati solo per le funzioni, organizzazione piramidale e differenziazione di livelli retributivi rimasero, perpetuandosi un corpo della magistratura con dinamiche interne, aspettative personali e orizzonti culturali profondamente diversi. Spesso, del resto, furono le stesse persone, parte di una elite culturale e politica, a conservare le loro posizioni al vertice della magistratura e del Ministero durante queste fasi storiche ed i regimi politici profondamente diversi.
La magistratura italiana fino agli anni ‘60 era connotata da un sistema cd. “a ruolo chiuso”, in quanto il grado di appello o di consigliere della corte di cassazione veniva raggiunto mediante concorso e non per il maturare dell’anzianità.
L’asse dell’organizzazione, quindi, era costituito dalla progressione in carriera necessariamente fondata sulla coincidenza tra qualifiche e funzioni svolte, tra qualifiche e posti messi a concorso per “promozioni” e relativi trasferimenti. Carriera e avanzamento stipendiale erano, in altri termini, possibili solo all’interno di un sistema di concorsi per soli titoli a determinati e specifici uffici di magistrato di tribunale, di consigliere di Corte di Appello e di consigliere di Corte di Cassazione resisi in concreto vacanti, concorsi solo vinti i quali si raggiungeva, con il posto, la qualifica e la relativa progressione economica.
Le nomine, come del resto testualmente indicato dall’art. 105 Cost. erano definite come “promozioni” ed erano decise da Commissioni di concorso composte esclusivamente da magistrati della Corte di Cassazione, sulla base dell’esame dei provvedimenti giudiziari dei concorrenti. Superato il concorso, allora come ora improntato alla teoria e al nozionismo, si svolgeva un tirocinio di pochi mesi, al quale faceva seguito un periodo di prova di due anni, con assegnazione sostanzialmente discrezionale (e, quindi, spesso clientelare), al termine del quale si doveva sostenere l’esame ad aggiunto giudiziario, ostacolo che suggeriva di farsi destinare ad una grande sede dove poter continuare a studiare, rispetto ad uffici più problematici e impegnativi[9].
Le nomine-promozioni a magistrato di tribunale e a consigliere di corte d’appello venivano conferite a seguito di concorso per titoli, valutati da una commissione giudicatrice composta da alti magistrati.
La necessità di poter studiare, il timore di non essere invisi alle alte sfere, dalle quali dipendeva il superamento del concorso e, quindi, il trattamento economico, inducevano al conformismo e consolidavano il sistema della gerarchia interna[10].
La disciplina contenuta nell’ordinamento giudiziario del 1941, attraverso l’inquadramento dei magistrati in due ruoli (pretore e giudice di tribunale) ed in otto gradi (dall’uditore giudiziario al primo presidente della Corte di Cassazione) e la progressione in carriera incentrata, com’e` noto, essenzialmente sul sistema dei concorsi interni, <
Ha scritto Franco Cordero[12]:“…influiva sulla sintonia con il potere il fatto che ogni magistrato in qualche nodo dipendesse dal potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice genetico; l’“imprinting” escludeva scelte, gesti, gusti ripugnanti alla bienseance filogovernativa; ed essendo una sciagura essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico …”.
Era un sistema piramidale, che induceva a lavorare in un certo modo, e con un certo stile che potesse essere approvato dalle gerarchie e dalla Cassazione, con un effetto gravemente discorsivo di u dilagante conformismo delle decisioni.[13] Un sistema di carriera di fatto fondato sulla cooptazione, culturalmente asfittico, idoneo ad ingenerare, con le oscillazioni del potere politico e con il recepimento di tali oscillazioni dalla cinghia di trasmissione della gerarchia, incertezza del diritto, ed un sistema gravemente lesivo dell’indipendenza “interna” del singolo magistrato.[14]
Si trattava di un sistema non in linea con il modello di magistratura tratteggiato dalla Costituzione. Si è affermato con nettezza che <<il modello gerarchico non e` compatibile con i fini fondamentali della giurisdizione negli ordinamenti contemporanei: l’applicazione imparziale della legge nelle situazioni controverse e la tutela dei diritti dei cittadini.>>[15].
In quel periodo, tuttavia, inizia una battaglia culturale contro la gerarchia nell’ordine giudiziario.
La legge Piccioni (24 maggio 1951, n. 392) unificò il ruolo dei pretori con quello dei magistrati di tribunale ed eliminò i “gradi”, sostituendoli con le qualifiche di magistrato di tribunale (con le sottocategorie di uditore e aggiunto giudiziario), appello e cassazione.
L’accesso alle categorie di appello e di cassazione, con il relativo trattamento economico, restava collegato al conferimento delle funzioni corrispondenti ai posti disponibili; restava intatto, peraltro, il sistema del concorso-cooptazione, tanto da giudicarsi tali innovazioni come esclusivamente nominalistiche[16].
I criteri erano molto selettivi. Nel periodo 1952-1962 il 52% dei magistrati era giunto alla pensione ancora con il primo livello retributivo della selezione “competitiva”, ovvero il grado di appello[17].
Con la legge n. 1 del 1963 venne abolito il concorso per titoli per l’appello e la cassazione; il concorso per esami venne ripristinato per un numero limitato di posti e venne ampliato il numero delle promozioni per scrutinio.
L’introduzione dei ruoli aperti avvenne con la legge 25 luglio 1966, n. 570 (cd. legge Breganze) sulle nomine a magistrato di Corte di appello, che introduceva una valutazione del Consiglio giudiziario e del CSM dopo undici anni di anzianità nelle funzioni di magistrato di tribunale; sistema esteso dalla legge 20 dicembre 1973, n. 831 (cd. “Breganzone”) anche alle promozioni in Cassazione.
La legge 25 maggio 1970, n. 357 abolì l’esame pratico per divenire aggiunto giudiziario, livello intermedio tra uditore giudiziario e magistrato di tribunale scomparso soltanto nel 1979 (L. 97/79).
Nel frattempo, il primo CSM di nomina elettiva indicò espressamente come la selezione in base ai titoli giudiziari, non solo fosse lesiva dell’indipendenza dei magistrati, ma costituisse anche un causa di inefficienza della giustizia[18], in quanto, ovviamente, focalizzava l’attenzione dei magistrati alla redazione di alcuni provvedimenti utili alla carriera.
In seguito a tali riforme furono eliminati i concorsi ed esami di merito interni, e si introdusse l’automatismo nel passaggio da una qualifica all’altra (con i conseguenti effetti giuridici ed economici) a seguito del raggiungimento di un certo livello di anzianità e di una apposita valutazione di professionalità, scollegandolo completamente dall’effettivo conferimento delle funzioni.
È in questo periodo e anche, per effetto di queste riforme, che si incomincia a concepire il lavoro giurisdizionale quale “potere diffuso” e a maturarsi una visione della Magistratura quale corpo professionale nel quale le funzioni di primo grado (requirenti e giudicanti) necessitino di un grado di professionalità non inferiore – e molto spesso certamente superore - a quello richiesto da quelle di secondo grado e di legittimità. Viene ad essere considerato del tutto anacronistico un sistema concorsuale fondato sull’idea che i magistrati più professionali (“più bravi”, “vincitori di concorso”) debbano necessariamente migrare verso le “superiori” funzioni di secondo grado e di legittimità.
Il sistema a ‘‘ruolo aperto’’, consentendo a ciascun magistrato idoneo di conseguire la qualifica superiore ed il corrispondente trattamento economico, pur continuando a svolgere le funzioni alle quali era in precedenza destinato, rappresenta il risultato finale del percorso legislativo rivolto all’attuazione del precetto costituzionale (art. 107 Cost.), secondo cui i magistrati si distinguono fra di loro soltanto per la diversità delle funzioni esercitate. Questo sistema ha consentito di assicurare l’indipendenza interna ed esterna dei magistrati, che rappresenta non un privilegio corporativo, ma una garanzia per l’intera collettività.[19]
Si assiste progressivamente ad un mutamento culturale del magistrato, favorito anche dall’introduzione di forze nuove, con ricadute enormi sul modo di svolgimento delle funzioni giudiziarie e, con un rapporto di reciproca causa-effetto su tutto il contesto socio-economico. Si pensi alle stagioni del terrorismo, delle riforme sociali, nel diritto del lavoro, alla stagione di Tangentopoli, possibili grazie alla a seguito della potente liberazione di energie intellettuali dovuta alla sottrazione del magistrato alle ansie del giudizio professionale e alle aspettative di carriera[20].
Non vi è dubbio che in questo modo, la sostanziale irrilevanza delle valutazioni dei dirigenti e dello stesso autogoverno e l’assenza di una meritocrazia che in passato era, come si è visto, una forma di controllo indiretto sul loro operato, mettesse al riparo i magistrati da qualsiasi forma di pressione interna rispetto all’ordine giudiziario. Una ricerca empirica ha dimostrato che i casi di valutazioni negative si contavano sulla punta delle dita e, comunque, avevano determinato solo un ritardo nel conseguimento dell’anzianità massima.[21]
Non si può nascondere, però, che gli automatismi di carriera, accanto a queste ricadute virtuose, determinarono anche un non isolato “lassismo”, dovuto alla scarsa rilevanza del merito per la carriera, nonché alla difficoltà di controlli incisivi sulla laboriosità e diligenza nello svolgimento del lavoro giudiziario.
All’avanzamento a ruoli aperti, infatti, si accompagnava anche il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi con il criterio prevalente della anzianità senza demerito, peraltro, ancora in uso presso altre magistrature, come quella amministrativa.
Non fu, quindi, solo una indubbia ostilità politica alla Magistratura a condurre alla riforma dell’ordinamento giudiziario, ma anche l’intenzione, comune alle diverse forze politiche, di introdurre una meritocrazia in magistratura che costituisse uno stimolo per migliorare quantità e qualità del lavoro giudiziario.
I tentativi di riforma iniziarono con il Ministero Castelli già nel 2002, per poi attraversare la famosa vicenda della Commissione Bicamerale sulla Giustizia presieduta da D’Alema, fasi politiche caratterizzatesi anche per il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi con un messaggio a tutela dell’indipendenza della magistratura, del disegno di legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario definitivamente approvato alla Camera il 1° dicembre 2004.
Senza dubbio, dal punto di vista delle “priorità costituzionali”, il quadro di riferimento politico e costituzionale della riforma del 2006-2007, originata dall’approvazione definitiva della legge delega n. 150 del 2005, è senza dubbio è quello degli artt. 107, comma 3 e 97, comma 1 Cost. L’idea di fondo «è quella secondo cui l’esistenza di magistrati neghittosi, impreparati, privi del necessario equilibrio – pochi o molti che siano – mina gravemente l’efficienza del servizio e richiede, conseguentemente, interventi puntuali e drastici»[22].
La stessa Associazione Nazionale Magistrati, nel dibattito sulle riforme affermò che <<si deve riconoscere la necessità di adeguare il sistema c.d. a ruolo aperto alle esigenze di un vaglio più profondo delle attitudini del singolo magistrato, in considerazione anche del fatto che il sostanziale automatismo della progressione nella carriera può aver favorito situazioni di negligenza. (…) In particolare, l’Associazione nazionale magistrati sostiene che: 1) siano necessarie più valutazioni, più ravvicinate nel tempo e durante tutto l’arco della carriera; 2) la valutazione sia collegata principalmente al lavoro che svolgiamo quotidianamente. (…) Una nuova carriera, con un sistema valutativo più articolato dell’attuale, dovrebbe essere caratterizzata dalla scomparsa delle attuali qualifiche e dal permanere della crescita automatica dello stipendio, che costituisce una delle garanzie dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati; tuttavia siamo noi magistrati a riconoscere l’opportunità della sospensione di detta crescita automatica nel caso di negative valutazioni della professionalità.>>[23]
4. La riforma del sistema delle valutazioni di professionalità
Dopo la legge delega n. 150 del 2005, con il d.lgs. 160 del 2006 (Decreto Castelli), fu reintrodotto un sistema di concorsi, alcuni per esame e titoli (art. 21 e 23) ed altri solo per titoli, mentre la legge n. 111 del 2007 (la cd. controriforma Mastella) , modificando il d.lgs. 160 del 2006, abrogò, prima che divenissero operativi i concorsi per esame, nonché il sistema di valutazione che, anche per i magistrati ai quali erano state già conferite le funzioni, vedeva coinvolta la Scuola Superiore della Magistratura.
Nel decreto legislativo Castelli era anche previsto che i magistrati che superavano il concorso di secondo grado maturassero la quinta classe di anzianità (da 13 a 20 anni) e quelli che superavano, invece, il concorso per le funzioni di legittimità, acquisissero la sesta classe, da 20 a 28 anni di anzianità (art. 51 d.lgs. 160/2006).
Questo collegamento tra funzioni e classi stipendiali venne meno, invece, con la legge n. 111 del 2007. Tale svincolo costituisce il pilastro di un sistema di progressione in carriera che non alteri il principio costituzionale della distinzione dei magistrati solo per le funzioni. Si consideri, ad esempio che anche coloro che superano il concorso juniores per le funzioni di legittimità, riservato nella misura del 10% a coloro che non hanno ancora acquisito la quarta valutazione, conservano il medesimo livello stipendiale dei loro colleghi di concorso (art. 12, comma 14 d.lgs. n. 160 del 2006, come riformato dalla legge n. 111/2007), senza acquisire quello dei loro colleghi che abbiano maturato la quinta valutazione.
Il sistema che deriva dalla riforma prevede, come noto, dopo la verifica della idoneità dei magistrati in tirocinio alle funzioni giurisdizionali, sette valutazioni quadriennali di professionalità fino al 28° anno, coincidente con l’idoneità alle funzioni direttive superiori e a partire dal quale il magistrato acquisisce il massimo livello stipendiale.
Al conseguimento delle positive valutazioni di professionalità sono state poi collegate la progressione retributiva del magistrato (a sua volta organizzata per classi stipendiali) e l’astratta idoneità del predetto ad accedere a funzioni di grado superiore.
Con riguardo al primo profilo, è a dirsi che l’art. 2, 11° comma, L. n. 111/2007 ha sostituito la tabella relativa alla magistratura ordinaria, allegata alla L. n. 27/81.
Nella nuova tabella la progressione stipendiale dei magistrati è collegata direttamente al conseguimento di positive valutazioni di professionalità.
Con riguardo al secondo, va evidenziato che il D.L.vo n. 160/2006, dopo avere enumerato, all’art. 10, le funzioni esercitabili dal magistrato e aver disciplinato, all’art. 11, il sistema periodico di valutazione della professionalità, ha posto, all’art. 12 la regola secondo cui il conferimento delle funzioni di cui all’articolo 10 avviene “a domanda degli interessati, mediante una procedura concorsuale per soli titoli” alla quale possono partecipare coloro che abbiano conseguito almeno la valutazione di professionalità richiesta.
La regola, nei successivi commi della norma, è declinata attraverso l’analitica indicazione dei livelli di anzianità – conseguiti mediante le valutazioni di professionalità di cui s’è detto – necessari per l’accesso alle funzioni di merito di primo grado e di secondo grado, alle funzioni di legittimità, nonché alle funzioni direttive e semidirettive di merito e di legittimità (anche direttive superiori e apicali), giudicanti e requirenti.
Il superamento della valutazione di professionalità, pertanto costituisce, dal punto di vista procedimentale, solo una condizione di legittimazione del singolo partecipante ai concorsi banditi dal Consiglio Superiore della Magistratura per il tramutamento a funzioni diverse, per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi di ogni ordine e grado, di legittimità, per il collocamento fuori ruolo, etc.
Coniugandosi il sistema dei ruoli aperti con quello dei concorsi per titoli, si è creato, pertanto, un percorso professionale unitario e omogeneo, scandito da periodiche valutazioni. In tal modo si è realizzato un sistema più stringente di verifica dell’adeguatezza professionale dei magistrati. Al tempo stesso si è riservata l’assegnazione di determinate funzioni alla formula concorsuale, in alcuni casi con prevalenza degli aspetti di anzianità (tramutamenti orizzontali e di secondo grado) e per altri (funzioni semidirettive e direttive, funzioni di legittimità e DNAA), invece, ferma restando la necessità di maturare una determinata anzianità, con prevalenza di requisiti attitudinali specifici.
In ogni caso le disposizioni contenute nell’art 11 non hanno contenuto particolarmente analitico. Si tratta di normativa appunto “quadro” che presuppone l’esercizio del potere paranormativo del Consiglio , al quale il comma 3 espressamente demanda il compito elaborare la normativa di dettaglio.
5. L’idoneità alle funzioni giurisdizionali dei MOT
Partendo da quella che, in sostanza, è la prima verifica sul lavoro del magistrati, deve ricordarsi che i magistrati ordinari in tirocinio, a distanza di 18 mesi dal suo inizio, sono valutati nella loro idoneità a svolgere le funzioni giurisdizionali, secondo un procedimento che nei contenuti e nel tipo di giudizio è modellato secondo le valutazioni di professionalità dei magistrati, adattato alle peculiarità e alle finalità del tirocinio e al ruolo rilevante svolto durante lo stesso dalla Scuola della Magistratura.
Il Regolamento per la formazione iniziale dei magistrati ordinari (delibera 13 giugno 2012, modificato nel marzo 2019), approvato con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, individua le finalità del tirocinio e ne regola lo svolgimento.
Le finalità del tirocinio, della durata di 18 mesi[24] sono volte a consentire la maturazione e la verifica di quei parametri sui quali varrà basato sia il giudizio di idoneità alle funzioni giurisdizionali sia le successive valutazioni di professionalità. Come indica il regolamento, le funzioni del tirocinio sono “la formazione professionale teorica, pratica e deontologica dei magistrati ordinari entrati in servizio e la verifica della loro idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Il processo di formazione iniziale dei magistrati è altresì orientato all’affinamento delle necessarie doti di impegno, correttezza, equilibrio, indipendenza e imparzialità, nonché dell’attitudine all’aggiornamento permanente della propria preparazione professionale e alla maturazione di un atteggiamento corretto e proficuo nei rapporti con i colleghi, gli avvocati, il personale amministrativo, la polizia giudiziaria, i cittadini ed i mezzi di comunicazione” .
La sessione presso la Scuola è finalizzata al perfezionamento della cultura, delle capacità operative e professionali, delle doti di equilibrio, nonché alla formazione deontologica del magistrato ordinario in tirocinio. Essa dura sei mesi e si articola in un periodo non inferiore a quattro mesi, anche non consecutivi, da svolgersi prima della scelta della sede di prima destinazione, ed in un periodo di almeno due mesi, anche non consecutivi, da svolgersi successivamente (nel corso del c.d. tirocinio mirato) nel corso dei quali i magistrati in tirocinio sono affiancati, per tutta la durata della sessione, dai tutori.
Quanto alle fonti di tale valutazione, il Consiglio Giudiziario forma per ciascun magistrato in tirocinio un fascicolo nel quale sono inclusi il piano di tirocinio, le schede valutative dei magistrati affidatari, le autorelazioni e la copia dei provvedimenti redatti dal magistrato (art. 9).[25]
Allo stesso modo, il Comitato Direttivo della Scuola forma per ciascun magistrato in tirocinio un fascicolo, nel quale sono inclusi i documenti relativi al tirocinio e in ogni caso la relazione del Comitato Direttivo, le eventuali osservazioni del magistrato in tirocinio e gli elaborati scritti redatti nel corso della sessione presso la Scuola. Al termine delle sessioni presso la Scuola, il Comitato direttivo trasmette al CSM una relazione di sintesi concernente ciascun magistrato (art. 8).
La relazione viene comunicata al magistrato in tirocinio interessato, che ha la facoltà di far pervenire alla Scuola, entro dieci giorni, osservazioni scritte, che la Scuola trasmette, con i propri rilievi al CSM.
L’Assemblea Plenaria, su proposta della quarta commissione, formula il giudizio di idoneità al conferimento delle funzioni giudiziarie, tenendo conto delle relazioni redatte all’esito delle sessioni, trasmesse dal Comitato direttivo, della relazione di sintesi dal medesimo predisposta, del parere del Consiglio giudiziario, delle eventuali osservazioni dell’interessato e di ogni altro elemento rilevante ed oggettivamente verificabile.
La valutazione di idoneità ha riguardo alla preparazione giuridica e culturale, alla capacità professionale, alla laboriosità, all’impegno, alle doti di equilibrio e correttezza. Il giudizio di idoneità, se positivo, contiene uno specifico riferimento all’attitudine del magistrato allo svolgimento delle funzioni giudicanti e requirenti (art. 13 Reg. tirocinio).
La loro declinazione analitica, per l’assenza di funzioni giurisdizionali e per le caratteristiche intrinseche dell’attività lavorativa espletata durante tale periodo, è in parte diversa da quella delle valutazioni di professionalità ed è contenuta nel modello della scheda valutativa per i magistrati in tirocinio allegata al Regolamento.
I cd. prerequisiti della indipendenza, imparzialità ed equilibrio (v. infra), consistono per i MOT nel “formarsi un autonomo giudizio sulle fattispecie sottopostegli, dopo l’ascolto delle opposte ragioni delle parti e l’esame delle diverse argomentazioni; nel sostenere le proprie conclusioni con efficacia argomentativa, pur dimostrando disponibilità a mutare il proprio convincimento a seguito della discussione; nel rapportarsi con maturità e serenità personali nella collaborazione con i colleghi, il personale amministrativo, gli avvocati.”
Il parametro della capacità è prevalentemente orientato – e non potrebbe essere altrimenti - sulla redazione dei provvedimenti: si tratta infatti di apprezzare “a) la preparazione giuridica e la padronanza degli strumenti anche informatici di ricerca giurisprudenziale e normativa; b) la capacità di individuare i punti essenziali delle questioni e di risolverne gli eventuali aspetti critici; c) la tecnica di redazione dei provvedimenti, con particolare riferimento alla padronanza della terminologia giuridica e alla capacità di esposizione delle motivazioni; d) l’efficienza nell’organizzare il proprio lavoro.”
Nella valutazione della “laboriosità”, non si prendono in esame dati statistici, ma (a) l’entità della collaborazione prestata per il buon andamento del tirocinio e la disponibilità ad assumerne gli oneri; (b) l’intensità della partecipazione alle attività giudiziarie e di approfondimento proposte.
5.1. L’esito della valutazione.
Il giudizio di idoneità alle funzioni giurisdizionali dei MOT può avere esito positivo o negativo.
Nel primo caso, contiene uno specifico riferimento all’attitudine del magistrato allo svolgimento delle funzioni giudicanti e requirenti.
Nel caso sia di carattere negativo, il CSM comunica la propria decisione al Comitato direttivo.
Il magistrato in tirocinio negativamente valutato viene ammesso a un nuovo periodo di tirocinio della durata di un anno, secondo le scansioni temporali indicate dall’art. 22, comma 4, del decreto istitutivo della Scuola.
Il Comitato direttivo approva il nuovo programma del tirocinio da svolgersi presso gli uffici giudiziari e presso la Scuola, curando un approfondimento della formazione nei settori specifici in cui si è evidenziata la carenza.
Al termine dei periodi di nuovo tirocinio ordinario e mirato e della sessione presso la Scuola, il Consiglio giudiziario e il Comitato direttivo predispongono rispettivamente i pareri e le relazioni di cui al comma 2 dell’art. 22, e li trasmettono al Consiglio Superiore della Magistratura, che delibera nuovamente sull’idoneità del magistrato in tirocinio all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Nel caso in cui la valutazione della Commissione sia prognosticamente negativa, la procedura assume, a garanzia del magistrato in tirocinio, carattere partecipato.
Se, infatti, essa ritiene che ricorrano le condizioni per un giudizio definitivo di inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ne dà comunicazione all’interessato, invitandolo a comparire personalmente. Sentito il magistrato in tirocinio, con l’eventuale assistenza di un altro magistrato, la Commissione può svolgere ogni attività che ritenga utile per verificare la validità delle valutazioni espresse e per accertare l’idoneità professionale del magistrato. Completata l’istruttoria, la Commissione comunica al magistrato in tirocinio il deposito degli atti e assegna allo stesso un termine per esporre per iscritto le proprie ragioni.
Nel caso ritenga di proporre al Consiglio di dichiarare in via definitiva la cessazione dal servizio, comunica all’interessato la data della seduta plenaria con un anticipo di almeno 15 giorni liberi.
La seconda deliberazione negativa determina la cessazione del rapporto di impiego del magistrato in tirocinio.
Se per qualsiasi motivo il magistrato ordinario non completa il tirocinio nella durata indicata dalle precedenti disposizioni, il Comitato Direttivo, su proposta del responsabile di settore, ovvero il Consiglio Giudiziario, su proposta del magistrato collaboratore, individuano le modalità di recupero mediante partecipazione a successive attività formative, rispettivamente, presso la Scuola o le strutture della formazione decentrata ovvero presso gli uffici giudiziari per quanto di rispettiva competenza (art. 13, comma 9 Reg. tirocinio).
5.2. Un caso di proroga del tirocinio di MOT e successiva deliberazione di inidoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie
Quale ipotesi di giudizio negativo può citarsi il caso di un magistrato ordinario in tirocinio. Terminato il periodo prescritto di tirocinio, svolto nel settore civile, penale requirente e nel penale giudicante, il C.S.M., su conforme parere espresso dal Consiglio giudiziario presso una determinata corte d’appello, dispose la proroga di sei mesi di tirocinio del MOT, da svolgersi sempre presso il Tribunale. All'esito, il Consiglio giudiziario, in ragione del permanere di alcune criticità, propose al C.S.M. l'adozione di un'ulteriore proroga di sei mesi del tirocinio, da quest'ultimo deliberata. Concluso tale periodo, il magistrato collaboratore, sulla base delle relazioni dei magistrati affidatari, espresse il giudizio che il MOT fosse "idoneo allo svolgimento di funzioni penali requirenti", mentre "per il settore penale giudicante e per quello civile, malgrado l'impegno profuso, permangono lacune nella ricostruzione del fatto nonché nel collegamento tra il fatto e la relativa disciplina". Il Consiglio giudiziario dunque espresse il parere di "inidoneità al conferimento delle funzioni giudiziarie"; la Quarta Commissione del C.S.M. formulò la conseguente proposta di inidoneità, accolta dal Plenum.
Impugnata davanti al giudice amministrativo la delibera, il T.A.R. respinse il ricorso nell'assunto che da una valutazione globale dell'attività svolta dall'appellante trovassero riscontro le conclusioni del C.S.M., fondate sulle relazioni dei magistrati affidatari e collaboratori, circa le persistenti criticità in relazione ai parametri della "capacità professionale", della "laboriosità ed impegno", ed anche dell'"equilibrio", nonostante le ripetute proroghe del tirocinio riconosciutegli.
Il Consiglio di Stato, respingendo l’appello ha affermato una serie di principi importanti.
I. Ha confermato la tesi consiliare per la quale secondo il sistema disegnato dai commi 5-10 dell'art. 14 del Regolamento sul tirocinio e, soprattutto in base all'art. 4, che indica le finalità del tirocinio ordinario, la sola valutazione positiva della capacità professionale nel settore requirente penale non è sufficiente a sorreggere un giudizio di idoneità all'esercizio delle funzioni giudiziarie in quanto la stessa deve essere complessivamente intesa.
II. Ha valorizzato la legittimità del provvedimento consiliare nel quale, richiamando il verbale del CG si indica che il magistrato è “stato puntuale e rispettoso degli orari, ma scarsamente disponibile alle esigenze dell'ufficio, con la sottolineatura aggiuntiva che non ha provveduto alla redazione della motivazione di una sentenza penale ed è incorso in inadempienze nel settore civile, in particolare nella correzione dei provvedimenti o nella lettura dei verbali di udienza”.
III. Ha ritenuto legittimo anche il riferimento ad alcune note caratteriali ed atteggiamenti del MOT. Ritenendo che correttamente la sentenza impugnata ha confermato la valutazione negativa del parametro dell'equilibrio discendente “da una pluralità di elementi concreti, obiettivi e verificabili, posti in evidenza dai magistrati affidatari e collaboratori (quali l'esternazione di giudizi al di fuori delle sedi consone, le manifestazioni gestuali o verbali di impazienza ed insofferenza durante le udienze), e che hanno trovato conferma anche nell'atteggiamento tenuto dall'appellante nel corso delle audizioni, dinanzi alla Commissione ed al Plenum con affermazioni inappropriate, espressioni irriguardose, rigidità del pensiero. Elementi, questi, incompatibili con l'equidistanza, l'autorevolezza e la sobrietà che devono ispirare ed improntare la condotta di ogni magistrato.”.
[1] Prima parte della Relazione tenuta all’incontro del 21-24 aprile organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 18.7.2019 (Bolzano) e 3.1.2020; già pubblicata su Diritto Pubblico Europeo - Rassegna Online,. https://doi.org/10.6092/2421-0528/6865, 2020, Serrao d’Aquino, P., Le valutazioni di idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni di professionalità.
[2] In questi termini C. Galoppi, Il sistema attuale delle valutazioni di professionalità, Relazione all’incontro di studi del CSM, Roma 6-8 giugno 2011.
[3] Su tale tematica vedano, tra gli altri: D. Cavallini, Le valutazioni di professionalità dei magistrati: prime riflessioni tratte da una ricerca empirica sui verbali del Csm, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1226; P. Filippi, La valutazione di professionalità, in AA.VV. a cura di E. Albamonte, P. Filippi, Ordinamento giudiziario. Leggi, regolamenti e procedimenti, Torino, 2009, 351 ss.; M. Frasca, La valutazione della professionalità: l’art. 11 del d.lgs. 160/2006 e le circolari del Consiglio Superiore; l’autorelazione; la funzione dei capi degli uffici, dei Consigli Giudiziari; il Giudizio del CSM, in
[4] Raccomandazione CM/Rec (2010) n. 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli stati membri sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, adottata dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010, (par. 42) 4.
[5] G. Grasso, Relazione cit.
[6] Su tale opinione si veda G. Civinini, Valutazioni di professionalità e qualità della giustizia. Il Consiglio Consultivo dei Giudici Europei adotta la sua 17° Opinione, in www.questionegiustizia.it, 2015.
[7] A tal fine, l’Opinione n. 17 prevede che i valutatori devono considerare il lavoro del giudice in tutta la sua ampiezza e nel contesto in cui quel lavoro è realizzato. Pertanto il CCGE continua a ritenere problematico basare la valutazione dei risultati sul numero o la percentuale di casi riformati in appello, a meno che il numero e il modo delle riforme dimostri chiaramente che il giudice difetta della necessaria conoscenza della legge e della procedura. Da notarsi che le Raccomandazioni di Kiev e il Rapporto della RECG pervengono al medesimo risultato.
[8] P. Morosini, O. Monaco e P. Serrao d’Aquino, “La Magistratura nel Ventennio: l’involuzione ordinamentale e i suoi protagonisti”, unitamente, in “RazzaeIngiustizia”, a cura di A. Meniconi e M. Pezzetti, Senato della Repubblica, Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio Nazionale Forense e UCEI, IPZS, 2018, p. 54.
[9] Si veda per una storia di questo periodo E. Bruti Liberati, Magistrati e società nell’Italia repubblicana, Laterza, 2018; A. Meniconi, Storia della magistratura, il Mulino, 2013.
[10] E. Bruti Liberati, G. Pera, Magistrati o funzionari?, a cura di G. Maranini, Milano, Ed. Comunità, 1962, p.p. 59-60.
[11] R. Romboli, La professione del magistrato tra legislazione attuale e le possibili riforme, in AAVV., a cura di E. Bruti Liberati, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, 2003, pp. 9 e 10, il quale continua: << Lo specchio di quella legislazione e delle scelte operate in merito dal legislatore del 1941 riflettevano l’immagine di un giudice meccanico applicatore della legge e quindi sostanzialmente fungibile (…). Per questo, semplificando, i giudici ‘‘superiori’’, cui e` assegnato il compito di controllare se quella soluzione sia stata o meno raggiunta, debbono essere i piu` ‘‘bravi’’, selezionati attraverso concorsi per titoli o esami che assicurino circa la loro ‘‘professionalita”.>>
[12] F. Cordero, I poteri del magistrato, in L’indice penale n. 1, 1986 , p. 31.
[13] G. Silvestri, Verifica di professionalità versus indipendenza dei magistrati: una falsa contrapposizione, in AAVV., a cura di E. Bruti Liberati, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, p. 88.
[14] In tal senso C. Galoppi, op. cit.
[15] G. Silvestri, op. cit.,, p. 87 s.
[16] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, Einaudi, 1982, p. 46.
[17] D. Cavallini, op. cit, in Riv. Trim. dir. proc. civile, 2012, p. 1223.
[18] D. Cavallini, op. cit., p. 1223.
[19] E. Bruti Liberati, Introduzione a AAVV., a cura del medesimo autore, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, p. 10
[20] E. Bruti Liberati, Magistratura e società repubblicana, cit.
[21] D. Cavallini, op.cit., p. 1223.
[22] L. Pepino, Quale giudice dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario?, in Questione Giustizia, n. 4, 2007, p. 13.
[23] C. Fucci, Presentazione in AAVV., a di E. Bruti Liberati, I magistrati e la sfida della professionalità, Ipsoa, p. 1.
[24] Dalla durata di diciotto mesi del tirocinio, stabilita dall’art. 18 del decreto istitutivo della Scuola, sono esclusi i periodi di congedo straordinario o aspettativa superiori ai trenta giorni, nonché i periodi feriali di cui all’art. 90 dell’ordinamento giudiziario (art. 4.3)
[25] I documenti sopra indicati possono essere prodotti in formato elettronico, su supporto analogico, anche solo come minuta con riferimento ai provvedimenti giudiziari.
Interdittive antimafia e «valori fondanti della democrazia»: il pericoloso equivoco da evitare
di Giuseppe Amarelli
Nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato le censure rivolte nei confronti delle informative antimafia sono fermamente respinte invocando il superiore interesse della «difesa dei valori fondanti della democrazia». Ma davvero un ordinamento giuridico di un sistema democratico può arrivare a legittimare anche le c.d. interdittive generiche? Davvero in uno Stato costituzionale di diritto che appartiene all’Europa dei diritti si può ammettere che il potere statale comprima dei diritti fondamentali come quelli di proprietà e di iniziativa economica in assenza di una previa determinazione dei presupposti e sulla base di una mera valutazione prognostico-possibilista? Una pluralità di argomenti sembra provare il contrario e far propendere per una opportuna rivalutazione della questione tramite un intervento del legislatore o una declaratoria di illegittimità della Corte costituzionale. Diversamente, si corre il rischio di subire un’ennesima “lezione” da parte della Corte EDU, sulla scia della recente sentenza De Tommaso del 2017.
Sommario: 1. La strenua difesa delle informative antimafia nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato. – 1.1. (Segue…) e della Corte costituzionale? – 2. Prima critica: un ordinamento democratico non legittima incondizionatamente le interdittive. – 3. Seconda critica: l’indeterminatezza della disciplina delle interdittive generiche non è sanata dalla interpretazione tassativizzante del C.d.S. – 3.1. L’improprio utilizzo come argomento contrario di C. cost. n. 24/2019. – 3.2. (Segue…) di C. cost. n. 195/2019. – 3.3. (Segue…) e di C. cost. n. 57/2020. – 4. Terza critica: la sentenza Corte EDU 2017 De Tommaso c. Italia non giustifica l’assoluta imprecisione dell’art. 84, co. 4, lett. d, ed e, d.lgs. n. 159/2011. – 5. Sintesi degli scenari possibili: declaratoria di illegittimità costituzionale, condanna Corte EDU, riforma legislativa.
1. La strenua difesa delle informative antimafia nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Come attentamente segnalato sulle colonne di questa rivista[1], nell’ultima, recentissima, decisione del Consiglio di Stato n. 3641 dell’8 giugno 2020 si trova un’ennesima, incondizionata, presa di posizione a favore delle misure interdittive antimafia che si va ad affiancare alle precedenti del medesimo tenore[2].
Nella parte motiva della sentenza, infatti, le interdittive sono nuovamente presentate come «la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata».
Più esplicitamente ancora, esse sono descritte come «una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia» messi in pericolo, secondo una logica ipotetico-prognostica del ‘più probabile che non’, da «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».
Nell’ottica univoca della Terza Sezione del massimo organo della giustizia amministrativa[3], queste misure di prevenzione non giurisdizionali assolvono una funzione di «frontiera avanzata» nelle strategie politico-criminali di contrasto «all’anti-Stato», legittimando l’esclusione dalla galassia degli appalti pubblici, teoricamente in maniera cautelare e provvisoria[4], di un’impresa non mafiosa, ma solo presumibilmente infiltrata dalla mafia sulla scorta di «elementi non meramente immaginari o aleatori». Proprio per tale destinazione funzionale, nella indicazione dei presupposti applicativi sono ragionevolmente affiancate alle situazioni tipiche di contiguità compiacente o soggiacente descritte tassativamente ex ante dal legislatore, anche altre atipiche individuabili discrezionalmente ex post dall’autorità competente.
Se le sanzioni penali implicano un pieno riconoscimento della responsabilità penale del singolo per un reato ad “ambientazione mafiosa” e le misure di prevenzione patrimoniali di tipo giurisdizionale, come il sequestro e la confisca, presuppongono il riscontro di indizi di reati analoghi attingendo, quindi, un’impresa ‘strutturalmente mafiosa’, le interdittive, invece, si fondano su molto di meno, vale a dire sulla mera verifica della possibile «persistenza del pericolo di contiguità con la mafia» di un’impresa tendenzialmente operante nell’economia legale. Queste, infatti, sono adottate discrezionalmente dall’autorità amministrativa, in assenza di un contraddittorio endo-procedimentale necessario (è prevista solo come mera eventualità l’audizione del destinatario) e di una effettiva verifica giudiziaria sui suoi presupposti fattuali, sulla scorta o di una serie di situazioni tassativamente descritte dall’art. 84, comma 4, lett. a) e ss., d.lgs. n. 159/2011 (c.d. interdittive specifiche), o di elementi eterogenei e non predeterminati dalla legge, grazie alla clausola aperta contenuta nell’art. 84, comma 4, lett. d ed e, d.lgs. n. 159/2011 che fa riferimento «agli accertamenti disposti dal prefetto» direttamente o avvalendosi dei prefetti delle altre province (c.d. interdittive generiche)[5].
Gli ampi margini di apprezzamento così riconosciuti all’organo amministrativo, titolare di contestuali ed inusuali poteri inquirenti e deliberativi, implicano la «sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010)».
Inoltre, ad avviso del Consiglio di Stato le interdittive generiche, nonostante l’assoluta indeterminatezza dei loro presupposti normativi, non si pongono in contrasto con gli artt. 117 e 3 Cost., dal momento che la stessa Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 24/2019 relativa alle misure di prevenzione ‘giurisdizionali’, avrebbe ritenuto soddisfatta l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto al di fuori del diritto penale anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».
Le situazioni indiziarie individuate dalla Terza Sezione del C.d.S. per sviluppare e completare le indicazioni legislative costruirebbero, dunque, un sistema di «tassatività sostanziale» che individua come fattori legittimanti l’adozione di una interdittiva anche: i provvedimenti sfavorevoli del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
In questo specifico ambito, anzi, una maggiore precisione ed analiticità nella descrizione delle condizioni di applicabilità delle interdittive sarebbe controproducente, in quanto frustrerebbe nel suo «fattore di rigidità» la ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale «deve affidarsi anche, e necessariamente, a ‘clausole generali’, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali. Proprio queste situazioni rischierebbero infatti, in quanto non già tipizzate dal legislatore, di sfuggire alla valutazione dell’autorità amministrativa e ciò, per le esigenze prevenzionistiche che ispirano l’intera materia, sarebbe tanto più grave al cospetto di condotte elusive o collusive poste in essere dalla stessa impresa, essendo ben noto all’esperienza giurisprudenziale che le forme più insidiose, e più sfuggenti, di pericolo infiltrativo sono proprio quelle che allignano in una contiguità compiacente, su un accordo economico cioè, più o meno tacito, tra l’imprenditore e la criminalità organizzata»[6].
Essenziale è che tale ‘integrazione’ giurisprudenziale sia in grado di porre il destinatario delle misure limitative dei diritti in gioco in condizioni di poterne ragionevolmente prevedere l’applicazione, come appunto accadrebbe in subiecta materia grazie al Consiglio di Stato che, dal 2016, ha elaborato in via ermeneutica un elenco di situazioni atipiche che possono ragionevolmente fondare l’adozione di un provvedimento di questo genere[7].
1.1. (Segue…) e della Corte costituzionale?
Da ultimo, la legittimità costituzionale delle interdittive generiche sarebbe stata implicitamente confermata anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
In primo luogo, ad avviso del Consiglio di Stato, sembrerebbe deporre in tal senso la sentenza n. 195/2019 della Consulta con cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., nella parte in cui richiede che per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale in presenza di «condotte illecite gravi e reiterate» di collegamento con la criminalità mafiosa sono sufficienti mere «situazioni sintomatiche».
Una simile decisione, infatti, per la giurisprudenza amministrativa che la richiama, confermerebbe indirettamente che le interdittive generiche sarebbero immuni da censure dal momento che, al contrario, si fondano su ben più solidi e consistenti «elementi concreti, univoci e rilevanti»[8].
In secondo luogo, una analoga conclusione parrebbe risuonare in un obiter dictum della sentenza n. 57/2020 della Consulta in cui, enfatizzando con insoliti ed inadeguati argomenti metagiuridici le esigenze di difesa sociale rispetto alle mafie, si è osservato come con le interdittive si chieda alle autorità amministrative prefettizie, non di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi dei valori costituzionali, come la libertà di iniziativa economica ed il diritto di proprietà, ma di prevenire possibili penetrazioni dei gruppi mafiosi nell’economia legale in presenza di situazioni potenzialmente sintomatiche di tali scenari[9].
La gravità del fenomeno che intendono contrastare legittimerebbe, cioè, la loro disciplina, non essendo possibile, data la cangiante e mutevole caratterizzazione delle modalità comportamentali delle associazioni di tipo mafioso nella c.d. ‘zona grigia’ di confine con la società civile e le istituzioni, una previa indicazione rigorosa di tutte le situazioni in presenza delle quali possa riscontrarsi un pericolo di infiltrazione nelle imprese inserite nell’economia legale. Al contrario, offrirebbe un solido appiglio alla tassativizzazione sostanziale da parte della giurisprudenza amministrativa delle altre ipotesi sintomatiche non descritte ex lege a cui si è fanno cenno in precedenza.
2. Prima critica: un ordinamento democratico non legittima incondizionatamente le interdittive.
Bene, una simile interpretazione teleologica e tassativizzante delle interdittive antimafia generiche, proposta in apparenza al diapason dal Consiglio di Stato e dalla Corte costituzionale, e volta a fornire ragioni solide a sostegno della lacunosità della loro disciplina alla luce dei valori in gioco e della gravità del fenomeno mafioso, non sembra affatto convincente, basandosi su tre premesse stipulative parziali e controvertibili.
Innanzi tutto, appare ossimorica e contraddittoria la prima piattaforma concettuale del ragionamento ‘giustificativo’ delle interdittive generiche posta dalla giurisprudenza amministrativa e (ad avviso di questa) dalla giurisprudenza costituzionale: vale a dire la considerazione di questa tipologia di misure quale istituto servente agli scopi di un ordinamento democratico.
L’anticipazione del controllo statale amministrativo praeter delictum tramite provvedimenti così afflittivi, al di fuori delle ipotesi di pericolosità generica e qualificata di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011 sulle quali si fondano le misure di prevenzione personali e patrimoniali ‘giurisdizionali’, risulta invero non rispondente alle logiche di carattere democratico di uno Stato costituzionale di diritto.
Al contrario, pare ispirarsi ad una rinnovata declinazione della categoria tralatizia dello stato d’eccezione di recente riemersa nel dibattito teorico contemporaneo in materia di terrorismo internazionale, prima, e di diritto della pandemia, poi[10], in cui la gravità e l’elevato allarme sociale di un certo fenomeno consentono al legislatore di predisporre nuove basi normative per autorizzare l’adozione di provvedimenti preventivi del potere esecutivo fortemente limitativi di libertà fondamentali, in assenza di un vaglio giudiziario nel merito, ancorché ridotto.
La natura formalmente temporanea dell’istituto, unitamente alle misure mitigatrici nel frattempo affinate, come il controllo giudiziario volontario di cui all’art. 34 bis c.a.m.[11], fa, infatti, perdere di vista, anche alla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 57/2020, la sua dimensione afflittiva potenzialmente draconiana per un’impresa che operi esclusivamente nel settore degli appalti pubblici[12].
Si trascura di considerare che con l’interdittiva si determina l’ostracizzazione dell’impresa attinta dalle gare in corso di esecuzione e da quelle future, sancendone di fatto la possibile decozione a causa dell’improvviso venir meno delle sue fonti di reddito per un lasso di tempo che è quasi sempre particolarmente lungo, atteso che la giurisprudenza amministrativa non revoca quasi mai il provvedimento, bastando ai fini della sua legittimità la non manifesta illogicità, agevolmente riscontrabile in forza di una disciplina così generica come quella prevista dall’art. 84, comma 4, lett. d, ed e, e 91, comma 6, c.a.m.
Amplificando il carattere non definitivo, cioè, si tende a sottovalutare una misura che incide in modo particolarmente pervasivo – ancor più della confisca di prevenzione che può riguardare solo alcuni cespiti patrimoniali – su diritti fondamentali convenzionalmente riconosciuti come quello di proprietà e di libertà di iniziativa economica di cui agli artt. 41 e 42 Cost., nonché, in modo riflesso ed indiretto, sui diritti ed interessi giuridici altrettanto rilevanti dei lavoratori dipendenti e degli stakeholders dell’impresa interdetta[13].
L’adozione di misure così drastiche e restrittive sulla base di presupposti legislativi assolutamente indeterminati (le indagini del prefetto, sic!), ed in assenza (potenziale) di un contraddittorio endo-procedimentale e (certa) di un controllo giurisdizionale sui presupposti fattuali, sembra far affiorare logiche di matrice autoritaria, piuttosto che di ispirazione democratica, foriere anche di effetti estremi ed imprevedibili, come il tragico gesto suicidario dell’imprenditore siciliano compiuto a causa di un’interdittiva poi revocata post mortem dal T.a.r. Lazio lo scorso 8 luglio 2020[14].
In un ordinamento che voglia realmente definirsi tale, le istanze di difesa sociale non possono essere anteposte univocamente a quelle del garantismo individuale in una prospettiva neo-schmittiana, ma esattamente all’opposto devono essere con queste adeguatamente bilanciate.
Non va dimenticato che il diritto oggetto di ponderazione in questa circostanza è quello di proprietà che, nella nuova prospettiva europea dischiusa dall’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[15] ed, in parte, dall’art. 1, Primo Protocollo Agg. CEDU, non è più considerato in termini riduttivi come un diritto economico-sociale, bensì è innalzato al rango di diritto fondamentale di libertà dell’individuo, che deve essere posto a riparo anche dallo Stato.
In uno Stato democratico costituzionale di diritto, che appartiene a sua volta alla c.d. ‘grande Europa’ dei diritti, ogni provvedimento dell’autorità statale che incide sulle libertà dei singoli riconosciute dalla Carta fondamentale o dalle fonti europee che tramite l’art. 117 Cost. vanno ad integrarla – qualunque sia la sua natura giuridica, penale, amministrativa o latamente preventiva – deve necessariamente essere ancorato ad una disciplina sostanziale e processuale scrupolosa ed analitica e sottoposto ad un controllo giurisdizionale di merito e di logicità in un procedimento che garantisca il diritto di difesa ed il contraddittorio.
Nessuna esigenza politico-criminale, anche quella ‘massima’ di contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso, può legittimare il ricorso da parte dei poteri pubblici a ‘sanzioni’ capaci di squilibrare il rapporto autorità-libertà nelle dinamiche relazionali Stato-cittadino a netto detrimento delle seconde.
Al contrario, ogni provvedimento destinato ad incidere sulla sfera dei diritti dei singoli deve sempre, inderogabilmente, rispettare le condizioni minime per consentire ai potenziali destinatari di prevederne l’applicazione e di difendersi in giudizio dinanzi ad un giudice terzo chiamato a verificarne la legittimità formale ed i presupposti di fatto.
Diversamente da quanto affermato in modo suggestivo dal Consiglio di Stato, con una forzata inversione dei termini della questione, non possono, dunque, trovare legittimazione provvedimenti statali limitativi di diritti essenziali sulla base di presupposti così labili come quelli definiti dal codice antimafia per le interdittive generiche, altrimenti si rischia di far inverare quella condizione che lo stesso Consiglio di Stato vuole scongiurare, vale a dire che «il sistema della prevenzione amministrativa antimafia (…), in uno Stato di diritto democratico, [finisca con il costituire] un ‘diritto della paura’ in cui trovano spazio ‘pene del sospetto’»[16].
Né può ritenersi consona ad un sistema democratico l’attribuzione ad un organo dell’Esecutivo qual è il Prefetto del potere di adozione di misure preventive di portata così invasiva sulla base di elementi che non siano «meramente immaginari o aleatori».
Pur convenendo con l’inquadramento giuridico delle stesse proposto dal Consiglio di Stato nel novero delle sanzioni non afferenti alla categoria europea di ‘materia penale’[17] e con la critica dal medesimo C.d.S. rivolta verso un panpenalismo incondizionato che finirebbe con l’esportare in un settore differente dell’ordinamento giuridico logiche e garanzie concepite per il solo ius criminalis in ragione delle sue specificità, non si può tralasciare che – secondo l’orientamento oramai univoco della giurisprudenza convenzionale[18] – la limitazione di un diritto fondamentale, quale appunto quello di proprietà, deve sempre essere prevedibile e agganciata ad elementi predeterminati, concreti e consistenti, pena una violazione dell’art. 1 Prot. Add. CEDU, e non possa mai essere legata a compendi indiziario-probatori così poveri e ad un procedimento che non prevede un contraddittorio obbligatorio, pena una violazione anche dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali della UE equiparato dall’art. 6 § 1 TUE al diritto primario dell’UE, che prevede il diritto del cittadino europeo a una buona amministrazione, e, dunque, anche il diritto di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento pregiudizievole[19].
3. Seconda critica: l’indeterminatezza della disciplina delle interdittive generiche non è sanata dalla interpretazione tassativizzante del C.d.S.
In secondo luogo, risulta altrettanto opinabile l’altra premessa da cui muove il ragionamento della giurisprudenza amministrativa, vale a dire la legittimità costituzionale e convenzionale delle disposizioni assolutamente indeterminate che regolano le interdittive generiche grazie all’interpretazione tassativizzante fornitane dal Consiglio di Stato, in sintonia con i principî di diritto enunciati da C. Cost. nn. 24/2019, 195/2019 e 57/2020.
3.1. L’improprio utilizzo come argomento contrario di C. cost. n. 24/2019.
Innanzi tutto, nella prima decisione richiamata, la Consulta ha sì riconosciuto (come osserva anche correttamente il C.d.S.) l’esistenza di uno spazio molto più ampio in ambito extra-penale per il diritto giurisprudenziale, capace di contribuire, quando è unanime e consolidato, a rendere prevedibili le misure di prevenzione, ma ha pure precisato che la base legale che ne fissa i presupposti e ne individua i destinatari deve sempre però avere un minimo di determinatezza tale da limitare la discrezionalità degli interpreti e da orientare i consociati.
A differenza del diritto penale, la norma che regola misure praeter delictum può, quindi, contenere clausole generali o anche formule dotate di un certo grado di imprecisione il cui contenuto può essere co-definito dalla giurisprudenza, ma ex adverso non può essere redatta in maniera completamente aperta ed indeterminata.
La stessa Corte sembra, cioè, richiedere la previa esistenza di una base legale diafana, ma pur sempre capace di indicare sommariamente i presupposti di applicabilità delle misure di prevenzione, ritenendo quindi che la giurisprudenza consolidata possa utilmente contribuire a descrivere la disciplina solo quando non risulti del tutto creativa.
Peraltro, in questo specifico caso sembrerebbe difettare anche il carattere ‘consolidato’ dell’interpretazione, registrandosi, un continuo susseguirsi di pronunce del Consiglio di Stato anche dopo il c.d. decalogo del 2016, per un verso, sul valore indiziario dei rapporti di parentela di cui già si è detto in precedenza, o sulle informative a cascata[20], e, per altro verso, sulla necessità di non ingessare in un numerus clausus le situazioni sintomatiche di contiguità mafiosa delle imprese per evitare di lasciare lacune derivate nel sistema sfruttabili dalla criminalità organizzata[21].
Se, dunque, la Corte ha decretato l’illegittimità costituzionale dell’ipotesi di pericolosità generica dell’essere abitualmente dediti a traffici delittuosi di cui all’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011, in relazione alle misure di prevenzione patrimoniali che incidono sullo stesso diritto di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, a causa della vaghezza della situazione descritta e delle oscillazioni giurisprudenziali sul suo significato[22], a fortiori dovrebbe decretare quella dell’art. 84, comma 4, lett. d, ed e, e dell’art. 91, comma 6, c.a.m., dal momento che la lettera della legge è ancor più indeterminata, non descrivendo alcuna condotta sintomatica, ma solamente un potere illimitato e discrezionale di indagine al Prefetto.
3.2. (Segue…) di C. cost. n. 195/2019.
Ancor più parziale sembra il richiamo contenuto nella giurisprudenza amministrativa alla sentenza della Corte costituzionale n. 195/2019 per dimostrare la compatibilità costituzionale della disciplina in materia di interdittive generiche.
Pur essendo molto diversi i parametri alla cui stregua è stata ravvisata l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., la censura ha però ugualmente riguardato una disposizione normativa che fissava i poteri discrezionali del Prefetto in materia di scioglimento ed amministrazione controllata degli enti locali in modo assolutamente generico.
Ora, se si confronta sinotticamente la trama legale di quella norma con quella degli artt. 84, c. 4, e 91, c. 6, c.a.m., quest’ultima risulta ancora più manifestamente indeterminata; mentre la prima consentiva l’adozione della nuova misura di ‘controllo’ degli enti locali in presenza di «situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate, tali da determinare un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati», quella del codice antimafia autorizza l’interdittiva sulla base di imprecisate indagini del prefetto, senza alcun’altra specificazione se non quelle vaghissime dell’art. 91, comma 6, c.a.m. che si riferiscono ad elementi concreti da cui risulti che l’attività di impresa «possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».
Peraltro, da ultimo, perplessità circa la insostenibile vaghezza di tale disposizione normativa sono state avanzate dalla già menzionata ordinanza del T.a.r. Puglia con cui è stato proposto rinvio pregiudiziale alla CGUE a causa della mancata previsione di un contraddittorio endoprocedimentale pieno per l’adozione dell’interdittiva: un argomento cruciale a sostegno della necessità di una garanzia di confronto dialettico con il proposto è costituito proprio dalla genericità della disposizione in parola, dal momento che l’ipotesi del condizionamento indiretto dell’impresa da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso può comprendere un numero di casi molto significativo e di difficile distinzione rispetto a quella dei casi di imprese che subiscono le pressioni mafiose essendone vittime.
Se è stata quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale della prima disposizione in ragione di una descrizione del presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio in termini ampiamente discrezionali e poco definiti, mutatis mutandis dovrebbe pervenirsi al medesimo esito in ordine all’art. 84, comma 4, lett. d ed e, c.a.m., a nulla bastando lo sforzo di tipizzazione operato dalla giurisprudenza amministrativa che, peraltro, nel farlo, non esclude implicitamente l’eventualità che in futuro possano essere utilizzati altri argomenti, dovendo essere considerato il giudizio del Prefetto sempre a forma libera in modo da poter far fronte a nuove modalità di infiltrazione della criminalità organizzata.
3.3. (Segue…) e di C. cost. n. 57/2020.
Altrettanto forzato, infine, pare il richiamo alla più recente pronuncia in materia della Corte costituzionale, la n. 57/2020 con cui è stata dichiarata la non fondatezza della questione di legittimità relativa agli artt. 89 bis e 92, commi 3 e 4, c.a.m.
Tale decisione, infatti, non ha affrontato nel merito il problema della indeterminatezza della base legale delle interdittive generiche, reputando inammissibile la questione di legittimità costituzionale che le riguardava perché ultronea al thema decidendum.
Nel punto n. 2 dei considerato in diritto, infatti, la Consulta si è limitata ad osservare in via preliminare «l’inammissibilità degli ulteriori profili di censura sollevati dalla parte privata, ricorrente nel giudizio a quo e costituitasi nel presente giudizio incidentale, che ha prospettato la lesione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1982, n. 217, in riferimento alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, e 28 giugno 2018, G.I.E.M. srl e altri contro Italia».
Anche nel prosieguo della parte motiva non si intravede una presa di posizione netta sul punto capace di precludere un futuro sindacato della Corte su tale aspetto, qualora questa, all’interno di procedimenti a quo in cui risulti rilevante, venga nuovamente proposta da un T.a.r., essendo rinvenibile solamente un acritico avallo della interpretazione tassativizzante del Consiglio di Stato alla luce della sentenza C. cost. 24/2019.
4. Terza critica: la sentenza Corte EDU 2017 De Tommaso c. Italia non giustifica l’assoluta imprecisione dell’art. 84, co. 4, lett. d ed e, d.lgs. n. 159/2011.
Infine, appare deformata anche la terza premessa del ragionamento del Consiglio di Stato, quella che individua nella sentenza della Corte EDU del 2017 De Tommaso la fonte che facoltizza il protagonismo giurisprudenziale in questo settore sulla scorta di una opinabile nozione del ‘principio di legalità sostanziale’ rispondente a superiori esigenze di law enforcement, decisamente contrastante con quella accreditata usualmente nel diritto amministrativo. In questo ambito disciplinare, infatti, il principio di legalità sostanziale esprime l’esigenza opposta di predefinire tramite la legge o atto equiparato non solo il potere della amministrazione ed il tipo di provvedimento diretto a esplicitarlo, ma anche i suoi caratteri e confini[23].
Diversamente da quanto affermato nelle decisioni del massimo organo della giustizia amministrativa, questa sentenza dei giudici di Strasburgo non ha indirettamente riconosciuto ai legislatori nazionali il potere di formulare nella materia della prevenzione anti-mafia extra-penale norme assolutamente indeterminate in modo da garantirne una più facile adattabilità alle proteiformi modalità operative della criminalità organizzata di tipo mafioso. Anche questa, come d’altronde la giurisprudenza costituzionale in precedenza richiamata che ad essa si ispira, riconosce un margine discrezionale più ampio in questo ambito disciplinare, ma non sfociante nell’arbitrio e nella conseguente imprevedibilità di applicazione delle misure.
Vale a dire che se, per un verso, la previsione di simili misure interdittive è sicuramente rispondente al parametro della necessarietà «in una società democratica» espresso a livello convenzionale quale condizione di legittimità delle stesse, risultando indispensabili per fronteggiare tentativi di infiltrazione mafiosa nel mondo degli appalti pubblici[24], per altro verso, la definizione della loro disciplina in termini eccessivamente elastici ed indeterminati non sembra invece collimare con quello ulteriore ed altrettanto indefettibile della descrizione legale e della prevedibilità convenzionalmente garantiti.
La Corte EDU, infatti, in altri passaggi della sua densa argomentazione, ha affermato che una legge non può lasciare ai tribunali un’ampia discrezionalità senza indicare con sufficiente chiarezza la sua portata e le modalità del suo esercizio, perché ciò renderebbe altrimenti imprevedibile l’adozione della misura eventualmente disposta (§ 109). La base legale non può mai «essere espressa in termini vaghi ed eccessivamente ampi» (§ 125), dovendo invece definire con sufficiente precisione e chiarezza le persone a cui sono applicabili le misure preventive ed il loro contenuto.
Una lettura combinata dei diversi enunciati della sentenza De Tommaso sembra portare allora ad una diversa conclusione, vale a dire che le misure che incidono su diritti convenzionalmente riconosciuti – incluse quindi quelle diverse dalle misure di prevenzione ma dotate della stessa portata limitativa – possono avere una base legale più duttile per adattarsi alle diverse e sfaccettate situazioni indicative del pericolo di infiltrazione mafiosa, ma mai radicalmente imprecisa, pena la violazione del principio di prevedibilità della loro applicazione.
Diversamente da quanto sembra sostenere il Consiglio di Stato, non può ostare alla estensione di tali conclusioni giuridiche alle interdittive antimafia la similitudine solo apparente che queste mostrano con le misure di prevenzione (e, quindi, la loro differenza sostanziale), poiché nell’ottica della CEDU il profilo del nomen iuris di una misura a contenuto sanzionatorio, così come quello delle finalità da essa perseguita, sono del tutto secondari, contando soprattutto il piano concreto ed effettuale dei diritti eventualmente da essa attinti[25].
Peraltro, sotto quest’ultimo versante è la stessa pronuncia del gennaio 2019 del Consiglio di Stato nel § 8.4 ad individuare i diritti attinti dalle interdittive negli stessi diritti compressi dalle misure di prevenzione patrimoniale, riferendosi alla libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.[26].
Se allora entrambe le misure, quelle di prevenzione patrimoniale e quelle interdittive antimafia, incidono sui medesimi diritti fondamentali riconosciuti convenzionalmente – quelli di proprietà e di libertà di iniziativa economica – le esigenze di predeterminazione minima della base legale espresse in ordine alle prime devono necessariamente essere estese alle seconde, per evidenti ragioni di coerenza sistematica.
Essendo, quindi, risultata in contrasto con la CEDU ed i suoi Protocolli la disciplina in materia di misure di prevenzione perché priva di «disposizioni sufficientemente dettagliate in merito a quali tipi di comportamento debbano essere considerati come pericolosi per la società», a fortiori lo sarà anche quella in materia di interdittive generiche in quanto dotata di una base legale ancor più povera, consentendo l’applicazione della misura sulla base degli accertamenti di qualsivoglia aspetto sintomatico di tentativi di infiltrazione mafiosa operati dal Prefetto.
Alla esportabilità del ragionamento della CEDU in ambito di informazioni antimafia contribuisce anche un passaggio della già richiamata sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale che non ha escluso la possibilità di ritenere illegittime costituzionalmente le ipotesi di pericolosità generica indeterminate di cui all’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 anche in relazione alle altre misure di prevenzione meno invasive di competenza dell’autorità di polizia e non dell’autorità giudiziaria (in particolare, foglio di via obbligatorio e avviso orale). Presentando tali provvedimenti affinità ancor più spiccate con le informazioni antimafia, essendo anch’essi affidati ad organi amministrativi e non alla competenza del Tribunale di prevenzione, laddove la Corte dovesse pronunciarsi affermativamente su un’eventuale futura questione di legittimità costituzionale sugli stessi, sembrerebbe ancor più difficile ritenere legittimo l’art. 84, comma 4, lett. d ed e del codice antimafia.
Inoltre, tale sentenza della Corte EDU, non essendo incentrata su argomenti penalistici e sul previo riconoscimento della appartenenza alla materia sostanzialmente penale delle misure di prevenzione, bensì sul rango dei diritti attinti dalle misure sanzionatorie di un ordinamento nazionale, appare agevolmente adattabile alla materia delle interdittive, consentendo di proporre un’eventuale questione di legittimità costituzionale per contrasto con interessi e diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione tramite il parametro interposto della CEDU e dei suoi Protocolli, piuttosto che con i principi penalistici.
5. Sintesi degli scenari possibili: declaratoria di illegittimità costituzionale, condanna Corte EDU o riforma legislativa.
Alla luce di quanto osservato, ed in considerazione della totale chiusura dimostrata dal Consiglio di Stato sul punto tutte le volte in cui gli è chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale per le interdittive generiche, si prospettano oggi due strade alternative per evitare l’ennesima pronuncia della Corte EDU che apra gli occhi su situazioni tollerate dal diritto giurisprudenziale interno, pur essendo palesemente incompatibili con i principî fondanti dell’ordinamento nazionale.
Nel breve periodo, l’unica possibilità che potrebbe schiudere scenari diversi all’orizzonte può essere rappresentata da una coraggiosa decisione di qualche T.a.r., analoga a quella che ha portato al rinvio pregiudiziale alla CGUE sul difetto di contraddittorio endoprocedimentale, di sollevare direttamente la questione di legittimità costituzionale degli artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 1, Protocollo 1 add. CEDU e all’art. 6 CEDU.
Se infatti qualche tribunale regionale aggirasse le forche caudine della Terza Sezione del Consiglio di Stato, l’attuale Corte costituzionale – già protagonista di coraggiose e storiche decisioni anche in materia di misure di prevenzione, oltreché di ergastolo ostativo, istigazione al suicidio e diffamazione a mezzo stampa – potrebbe finalmente pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disciplina delle interdittive generiche, rilevandone la sua insanabile indeterminatezza.
Diversamente, non resta che auspicare un nuovo intervento della Corte di Strasburgo che, in sintonia con la decisione pregressa della Grande Chambre del 2017 sulle misure di prevenzione giurisdizionali, condanni l’Italia in ragione della macroscopica genericità della base legale delle interdittive antimafia.
Nel lungo periodo, invece, la via maestra da percorrere per appianare ogni problema pare essere unicamente quella legislativa.
Solo colmando con una riforma organica la lacunosità della disciplina relativa ai presupposti delle interdittive generiche e modificando profondamente altri aspetti più generali, inerenti alla competenza ad adottare tali provvedimenti e alla accessibilità all’istituto complementare e ‘palliativo’ del controllo giudiziario ex art. 34 bis c.a.m. e della c.d. ‘prevenzione patrimoniale mite’, si può restituire razionalità ad un sottosistema della prevenzione in cui le garanzie ed i diritti fondamentali dei destinatari sono ancora in ombra, soprattutto nei casi dei c.d. (per usare la terminologia del Consiglio di Stato) complici soggiacenti[27].
A rendere ancor più necessaria ed impellente una revisione della disciplina delle interdittive contribuisce anche la recente decisione a livello convenzionale del Comitato dei Ministri europeo del 17 dicembre 2019 di inserire nella scheda dedicata al monitoraggio del livello di sorveglianza della attuazione delle decisioni della Corte EDU in Italia la sentenza De Tommaso in materia di misure di prevenzione tra quelle considerate di livello ‘elevato’.
Una simile qualificazione, infatti, lascia intendere che l’Europa è fortemente interessata a valutare se e come l’Italia stia dando attuazione ai principî di diritto sanciti in quell’occasione dalla Corte di Strasburgo attraverso l’adozione di misure generali di adeguamento strutturale del suo ordinamento, capaci di rimuovere quei deficit lampanti di prevedibilità segnalati dalla De Tommaso.
Infine, un ripensamento urgente della normativa in materia sembra poi essere imposto dal particolare momento storico post-pandemia che il Paese sta attraversando, in cui una eventuale adozione di un’interdittiva generica sulla base di una valutazione unilaterale prefettizia del ‘più probabile che non’ nei confronti di un’impresa occasionalmente infiltrata in forma soggiacente (non compromessa quindi stabilmente con la mafia) potrebbe decretarne la chiusura, incidendo così irreversibilmente sugli interessi personali degli imprenditori e su quelli connessi ed altrettanto rilevanti dei lavoratori, degli stakeholder e dell’intero sistema economico nazionale.
Le direttrici da seguire in una futura riforma delle interdittive dovrebbero essere quelle già tracciate dal legislatore al momento della introduzione ed affinamento delle nuove misure di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione e del controllo giudiziario di cui agli artt. 34 e 34 bis c.a.m. La nuova disciplina dovrebbe, cioè, tendere piuttosto che alla esclusione istantanea, drastica e sostanzialmente definitiva del proposto dal settore degli appalti pubblici in una prospettiva di neutralizzazione sociale, ad una bonifica prolungata, assistita e temporanea dell’impresa infiltrata in un’ottica di recupero all’economia legale.
L’auspicio è che de iure condendo si assista ad un definitivo salto di qualità nella legislazione antimafia di carattere preventivo, in cui si prenda congedo dalla stagione bellico-giuridica del rigore destruens, dove appariva ragionevole bandire dal circuito economico regolare e dagli appalti pubblici un’azienda indiziata, in maniera non meramente immaginaria, di infiltrazione mafiosa, abbracciando quella antitetica della cura construens, in cui lo Stato non espelle un’impresa legale che ha subìto tentativi di infiltrazione dalla criminalità organizzata, con detrimento anche degli interessi degli altri soggetti estranei potenzialmente coinvolti, ma al contrario si affianca ad essa, offrendole un supporto continuativo per recidere realmente ogni possibile legame mafioso presente e futuro.
In presenza di situazioni di “pericolosità qualificata attenuata” quali quelle che legittimano le informative antimafia, de lege ferenda la prima ratio dovrebbe essere quella delle misure di prevenzione patrimoniali miti dell’amministrazione o del controllo giudiziario, degradando l’interdittiva al rango di ultima ratio sottoposta ad un pieno controllo del Tribunale di prevenzione.
[1] R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’ 8 giugno 2020), in www.giustiziainsieme.it, 3 luglio 2020; C. Felicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945).
[2] Tra le decisioni della Terza Sezione di analogo tenore si vedano: Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651; Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105; Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.
[3] Il Consiglio di Stato si era già espresso in termini sostanzialmente analoghi nel recente passato evidenziando in Cons., Stato, Sez. III, n. 3583/2016, l’imprescindibilità di queste misure per “porre un significativo argine preventivo al pernicioso fenomeno del condizionamento mafioso dell’attività economica del Paese”. In senso conforme, da ultimo, cfr. Cons. St., Sez. III, 21 aprile 2019, n. 2141, che le ha ritenute “una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia”. In argomento A. Levato, Potestà discrezionale del Prefetto e regime di impugnazione delle interdittive antimafia. Criticità e prospettive di risoluzione, in http://culturaprofessionale.interno.gov.it/FILES/docs/1260/TESTO%20INTEGRALE%20Levato.pdf, p. 17.
[4] Sottolinea la funzione cautelare e preventiva delle interdittive Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3.
[5] Sul punto, per una descrizione più analitica delle due differenti sottotipologie di interdittive antimafia, sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani, Le interdittive e le altre misure di contrasto alla infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Giappichelli, 2019, p. 207 e ss.
[6] Così Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.
[7] Si veda per tutte la sentenza ‘decalogo’ del Consiglio di Stato, sez. III, 6 maggio 2016, n. 1743, in cui il giudice amministrativo procede ad una tipizzazione delle situazioni ‘atipiche’ da cui desumere i tentativi di infiltrazione mafiosa in un’impresa.
[8] Consiglio di Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758.
[9] Per un primo commento alla sentenza cfr. R. Piombino, A quali costi? L’efficacia estensiva dell’informazione interdittiva antimafia, in www.dirittodidifesa.eu; L. Delli Priscoli, https://www.ildirittoamministrativo.it/informativa-prefettizia-antimafia-e-il-diritto-della-collettivit%C3%A0-ad-un-mercato-concorrenziale-Lorenzo-Delli-Priscoli/stu594.
[10] G. Agamben, Lo stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, 2003; Id. Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, in Il manifesto, 26 febbraio 2020. Sull’origine del concetto cfr. C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, tr. it., Il Mulino, 2014.
[11] Per approfondimenti su questa nuova misura di prevenzione patrimoniale si veda C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperato ria contro le infiltrazioni mafiose, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia, cit., pp. 237 e ss.; R. Cantone-B. Coccagna, L’impresa raggiunta da interdittiva antimafia tra commissariamenti prefettizi e controllo giudiziario, ivi, pp. 283 e ss.; A. Maugeri, La riforma delle misure di prevenzione patrimoniali ad opera della l. 161/2017 tra istanze efficientiste e tentativi incompiuti di giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, in AP, 2018, pp. 368 e ss.; M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in SP, 3 marzo 2020, 5 ss.; E. Birritteri, I nuovi strumenti di bonifica aziendale nel Codice Antimafia: amministrazione e controllo giudiziario delle aziende, in RTDPE, 2019, pp. 859 e ss.; S. Finocchiaro, La riforma del codice antimafia (e non solo): uno sguardo d’insieme alle modifiche appena introdotte, in DPC, 2017, pp. 256 e ss.; F. Balato, La nuova fisionomia delle misure di prevenzione patrimoniali: il controllo giudiziario delle aziende e delle attività economiche di cui all'art. 34-bis codice antimafia, in DPC, 12 marzo 2019, pp. 64 e ss. Spunti interessanti anche in E. Mezzetti, Codice antimafia e codice della crisi dell’insolvenza: la regolazione del traffico delle precedenze in cui la spunta sempre la confisca, in AP, 2019, pp. 11 e ss.
[12] Nell’incerto ed atecnico iter argomentativo della decisione della Consulta pare, infatti, avere un ruolo rilevante l’asserito carattere temporaneo-cautelare delle misure interdittive antimafia, tralasciando che, per un’impresa impegnata esclusivamente nel settore delle gare pubbliche l’adozione di un provvedimento di questo genere, di norma, ha natura quasi perpetua, escludendola non solo pro tempore, ma anche con grandi probabilità in futuro a causa dell’etichettamento negativo difficilmente superabile.
[13] Su tali aspetti cfr. il nostro G. Amarelli, Interdittive antimafia e controllo giudiziario: la Cassazione delinea un nuovo ruolo per le Prefetture?, in SP, 10 aprile 2020.
[14] T.a.r. Lazio, Sez. I ter, 8 luglio 2020.
[15] L’art. 17 CDFUE considera, infatti, il diritto di proprietà quale diritto del singolo prevedendo che «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporre e di lasciarli in eredità» e che «l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale».
[16] Cons. St., Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105, nonché Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[17] Sul punto si veda il lavoro di L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Giappichelli, 2018.
[18] In tal senso cfr. C. Edu, Grande Chambre, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia. Sul punto cfr. A.M. Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte Europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in www.penalecontemporaneo.it, 6 marzo 2017, pp. 1 e ss.; F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, ivi, 3 marzo 2017, pp. 1 e ss.; R. Magi, Per uno statuto unitario dell’apprezzamento della pericolosità sociale. Le misure di prevenzione a metà del guado, ivi, 13 marzo 2017, pp. 1 e ss.; F. Menditto, La sentenza De Tommaso contro Italia: verso la piena modernizzazione e la compatibilità convenzionale del sistema della prevenzione, ivi, 26 aprile 2017, pp. 1 e ss.; V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la cattiva coscienza delle misure di prevenzione, in DPP, 2017, pp. E 1039 ss.; F.P. Lasalvia, Le misure di prevenzione dopo la Corte EDU De Tommaso, in AP, 25 maggio 2017, pp. 1 e ss.
[19] Di recente, con ordinanza del T.a.r. Puglia, Sez. III, 13 gennaio 2020, n. 28, è stata rimessa alla Corte di giustizia UE la questione pregiudiziale se gli artt. 91, 92 e 93 del Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio endoprocedimentale in favore del soggetto nei cui riguardi l’Amministrazione si propone di rilasciare una informazione antimafia, siano compatibili con il principio del contraddittorio, così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione.
[20] Si veda sui rapporti di parentela Cons. St., Sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651, che ha chiarito che possono fondare l’applicazione di un’interdittiva antimafia anche i soli rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; nonché, Cons. St., Sez. III, 30 maggio 2017, n. 2590; Cons. St., Sez. III, 10 aprile 2017, n. 1657; Cons. St., Sez. III, 4 aprile 2017, n. 1559; Cons. St., Sez. III, 27 febbraio 2017, n. 905. Sulle relazioni commerciali e le interdittive a cascata cfr. Cons. St., Sez. III, nn. 1743 e 2232 del 2016; Tar Campania, Napoli, Sez. I, 4 luglio 2018, n. 4938, decisioni in cui è compiuto anche uno sforzo di tipizzazione delle interdittive generiche.
[21] Si esprime in tal senso, tra le tante, Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743.
[22] C. cost. n. 24/2019, in GC, 2019, con nota di V. Maiello, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra interpretazione tassativizzante e legalità costituzionale, pp. 343 e ss.; A.M. Maugeri-P. Pinto de Albuquerque, La confisca di prevenzione nella tutela costituzionale multilivello: tra istanze di tassatività, ragionevolezza, se ne afferma la natura ripristinatoria (Corte cost. 24/2019), in SP, 29 novembre 2019; Fr. Mazzacuva, L’uno-due della Consulta alla disciplina delle misure di prevenzione:punto di arrivo o principio di un ricollocamento su binari costituzionali?, in RIDPP, 2019, pp. 990 e ss.; F. Basile-E. Mariani, La dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie preventiva dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questioni aperte in tema di pericolosità, in DisCrimen, 10 giugno 2019; S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Corte Edu, in DPC, 4 marzo 2019; F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, Giappichelli, 2020, pp. 41 e ss.
[23] In questo senso cfr. anche C. cost., 7 aprile 2011, n. 115.
[24] La imprescindibilità di queste misure per “porre un significativo argine preventivo al pernicioso fenomeno del condizionamento mafioso dell’attività economica del Paese” è sottolineata da Cons., Stato, Sez. III, n. 3583/2016. Da ultimo, Cons. St., Sez. III, 21 aprile 2019, n. 2141, le ha ritenute “una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia”. In argomento A. Levato, Potestà discrezionale del Prefetto e regime di impugnazione delle interdittive antimafia. Criticità e prospettive di risoluzione, in http://culturaprofessionale.interno.gov.it/FILES/docs/1260/TESTO%20INTEGRALE%20Levato.pdf, p. 17.
[25] Sulla differente prospettiva della legalità convenzionale sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Legalità costituzionale, legalità convenzionale e diritto giurisprudenziale, in www.criminaljusticenetwork.it, 16 novembre 2018.
[26] Cons. St., Sez. III, sent. 5 settembre 2019, n. 6105 cit.; Cons. St., Sez. III, sent. 30 gennaio 2019, n. 758, cit.
[27] Per una trattazione più analitica dei possibili interventi de iure condendo realizzabili in materia di interdittive antimafia sia consentito rinviare al nostro G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, in G. Amarelli-S. Sticchi Damiani, Le interdittive, cit., pp. 231 e ss.
Livatino ieri e oggi.
Sacrificio di un giudice e giurista d’altri tempi o testimonianza limpida di un magistrato "di ogni tempo" al servizio della società?
*in calce il parere del Consiglio giudiziario presso la Corte di appello di Caltanissetta di idoneità all'esercizio delle funzioni giudicanti e requirenti di Rosario Livatino
Intervista di Roberto Conti a Roberto Saieva
Il 21 settembre 1990 Rosario Livatino cadde, a 38 anni, sotto i colpi brutali della stidda a pochi chilometri da Agrigento, mentre a bordo della sua vettura stava per recarsi al Tribunale di Agrigento dove svolgeva le funzioni di giudice presso la sezione misure di prevenzione.
A trent'anni dalla morte Giustizia Insieme intende fare memoria su quell'agguato, raccogliendo la testimonianza di chi è stato accanto a Livatino, ne ha respirato l'aria, ha vissuto sulla propria pelle il prima, il durante e il dopo di quella vicenda e di quel periodo. Ciò in una prospettiva massimamente rivolta ai giovani, molti dei quali non hanno avuto conoscenza della statura morale e professionale di Livatino nè dell'humus in cui maturò la scelta di eliminarlo fisicamente.
Una testimonianza, quella di Roberto Saieva, oggi Procuratore generale presso la Corte di appello di Catania, che offre squarci importanti sul "contesto" ambientale – locale ma anche dei palazzi delle Istituzioni – nel quale maturò quell'omicidio e che assume oggi un valore davvero particolare provenendo da un magistrato schivo, che ha fatto della sobrietà e del riserbo la cifra della sua ormai lunga esperienza giudiziaria ma che oggi ha voluto tornare indietro nel tempo, forse convinto dalla drammaticità del momento storico che sta attraversando la magistratura e dal desiderio di offrire il ricordo di uno dei suoi più fedeli, coraggiosi e lindi rappresentanti.
Quale il senso delle sue riflessioni? Esse non sembrano affatto rivolte a suscitare consenso, ammirazione o clamore, ma semmai a scuotere le coscienze, a riannodare i fili di una magistratura colpita oggi al cuore da vicende che ne hanno minato profondamente la credibilità.
Saieva fuori da ogni retorica indossa l'abito di chi la storia l'ha vissuta in prima persona e scolpisce con poche espressioni il "modello" senza tempo di magistrato. Lo fa senza enfasi, attraverso le parole di Rosario Livatino e del Presidente della Repubblica, confidando - non per sè, ma per la società che cambia di cui Livatino si fece interprete - in risposte concrete, comportamenti coerenti, prese di posizione ferme e univoche che possano onorare e vivificare il sacrificio di quel "giudice ragazzino" per renderlo realmente "senza tempo" e moltiplicarlo all'infinito.
***
R. Conti Roberto, grazie per questa opportunità che offri ai lettori della rivista di ripercorrere l’esperienza di Rosario Livatino presso gli uffici del Tribunale di Agrigento che ti coinvolge in prima persona, essendone stato collega. Cominciamo dall’inizio. Come lo hai conosciuto e quale impressione suscitò in te inizialmente la sua figura di giovane magistrato?
R. Saieva Conobbi Rosario Livatino quando, dopo lo svolgimento del tirocinio a Palermo, assunsi le funzioni di giudice presso il Tribunale di Agrigento, nel settembre del 1979. Nello stesso periodo Rosario – eravamo stati nominati con lo stesso decreto ministeriale – cominciò, dopo avere effettuato il tirocinio presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta, la sua attività di sostituto procuratore della Repubblica di Agrigento e poiché in Tribunale, nel corso del primo anno, fui addetto alla sezione penale, i nostri rapporti furono ovviamente assidui. L’impressione che Rosario Livatino mi fece fu simile a quella che faceva a tutti coloro che si muovevano nel piccolo mondo giudiziario agrigentino: un’impressione notevole. Il suo lessico, parlato e scritto, era molto accurato e richiamava l’attenzione dell’interlocutore per la frequente inclusione di termini non comuni e il ricorso a figure retoriche. I suoi modi erano sempre inappuntabili, improntati ad una cortesia che anche quaranta anni fa si poteva considerare non usuale. In udienza dimostrava abitualmente una completa conoscenza degli atti dei processi e delle questioni giuridiche da affrontare, che non sempre i pubblici ministeri erano e sono in grado di esibire. Sosteneva le proprie tesi con convinzione, non dando mai l’impressione di considerare l’esercizio del proprio ufficio come un adempimento rituale.
Il rapporto con Livatino rimase professionale o diventò personale e quanto incise il contesto ambientale nel quale eravate chiamati ad operare?
I miei rapporti con Livatino si intensificarono allorché, nel gennaio del 1983, fui trasferito dal Tribunale alla Procura della Repubblica di Agrigento. Nel suo discorso di commiato ai colleghi ed al personale della Procura della Repubblica, quando si accingeva a trasferirsi in Tribunale, Rosario ricordò come io, negli anni della comune attività, avessi trascorso con lui assai più tempo di quello passato con la mia famiglia. I nostri rapporti tuttavia, per quanto intensi, rimasero prevalentemente professionali. Rosario non abitava ad Agrigento, era assorbito, nel tempo libero dal lavoro, dalla cura dedicata ai propri anziani genitori e, soprattutto, aveva un carattere schivo, riservato; d’altra parte, neppure io ho un carattere particolarmente estroverso.
In quegli anni non erano state ancora costituite le Procure Distrettuali Antimafia. Cosa rappresentava il giovane Rosario Livatino all’interno della Procura di Agrigento? Erano gli anni delle polemiche sorte sui giudici ragazzini dei quali aveva parlato il Presidente Cossiga. Arrivaste in terra di mafia preparati a confrontarvi con quella realtà o avvertivate disagio o inadeguatezza? Sentivate la protezione dei vertici dell’Ufficio? Era sufficientemente appagante?
Gli anni Ottanta del secolo scorso furono nell’azione di contrasto alle mafie anni di passaggio, di cambiamento, riflesso delle trasformazioni che si preparavano nel mondo e che, peraltro, non erano compiutamente e generalmente percepibili. Nelle fasi di transizione si muovono sempre forze contrastanti, il vecchio tarda a scomparire e il nuovo stenta a farsi largo. Anche il mondo giudiziario siciliano, con riferimento alle indagini sulle attività di cosa nostra, viveva in quegli anni una stagione mutevole, incerta. L’effetto che l’arrivo di Livatino in quella stagione produsse negli uffici giudiziari agrigentini fu quello della caduta di un sasso in uno specchio d’acqua stagnante. Livatino intraprese indagini antimafia di largo respiro – orientate anche, con l’ausilio della polizia tributaria, alla identificazione di patrimoni di illecita provenienza – che travalicarono i confini della provincia. Uno spunto investigativo di particolare interesse fu posto a base di una vasta indagine che ci portò alla fine del 1984 alla esecuzione di numerosi provvedimenti cautelari nei confronti dei vertici di cosa nostra agrigentina e poi ad un processo concluso con molte sentenze definitive di condanna. La sensazione di isolamento c’era e – anche se non in tutti i periodi e non con riguardo a tutti i soggetti con i quali ci si confrontava –, la si percepiva, a tratti nettamente, anche all’interno del Palazzo; era sicuramente causa di uno stato tensione; in compenso la consapevolezza dell’importanza del lavoro che si andava svolgendo e la coscienza dello straordinario impegno che vi si profondeva, era per noi fonte di soddisfazione professionale ed umana.
La paura che potesse accadervi qualcosa in ragione della vostra attività esisteva o no a quell’epoca e, se sì, vorresti descriverla a beneficio dei giovani magistrati, molti dei quali non vissero quella stagione per ragioni anagrafiche?
All’indomani della esecuzione dei provvedimenti restrittivi ai quali ho fatto cenno in precedenza fummo avvertiti dalle forze di polizia – che sul territorio avevano le loro antenne – che le associazioni mafiose avevano percepito come particolarmente duro il colpo assestato e che erano da mettere in conto possibili reazioni. Furono disposte misure di protezione nei confronti dei magistrati che avevano ruolo nelle indagini. E’ innegabile che ciascuno di noi nutriva allora timori per la propria incolumità personale. Si dice che il magistrato deve sempre esercitare il proprio ministero nec spe nec metu, ma ci si vuole normalmente riferire, oltre che alla speranza di vantaggi morali o materiali, alla paura di conseguenze negative del proprio operato sul piano professionale. Trovarsi nelle condizioni di dover nutrire timori per la propria incolumità personale, in ragione dell’adempimento dei doveri istituzionali, provocava un certo smarrimento, disorientava, legittimava l’interrogativo: “Ma che razza di Stato è questo nel quale si corre il rischio di essere uccisi a causa dell’esercizio, quali suoi funzionari civili, di pubbliche funzioni?”. Si faceva però in modo di gestire, di controllare l’ansia e, a tale scopo, serviva molto il rapporto di solidarietà che intercorreva tra di noi, tra Livatino, me e gli altri magistrati impegnati sullo stesso fronte.
La scelta di non fruire della scorta fu per Livatino un atto di fede, una scelta dettata dal fatalismo o un atto di amore per chi avrebbe dovuto difenderne l’incolumità?
Ci fu più di una ragione a sconsigliarlo. Livatino sapeva bene di vivere in un contesto ambientale – la cittadina di Canicattì – particolarmente difficile e temeva che l’esibizione di una scorta potesse essere percepita come una sfida dalle associazioni mafiose insediate in quel territorio. Non voleva inoltre recare turbamento ai propri genitori, evidenziando la situazione di oggettivo pericolo in cui versava. Era poi convinto che di fronte alla risoluzione di un’organizzazione criminale potente ci fossero ben scarse possibilità di difesa. La mafia aveva già dimostrato, in occasione dell’omicidio di Rocco Chinnici, di non indietreggiare davanti ad opzioni stragiste.
Voi colleghi aveste mai la percezione del rapporto che legava Livatino ai suoi familiari e quanto secondo te il contesto familiare e ambientale nel quale continuò a vivere fino ai suoi ultimi giorni Livatino a Canicattì incise sulla sua attività professionale?
Lo speciale legame che univa Rosario Livatino, figlio unico, ai genitori era evidente, come evidente era che proprio in ragione di questo legame familiare Rosario continuava a rimanere annodato ad un contesto ambientale dal quale si sarebbe altrimenti allontanato senza particolari rimpianti. Ed è in questo contesto che si radicano i moventi della sua uccisione.
Il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti di Livatino. Cosa spinse Livatino a quella scelta. Aveste mai modo di prefigurare possibili ritorsioni delle organizzazioni criminali locali rispetto a quella scelta?
Livatino passò alle funzioni giudicanti nell’agosto del 1989, alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. La riforma aveva tra i suoi obiettivi primari quello della “degiurisdizionalizzazione” del pubblico ministero, di cui veniva fortemente accentuato nel processo il ruolo di parte, trasformandolo da organo investito di poteri di acquisizione probatoria in organo di ricerca delle fonti della prova. Livatino era un pubblico ministero con una solida cultura della giurisdizione e preferì transitare nei ruoli della giudicante. Il passaggio, portato a compimento nella stessa sede giudiziaria, lo esponeva ulteriormente sotto il profilo della sua sicurezza personale; ne era consapevole e gli fu anche evidenziato, ma non ritenne di tornare sui propri passi.
Livatino persona, Livatino giurista e Livatino sostituto procuratore e poi Giudice di Tribunale. Qual è secondo te il tratto comune e aggregante che Livatino mostrava in ciascuna di quelle dimensioni?
La religiosità alla quale ispirava la sua condotta. Non mi riferisco a quella che derivava dalla sua fede cattolica, parlo di religione laica, la religione del dovere, che improntava in egual misura il suo essere magistrato e uomo. Richiamerò le parole da lui pronunciate in un suo intervento, dal titolo Il giudice nella società che cambia: “ … è da rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole …”. Ecco: era difficile poter distinguere, nella sostanza e nella forma, il Livatino magistrato dal Livatino uomo e, per questa ragione, è facile comprendere perché sia naturale rivolgersi alla figura di Rosario Livatino con grande rispetto e, al pensiero che la sua così gravosa, austera vita fu brutalmente stroncata quando non aveva ancora 38 anni, con pena altrettanto grande, soprattutto da parte di chi lo ha personalmente conosciuto.
Il rapporto di Livatino con il foro. Cosa ci puoi dire?
La cortese premura con cui Livatino trattava gli avvocati era massima, pari alla distanza che interponeva tra sé e loro. Aveva ben presente che magistrati e avvocati fanno mestieri diversi. La sua rigidità nel rispetto delle regole – anche di quelle formali, che rappresentano la necessaria premessa di quelle sostanziali – era non di rado causa di malcontento. I malumori crebbero quando passò alle funzioni giudicanti. Ricordo qualche memoria e qualche gravame avverso provvedimenti da lui redatti dai toni insolitamente aspri.
Quella mattina del 21 settembre 1990 ero nello studio di mio padre in Via De Gasperi e sentii un anomalo numero di sirene di auto delle forze dell’ordine imboccare la Via Nuova Favara, una dopo l’altra. Poi il silenzio… Rabbia, dolore, rassegnazione. Cosa prevalse nei giorni successivi?
La prima reazione fu di sbalordimento. Ho già detto che simili evenienze erano messe in conto, ma una cosa è immaginare il dramma, altra è vederlo concretamente rappresentato davanti ai propri occhi. Poi subentrarono il dolore e la rabbia, non la rassegnazione. Lo sconvolgimento delle nostre esistenze che quella morte produsse non poteva lasciare spazio alla rassegnazione. Mi riferisco ovviamente a quanti di noi avevano condiviso con Livatino un certo modo di intendere l’impegno professionale.
E il Tribunale di Agrigento come reagì, gli uomini di legge, la società civile?
Sul momento, com’è ovvio, il sentimento prevalente fu quello della commozione, anche tra coloro – avvocati, altri liberi professionisti, pubblici amministratori, colleghi – che nei suoi confronti non avevano nutrito particolare simpatia. La commozione è un sentimento facile. Poi ciascuno riprese inevitabilmente la propria strada. Ricordo una assemblea della locale sottosezione della ANM, svoltasi appena qualche giorno dopo l’omicidio, nel corso della quale, in un clima assai teso, archiviata la commozione, emersero opinioni tutt’altro che unanimi sulle posizioni da assumere, come magistratura associata, a fronte di quanto accaduto, corrispondenti alle “diverse sensibilità”, chiamiamole così, con le quali ci si rapportava al modello di magistrato che Livatino rappresentava e al tipo di attività giudiziaria che lui ed alcuni altri giovani magistrati – e tra questi anch’io – avevano sviluppato nel decennio precedente. E ricordo pure che nel dicembre di quell’anno 1990, nella cappella maggiore del seminario vescovile di Agrigento fu celebrata una solenne messa in suffragio di Rosario. Naturalmente i magistrati agrigentini furono tutti presenti. La cerimonia era aperta anche agli avvocati, ma soltanto tre di loro vi parteciparono. Uno dei tre era tuo padre.
Sono andato a ritrovare due tue interviste, una al settimanale Il Sabato, insieme al collega Fabio Salamone, riportata in stralcio in un periodico agrigentino “La Tribuna” ed un’altra di poco successiva, quando eri in procinto di lasciare Agrigento, che ricordo assai bene. In quest’ultima campeggia una foto con il Presidente della Repubblica Cossiga, il Ministro Vassalli, Martelli e Craxi dietro la bara di Livatino. Il senso complessivo che ne usciva mi pare essere quello di un pessimismo marcato per la risposta che lo Stato diede all’uccisione di Livatino. A distanza di tanto tempo come ti sentiresti di spiegare quel periodo a chi non visse quel periodo? E oggi quelle criticità che avevi manifestato ti sentiresti di ribadirle nell’attuale contesto storico-sociale?
Si, ricordo che in quel periodo alla domanda di un cronista ebbi a rispondere che noi magistrati impegnati sul fronte antimafia avevamo la sensazione di essere non funzionari dello Stato, ma liberi professionisti; e se non rappresentavamo lo Stato, se facevamo quel che facevamo per una nostra scelta individuale, era normale che subissimo le conseguenze di un impegno che nessuno ci chiedeva. Era una sensazione fondata. E infatti la scia di sangue, come sappiamo, non si sarebbe fermata. Ci sarebbero state ancora le stragi di Capaci e Via D’Amelio, le stragi sul continente.
Poi la risposta dello Stato prese corpo. Fu approntato un efficace strumentario normativo, furono istituite le direzioni distrettuali antimafia, furono messe in campo adeguate risorse finanziarie e personali. In parte fu effetto dell’ondata emotiva che aveva attraversato il Paese all’indomani della strage di Via D’Amelio; ma fondamentalmente l’attività di contrasto si sviluppò con pienezza in quanto erano maturate le condizioni politiche, interne ed internazionali, perché del fardello rappresentato da certe contiguità con le associazioni mafiose, con cosa nostra in particolare, le Istituzioni – o, comunque, determinati centri di potere – si liberassero.
Oggi la situazione è quindi ben diversa da quella di un trentennio fa, anche se è innegabile che la nebbia che ancora avvolge in parte gli avvenimenti che nell’arco di tre lustri, tra il 1979 e il 1993, sconvolsero la vita del Paese pesa su noi tutti. Dell’eredità di quel periodo non sarà possibile liberarsi fino a quando non sarà fatta piena luce sulle circostanze, sui moventi, sulle complicità di tanti delitti eccellenti.
Nei suoi due scritti lasciati a perenne memoria della sua persona, Il giudice nella società che cambia, che tu hai già citato, e Fede e diritto, Livatino traccia le linee portanti dell’essere magistrato di ogni tempo. Alla luce dell’esperienza che hai vissuto accanto a lui credi che l’Istituzione Magistratura abbia offerto nei territori ad alta densità mafiosa una risposta adeguata alle aspettative della società?
Credo che, con riferimento al profilo di cui parli, nell’attività della Magistratura debbano essere distinte due fasi, corrispondenti alle due fasi dell’azione dello Stato che ho in precedenza indicato. La risposta fu, non dico corale, ma diffusa solo nella seconda fase, quando cioè fu chiara la volontà dei pubblici poteri di sgominare le associazioni mafiose, cosa nostra soprattutto, che, per ragioni, ripeto, ancora largamente oscure, aveva scelto la strada dello scontro diretto con le Istituzioni. Insomma, molti magistrati avvertirono che il vento cambiava e furono lesti a conformarsi. Ho visto magistrati passare in pochi anni dalla negazione dell’esistenza della mafia, alla pubblica celebrazione dei secoli di carcere inflitti ai mafiosi.
Quanto alle linee portanti delle sollecitazioni di natura etico-professionale che compaiono a più riprese nel pensiero di Livatino in ordine alla figura del Magistrato, quali valutazioni ti senti di fare nell’attuale contesto storico?
Partirò dalla citazione di alcuni passi dell’intervento già richiamato, Il giudice nella società che cambia. Scriveva Livatino nell’aprile del 1984: “L'indipendenza del giudice … non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”. Ed ancora: “ … il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. “Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha.”.
Io sono convinto che il modello di magistrato scolpito da Livatino trentasei anni or sono, proprio perché “senza tempo”, sia ancora valido. Della immutabilità del profilo etico del magistrato ha parlato Alfonso Amatucci in un contributo recentemente pubblicato su questa rivista, affermando che “il privilegio di aver avuto la ventura di esercitare il più bel mestiere del mondo, [che conferisce] il potere di incidere fortemente sulle vite degli altri, non può non essere bilanciato da un assoluto rigore morale, da un profondo impegno allo studio e al continuo perfezionamento, dal costante sforzo di capire con autentica umiltà quali siano le speranze, i timori, le aspettative che si nascondono dietro ogni carta processuale e quali le loro ragioni. Altro che adempiere il munus publicum con disciplina ed onore! Il dovere del magistrato è enormemente superiore, ieri come oggi”.
E sono convinto che – sebbene il mutamento degli assetti politici e sociali e l’evoluzione dei costumi abbiano determinato un sensibile, diffuso affievolimento del senso dello Stato e della coscienza civica – siano tanti i magistrati che a quel modello corrispondono o che a quel modello con sforzo incessante si sforzano di aderire.
E’ però indubbio che la maggioranza dei cittadini considera oggi i magistrati ben lontani dal modello di cui discorriamo. Il livello di credibilità dei magistrati, nonostante la grande visibilità di cui l’ordine giudiziario ha goduto per effetto delle ampie deleghe di poteri ad esso conferite nel tempo dal ceto politico, è progressivamente scemato, a causa di ripetuti episodi di infedeltà ai doveri del loro stato, talora gravi o gravissimi, di cui molti, troppi magistrati si sono resi protagonisti, ed è letteralmente precipitato allorché sono state rese pubbliche le vicende emerse dalla nota indagine condotta recentemente dalla Procura della Repubblica di Perugia.
Vicende che non possono essere riassunte meglio di come ha fatto il Presidente della Repubblica, quando le ha qualificate come un “coacervo [“sconcertante e inaccettabile”] di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato … in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura”, rimarcando che “quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza [non soltanto del CSM] ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario”; parole che ho richiamato nell’intervento che ho svolto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 nel distretto di Catania, dedicato in larga parte, come peraltro l’intervento dell’anno precedente, alla questione etica che l’esercizio della funzione giudiziaria propone.
Sul tema il Presidente della Repubblica è ritornato il 18 giugno di quest’anno, svolgendo il suo intervento in occasione della cerimonia commemorativa del quarantesimo anniversario dell’uccisione dei magistrati Giacumbi, Minervini, Galli, Amato e Costa e del trentennale dell’uccisione di Rosario Livatino.
In quell’intervento il Presidente ha sottolineato l’amaro contrasto tra l’alto livello morale delle figure commemorate e il contesto documentato dall’indagine della Procura della Repubblica di Perugia, rimarcando come la pubblicazione di atti ulteriori rispetto a quelli diffusi l’anno precedente sembri presentare l’immagine di una Magistratura china su se stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi, fornendo la percezione della vastità del fenomeno e lasciando intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della Magistratura.
Nella medesima occasione il Capo dello Stato ha messo in risalto il ruolo decisivo per la formazione etica e professionale dei magistrati che può e deve assumere la Scuola Superiore, auspicando che essa dedichi sessioni di studio apposite ai doveri di correttezza e trasparenza nell’esercizio delle funzioni giudiziarie; affinché siano tradotti nei comportamenti a cui è tenuto ciascun magistrato, non soltanto nello svolgimento dell’attività giudiziaria ma anche nel servizio reso negli organi di governo autonomo.
E’ però evidente che una correzione di rotta nei comportamenti che ciascuno deve tenere nello svolgimento dell’attività giudiziaria, come nel servizio reso negli organi di governo autonomo, non può essere affidata esclusivamente al lento lavoro di propagazione dei principi etici tra i magistrati ad opera della Scuola, né alla concreta realizzazione dei propositi di rifondazione morale che sono stati enunciati (ma non è la prima volta che questo accade) da tanti esponenti dei gruppi associativi. Sono necessarie riforme, anche radicali, che rendano più incisivo il meccanismo dei controlli e quindi della responsabilità dei magistrati, che deve necessariamente corrispondere e controbilanciare l’ampiezza dei poteri ad essi attribuiti e che riconducano entro i confini della conveniente ed insopprimibile discrezionalità quelle pratiche di esercizio del governo autonomo che frequentemente sono state invece ispirate all’arbitrio.
Essenziale è che ogni modifica normativa si articoli lungo il tracciato delineato della Costituzione, poiché, come il Presidente della Repubblica ha costantemente ricordato, indipendenza e autonomia dell’Ordine Giudiziario sono principi fondamentali, irrinunziabili per la Repubblica.
Il sacrificio di Livatino quanto è servito alla nostra società e quanto quella società si è meritata una figura di uomo e di magistrato come la sua?
Non credo che i tanti magistrati che hanno sacrificato la vita nell’adempimento del dovere si siano chiesti se la società meritasse il loro sacrificio. Hanno agito sospinti da un imperativo morale, sentendosi parte di una comunità, convinti che la società questo da loro si aspettasse. Comunque ritengo che quel sacrificio sia servito. E’ stato scritto: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Il nostro ne ha bisogno e Livatino sacrificandosi è entrato nella galleria degli eroi che i popoli come il nostro amano, perché servono a purificare la loro coscienza collettiva.
Hai mai avuto qualche rimorso inconfessato per quel che accadde il 21 settembre 1990?
In situazioni come quella che abbiamo rievocato chi sopravvive si interroga sempre sulle proprie eventuali colpe, ma dubito che la progressione di eventi che si sviluppò fino al suo fatale epilogo potesse essere fermata da me, come da qualcuno degli altri colleghi che a Rosario furono più vicini.
Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive. [1]
di Pasquale Serrao d'Aquino
Sommario Parte Seconda: 6. Le valutazioni di professionalità dei magistrati con funzioni - 6.1. Il procedimento - 6.2. Le fonti di conoscenza - 6.2.1. Fonti di conoscenza atipiche, integrazione istruttoria e partecipazione procedimentale dell’interessato - 6.2.2. Iniziativa autonoma dei singoli consiglieri - 6.2.3. Assunzione d’ufficio da parte del Consiglio giudiziario di informazioni - 6.2.4. Facoltà di audizione del magistrato - 6.3. L’autorelazione - 6.4. L’acquisizione dei provvedimenti a campione - 6.5. Prerequisiti, parametri e indicatori - 6.6. L’esito della valutazione e i possibili sfasamenti temporali - 6.6.1. Un caso di valutazione negativa espressa dal Consiglio giudiziario - 6.7. Il rapporto tra valutazione di professionalità e giudizio disciplinare - 6.7.1. Sospensione dal servizio - 6.8. I problemi del ritardo nella conclusione del procedimento di valutazione di professionalità - 7. Le modalità espressive del giudizio sulla professionalità del magistrato - 8. Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni di professionalità - 9. Conclusioni.
6. Le valutazioni di professionalità dei magistrati con funzioni
Il D.L.vo n. 160/2006, come modificato dagli artt. 1 e 2 della L. n. 111/2007, prevede che i magistrati siano sottoposti a valutazioni di professionalità con cadenza quadriennale, a decorrere dalla data della nomina e fino al superamento della settima di tali valutazioni.
Il sistema delle valutazioni e il tipo di giudizio sono analoghi a quelli ipotizzati dal Ministro della Giustizia Flick il 27 novembre 1996 (dis. di legge n. 1799), sebbene lo stesso prevedesse che per alcune valutazioni la competenza spettasse in esclusiva al Consiglio superiore (la III, la V e la VII), mentre per le altre poteva essere svolta dal Consiglio giudiziario dietro delega del Consiglio, al quale però il primo avrebbe dovuto comunque rimettere la decisione definitiva in caso di esito negativo della valutazione.
I criteri per operare la valutazione periodica di professionalità già allora erano indicati in quelli di capacità, laboriosità, diligenza e impegno (oltre che attitudine alla dirigenza), così come anche secondo tale disegno il giudizio avrebbe potuto concludersi con un giudizio a) positivo, se ritenuti sufficienti tutti i parametri presi in considerazione; b) non positivo, in casi di carenza di alcuni parametri; c) negativo, per l’ipotesi di grave carenza in uno o più requisiti.
6.1. Il procedimento
Il procedimento di valutazione si snoda attraverso le seguenti tappe fondamentali: parte con il rapporto informativo del Capo dell’ufficio; prosegue con il parere del Consiglio giudiziario competente per territorio ovvero del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione per i magistrati con funzioni di legittimità, per poi essere decisa, su proposta della IV^ Commissione, da parte dell’Assemblea Plenaria del CSM.
La valutazione di professionalità è formulata dal Consiglio sulla scorta del parere motivato del Consiglio giudiziario, che riceve il rapporto del capo dell’ufficio e le eventuali segnalazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati, e può anche “assumere informazioni su fatti specifici segnalati da suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell’ordine degli avvocati” nonché “può procedere alla audizione del magistrato”.[2]
Il magistrato, entro dieci giorni dalla notifica del parere del consiglio giudiziario, può far pervenire al Consiglio superiore della magistratura le proprie osservazioni e chiedere di essere ascoltato personalmente.
Il Consiglio procede alla valutazione di professionalità, oltre che sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario e della relativa documentazione, anche sulla base dei risultati delle ispezioni ordinarie e può anche assumere ulteriori elementi di conoscenza.
Nell’espressione del suo giudizio di professionalità, il C.S.M. non è vincolato dal parere del Consiglio giudiziario, se ne può dunque discostare, ma deve, comunque, dare atto nella motivazione della valutazione degli elementi istruttori e del percorso argomentativo posto a base delle proprie conclusioni.
La delibera consiliare è trasmessa al Ministro della Giustizia, che adotta il relativo decreto, ed è inserita nel fascicolo personale del magistrato.
6.2. Le fonti di conoscenza
La normativa primaria riconosce al Consiglio giudiziario una posizione di centralità, in quanto pur svolgendo una mera funzione consultiva, è titolare di ampi poteri istruttori.
L’ istruttoria si connota, infatti, per una fase di istruttoria cd. necessaria e una meramente eventuale.
La prima si articola nelle acquisizioni degli elementi conoscitivi disciplinati dal comma 4 dell’art. 11. La seconda, invece, è subordinata all’esercizio di una specifica facoltà di integrazione del materiale conoscitivo valutabile, prevista dall’art. 1 del d.lgs. 160/2006 e compiutamente disciplinata dalla Circolare.
Per esprimere il giudizio di professionalità, l’Organo di governo autonomo, nonché il Consiglio giudiziario, pur nella fondamentale atipicità delle fonti di conoscenza, a norma del comma 4 dell’art. 11 del d.lgs. n. 160/2006, possono formulare il proprio giudizio valutativo sulla base del seguente compendio istruttorio:
- dai rapporti dei dirigenti degli uffici;
- dal rapporto informativo annuale del capo dell’ufficio relativamente all’andamento generale
dell’ufficio;
- dalle segnalazioni pervenute al Consiglio giudiziario o ai dirigenti degli uffici dal Consiglio
dell’ordine degli avvocati competente per territorio;
- dalle informazioni inserite nel fascicolo personale del magistrato;
- dai verbali di audizione del magistrato;
- dai verbali di seduta del Consiglio giudiziario;
- da eventuali atti che si trovino nella fase pubblica di uno dei processi trattati dal magistrato in valutazione, acquisiti su specifica richiesta di un componente del Consiglio giudiziario;
- dalla relazione del magistrato interessato illustrativa del lavoro svolto.
Accanto a tali fonti, la Relazione illustrativa alla Circolare indica che, per l’assenza di un principio di tipicità delle fonti e dei documenti utilizzabili, e al fine di garantire la massima completezza della valutazione, si è stabilito di consentire “l’utilizzazione di ogni atto e documento che fornisca dati obiettivi e rilevanti relativi all’attività professionale e ai comportamenti incidenti sulla professionalità del magistrato”.
Per evitare ogni possibile equivoco, allo scopo di tutelare indiscutibili esigenze di garanzia dello scrutinato e di obiettività della valutazione, si è anche esplicitato l’assoluto divieto di impiegare fonti anonime e voci correnti.
È importante la previsione di un momento partecipativo del magistrato. I dirigenti trasmettono il rapporto e gli atti allegati al Consiglio giudiziario e comunicano contestualmente il rapporto al magistrato interessato, che può far pervenire al Consiglio giudiziario eventuali osservazioni, nei sette giorni successivi alla comunicazione del rapporto (Capo XIII Circolare).
6.2.1. Fonti di conoscenza atipiche, integrazione istruttoria e partecipazione procedimentale dell’interessato
Accanto a tali fonti tipiche è previsto, pertanto, anche il ricorso ad elementi di valutazione esterna rispetto all’organizzazione giudiziaria.
Ad esempio, quanto alla laboriosità, il rispetto di tempi di trattazione dei procedimenti e dei processi, accertato, viene accertato, non solo attraverso i rapporti dei dirigenti degli uffici, ma anche mediante “le segnalazioni eventualmente pervenute dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati competente per territorio, le informazioni esistenti presso la Prima Commissione e presso la Segreteria della Sezione Disciplinare del Consiglio superiore, quelle inserite nel fascicolo personale del magistrato, nonché mediante la verifica della insussistenza di eventuali rilievi di natura contabile o di giudizi di responsabilità civile” (Cap. V Circolare).
Più nello specifico, sono individuabili differenti fattispecie di integrazione istruttoria, che si distinguono per presupposti, contenuti e procedimento.
La funzione istruttoria del Consiglio giudiziario, che si accompagna a quella consultiva per il CSM, titolare del potere decisorio, implica che il flusso informativo non sia esclusivamente dall’organo di autogoverno locale a quello centrale, ma che nell’istruttoria cd. eventuale esso possa anche essere di segno opposto, dal momento che il primo “Alla scadenza del periodo di valutazione” (e, quindi, NB non in ogni momento) il Consiglio acquisisce e valuta le informazioni disponibili presso il Consiglio superiore della magistratura e il Ministero della giustizia anche per quanto attiene agli eventuali rilievi di natura contabile e disciplinare (art. 11, comma 4, lett. a).
Può comprendersi come sia necessario trovare un punto di equilibrio tra lo spazio che il Consiglio è tenuto a riconoscere all’organo locale di espletamento dell’istruttoria e la necessità di rispettare il segreto istruttorio e la riservatezza del magistrato che, naturalmente, subisce una forte limitazione con la conoscenza acquisita da tutti i componenti dell’organo locale.
6.2.2. Iniziativa autonoma dei singoli consiglieri
La prima ipotesi è disciplinata dalla lettera a) del comma 4 dell’art. 11 del d.lgs. 160/2006, laddove si prevede l’autonoma possibilità per ciascun membro del consiglio giudiziario di accedere agli atti che si trovino nella fase pubblica del processo. Ciò comporta che deve essere garantito l’accesso anche agli atti dell’eventuale processo penale cui sia sottoposto il magistrato in valutazione. Tali informazioni sono infatti nella disponibilità del CSM, cui l’Autorità procedente è tenuta a riferire, nel caso in cui penda a carico di un magistrato un procedimento penale.
L’unico dato chiaro è quello del potere di ciascun componente del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti del processo che si trova in fase pubblica (deve desumersi, del processo riguardante il magistrato, oltre che, naturalmente dei processi trattati DAL magistrato), per poterne valutare l’utilizzazione.[3] Norme non chiarissime perché, ovviamente, è necessaria una delibazione di non manifesta irrilevanza che eviti una possibile strumentalizzazione di tale potere.
Si è già affermato che l’esercizio di questa facoltà riconosciuta al singolo componente del CG non implica l’automatica utilizzabilità dell’atto processuale ai fini del giudizio di professionalità, essendo necessario uno specifico intervento deliberativo del Collegio in ordine all’utilizzabilità di tali elementi di conoscenza. Inoltre, si è evidenziato che l’attività istruttoria disposta dal Consiglio giudiziario non può in ogni caso comportare alcuna sovrapposizione con l’accertamento – eventualmente in atto – del giudice penale o disciplinare sulla condotta oggetto di verifica da parte del Consiglio medesimo[4].
6.2.3. Assunzione d’ufficio da parte del Consiglio giudiziario di informazioni
La seconda ipotesi è quella di un autonomo potere istruttorio del CG.
Indipendentemente dalla segnalazione dei dirigenti o di quelle allegate la loro rapporto informativo, laddove lo ritenga necessario, il Consiglio giudiziario può assumere analoghe informazioni su fatti specifici, segnalati dai suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell’ordine degli avvocati, incidenti sulla professionalità del magistrato[5].
Il capo XV della Circolare prevede l’instaurazione di un sub procedimento in quanto garantisce, da un lato, il diritto all’informazione, all’accesso e alla copia degli atti del magistrato in valutazione (“All’esito dell’istruttoria, il Consiglio giudiziario ne dà tempestiva comunicazione all’interessato. L’interessato ha diritto di prendere visione ed estrarre copia degli atti a disposizione del Consiglio giudiziario”).
6.2.4. Facoltà di audizione del magistrato
La terza forma di integrazione istruttoria prevista, in termini generali, dal Capo XV della Circolare riguarda la facoltà di procedere all’audizione del magistrato, qualora ritenuto necessario. Il magistrato ha diritto in tal caso di presentare atti o memorie scritte fino a sette giorni prima dell’audizione e di farsi assistere da altro magistrato durante l’audizione. Inoltre se è lo stesso magistrato a richiederlo, l’audizione deve essere obbligatoriamente disposta.
Emerge dunque con chiarezza come il Consiglio Giudiziario sia titolare di poteri istruttori che, pur con le connotazioni enunciate, sono sostanzialmente liberi: in particolare proprio l’ampia previsione della facoltà di assunzione di informazioni, nei termini sopra delineati, non essendo accompagnata dalla specificazione delle modalità e degli strumenti attivabili, consente di radicare in capo all’organo decentrato il potere di decisione in ordine al mezzo istruttorio azionabile nel caso concreto.[6] A fare da necessario contrappeso a tale potere, pertanto, assicurando il rispetto delle garanzie dell’interessato vi sono le sopra indicate facoltà partecipative dell’interessato.
Quanto al rapporto tra le fonti e i parametri di giudizio occorre indicate che sussiste una relazione tra le prime e i secondi nel senso che le fonti di conoscenza sono correlate alla rilevazione dei vari indicatori dei parametri che si connota anche per un momento partecipativo del magistrato, che redigendo la c.d. autorelazione può illustrare adeguatamente tutti gli elementi rilevanti ai fini della propria valutazione.
6.3. L’autorelazione
L’autorelazione del magistrato occupa, infatti, un ruolo centrale nelle fonti di conoscenza per la valutazione di professionalità. Essa è tesa ad illustrare le caratteristiche del profilo professionale del magistrato sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, con attenzione a tutte le competenze ed esperienze professionali acquisite, anche antecedenti all’ingresso in magistratura.
Sebbene il procedimento di valutazione sia ufficioso, a partire dal 2012 (introducendo nella Circolare il capo XIII bis - delibera plenaria del 25 luglio 2012), si è espressamente indicato che costituisce onere del magistrato in valutazione quello di trasmettere la relazione al dirigente dell’ufficio, unitamente alla copia degli atti e dei provvedimenti volontariamente prodotti, nel periodo compreso tra il 45 e il 30 giorno anteriore alla scadenza del quadriennio in valutazione, così da consentire al Capo Ufficio di formulare il proprio rapporto.[7]
Mentre il rapporto del dirigente e il parere del Consiglio giudiziario vengono redatti seguendo lo schema di un modulo predefinito, come evidenziato nella Relazione esplicativa della modifica, per redigere l’autorelazione non è prevista la compilazione di un modulo predefinito, ma si è solo stabilito che essa deve tendenzialmente strutturarsi considerando l’ordine e l’articolazione dei parametri di valutazione indicati nella parte I^ della Circolare, nella prospettiva di ottenere informazioni accurate e coerenti ai canoni di valutazione vigenti ma, al tempo stesso, non “ingessate” rispetto alla ricchezza e varietà possibile delle esperienze professionali presenti in magistratura.[8]
Il contenuto può comporsi di parte descrittiva: informazioni sulla carriera, su sedi ed uffici in cui si è prestato il servizio, sulle funzioni esercitate, se specializzate, generiche, promiscue, se il magistrato si è prestato ad applicazioni e supplenze, a quali particolari settori di attività e gruppi di lavoro ha partecipato; inoltre, esperienze extraprofessionali qualificanti, esperienze universitarie, attività scientifica o di formazione.
Ad essa si può opportunamente accompagnare una parte interpretativa delle informazioni confluite nel procedimento, che rende possibile una lettura ragionata dei dati catalogati sotto i 4 parametri (capacità, laboriosità, impegno e diligenza) in relazione alla particolare situazione lavorativa del magistrato.
Ad esempio, nell’indicare lo svolgimento di funzioni in una determinata sezione civile, indicandone la specializzazione, si possono evidenziare i dati delle statistiche comparate, il rispetto degli obiettivi fissati nel programma di gestione ex art. 37 (o le ragioni per le quali ci si è discostati dagli stessi), l’introduzione o adesione a prassi virtuose, peculiari vicende giuridiche o casi che si sono affrontati, il contesto ambientale e lavorativo nel quale si è agito, gli eventuali incarichi che sono stati svolti su delega del presidente della sezione o del presidente del tribunale, etc.
Anche in relazione delle attività extragiudiziarie è opportuna, in luogo di una mera elencazione, una loro esposizione ragionata: le attività formative per la Scuola della magistratura e quelle svolte per istituzioni universitarie, scientifiche, la loro aggregazioni per materie o settori (es. internazionale, linguistico, specializzazione scientifica, etc.
6.4. Il rapporto del dirigente.
Appare scontato che il rapporto del dirigente occupi ordinariamente una posizione centrale tra le fonti di conoscenza.[9]
S'è sottolineato che tale oggettiva valenza privilegiata determina il rischio di <<spinte gerarchizzanti, ma anche di impercettibili impulsi alla reviviscenza di moduli argomentativi ispirati alla soggettività e al conformismo, esattamente come nel passato. Rischio che, vale la pena ripetere, si annida già in un sistema che non ha potuto fare a meno di continuare a fondarsi su meccanismi di sintesi valutativa ove di misurabile c’è ben poco. >>[10]
Un principio di buona amministrazione, trasparenza e non discriminazione ha indotto a tipizzare il contenuto del rapporto che i dirigenti degli uffici devono trasmettere ai Consigli giudiziari entro il sessantesimo giorno successivo alla scadenza del quadriennio in valutazione (o, comunque, dopo un anno a far data da un giudizio non positivo o decorsi due anni dal giudizio negativo, un rapporto sulla professionalità del magistrato) da redigersi non solo “secondo i parametri della presente circolare”, ma anche in conformità al modello contenuto nella circolare, specificandosi, con enfasi, “che costituisce parte integrante della circolare stessa”.[11]
In un momento successivo si è aggiunta la previsione per la quale esso deve contenere anche “l’indicazione di situazioni rappresentate da terzi, di cui i dirigenti degli uffici abbiano tenuto conto, trasmesse ai titolari dell’azione disciplinare e sempre che si riferiscano a fatti specifici incidenti sulla professionalità del magistrato, ivi compresi situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”.
Si tratta di un aspetto ovviamente delicato, in quanto in questo modo il sistema delle fonti manifesta un’apertura verso la collettività (non essendo terzi solo il Consiglio dell’Ordine, ma anche singoli avvocati, cittadini, consulenti, pubbliche amministrazioni, etc.) e, per tale ragione espone il magistrato a possibili ritorsioni o condizionamenti nell’esercizio delle sue funzioni.
Per evitare denunce o segnalazioni strumentali, per circoscriverne la rilevanza delle stesse e, al tempo stesso, responsabilizzare i dirigenti, si precisa che: a) devono riguardare la professionalità del magistrato; solo irrilevanti, pertanto, eventuali lamentele sul contenuto di decisioni giudiziarie, ove non affette da errori macroscopici o da mancanza di diligenza nella redazione dell’atto; b) rilevano allorché indicano situazioni “concrete ed oggettive”; c) devono essere state segnalate ai titolari del’azione disciplinare (il che, ovviamente, presuppone l’obbligo della segnalazione).
6.4. L’acquisizione dei provvedimenti a campione
L’acquisizione dei provvedimenti a campione, se la valutazione che ne segue venisse effettuata con accuratezza, potrebbe costituire uno dei pilastri della valutazione di professionalità.
Mentre, infatti, nei vecchi concorsi per titoli ed esami, anteriori alla Legge Braganze, il magistrato produceva la “bella sentenza” che serviva per superare il concorso, la campionatura, invece, consente di vedere come il magistrato lavora nella quotidianità e, quindi, le modalità con le quali assicura il servizio giustizia.
L’accompagnare tale estrazione con i provvedimenti selezionati dal magistrato, invece, consente di fornire ulteriori elementi di valutazione che possono testimoniare la qualità del lavoro che non emerge dal carotaggio effettuato in modo casuale.
Il pag. 2.7 della circolare ribadisca doverosamente che «gli orientamenti politici, ideologici o religiosi del magistrato non possono costituire elementi rilevanti ai fini della valutazione di professionalità» e che «la valutazione di professionalità… non può riguardare l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove».
Con le modifiche introdotte dal Consiglio il 25 luglio 2012 il CSM ha disciplinato la cadenza del sorteggio (annuale, con annualità riferita al periodo in valutazione); l’individuazione, nel dirigente dell’ufficio, del soggetto titolare del compito di procedere al prelievo annuale secondo le indicazioni di circolare e del CG; la creazione di un archivio informativo ai fini della custodia dei provvedimenti e dei verbali in vista della valutazione di professionalità del magistrato; la riduzione del numero dei verbali da acquisire a campione.
Più in particolare, il CSM ha individuato, i criteri oggettivi e predeterminati di estrazione, la cadenza temporale annuale per trimestre sorteggiato; la percentuale e numero di provvedimenti e verbali da acquisire per ciascuna funzione magistratuale[12]
Tali provvedimenti non vengano ad essere sindacati sotto il profilo del merito ma, per l’insindacabilità dell’attività di interpretazione delle norme e del fatto, ci si ferma ad una disamina estrinseca dei provvedimenti. Per tale ragione, si è osservato è <<difficile ipotizzare, nella prassi applicativa, altro giudizio che quello di aderenza del provvedimento a uno standard puramente formale, ferma restando la possibilità di valutare la ricorrenza di anomalie nel rapporto tra pronunce del magistrato ed esiti dei successivi gradi>>, con la conseguenza che la <<qualità giuridica del lavoro del magistrato sembra restare sullo sfondo, quasi fosse un dato imperscrutabile, e ciò a rischio di approfondire il solco che talvolta corre tra le risultanze formali dei procedimenti di valutazione e la percezione concreta, quotidiana, ambientale, delle capacità professionali del magistrato>>.[13]
6.5. Prerequisiti, parametri e indicatori
Il giudizio di professionalità ha una articolazione complessa ed è basato su prerequisiti, sui parametri e indicatori dei parametri.
I prerequisiti sono quelle modalità di svolgimento della funzione giudiziaria che sono assolutamente indefettibili e senza le quali la valutazione non può essere positiva: indipendenza, imparzialità ed equilibrio. Al contrario, quando non emergano dati negativi, il parere è essere espresso con la formula “nulla da rilevare” (Capo II della Circolare).
Si intende per indipendenza, lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali senza condizionamenti, rapporti o vincoli che possano influenzare negativamente o limitare le modalità di esercizio della giurisdizione; per imparzialità, il corretto atteggiamento del magistrato nei confronti di tutti i soggetti processuali; per equilibrio, l’esercizio della funzione condotto con moderazione e senso della misura, libero da determinazioni di tipo ideologico, politico o religioso.
Per citare un esempio recente, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità della delibera contenente un giudizio negativo in relazione alla precondizione dell'equilibrio dell'interessata fondata su una valutazione globale della condotta tenuta dal magistrato il quale, tra l’altro, ritenuta carente a causa dall'episodio occorso in udienza allorché il magistrato in valutazione, presidente del collegio penale, nel leggere il dispositivo della sentenza nel procedimento aveva specificato che l'assoluzione dell'imputato era «intervenuta "a maggioranza"» dei componenti del collegio (CDS, Sez. V, sent. del 29 luglio 2019, n. 5309).
In alcune difese innanzi al giudice amministrativo è stato posto in dubbio che il CSM potesse fondare le proprie valutazioni sui prerequisiti, in quanto non espressamente previsti dall’art. 11 del d.lgs. 160/2006. 18.
Si tratta di una tesi infondata, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato che, pur non essendo gli stessi menzionati dall'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 160 del 2006: “Tra questi ultimi rientra incontestabilmente l'equilibrio, che insieme alle altre precondizioni dell'imparzialità e dell'indipendenza, parimenti individuate dal Consiglio superiore nel più volte citato capo III della parte I della circolare n. 20691 dell'8 ottobre 2007, sono consustanziali all'esercizio della funzione giurisdizionale”.[14]
I parametri, indicati dal legislatore nella capacità, laboriosità, diligenza e impegno, invece, sono valutati tenendo conto dei parametri normativi previsti dall’art. 11 de d.lgs. 160 del 2006 e dal Capo 4 della Circolare.[15]
Gli indicatori, infine sono gli elementi in base ai quali accertare che le funzioni si siano svolte in modo conforme ai parametri.
Una esame a volo d’uccello sul contenuto dei parametri fa comprendere come, ad esempio, la capacità non coincida affatto con la mera conoscenza del diritto e neppure con le modalità di redazione dei provvedimenti giudiziari: accanto a tale aspetti, ovviamente necessari dal possesso vi sono la conduzione delle udienze da parte di chi le l’idoneità a utilizzare, dirigere e controllare i collaboratori e gli ausiliari, l’attitudine a cooperare, a svolgere funzioni di direzione amministrativa, anche con riferimento ai compiti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del D.Lgs. n. 240/2006, la capacità di sinergia ed al coordinamento con soggetti istituzionali terzi aventi, il comprovato possesso di competenze interdisciplinari, di possibile rilievo nell'esercizio della funzione giurisdizionale.
Non tutti questi aspetti, per una problematicità collegata ai tempi del processo e alla parziale informatizzazione dei procedimenti giudiziari, sono di solito concretamente accertati.
Ad esempio il possesso di tecniche di argomentazione e di indagine non viene abitualmente valutato “anche in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento”, e ciò a prescindere dal tema delicato della riforma della sentenza quale elemento sintomatico di un errore giudiziario.
Gli altri parametri poi, sono rappresentativi di una professionalità a tutto tondo: la laboriosità si desume dal dato quantitativo, la diligenza da elementi come l’assiduità e dalla puntualità nella presenza in ufficio e dalla partecipazione alle riunioni; l’impegno dalla disponibilità alle sostituzioni di magistrati assenti, nonché dalla frequenza della partecipazione o nella disponibilità a partecipare ai corsi di aggiornamento organizzati dalla Scuola superiore della magistratura e dalla collaborazione alla soluzione dei problemi di tipo organizzativo e giuridico.
Il legislatore, pertanto, non ha in mente un modello di magistrato monade, che si reca in ufficio per celebrare le udienza tabellarmente previste e depositare i provvedimenti, ma un magistrato che è presente, è disponibile per gli altri colleghi, il personale amministrativo, partecipa alla gestione complessiva dell’ufficio.
Anche la stessa tecnica di redazione dei provvedimenti giudiziari, ferma restando l’assoluta libertà di decisione e di contenuto viene improntata ad un modello di giudice contemporaneo, privo di ogni referenzialità: essa va apprezzata, tenendo conto quali indicatori della “chiarezza, completezza espositiva e capacità di sintesi nella redazione dei provvedimenti giudiziari, in relazione ai presupposti di fatto e di diritto, nonché dalla loro congruità rispetto ai problemi processuali o investigativi affrontati”. In poche parole la sentenza trattato, il cui contenuto è in buona parte svincolato dalle emergenze processuali e dalle questioni che in concreto devono essere risolte non è una buona sentenza ai fini della valutazione di professionalità e non lo è neppure per il conseguimento delle funzioni di legittimità alle quali storicamente è legata.
Un capitolo molto spinoso nella storia consiliare e oggetto di lunghe dispute da parte della magistratura associata e poi quello degli standard medi di rendimento. L’art. 11, comma 2 del d.lgs. 160/2006 prevede che la laboriosità venga valutata “tenuto anche conto degli standard di rendimento individuati dal Consiglio superiore della magistratura, in relazione agli specifici settori di attività e alle specializzazioni”. L’attuale Circolare prevede che gli indici di laboriosità siano costituiti: oltre che dal numero di procedimenti e processi definiti per ciascun anno in relazione alle pendenze del ruolo, ai flussi in entrata degli affari, e alla complessità dei procedimenti assegnati e trattati, verificati sulla base delle statistiche e dei dati forniti dai capi degli uffici ed eventualmente dai magistrati in valutazione; dal rispetto degli standard medi di definizione dei procedimenti, determinati annualmente dal CSM Consiglio e comunicati, tramite una scheda individuale, ai magistrati in valutazione, ai capi degli uffici ed ai Consigli giudiziari. Tali standard sono individuati anche in base alla media statistica della produzione dei magistrati dell’ufficio di cui il magistrato sottoposto a valutazione fa parte ed assegnati a funzioni, sezioni, gruppi di lavoro omogenei a quest’ultimo. La necessità per i magistrato di adeguamento agli standard costituisce uno dei punti più dibattuti. Va ricordato, tuttavia, che sempre la Circolare prevede che vanno, comunque, valutati non in sé ma alla luce “della complessiva situazione organizzativa e strutturale degli uffici; dei flussi in entrata degli affari; della qualità degli affari trattati, determinata in ragione del numero delle parti o della complessità delle questioni giuridiche affrontate; dell’attività di collaborazione alla gestione dell’ufficio ed all’espletamento di attività istituzionali; dello svolgimento di incarichi giudiziari ed extragiudiziari di natura obbligatoria; di eventuali esoneri dal lavoro giudiziario; di eventuali assenze legittime dal lavoro diverse dal congedo ordinari” (Capo V della Circolare)
Nonostante il lungo lavoro svolto dalla Commissione incaricata anni addietro dal Consiglio, gli standard non sono operativi, sebbene essi siano stati oggetto di recente riformulazione, non ancora approvata dall’istituzione consiliare.
6.6. L’esito della valutazione e i possibili sfasamenti temporali
La valutazione va compiuta sulla scorta dei parametri su indicati si conclude con un giudizio:
a) "positivo", quando la valutazione è sufficiente in relazione a tali parametri. In tal caso, il magistrato consegue la valutazione di professionalità ed è sottoposto a successiva valutazione quadriennale;
b) "non positivo", quando emergono carenze in relazione a uno o più dei medesimi parametri. In tal caso il magistrato è soggetto ad ulteriore valutazione per il periodo di un anno;
c) "negativo", quando risultano gravi carenze in relazione a due o più dei parametri o il perdurare di carenze in uno o più dei parametri che hanno portato ad un precedente giudizio "non positivo". In tal caso il magistrato è soggetto ad ulteriore valutazione per un periodo di due anni. (art. 11, co. 9, D.Lgs. n. 160/2006, come modificato dall’art. 2, L. n. 111/2007).
Tale previsione deve essere integrata con quella contenuta nella Circolare n. P-20691 che specifica, sulla base degli indicatori previsti, quali siano le condizioni affinché il giudizio su ciascun parametro sia positivo, carente o gravemente carente, precisando che è “carente” qualora difetti significativamente, senza mancare del tutto, una delle condizioni previste per ciascun parametro, qualora manchi del tutto una delle condizioni o difettino significativamente almeno due delle condizioni. La Circolare, quindi, stabilisce che il giudizio di professionalità è “positivo” quando risultino positivi tutti i parametri di valutazione, mentre è “non positivo” quando uno o più parametri risultino carenti o anche uno solo dei parametri sia giudicato gravemente carente, siano comunque positivi i profili dell’indipendenza, dell’imparzialità e dell’equilibrio; infine, è “negativo” il giudizio di professionalità quando sia negativo il profilo dell’indipendenza, dell’imparzialità o dell’equilibrio, o risultino gravemente carenti due o più degli altri parametri, o ancora, dopo un giudizio di professionalità non positivo, perduri per il successivo anno la valutazione di “carente” in ordine al medesimo parametro.
Quanto agli effetti, il giudizio “non positivo” comporta che il Consiglio Superiore della Magistratura proceda ad una nuova valutazione di professionalità dopo il decorso di un anno dalla scadenza del periodo relativo alla precedente valutazione, acquisendo un nuovo parere dal Consiglio giudiziario; ulteriore effetto è quello per il quale il nuovo trattamento economico o l’aumento periodico di stipendio, ove correlati alla specifica valutazione di professionalità in esame, siano corrisposti solo a decorrere dalla scadenza dell’anno se il nuovo giudizio è positivo. Infine, nell’anno antecedente alla nuova valutazione non può essere autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari.
Più penalizzanti sono, invece, le conseguenze in caso di valutazione negativa: innanzitutto, la nuova valutazione di professionalità avviene dopo un biennio; inoltre, il Consiglio Superiore della Magistratura può disporre che il magistrato partecipi ad uno o più corsi di riqualificazione professionale, individuati in relazione alle specifiche carenze di professionalità riscontrate, può procedere ad assegnare il magistrato, previa sua audizione, ad una diversa funzione della medesima sede o escluderlo anche dalla possibilità di accedere ad incarichi direttivi, semidirettivi od a funzioni specifiche, e non può autorizzare lo svolgimento di incarichi extragiudiziari nel biennio antecedente alla nuova valutazione.
Circa l’incidenza sul trattamento economico, la valutazione negativa comporta la perdita dell’aumento periodico di stipendio per il biennio successivo e l’acquisizione del nuovo trattamento solo in caso di giudizio positivo e con decorrenza dalla scadenza del biennio (art. 11, comma 12).
In pratica, la valutazione non positiva o negativa determina un’alterazione definitiva della scansione temporale di tutte le valutazioni di professionalità giusta la decorrenza della valutazione dal completamento dell’ulteriore periodo di “prova” di uno o due anni[16].
Il secondo giudizio negativo comporta la dispensa dal servizio.
L’ordinamento giudiziario prevede ulteriori ipotesi di disallineamento definitivo, quanto ai tempi e alla decorrenza degli effetti, delle valutazioni del magistrato rispetto ai colleghi con il medesimo decreto ministeriale: le condanne disciplinari alla perdita di anzianità e le misure cautelari disciplinari di sospensione dalle funzioni (salvo successiva assoluzione)[17].
Sul piano della carriera le valutazioni di professionalità determinano effettivi significativi in quanto il magistrato, oltre ad non poter accedere agli uffici per i quali è richiesta la valutazione di professionalità non conseguita e ad essere destinatario di un potenziale diniego di accesso a incarichi direttivi o semidirettivi, ove consegua un secondo giudizio negativo, viene dispensato dal servizio.
Occorre delineare alcuni punti fermi nella ricostruzione del sistema delle valutazioni di professionalità.
1) Il magistrato è dispensato dal servizio solo nel caso in cui consegua un doppio giudizio negativo relativo alla medesima valutazione di professionalità, e non quando vengono espressi due giudizi negativi riguardanti valutazioni diverse nell’arco dell’intera carriera.
Va detto a riguardo, che il dato normativo primario, prevedendo all’art. 11, comma 13 che “Se il Consiglio superiore della magistratura, previa audizione del magistrato, esprime un secondo giudizio negativo, il magistrato stesso e' dispensato dal servizio” non indica, almeno non espressamente, che esso debba riferirsi al periodo immediatamente successivo ad un precedente giudizio di segno negativo.
La norma, tuttavia, non appare estremamente chiara a riguardo e risulta interpretata in senso restrittivo dalla Circolare consiliare.
La Circolare si esprime, infatti, al par. XVII in termini non del tutto identici: “6. Il Consiglio Superiore, in caso di primo giudizio negativo, procede a nuovo scrutinio trascorsi due anni dalla scadenza del quadriennio per il quale si è riportata la valutazione negativa. Fermo restando quanto previsto dall’art. 11, commi 11 e 12 del d.lgs. n.160/2006, ove lo scrutinio supplementare abbia esito positivo le successive quadriennali valutazioni di professionalità hanno consequenziale posticipata decorrenza dalla scadenza del periodo biennale di rivalutazione. 7. Qualora la seconda valutazione del Consiglio superiore abbia esito negativo, il magistrato è dispensato dal servizio”.
Il riferimento al “nuovo” o “supplementare” scrutinio e al periodo biennale consente di ritenere, piuttosto agevolmente, che per il Consiglio il magistrato vada dispensato solo ove consegua due giudizi negativi per la medesima valutazione.
Alla luce di una lettura integrata sella normativa primaria con quella secondaria emerge, pertanto, che tale grave effetto consegue esclusivamente nel caso in cui, in relazione alla medesima valutazione si determini una sequenza di giudizi negativo-negativo, negativo-non positivo-negativo o ancora, non positivo-negativo-negativo.
2) Un secondo aspetto di rilievo da tenere in considerazione per la tematica in esame è costituito dal fatto che il Capo X della Circolare prevede tre ipotesi alternative che conducono ad un giudizio negativo: a) assenza delle precondizioni (indipendenza, imparzialità e d equilibrio); b) grave carenza di due più parametri; c) dopo una valutazione non positiva, nell’anno di monitoraggio successivo, perdurante carenza specifica del medesimo parametro già oggetto della precedente rilevazione. Da ciò si desume che, nel caso di giudizio successivo ad una valutazione non positiva, solo nel caso sub c) è necessaria l’identità del parametro. Non potrebbe, peraltro, essere diversamente, posto che se una negativa può essere espressa nei casi sub a) e b) successivamente ad un giudizio positivo, certamente la medesima conclusione non può essere impedita dal fatto che il magistrato abbia già mostrato delle carenze e successivamente, recuperate le stesse, abbia manifestato altre gravi lacune, tra le quali il difetto dei cd. prerequisiti. Si osservi a riguardo che la norma primaria indica alternativamente tali ipotesi: “è "negativo" quando la valutazione evidenzia carenze gravi in relazione a due o più dei suddetti parametri o il perdurare di carenze in uno o più dei parametri richiamati quando l'ultimo giudizio sia stato "non positivo".”.
Una terza premessa è costituita dalla successione temporale delle valutazioni.
Sopra chiarito come operi e quali effetti abbia il giudizio negativo, occorre evidenziare che il sistema normativo presuppone univocamente una rigida successione cronologica delle valutazioni in modo da: a) conservare l’allineamento delle valutazioni e della loro decorrenza giuridica tra i magistrati dello stesso concorso quando non vi siano criticità (tanto che la normativa secondaria indica espressamente che questo sia l’obiettivo da raggiungersi tendenzialmente a distanza di otto mesi dalla scadenza del quadriennio); b) prevedere una decorrenza differita, ma fissata con certezza nel tempo, per il magistrato nei cui confronti è espresso un giudizio non positivo o negativo; c) evitare che vi siano zone d’ombra nelle valutazioni che sottraggono a qualsiasi valutazione l’operato del magistrato.[18]
6.6.1. Un caso di valutazione negativa espressa dal Consiglio giudiziario
Il Consiglio giudiziario ha espresso parere negativo sul riconoscimento della quarta valutazione di professionalità nei confronti del dott. X magistrato ordinario con funzioni di sostituto procuratore della Repubblica, imperniato su una aggressione nei confronti degli agenti di polizia municipale che lo avevano colto di notte in stato di ebbrezza alla guida della sua autovettura e per la quale era stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale per i reati di cui agli artt. 186, comma 1, lett. c), del codice della strada (guida in stato di ebbrezza), 337, 582, 585, 576, in relazione all'art. 61, n. 2), del Codice penale (resistenza a pubblico ufficiale e lesioni lievi aggravate), e che (all'epoca del parere) il dibattimento era tuttora pendente.
Il CG ha esaminato il merito delle imputazioni, rilevando che il magistrato sorpreso nottetempo alla guida di una vettura in stato di ebbrezza “avrebbe reagito con violenza e minaccia, accompagnate, peraltro, da una impropria rivendicazione dell'autorevolezza derivante dal proprio ruolo di magistrato (...) procurando, altresì, ad uno degli operanti (che, secondo quanto contestato, sarebbe stato afferrato per il collo e strattonato) lesioni lievi”. Nel prosieguo il Consiglio giudiziario riferisce: di una "controdenuncia" del dott. X nei confronti degli agenti municipali per reati di falso in atto pubblico, calunnia, abuso d'ufficio, arresto illegale e lesioni personali, tuttavia, archiviata dal competente G.I.P. presso il Tribunale; e di un ulteriore procedimento con il magistrato nella veste di indagato, per i reati di ingiuria aggravata continuata ai danni dei medesimi agenti di polizia per i fatti commessi la stessa notte, scaturito da una successiva querela sporta da questi ultimi, e definito con sentenza di non doversi procedere per remissione di querela dal Giudice di pace.
Sulla base di questi elementi, il Consiglio giudiziario ha ritenuto che entrambe le notizie di reato a carico del dott. X fossero "quanto meno non manifestamente infondate", in seguito al superamento del vaglio dell'udienza preliminare e l'approdo alla successiva fase dibattimentale. Per quanto riguarda la seconda, essa è stata definita non già con un "proscioglimento nel merito", ma di improcedibilità.
Secondo il Consiglio giudiziario tali notizie di reato sono "sintomatiche, ove dimostrate, di una palese e gravissima carenza di equilibrio (trattandosi di comportamenti che, sebbene posti al di fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, denoterebbero una arrogante percezione della propria funzione ed una totale assenza di rispetto verso l'operato delle forze dell'ordine, per giunta da parte di un magistrato del pubblico ministero, che con le stessa interagisce quotidianamente) ".
A conclusione di questa disamina, nella parte finale del parere l'organo preposto alla valutazione si esprime in questi termini: "la gravità dei fatti per i quali pende procedimento penale (...) non consente, allo stato, di formulare un parere positivo in ordine al parametro dell'equilibrio". Infine, stante la carenza nei parametri della capacità e impegno, il giudizio globale sulla professionalità del magistrato è negativo.
Dal punto di vista procedimentale e delle fonti, la peculiarità del caso consisteva anche nell’assenza di rilievi da parte del procuratore capo.
Nel ritenere non decisivo tale elemento il Consiglio di Stato, nel ritenere legittimo, riformando la sentenza di primo grado l’operato del consiglio giudiziario (Cons. Stato Sez. V, Sent., 26 ottobre 2016, n. 4471), evidenzia che, sebbene l’art. 11, D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 160 si limiti a richiedere che nelle valutazioni periodiche di professionalità siano acquisiti "il rapporto e le segnalazioni provenienti dai capi degli uffici, i quali devono tenere conto delle situazioni specifiche rappresentate da terzi e di pervenute dal consiglio dell'ordine degli avvocati, che incidono sulla professionalità del magistrato (comma 4, lett. f). Aggiunge, tuttavia, che, dal punto di vista istruttorio, come si è visto il comma 5 dell’art. 11 prevede l’autonomo potere del Consiglio giudiziario di assumere informazioni “su fatti specifici segnalati da suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell'ordine degli avvocati”.
Se ne ricava che l’organo preposto alla valutazione “è tenuto ad esaminare ed eventualmente acquisire ogni elemento istruttorio che possa avere rilievo ai fini del giudizio”. Nel caso di specie il Consiglio giudiziario, dopo avere preso atto che la relazione inviatagli dal capo dell'ufficio non conteneva alcun rilievo e, in particolare, elementi che potessero essere utilizzati ai fini del giudizio sul parametro dell'equilibrio, ha proceduto ad una valutazione negativa sulla base dell'ulteriore "documentazione acquisita in sede istruttoria", relativa ai fatti oggetto di procedimento penale a carico dell'odierno appellato. Peraltro, l’acquisizione ulteriori informazioni dalla persona del Procuratore capo, che era stata ritenuta decisiva del TAR, costituisce – secondo il Consiglio di Stato - una mera facoltà ulteriore di cui il Consiglio giudiziario può discrezionalmente decidere di avvalersi.[19]
6.7. Il rapporto tra valutazione di professionalità e giudizio disciplinare
Un aspetto importante del procedimento è quello del cd. principio di autonomia tra valutazioni di professionalità e giudizio disciplinare. Il par. XII della Circolare disciplina la sospensione del procedimento in caso di pendenza disciplinare attribuendo la competenza alla Commissione con provvedimento motivato e distinguendo le ipotesi di sospensione obbligatoria (nel caso di sospensione della funzioni e dallo stipendio in via obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 21, D.L.vo n.109/2006, in quanto a) sottoposto a misura cautelare personale nell’ambito di un procedimento penale; b) sospeso in via facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 22, D.L.vo n. 109/2006; c) sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo; d) sospeso in via facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio ai sensi dell’art. 22 D.L.vo n. 109/2006, in quanto sottoposto a procedimento disciplinare e quella di sospensione facoltativa (quando difetti la sospensione disciplinare in tutti gli altri casi di pendenza di procedimento penale e/o disciplinare, anche anteriormente all’esercizio dell’azione penale e/o disciplinare, nonché nelle ipotesi di formale apertura del procedimento di trasferimento d’ufficio ai sensi dell’art. 2 R.D.Lgs. n. 511/1946), a condizione che “l’accertamento dei fatti oggetto del procedimento penale e/o disciplinare incida sulla definizione della procedura di valutazione della professionalità”.
Molto delicata è l’interpretazione dell’ultimo comma in base al quale “3. I fatti accertati in sede disciplinare sono oggetto di autonoma valutazione da parte del Consiglio superiore della magistratura ai fini della valutazione di professionalità, indipendentemente dall’esito, di condanna o di assoluzione, del procedimento disciplinare”.
Ma cosa si intende con tale nozione di autonomia?
Essa non si traduce in irrilevanza del disciplinare.
Una tesi sostenuta in ambito consiliare afferma che far seguire alla condanna disciplinare la valutazione di professionalità negativa significhi penalizzare due volte per il medesimo fatto il magistrato e si traduce, pertanto, in un sorta di bis in idem. Si tratta, tuttavia di una idea fuorviante. A prescindere dal fatto che portando alle sue estreme conseguenze tale tesi poterebbe a risultati del tutto irrazionali, perché nella Circolare sarebbe prevista la sospensione del procedimento solo affinché il magistrato condannato disciplinarmente possa eccepire il bis in idem quanto alla valutazione di professionalità (perché in altra sede sanzionato), deve replicarsi che, più semplicemente con tale principio si intende solo evidenziare l’autonomia di giudizio della Quarta Commissione e della Sezione Disciplinare del CSM.
Una autonomia che non riguarda tanto il tipo di giudizio espresso (perché la Commissione è vincolata alla condanna o all’assoluzione del magistrato dall’addebito disciplinare, senza poter ribaltare il giudizio del giudice disciplinare), ma l’oggetto del giudizio stesso. Il CSM, come organo amministrativo, valuta la professionalità complessivamente espressa nel quadriennio, formulando un giudizio che può essere positivo o negativo indipendentemente dall’esito del disciplinare: il magistrato condannato disciplinarmente potrà ricevere una valutazione positiva e quello assolto, invece, una negativa. Tuttavia, la Commissione deve tenere in considerazione anche i fatti oggetto del disciplinare, con il vincolo del solo accertamento di fatto compiuto dal giudice disciplinare e, deve ritenersi, anche della sua qualificazione giuridica. Ciò non esclude, tuttavia, che anche il singolo comportamento possa essere determinate ai fini del giudizio negativo di professionalità.[20]
Allo stato la questione sembra risolta dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha recentemente affermato (Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339) testualmente che: “Il fatto, sebbene successivamente accertato nella sua rilevanza disciplinare, non perde la sua autonomia quale condotta materiale, come confermato dalla circostanza che - mentre in sede disciplinare la sanzione è stata applicata in conseguenza della accertata lesione del prestigio della magistratura - nella diversa sede del giudizio sulla progressione di carriera quella medesima condotta è stata autonomamente apprezzata - nella piena completezza informativa assicurata dal vaglio disciplinare - come sintomatica di una grave mancanza di equilibrio. Sussiste cioè una ipotesi di pluriqualificazione giuridica della fattispecie, a fini disciplinari ed a fini di progressione di carriera, fermo restando che, come correttamente osservato dal T.a.r., l'esistenza di precedenti disciplinari e penali rileva comunque, in sé, ai fini della progressione di carriera, in quanto concorre alla valutazione complessiva della personalità professionale del magistrato. Pertanto deve escludersi che vi sia stata una duplicazione degli effetti sanzionatori, atteso che la sanzione disciplinare ha sì concorso alla valutazione globale della competenze tecniche del magistrato e della sua personalità professionale, ma la condotta materiale sanzionata è stata autonomamente valutata rispetto ai parametri professionali, quale circostanza idonea a rivelare una grave mancanza di equilibrio”.
Per esemplificare in caso di assoluzione disciplinare perché il fatto non sussiste, la IV^ Commissione dovrà escludere la rilevanza di tali fatti. In caso di esclusione dell’elemento soggettivo da parte del giudice disciplinare, invece, essa potrà tenere conto della condotta materiale; in caso di proscioglimento per tenuità del fatto, (es. ritardi nel deposito dei provvedimenti), potrà comunque valutare tale condotta unitamente alla diligenza complessiva del magistrato (considerando, ad esempio, la puntualità o i ritardi nel deposito nei periodi diversi da quelli oggetto di addebito disciplinare).
Si tratta di questioni che possono essere in concreto particolarmente intricate, come accade quando l’addebito disciplinare, necessariamente legato a condotte ben circoscritte, si unisce ad un quadro di comportamenti più ampio, non addebitabile disciplinarmente, ma rilevante per la valutazione di professionalità e/o per l’incompatibilità ambientale del magistrato.
6.7.1. Sospensione dal servizio
Come in precedenza accennato, la Circolare consiliare, a seguito delle modifiche disposte nel 2017 chiarisce che i periodi di valutazione debbano essere necessariamente più ampi rispetto a quello ordinariamente quadriennali qualora il magistrato, per una pluralità di cause, non presti servizio. La Relazione illustrativa chiarisce tale aspetto: “Nei casi in cui il magistrato non abbia svolto attività lavorativa, appunto per condanna disciplinare alla sospensione dalle funzioni ovvero per congedo straordinario nei casi dettagliatamente indicati dal capo XIII qui novellato, è logico e coerente che quei periodi non possano essere conteggiati ai fini della valutazione di professionalità ché altrimenti si ridurrebbe irragionevolmente il periodo di valutazione ovvero non si terrebbe conto della necessaria posticipazione della carriera, determinata tanto dalle condanne disciplinari alla perdita di anzianità quanto dai casi di aspettativa o congedo straordinario che determinano una perdita di anzianità.”[21]
La dilazione della valutazione risulta coerente con il non esercizio delle funzioni e, pertanto, con la mancanza di un oggetto effettivo della valutazione.
6.8. I problemi del ritardo nella conclusione del procedimento di valutazione di professionalità
Aspetto diverso dalla divergenza temporale delle valutazioni del magistrato che non consegue valutazioni tutte positive rispetto ai colleghi di concorso è quello del ritardo in cui intervene il giudizio di professionalità rispetto alla scadenza del periodo di valutazione.
Il meccanismo nel quale si articolano le valutazioni di professionalità e il procedere asincrono del termine finale del periodo di valutazione (ancorato al solo dato temporale) e del giudizio successivo (che dipende dai tempi di definizione del procedimento), per quanto talora inevitabili, possono determinare, qualora la prima delle due valutazioni in sequenza sia negativa o non positiva, delle conseguenze certamente non auspicabili.[22]
Si tratta di un problema che si accentua quando il procedimento di valutazione è sospeso per la pendenza di un procedimento disciplinare che peraltro, a sua volta, può essere sospeso in attesa della definizione del processo penale.
L’esemplificazione consente di comprendere bene il problema.
Può ipotizzarsi che il magistrato debba ricevere la seconda valutazione di professionalità a seguito del completamento del periodo 01.1.2011-31.1.2014 e che per le criticità riscontrate e per la sospensione del procedimento per la pendenza di disciplinare, solo nel 2017 venga espresso un giudizio negativo su tale periodo.
A questo punto, il giudizio negativo modifica la sequenza temporale e il magistrato deve essere oggetto di valutazione non per il periodo 1.1.2015-31.12.2016 (previsto a seguito di giudizio positivo), ma per il periodo 01.01.2015-31.12.2016. Il magistrato svolge le funzioni in tale biennio senza sapere che per il quadriennio antecedente verrà poi formulato un giudizio negativo. Al momento della valutazione del biennio 2015-2016 nel 2018 l’interessato riceve il preavviso di giudizio negativo e ha un pieno diritto di difesa quanto alla fondatezza del giudizio, ma non può ovviare alle gravi carenze segnalate nella valutazione del periodo 2011-2015 e 2015-2016.
Si tratta di una evenienza difficilmente evitabile in quanto la giurisprudenza afferma al contempo che:
- deve tenersi conto dei fatti oggetto del giudizio disciplinare[23], e che, pertanto, non può che attendersi l’esito del relativo giudizio ove non sia possibile in sede di quarta commissione una compiuta e celere istruttoria a riguardo, ferma l’autonomia dei due procedimenti;
- il principio di pertinenza della condotta rilevante al periodo di valutazione ha carattere inderogabile, non potendo essere traslato il relativo giudizio ad un periodo successivo a quello in cui è stata posta in essere[24]. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato i fatti oggetto di rilievo disciplinare devono riferirsi al periodo oggetto di valutazione, per cui la sentenza disciplinare intervenuta successivamente per fatti anteriori non può essere utilizzata per negare la valutazione positiva di professionalità del quadriennio successivo (cfr. es. Cons. Stato, Sez. V, n. 3442/2017)[25].
In senso contrario altra pronuncia, tuttavia, si afferma, invece, che <<quando un episodio non è stato valutato dal C.S.M. in sede di progressione di carriera, perché ancora oggetto di esame in sede disciplinare, il medesimo episodio - una volta accertato nella sede disciplinare - ben può essere preso in considerazione in occasione della successiva valutazione dell'interessato>>.[26]
Assecondare le conflittuali esigenze di accertamento (e relativi tempi) e di pertinenza dei fatti al periodo in valutazione comporta che, quando la loro natura non può essere agevolmente accertata nel procedimento amministrativo della IV Commissione, occorre opportunamente attendere il giudizio disciplinare (o anche del procedimento di trasferimento ex art. 2 l. guarentigie) prima di procedere alla valutazione del magistrato, con ciò potendo verificarsi il superamento dei periodi di osservazioni abbreviati previsti in caso di giudizio non positivo o negativo.
Per comprendere se tale evenienza sia stata presa in considerazione dal legislatore e quali siano i rimedi occorre, quindi, di ricostruire le modalità attraverso le quali il legislatore primario ha inteso regolare il procedimento di valutazione di professionalità successivo ad una valutazione negativa o non positiva e, nello specifico, analizzare se esso presupponga giuridicamente che il magistrato sia consapevole dell’esito sfavorevole del pregresso giudizio.
Non si tratta di un problema di contraddittorio endoprocedimentale e della possibilità di contrastare il giudizio di segno negativo del consiglio giudiziario o, in ipotesi, anche della IV^ commissione, perché la circolare consiliare assicura ampiamente il diritto di difesa del magistrato all’interno del procedimento valutativo (al quale, per l’ipotesi dell’adozione di un giudizio negativo, è dedicato l’intero par. XVIII della Circolare).
Si tratta, invece, di comprendere la natura e le finalità del giudizio di segno negativo per accertare se esso rappresenti una semplice ricostruzione de praeterito della professionalità espressa nel quadriennio oppure abbia anche altre finalità di indirizzo o “tutorie” nei confronti del magistrato.
L’art. 11, comma 1 si esprime nei seguenti termini “1. Se il giudizio è "negativo", il magistrato è sottoposto a nuova valutazione di professionalità dopo un biennio. Il Consiglio superiore della magistratura può disporre che il magistrato partecipi ad uno o più corsi di riqualificazione professionale in rapporto alle specifiche carenze di professionalità riscontrate; può anche assegnare il magistrato, previa sua audizione, a una diversa funzione nella medesima sede o escluderlo, fino alla successiva valutazione, dalla possibilità di accedere a incarichi direttivi o semidirettivi o a funzioni specifiche. Nel corso del biennio antecedente alla nuova valutazione non può essere autorizzato lo svolgimento di incarichi extragiudiziari”.
La Circolare in proposito, riprendendo il testo dell’art. 10 d.lgs. 160/2006, comma 11, recita, al par. XVII.5: “5. Laddove il Consiglio superiore abbia espresso giudizio negativo la delibera deve indicare espressamente i parametri deficitari e, per l’effetto, specificare: - se il magistrato debba eventualmente partecipare a corsi di riqualificazione professionale, indicandone la natura ed il numero; - se il magistrato sia inidoneo all’esercizio di particolari funzioni e se, in tal caso, si imponga un’assegnazione ad altra funzione fino alla successiva valutazione; - se si imponga l’esclusione dall’accesso ad incarichi direttivi, semidirettivi o a funzioni specifiche, indicandone la natura. In tali casi copia della delibera va trasmessa alla Scuola superiore della magistratura, salvo quanto previsto dalla disciplina transitoria, o alle articolazioni consiliari competenti per l’ulteriore corso”.
Ancora il successivo comma 6 dispone che “Il Consiglio Superiore, in caso di primo giudizio negativo, procede a nuovo scrutinio trascorsi due anni dalla scadenza del quadriennio per il quale si è riportata la valutazione negativa”.
Il dato testuale della normativa primaria evidenzia una netta divergenza quanto al tipo di provvedimento che il Consiglio è tenuto ad adottare in caso di giudizio non positivo, rispetto a quello in cui il giudizio è negativo: nel primo caso, infatti, il Consiglio non può adottare alcuna misura tesa ad ovviare le ricadute delle carenze riscontrate nella professionalità del magistrato. Nel secondo caso, invece, può adottare le misure in precedenza esposte.
Ma che natura e funzione hanno tali prescrizioni e a chi sono indirizzate?
Innanzitutto, si tratta di previsioni di carattere facoltativo e, come tali, rimesse alla discrezionalità consiliare.
In secondo luogo, esse sono dirette, in sostanza, al dirigente perché provveda ad adottare le misure organizzative indicate dal Consiglio, e non al magistrato. Esse, infatti, appaiono in prima battuta e direttamente volte a ridimensionare gli effetti negativo dell’esercizio carente delle funzioni giurisdizionali e non assumono carattere prescrittivo nei confronti del magistrato, disponendosi alternativamente l’assegnazione ad altre funzioni (in deroga al divieto di inamovibilità) o l’esclusione da incarichi o specifiche funzioni.
Solo l’obbligo di frequentazione di corsi di riqualificazione vede come destinatario il magistrato, ma esso ha carattere, come può apprezzarsi del tutto generico ed attiene a criticità organizzative o gravi lacune di competenza.
Di certo, tuttavia, la norma primaria non prevede in alcun modo che al magistrato vengano fornite prescrizioni su modalità di esercizio della funzione o obiettivi da raggiungere.
Ne consegue che il giudizio da esprimersi dopo la valutazione negativa resta del tutto identico a quello del magistrato che viene valutato all’esito del quadriennio.
Ciò comporta che il magistrato non è – almeno non in termini giuridici - orientato, né potrebbe esserlo a garanzia della sua indipendenza, nel rispetto al quomodo dell’esercizio delle funzioni né tanto meno, ove si registrino ritardi rilevanti o carenze organizzative il Consiglio può prescrivere in che modo egli debba ovviarvi. Trattasi, quindi, nei limiti nei quali non si invada la sfera di autonomia del magistrato, di rimedi rimessi nella loro attuazione al capo dell’ufficio che deve approntare i rimedi organizzativi necessari a ovviare alle disfunzioni cagionate a seguito delle carenze professionali palesatesi.
Inoltre, occorre constatare che l’art. 11, comma 2 prevede che per tutte le valutazioni valgano i medesimi parametri, indipendentemente dal momento dalla fase della progressione in carriera – cioè non prevede criteri di maggior rigore per le valutazioni più avanzate e dalla natura dei giudizi precedentemente espressi, con l’eccezione del giudizio non positivo a cui segue – nell’anno successivo - il perdurare della medesima carenza dimostrata in tale occasione (il giudizio, si ripete è “negativo" anche quando “la valutazione evidenzia (…) il perdurare di carenze in uno o più dei parametri richiamati quando l'ultimo giudizio sia stato "non positivo".
Il legislatore primario, pertanto, così come quello secondario, non presuppone né espressamente, né implicitamente che il magistrato in valutazione abbia conoscenza tempestiva del giudizio negativo ricevuto in precedenza.
In altre parole, la valutazione non cambia né quanto all’oggetto né al metodo o al rigore del giudizio; ciò che muta è solo l’orizzonte temporale. La limitazione del tempo di valutazione nel caso in cui non sia conseguita la valutazione positiva è perfettamente coerente con le carenze riscontrate e con la necessità di un monitoraggio più serrato del magistrato che non è potuto progredire, dimostrando un esercizio della giurisdizione idoneo a compromettere anche severamente i diritti dei cittadini. E’ perfettamente logico, pertanto, che non si attenda un ulteriore quadriennio prima che sia nuovamente espresso un giudizio sull’operato del magistrato.
Partendo dal presupposto in precedenza indicato che il doppio giudizio negativo debba afferire alla medesima valutazione, il secondo periodo di osservazione rappresenta, in sostanza, una misura garantistica per la quale il magistrato, invece, di essere dispensato dal servizio al termine del quadriennio per una valutazione non positiva o negativa, beneficia di un periodo supplementare di osservazione che, dovendosi contemperare il suo diritto alla conservazione del posto di lavoro con un minimo di rendimento qualitativo e quantitativo, oltre che con un esercizio indipendente e equilibrato della giurisdizione, deve essere necessariamente più breve. Solo al perdurare di plurime gravi carenze viene esonerato.
La normazione secondaria non si occupa dell’aspetto della conoscenza, limitandosi a richiamare le già citate disposizione dell’art. 11 del d.lgs. n. 160 del 2006.
La consapevolezza dell’aver già ricevuto una valutazione negativa e del mutamento del regime giuridico del periodo (quanto alla durata e al possibile esito) di osservazione successivo, pertanto, assume rilievo solo come monito, come stimolo psicologico correggere il proprio operato – del quale, naturalmente, il magistrato è tenuto ad avere giuridica contezza - sì da evitare la grave conseguenza della cessazione dal servizio.[27]
Tanto richiamato, alla luce di quanto in precedenza esposto, appare comprensibile che permangano esigenze opposte, difficili da coniugare: se da un lato il rallentamento del procedimento di valutazione è fisiologico allorché emergano severe criticità, soprattutto quando esse siano oggetto di contestuale valutazione in sede disciplinare, dall’altro lato, indubbiamente il potere-dovere del Consiglio di intervenire sulle funzioni espletate dal magistrato (si è detto non quanto alle modalità di esercizio della funzione giurisdizionale) è frustrato dall’espressione di un giudizio negativo sul quadriennio quando è già decorso anche l’ulteriore biennio di valutazione e, al contempo, il magistrato non avrà la possibilità di ovviare alle criticità riscontrate con la valutazione negativa.
Ulteriore restrizione allo spazio di intervento consiliare è dato dalla necessità, già indicata, di non stravolgere la sequenza temporale e l’oggetto delle valutazioni di professionalità prescritte dal legislatore. La traslazione del periodo biennale di valutazione ad un momento successivo a alla comunicazione del giudizio negativo comporta anche la possibilità di effetti giuridici in malam partem ove il magistrato non abbia manifestato gravi carenze nel biennio previsto ope legis di monitoraggio biennale. In tal caso egli, tornando all’esempio, incrementando notevolmente la produttività quanto al parametro della laboriosità negli anni (2015-2016) successivi al 2011-2014, ha acquisito l’aspettativa giuridicamente tutelata di ottenere una valutazione positiva. Per contro, ove la grave carenza di produttività si sia ripetuta nel periodo “traslato”, da considerarsi dopo la comunicazione del giudizio negativo egli, invece, di conseguire la valutazione di professionalità maturata con un biennio positivo dopo quello negativo, dovrebbe essere valutato negativamente per il periodo 2017-2018 e dovrebbe essere dispensato dal servizio.
Nel caso, invece, di giudizio positivo sul 2017-2018, resterebbe non valutato il periodo pregresso, nonostante, per evitare effetti in malam partem, la valutazione positiva dovrebbe essere riconosciuta con effetto dal 2016, e non dal 2018.
Concludendo sul punto, la necessità di tener conto di elementi non ancora definiti quanto alla valutazione di professionalità, combinata a quella di delimitare rigorosamente il periodo in valutazione senza traslazione determina una oggettiva impossibilità di addivenire nei casi critici ad una delibera di valutazione non positiva o negativa immediatamente a ridosso della scadenza del quadriennio.
7. Le modalità espressive del giudizio sulla professionalità del magistrato
Il dibattito sulle modalità attraverso le quali esprimere le valutazioni di professionalità non si è mai sopito.
Alcuni ritengono che i pareri di valutazione periodica di professionalità debbano essere ridotti al minimo, servendo esclusivamente a verificare se quel magistrato può proseguire il proprio lavoro. Ne costituisce un logico corollario che i pareri dovrebbero essere analitici solo se sussistono criticità.
Altri, invece, sostengono che i pareri debbano essere analitici ed esprimere tutte le qualità del magistrato, con particolare riguardo a quelle rilevanti per la valutazione degli incarichi. Non solo per quelli semidirettivi o direttivi, ma anche per quelli più legati alla professionalità giudiziaria (si pensi alla nomina a magistrato di Cassazione) o a specifiche funzioni extragiudiziarie, quali quelle formative, informatiche e ordinamentali.
In un articolo dal titolo indovinato “Basta aggettivi!”,[28] si afferma che essi non costituiscono non più semplicemente un onorifico riconoscimento di professionalità appiattito verso l’alto e valido per tutti, ma “l’ambito di verifica delle prospettive di carriera dei magistrati, atteso che l’utilizzo di un “eccellente” assume un rilievo straordinario nelle successive valutazioni comparative del Csm”.
Si è sottolineato, ancora, che nei consigli giudiziari “si discute spesso su adeguato, buono, ottimo, eccellente, come se il parere dovesse creare una graduatoria da giocarsi nella carriera futura” e che si tratterebbe di un atteggiamento errato in quanto la Circolare afferma in modo inequivoco che “il dispositivo del parere contiene il giudizio finale, positivo, non positivo o negativo, senza aggettivazioni relative a tali giudizi”.
Naturalmente la Circolare che, in effetti, vieta gli aggettivi nella sola parte dispositiva, rileva fino ad un certo punto, potendo essere cambiata con una nuova delibera consiliare. Quella espressa con tale tesi, non è tanto una interpretazione del reale, quanto una proposta, perché gli aggettivi, salvo quelli negativi non hanno rilevanza per la valutazione di professionalità, ma contano, eccome, per il conferimento di incarichi direttivi e di altra natura, sia pure come caratterizzazione di esperienze ed attività svolte o sulla qualità di redazione dei provvedimenti giudiziari.
Il problema non è tanto quello di aggettivare o meno, ma quello delle fonti a cui attingere, non per la valutazione di professionalità, ma per il successivo conferimento delle funzioni: se gli aggettivi sono voti impliciti e scarsamente sindacabili, come sostituirli nelle procedure comparative e in quelle fondate su punteggi (per attitudine, merito e anzianità) . Non è questa la sede per affrontare funditus tale tematica, ma rappresenta un fatto che l’attuale Testo unico sulla dirigenza giudiziaria contiene numerosi elementi di valutazione (indicatori) dell’attitudine ad un determinato incarico direttivo e che, naturalmente, rileva non solo cosa si sia fatto, ma anche il come si è svolto un determinato lavoro (e quindi, i problematici aggettivi), tanto che occorre sempre indicare i risultati conseguiti. Il TU, quindi, non richiede comparazioni fatte in base aggettivi, ma neppure li espunge e, anzi a fronte di esperienze analoghe, delinea un giudizio comparativo nel quale la valutazione dei dirigenti sull’operato dei magistrati può sostituire l’ago della bilancia.
Inoltre, per il conferimento delle funzioni di legittimità, oltre a doversi tenere conto della capacità scientifica e di analisi delle norme, deve essere scandagliato l’intero profilo professionale del magistrato in conformità ai criteri propri delle valutazioni di professionalità (art. 12 d.lgs. 160 del 2006) che, pertanto, restano l’ossatura sulla quale valutare anche l’attitudine a determinati incarichi. E’ evidente che se si tratta di giudizi standardizzati nei casi, la stragrande maggioranza privi di criticità, essi non presentano alcuna utilità.
Infine, la necessità di una coerenza tra provvedimenti amministrativi, altrimenti censurabili dal giudice amministrativo, induce a non poter riformulare volta per volta il giudizio sul magistrato che aspira ad un determinato incarico disattendendo quanto precedentemente espresso, se non sulla scorta di nuovi elementi fattuali (solitamente di natura disciplinare o che attengono ai prerequisiti o a incompatibilità) non frequentemente riscontrabili.
8. Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni di professionalità
Costituisce jus receptum nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e del T.A.R. del Lazio (T.A.R. Lazio 29 marzo 2010, n. 4924; 4 maggio 2007, n. 3926; 18 luglio 2003, n. 6358; 15 ottobre 1999, n. 2288), per ciò che concerne la delimitazione espansiva dell’esercizio del sindacato giurisdizionale sugli atti consiliari, che l’ambito dell’indagine giurisdizionale si limiti all’estrinseca legittimità del provvedimento adottato, con particolare riguardo alla fedele ricostruzione dei fatti, alla congruenza dei presupposti e logicità della motivazione, nonché all’accertamento del nesso logico di consequenzialità tra presupposti e conclusioni. Ciò al fine di accertare se il potere discrezionale del C.S.M. si sia svolto nel rispetto dei criteri generali previsti dalla legge ed in conformità ai canoni di ragionevolezza che connotano qualsivoglia potere amministrativo. È, quindi, ex converso precluso al Giudice amministrativo di sovrapporre una sua valutazione a quella effettuata dall’Organo cui tale potere spetta in via esclusiva (T.A.R. Lazio, 29 marzo 2010, n. 4924).
9. Conclusioni
Emergono dall’analisi compiuta numerose criticità del sistema delle valutazioni di professionalità.
I. Dal punto di vista generale, nonostante le articolazioni della disciplina e gli approfondimenti consiliare e associativi sul tema, potrebbe dirsi riguardo alle valutazioni di professionalità che si agita “molto rumore per nulla”: nel periodo 2008-2010 su 2.300 nuove valutazioni (che non riguardavano periodo maturati in precedenza) n. 2.297 sono state positive.
Lo scorso anno, a fronte di una attività laboriosa della IV Commissione i dati non sono molti distanti, come si evince dai grafici seguenti:
II. La quasi totalità di valutazioni positive dimostra come anche le gravi cadute deontologiche riscontrate anche negli ultimi anni stentino ad emergere, e, ancor più, ad essere prevenute attraverso una accertamento puntuale delle professionalità non adeguate. Diversi magistrati, sottoposti anche a misure cautelari personali o condannati in via definitiva in sede penale negli ultimi anni, avevano in precedenza ricevuto valutazioni positive nonostante alcuni comportamenti non irreprensibili fossero già emersi nell’istruttoria per le valutazioni di professionalità che, pertanto, non sono state in grado di evitare il decadimento progressivo della loro deontologia.
III. L’uso di aggettivazioni improprie ed attribuite spesso in modo del tutto soggettivo, senza rigore metodologico, oltre a contrastare talvolta con la logica e la matematica ( da un esame complessivo la maggior parte dei magistrati, oltre ad essere eccellente ha statistiche superiori alla media) rende problematico il successivo scrutinio dei magistrati per le funzioni direttive e di legittimità, fondate anche, o soprattutto (artt. 11 e 12 d.lgs. 1060/2006), sulle valutazioni di professionalità.
IV. Non si riesce a spezzare, inoltre, il circolo tra valutazioni di professionalità generose e al conseguente vincolo, che ne deriva per il Consiglio, sindacabile dal giudice amministrativo sotto il profilo della contraddittorietà, al momento di conferire le funzioni direttive o di legittimità.[29]
La ragione è insita in numerosi fattori tra i quali la difficoltà di esprimere giudizi negativi da parte dei dirigenti giudiziari (e prima ancora da parte dei presidenti di sezione o da parte dei procuratori aggiunti), nonché di ancorare i giudizi ad elementi concreti ed analitici, oltre che a non infrequenti tendenze “protettive” da parte dei gruppi associativi.
V. La preoccupazione del ritardo nei depositi porta taluni a privilegiare una gestione fin troppo oculata del proprio ruolo, evitando il rischio dell’assunzione di un carico eccessivo di decisioni. Si tratta di una preoccupazione eccessiva, che crea un forbice tra il rischio percepito e quello reale di ricevere una valutazione negativa (così come una condanna disciplinare), minimo e collegato a comportamenti abnormi. Alcuni eccessi ed automatismi nelle valutazioni dei ritardi in precedenti consiliature hanno alimentato oltremodo tali preoccupazioni, radicando l’idea che l’incremento della produttività con accumulazione di un arretrato, tutto sommato “fisiologico”, sia un rischio molto maggiore che contenere il numero di provvedimenti depositati con attenzione maniacale alla tempistica. Si tratta di un dato fuorviante, perché espunti, appunto, gli automatismi connessi alla soggezione indeclinabile al disciplinare in caso di ritardi oltre una certa misura (molto abbondante), i casi effettivi di condanna disciplinare per ritardi sono per magistrati che, purtroppo, hanno numerosissimi ritardi cronici nel deposito.
VI. In una certa misura collegata è la tematiche della valutazione delle statistiche comparate. Pur costituendo un indicatore ineliminabile della laboriosità del magistrato, portano indirettamente alcuni a prediligere la definizione delle cause, solitamente le più recenti, che possono essere definite speditamente. Solo un piano di smaltimento dell’arretrato e un progetto di organizzazione individuale e dell’ufficio dei ruoli, e la relativa verifica del rispetto dello stesso, consente di coniugare arretrato, complessità e produzione quantitativa, rifuggendo ad opportunismi selettivi.
VII. Un ulteriore elemento di riflessione è costituito dal giudizio sui provvedimenti a campione. Nella mente del legislatore e del Consiglio si tratta di un aspetto centrale nella valutazione della capacità del magistrato; molto spesso, invece, il relatore del Consiglio giudiziario non ne effettua uno scrutinio analitico. Si tratta di uno scarto poco commendevole tra l’impegno necessario ad acquisirli (utilizzo di fin troppo sofisticate procedure di estrazione, la necessità di autentica da parte della Cancelleria e, soprattutto, il singolare onere del magistrato di farsi parte attiva per recuperarli previsto dalla Circolare) e l’utilità effettiva in sede di valutazione. L’assegnazione delle pratiche indipendentemente dalle funzioni e dal settore di esercizio del componente del Consiglio giudiziario designato relatore, poi, ridimensiona ulteriormente l’accuratezza di tale scrutinio.
VIII. Chiarita la portata del principio di autonomia delle valutazioni di professionalità dal procedimento disciplinare, resta, invece, quello della mancanza da parte del magistrato della conoscenza del giudizio negativo o non positivo nel momento in cui inizia il biennio o l’anno di verifica successiva, determinato dallo sfasamento temporale tra periodo di valutazione e approvazione della delibera di mancato riconoscimento della valutazione di professionalità.
IX. Infine, deve constatarsi che lo spirito più autentico delle valutazioni di professionalità, da intendersi come verifica del raggiungimento di uno standard quantitativo e qualitativo adeguato alla funzione giudiziaria (abbandonando le prassi di fornire da parte del dirigente e di acquisire da parte del magistrato, giudizi con aggettivazioni altisonanti), attraverso l’obbligo di una descrizione analitica e ragionata delle condotte e dei provvedimenti del magistrato, viene in parte frustrato dal necessario collegamento con i bandi-concorso per il conferimento delle funzioni direttive, di legittimità o di coordinamento nazionale. Esso viene operato, non solo dalla V^ Commissione del CSM, ma anche dal giudice amministrativo.
Si tratta di un problema, tuttavia, che può trovare soluzione, almeno parziale: a) in una revisione del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria volto a ridimensionare, selezionare e disciplinare in una ottica di trasparenza i numerosi indicatori, corrispondenti a “medagliette” da acquisire nel tempo in attesa di proporre domande per l’incarico ambito; b) in una lettura corretta dell’art. 12, d.lgs. 160/2006 sul conferimento delle funzioni di legittimità (ma anche sulla destinazione dei magistrati al Massimario presso la Suprema Corte) e della stessa Circolare n. 13778 sui tramutamenti, fedele alla logica del legislatore. Quest’ultimo, quanto a tali funzioni, richiede nella valutazione delle attitudini l’esame anche della capacità scientifica e di analisi delle norme da effettuarsi prevalentemente sui provvedimenti giudiziari (esaminati i quali si valutano “anche” i titoli scientifici), da affiancarsi all’esame del profilo complessivo del magistrato, senza che il peso del giudizio attitudinale possa essere sbilanciato in favore di competenze giuridiche desunte da pubblicazioni scientifiche o monografie.
X. Nonostante quanto sopra illustrato, il bilancio attuale relativo al sistema delle valutazioni di professionalità, dal punto di vista ordinamentale, non può essere del tutto negativo. I parametri delle valutazioni di professionalità fissati dal legislatore, i prerequisiti e gli indicatori fissati dal Consiglio e gli stessi principi enunciati nel contesto eurounitario, chiuso il lungo periodo degli automatismi di carriera e della progressione per anzianità senza demerito, non dipingono una figura di magistrato arretrata e non attuano un inconsapevole ritorno al magistrato disattento al servizio perché concentrato sui passaggi necessari per una carriera brillante.
Un magistrato tecnocratico, chiuso in sé stesso e nel proprio (presunto) sapere giuridico non è, né secondo la normativa primaria né quella secondaria, un buon magistrato. L’assenza dei prerequisiti obbliga ad una valutazione che deve essere necessariamente di segno negativo, senza alcuna possibilità di compensazione tra capacità tecnica o laboriosità e difetto degli elementi necessari a garantire la rispondenza al modello costituzionale di giudice indipendente e terzo, nonché a quello di giudice “equilibrato”.
Il magistrato professore, anche se tale profilo viene valorizzato in modo non pertinente in alcuni rapporti di dirigenti, non è un modello prescelto dal legislatore, tanto è vero che le pubblicazioni di provvedimenti giudiziari o di altri contributi aventi rilievo scientifico e le relazioni a convegni giuridici sono solo uno degli strumenti idonei “a dimostrare l’aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale”, sempre “che abbiano comportato un arricchimento del lavoro giudiziario”.
Le norme che regolano la valutazione di professionalità disegnano, quindi, indirettamente ma con grande chiarezza, quale siano le caratteristiche del lavoro del giudice: una ricerca di un punto di equilibrio tra efficienza del servizio, mediante attenzione al dato quantitativo e qualità del lavoro; il possesso di adeguate tecniche argomentative, nonché, aspetto a mio avviso essenziale, di congruenza della motivazione e, quindi, della decisione, ai fatti emersi nel processo, capacità di lavoro di equipe con gli altri colleghi, con il personale amministrativo e, nell’Ufficio del processo, insieme ai tirocinanti ex art. 73, con i giudici onorari di pace o i VPO assegnati al Tribunale o alla Procura, capacità di condivisione di idee mediante la partecipazioni a riunioni diverse per natura e per partecipanti rispetto alle camere di consiglio.
In tal modo emerge anche quale sia del magistrato professionalmente attrezzato secondo l’ordinamento attuale: capace di presidiare con fermezza la propria indipendenza anche interna, ma anche di partecipare all’espletamento di un servizio che viene garantito dall’ufficio giudiziario nella sua interezza (come si evince anche dall’obbligo di partecipazione alle scelte organizzative dell’ufficio); non solo redattore di provvedimenti giudiziari, ma anche figura presente in e per l’ufficio; espressione di affidabilità (puntualità e presenza in ufficio) e capacità relazionale, dotato di competenze interdisciplinari (non solo giuridiche, ma anche di capacità di comprensione di questioni tecnico-scientifiche illustrate dai consulenti), munito anche di una attitudine direttiva (del personale amministrativo, del gruppo di lavoro, partecipe al progetto della dirigenza giudiziaria).
Viene ad essere confermata, quindi, l’idea indicata in premessa, per la quale il sistema delle valutazioni di professionalità “disegna” un certo modello di magistratura: in quello attuale un potere diffuso, privo di gerarchie, non composta da monadi ma da individualità che agiscono sinergicamente con gli altri, nel rispetto della propria autonomia; per le quali la soluzione dei casi giudiziari non è una occasione per fare giurisprudenza, ma per risolvere con puntualità problemi delle persone ad assicurare la realizzazione di diritti violati e solo eventualmente e indirettamente per contribuire all’innovazione dell’ordinamento. Un modello, però,in parte messo a rischio da spinte carrieristiche e gerarchizzanti, soprattutto nelle procure, indotte dalla riforma ordina mentale.
Manca, però, nelle disposizioni attuali un indicatore della capacità del magistrato che, nella sostanza, costituisce quasi un prerequisito: l’adattabilità ai continui cambiamenti, giuridici, tecnici, relazionali, ambientali e funzionali. Questa capacità però, è il bene più importante che i giovani magistrati possono conferire alla Magistratura.
[1] Seconda parte della Relazione tenuta all’incontro del 21-24 aprile organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 18.7.2019 (Bolzano) e 3.1.2020; già pubblicata su Diritto Pubblico Europeo - Rassegna Online,.https://doi.org/10.6092/2421-0528/6865, 2020 (Serrao d’Aquino, P,. Le valutazioni di idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni di professionalità.)
[2] La Circolare responsabilizza il CG e il Presidente della Corte d’appello sul rispetto dei tempi, affermando espressamente che “Il Consiglio giudiziario - sulla base degli elementi indicati al Capo VII, e valutate, altresì, le osservazioni eventualmente presentate ai sensi del comma 3 bis del capo precedente - esprime il parere conformandosi al modello allegato alla presente circolare, entro quattro mesi dalla scadenza del termine. Sul rispetto del termine per il rilascio del parere vigila il Presidente della Corte di appello, quale Presidente del Consiglio giudiziario. Le modalità di esercizio di tale compito di vigilanza sono valutate ai fini della conferma o del conferimento di ulteriori incarichi”. Nel caso di impossibilità al rispetto di tali termini, è obbligatoria la comunicazione al CSM: “1bis. Qualora la necessità di eccezionali attività istruttorie - diverse dalla acquisizione di atti o documenti e dalla audizione del magistrato interessato - renda impossibile l’espressione del parere nel termine indicato, il Consiglio giudiziario, non appena si determini al compimento di dette attività e comunque entro quattro mesi dalla ricezione del rapporto informativo, comunica al Consiglio superiore della magistratura tale impossibilità indicandone le ragioni, nonché la prevedibile epoca in cui il parere sarà espresso”.
[3] La norma primaria parla si esprime in tali termini <<ferma restando l'autonoma possibilità di ogni membro del consiglio giudiziario di accedere a tutti gli atti che si trovino nella fase pubblica del processo per valutarne l'utilizzazione in sede di consiglio giudiziario>>.
[4] Risposta a quesito con delibera del CSM del 21 dicembre 2016.
[5] Precisandosi: “ivi comprese situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
[6] G. Galoppi, op. cit.
[7] Nei sette giorni successivi alla scadenza del quadriennio in valutazione, il magistrato interessato può integrare la relazione con riferimenti a eventuali ulteriori circostanze rilevanti che hanno interessato la sua attività professionale nel periodo.
[8] Così la Relazione introduttiva alla Circolare dell’8.10.2007.
[9] Critico rispetto a tale centralità, per il rischio di un conformismo soprattutto negli uffici di procura, più gerarchizzati G. Zaccaro, in associazione magistrati.it, 29 maggio 2017.
[10] A. Iacoboni, Le valutazioni di professionalità, in Foro it., 2016, c. 204.
[11] Il rapporto contiene, tra l’altro:
- la segnalazione sulla complessità dei procedimenti e dei processi trattati in ragione del numero delle parti e delle questioni giuridiche affrontate;
- la comunicazione dell’esito, nelle successive fasi e nei gradi del procedimento, dei provvedimenti giudiziari emessi o richiesti, e relativi all’adozione di misure cautelari o alla definizione di fasi procedimentali o processuali, accertato attraverso la comunicazione dei dirigenti degli uffici e da valutarsi, ove presenti caratteri di significativa anomalia, anche alla luce del rapporto esistente tra provvedimenti emessi o richiesti e provvedimenti non confermati o rigettati, rapporto da valutarsi altresì avuto riguardo alla tipologia ed alla natura degli affari trattati;
- la segnalazione del dirigente dell’ufficio relativa al livello dei contributi in camera di consiglio;
- la segnalazione del possesso delle conoscenze informatiche dirette alla redazione dei provvedimenti ed al miglioramento dell’efficacia dell’azione giudiziaria;
- per i magistrati requirenti con funzioni di coordinamento nazionale la segnalazione relativa alla capacità di rapportarsi in maniera efficace, autorevole e collaborativa con gli uffici giudiziari ed i magistrati destinatari del coordinamento;
- la segnalazione relativamente all’attitudine del magistrato ad organizzare il proprio lavoro e ad adottare misure finalizzate al miglioramento dell’attività giudiziaria;
- la segnalazione del possesso di conoscenze interdisciplinari, di possibile rilievo nell’esercizio della funzione giudiziaria e dell’attività d’interazione svolta con soggetti istituzionali terzi nell’esercizio dell’attività giudiziaria;
- la segnalazione di eventuali ritardi nel deposito dei provvedimenti, con l’indicazione delle ragioni accertate, degli elementi utili per valutarne l’eventuale giustificabilità e dei provvedimenti organizzativi adottati ai sensi di quanto previsto dal paragrafo 60 della circolare sulla formazione delle tabelle introdotto con delibera in data 13 novembre 2013;
- l’indicazione della collaborazione fornita su richiesta del dirigente medesimo o del coordinatore della posizione tabellare o del gruppo di lavoro ovvero del puntuale e corretto assolvimento di funzioni amministrative, anche di livello dirigenziale, comunque svolte;
- l’indicazione del rispetto degli impegni prefissati;
- l’indicazione relativa alla partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative, nonché per la conoscenza dell’evoluzione della giurisprudenza;
- l’indicazione in ordine alla disponibilità alle sostituzioni, applicazioni e supplenze.
[12] Cfr. Allegati A e B alla Circolare.
[13] A. Iacoboni, Le valutazioni di professionalità, cit., c. 204.
[14]Continua la citata pronuncia “Sulla base di questo incontestato rilievo esse: sono state pertanto definite dalla circolare ora richiamata come «imprescindibili condizioni per un corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali» (paragrafo 1, del capo III ora richiamato); sono inoltre state poste in apice rispetto ai parametri di valutazione indicati nell'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 160 del 2006; diversamente da questi ultimi sono state destinate ad essere apprezzate in via ordinaria in termini di assenza di elementi ostativi, «con la formula "nulla da rilevare"», nel senso cioè dell'assenza di elementi incidenti, salvo il caso contrario, da cui «emergano dati che evidenzino difetti di indipendenza, imparzialità ed equilibrio» (così il paragrafo 5 del capo III in esame)”.
[15] Come prevede la Circolare :
la capacità si desume: - dalla preparazione giuridica e dal grado di aggiornamento; - dal possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine, anche in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento; - dalla conduzione delle udienze da parte di chi le dirige o le presiede; - dall’idoneità a utilizzare e dirigere i collaboratori e gli ausiliari, nonché a controllarne l’apporto; - dall’attitudine a cooperare secondo criteri di opportuno coordinamento con altri uffici giudiziari aventi competenze connesse o collegate; - dall’attitudine a svolgere funzioni di direzione amministrativa, anche con riferimento ai compiti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del D.Lgs. n. 240/2006; - dall’idoneità ad attuare metodi di lavoro improntati alla sinergia ed al coordinamento con soggetti istituzionali terzi aventi un qualsiasi ruolo nell’attività giudiziaria; - dal comprovato possesso di competenze interdisciplinari, di possibile rilievo nell'esercizio della funzione giurisdizionale. - dalla capacità decisionale desunta dai tempi, dalla complessità, dall’adeguatezza e dalla congruità della decisione;
la laboriosità si desume: - dalla produttività, intesa come numero e qualità degli affari trattati e come consistenza dell'attività istruttoria eseguita in rapporto alla tipologia ed alla condizione organizzativa e strutturale degli uffici ed in raffronto alla specificità ed eventuale varietà delle funzioni espletate; - dai tempi di smaltimento del lavoro; - dall’attività di collaborazione svolta nell’ufficio; - dall’efficienza nell’attività di direzione amministrativa dell’ufficio comunque svolta;
la diligenza si desume: - dall’assiduità e dalla puntualità nella presenza in ufficio, nelle udienze e nei giorni stabiliti, dovendo ritenersi che la giornata del sabato imponga la presenza in ufficio esclusivamente per assicurare udienze e turni calendarizzati, o attività urgenti, sopravvenute e indifferibili dal rispetto dei termini per la redazione ed il deposito dei provvedimenti, o comunque per il compimento di attività giudiziarie, fatta salva la necessità di garantire l’effettività della fruizione delle ferie e di ogni altra forma di assenza giustificata; - dalla partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative, nonché per la conoscenza dell’evoluzione della giurisprudenza o, nell’ipotesi di presidenti di sezione e di coordinatori di gruppi di lavoro, dalla periodica convocazione di tali riunioni; - dal puntuale e corretto assolvimento di funzioni amministrative, anche di livello dirigenziale, comunque svolte;
l’impegno si desume: - dalla disponibilità alle sostituzioni di magistrati assenti; - dalla frequenza della partecipazione o nella disponibilità a partecipare ai corsi di aggiornamento organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, salvo quanto previsto dalla disposizione transitoria; - dalla collaborazione alla soluzione dei problemi di tipo organizzativo e giuridico.
[16] Si veda in proposito le espresse indicazioni contenute, per la v. non positiva, nel comma 4 del par. XVII della Circolare a mente del quale “Fermo restando quanto previsto dall’art. 11, comma 10. del d.lgs. n. 160/2006, ove lo scrutinio supplementare abbia esito positivo le successive quadriennali valutazioni di professionalità hanno consequenziale posticipata decorrenza dalla scadenza del periodo annuale di rivalutazione”; nonché per la valutazione negativa, del comma 6 che dispone: “Fermo restando quanto previsto dall’art. 11, commi 11 e 12 del d.lgs. n.160/2006, ove lo scrutinio supplementare abbia esito positivo le successive quadriennali valutazioni di professionalità hanno consequenziale posticipata decorrenza dalla scadenza del periodo biennale di rivalutazione.).
[17] Par. XIII: “1.bis Non sono utili alla maturazione del quadriennio i periodi nei quali il magistrato non presta attività lavorativa per le ipotesi di sospensione dalle funzioni di cui agli articoli 10, 21 e 22 del decreto legislativo n. 109 del 23.2.2006, nonché nei casi di aspettativa per motivi di famiglia di cui all’art. 69 del testo unico n. 3 del 10 gennaio 1957; di congedo per eventi e cause particolari di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 53 dell’8 marzo 2000; di congedi per la formazione di cui all’art. 5 della medesima legge n. 53/2000; di ricongiungimento con il coniuge all’estero di cui alla legge n.26 dell’11 febbraio 1980 ed alla legge n. 333 del 25 giugno 1985. In queste ipotesi, il periodo di valutazione del magistrato sopravanza quello ordinario, al quale si aggiunge la durata della causa di mancata prestazione dell’attività lavorativa di cui al periodo che precede. Resta ferma, nel caso di cessazione degli effetti della sospensione cautelare di cui all’articolo 23 del decreto legislativo n. 109 del 23.2.2006, la successiva retrodatazione degli effetti delle delibere già emesse.”
[18] Relazione illustrative delle modifiche del 25 ottobre 2017: “Ciò premesso, un punto fermo è costituito da ciò che non è possibile praticare, sul piano logico e giuridico: non è possibile valutare i quadrienni indipendentemente dalla perdita di anzianità, e cioè operare come se la condanna non vi fosse stata, e al tempo stesso non è possibile non sottoporre a valutazione l’arco temporale oggetto della condanna, operando in tal modo come se nella carriera potesse esservi una sorta di zona “franca” non valutata. Infatti, nel primo caso si disapplicherebbe la norma primaria di cui al citato art. 8 del D.Lgs. n. 109/2006 in quanto si vanificherebbero, sul piano economico e giuridico, i concreti effetti della perdita di anzianità e “si darebbe ingresso all’anomala figura di un magistrato – quello, per l’appunto, attinto dalla sanzione disciplinare della perdita di anzianità – che percepisce una determinata retribuzione pur non avendo ancora maturato l’anzianità necessaria a tal fine” (così nel suddetto parere dell’Ufficio studi). Nel secondo caso si creerebbe un’inammissibile soluzione di continuità temporale nella valutazione di professionalità, con l’effetto di non poter prendere in considerazione, in positivo o in negativo, quanto compiuto dal magistrato nel periodo pari alla sanzione irrogata”.
[19] In tali termini si esprime la citata sentenza del Cons. Stato Sez. V, Sent., 26 ottobre 2016, n. 4471 “un simile operato, … è pienamente conforme al precetto normativo primario regolante le valutazioni di professionalità dei magistrati: è evidente che a fronte dell'assenza di elementi ritraibili dal rapporto informativo del dirigente sul profilo in questione il Consiglio giudiziario ha utilizzato gli altri elementi conoscitivi a sua disposizione.
Quanto all'esigenza di acquisire ulteriori informazioni dalla persona del Procuratore capo in carica nel quadriennio - elemento ritenuto decisivo dal Tribunale amministrativo - è sufficiente evidenziare che ai sensi del citato comma 5 dell'art. 11 D.Lgs. n. 160 del 2006, essa costituisce una mera facoltà ulteriore di cui il Consiglio giudiziario può discrezionalmente decidere di avvalersi e, soprattutto, che nell'esercizio della stessa facoltà è stata acquisita la documentazione relativa alle vicissitudini di natura penale che hanno visto coinvolto il magistrato in valutazione. Quindi, una volta acquisiti questi elementi conoscitivi non è dato cogliere l'esigenza di ulteriori apporti istruttori, ed in particolare dal precedente capo dell'ufficio, posto che verosimilmente nulla avrebbe egli rispetto a vicende avvenute al di fuori dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali e dunque dell'attività d'ufficio del magistrato.”
[20] Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339, la quale richiama Cons. Stato, IV, 5 luglio 2010, n. 4250; Cons. Stato, sez. III, 7 aprile 2009, n. 456): “la valutazione negativa dell'aspirante può derivare anche da singoli elementi, purché idonei a denotare un difetto grave (…) sia pure in uno solo degli ambiti previsti dalla legge”.
[21] Continua la Relazione: “Per l’effetto, e per esemplificare, ove un magistrato debba essere valutato per la quarta valutazione di professionalità per il quadriennio dal 28.2.2012 al 28.2.2016 ed in quel quadriennio sia stato colpito da una condanna disciplinare di sospensione dalle funzioni di un anno ovvero abbia beneficiato del congedo straordinario per ricongiungimento del coniuge all’estero per la durata di un anno, il periodo di valutazione riguarderà l’arco temporale dal 28.2.2012 al 28.2.2017, pari comunque ad un quadriennio netto, visto che in questi cinque anni vi sarà stato un anno in cui il magistrato non ha prestato attività lavorativa e non è stato quindi valutabile (salve eventuali e gravi condotte extrafunzionali, che sarebbero comunque da valutare ma rappresentano una mera e non frequente eventualità)”.
[22] In passato vi è stata una proposta di modifica della Circolare tesa ad ovviare a tale inconveniente soprattutto quando il parere positivo del Consiglio Giudiziario lasci prevedere un analogo giudizio positivo da parte del CSM.
Si è evidenziato, tuttavia, da parte dell’Ufficio Studi che “Si verificherebbe, nell’indicata eventualità, una compressione dei diritti del magistrato in valutazione, compressione difficilmente giustificabile proprio nel caso – che ha formato oggetto, di recente, della modifica alla Circolare, introduttiva, al Capo XVII, del punto 3 bis – del soggetto che abbia ottenuto il parere favorevole da parte del Consiglio Giudiziario e rispetto al quale il primo organo che abbia disposto un’interlocuzione, a seguito del rilievo di criticità dapprima obliterate, sia stata la Quinta Commissione”.
A fronte di tale problematica si è altresì ricordato che “Per evitare tale compressione e al fine precipuo di riempire di contenuti sostanziali il diritto al contraddittorio di cui si è ripetutamente affermata l’esistenza, l’anzidetta articolazione dell’Organo di autogoverno ha formulato la proposta di modificare la Circolare in tema di valutazioni di professionalità nel senso di stabilire che, qualora le delibere consiliari che formulano un giudizio “non positivo” o “negativo” intervengano a distanza di più di un anno – nella prima eventualità – o di più di due anni – nella seconda – dai periodi che devono formare oggetto degli scrutini suppletivi, tali scrutini siano effettuati tenendo conto anche degli elementi relativi alla professionalità del magistrato intervenuti successivamente all’anno o al biennio de quibus e che, in tale eventualità, il Consiglio disponga le integrazioni istruttorie valutate necessarie”.
Come si vedrà, la proposta non è stata poi approvata per l’impossibilità di addivenire a soluzioni conformi al dato normativo primario (vedi a riguardo Delibera Plenaria adottata il 17 marzo 2017 allegata p. 4750/2017, pag. 7).
[23] Recentemente T.A.R. Lazio, Sez. Prima n. 1386 del 2018: “la giurisprudenza ha affermato che, nelle valutazioni di professionalità successive alla prima, il giudizio del CSM può (e, anzi, deve) estendersi al vaglio di ogni elemento utile a formulare la migliore valutazione complessiva del profilo professionale del magistrato, con la conseguenza che fra gli aspetti oggetto di rilievo ben possono essere incluse anche le eventuali condotte individuali che in precedenza abbiano formato oggetto di un provvedimento disciplinare, a prescindere dall’esito delle stesse, atteso che il procedimento è proteso all’autonomo “scopo di un completo apprezzamento obiettivo della personalità professionale dell’interessato attraverso la disamina di tutti gli elementi atti a ricostruirla” (cfr. da ultimo Tar Lazio, sez. I, 5 aprile 2017, n. 4238)”.
Al di là delle diversità strutturali tra le due fattispecie considerate dall’appellante (il giudizio disciplinare ed il procedimento amministrativo di valutazione della professionalità), diverse sono le interferenze tra gli stessi.
V. anche Cons. St., Sez. Quinta, n. 4149 del 2017 secondo cui: “in primo luogo, ciò si verifica per quanto concerne i doveri del magistrato, individuati dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 in imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, ed i parametri di valutazione della professionalità, che parimenti espressamente contemplano alcuni di essi (non il riserbo e la correttezza, pur rilevando gli stessi, nel giudizio valutativo, in relazione, ad esempio, ai rapporti di collaborazione con gli uffici giudiziari, i magistrati destinatari del coordinamento ed i soggetti istituzionali terzi).Anche in relazione agli illeciti disciplinari alcune fattispecie tipiche trovano dei corrispondenti nei parametri e negli indicatori della professionalità, in primis in tema di ritardi: in ambito disciplinare, l’art. 2, comma 1, lett. q) prevede “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” (con presunzione di non gravità del ritardo che non ecceda il triplo dei termini previsti dalla legge), laddove la circolare, tra gli indicatori della diligenza, menziona il “rispetto dei termini per la redazione e il deposito dei provvedimenti, o comunque per il compimento di attività giudiziarie”, rinviando per il relativo accertamento all’esame dei prospetti statistici comparati o alle indicazioni dei dirigenti degli uffici”.
[24] Per quanto “non si tratta (i) di una inammissibile duplicazione di sanzione, in quanto la rinnovata considerazione di un fatto già colpito da un precedente disciplinare non viene effettuata con una prestabilita finalità punitiva, costituendo piuttosto un accertamento proteso al ben diverso scopo di un completo apprezzamento obiettivo della personalità professionale del magistrato, attraverso la disamina di tutti gli elementi atti a ricostruirla (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 marzo 1992, n. 3391)” (conf. Cons. stato, Sez. 5, 4149/2017); conf. Cons. Stato n. 620 del 2017: “In questo differente contesto valutativo – a differenza di quello finalizzato a una stima anche de futuro e non semplicemente de preterito - infatti, una distinta considerazione di un fatto già colpito da precedente disciplinare non configura, in sé stessa, un'inammissibile duplicazione di “sanzione”, ma costituisce un accertamento proteso al ben diverso scopo di un completo apprezzamento obiettivo della personalità professionale del magistrato, attraverso la disamina di tutti gli elementi atti a ricostruirla in vista del suo successivo svolgimento di carriera (cfr. Cons. Stato, IV, 3 giugno 2010, n. 3544; IV, 5 luglio 2010, n. 4250, che si riferisce alle condotte individuali già accertate e oggetto di procedimento penale, disciplinare o di trasferimento per incompatibilità ambientale; IV, 10 giugno 2011, n. 3527, che precisa che i fatti possono essere anche antecedenti la pregressa valutazione di professionalità; 1 settembre 2015, n. 4093, che sottolinea che non ricorre un’inammissibile duplicazione di sanzione vietata dal ne bis in idem). Un fatto che abbia costituito un precedente disciplinare deve comunque distintamente vagliarsi se rileva ai fini del detto art. 11”. (conf. 3544 del 2010).
[25] Ne consegue che, impregiudicati i casi di sospensione obbligatoria della valutazione in caso di sospensione dalle funzioni in via cautelare (par. XII della Circolare) la sospensione facoltativa del procedimento – prevista dal comma 2 del par. XII - va disposta, salva la possibilità di valutare autonomamente quei fatti alla base del giudizio disciplinare senza attenderne l’esito, proprio per evitare irrazionalmente che essa divenga irrilevante a seguito del conseguimento della valutazione di professionalità e per poter effettuare quella valutazione necessariamente completa necessaria ad attribuire la qualifica, salvo l’eventuale revoca in autotutela della valutazione precedentemente conseguita. In altri termini andrebbe escluso che si possa non sospendere il procedimento valutativo e omettere l’analisi dei fatti alla base dell’incolpazione disciplinare.
[26] Cons. Stato, 26 febbraio 2019, n. 1339, che aggiunge: <<9.5 Non si tratta di proiettare sine die le conseguenze di un episodio circoscritto, ma di riconoscere che tale episodio, certamente sintomatico della mancanza di equilibrio, non essendo stato preso in considerazione nella valutazione di idoneità alla qualifica di magistrato di appello essendo ancora in corso gli accertamenti del caso secondo le garanzie proprio del procedimento disciplinare, possa e debba essere
ponderato nella fase valutativa successiva, nel cui arco temporale comunque gli effetti di quella condotta vanno a riverberarsi con certezza, quanto meno nella fase iniziale.>>
[27] Nella delibera consiliare citata del 15 marzo 2017 a riguardo si osserva: “Seguendo il principale criterio ermeneutico di cui all’art. 12 disp. prel. c.c., va rilevato che sia la norma primaria (ossia l’art. 11 del d.lgs. n. 160/2006) sia la norma secondaria (ossia la circolare 12940/2007) impongono che il periodo, annuale o biennale, di rivalutazione del magistrato che non abbia conseguito una positiva valutazione di professionalità sia collocato subito dopo quello già preso in considerazione, senza soluzioni di continuità. Ciò senza alcuna eccezione, anche quando il magistrato nel periodo scrutinato non abbia svolto attività giudiziaria. Come infatti chiarito nel parere tecnico n. 290/2013, reso in data 23.9.2013 dall’Ufficio studi e documentazione di questo Consiglio, “all’attualità, non vi è alcuna norma di rango primario che condizioni la legittimità del conseguimento della valutazione di professionalità all’effettivo esercizio dell’attività giurisdizionale. L’unico dato di legislazione positiva è quello che riferisce il controllo periodico a ciascun quadriennio in cui si articola il rapporto di servizio del magistrato, computato a decorrere dal decreto ministeriale di nomina. Una diversa soluzione, che collochi la valutazione in un momento successivo e consideri un periodo diverso e più lungo di quattro anni dalla precedente allo scopo di attendere un corrispondente periodo di reale esercizio delle funzioni, avrebbe l’effetto di modificare sostanzialmente il percorso di carriera individuando una diversa decorrenza giuridica ed effettiva degli avanzamenti economici, nonché degli eventuali tramutanti funzionali possibili per il magistrato interessato”.”.[27]
In conclusione, sebbene l’espletamento dell’ulteriore attività giudiziaria, causativa di conseguenze non proprio in linea con i principi di ragionevolezza e di equità che necessariamente devono connotare l’azione amministrativa, la proposta formulata dalla Quarta Commissione, in cui – come detto – si propugna la presa in considerazione di tutto il lasso temporale che precede la concreta effettuazione della valutazione di professionalità, anche nella parte eccedente l’anno o il biennio oggetto dello scrutinio suppletivo, se di apprezzabile durata, presta il fianco, pur nell’encomiabile finalità che la connota, a più d’una critica.Non può non rilevarsi, infatti, che la proposta di modifica della Circolare di cui trattasi presenta evidenti profili di contrasto con la normativa primaria di cui all’art. 11, 10° e 11° comma, D.lgs. 160/2006, ove si prevede con chiarezza che lo scrutinio suppletivo si effettua decorso un anno o un biennio dalla prima valutazione “non positiva” o “negativa”. E questo a tacer del fatto che, in conseguenza delle modifiche in disamina, si infrangerebbe, sul piano formale, la scansione dei periodi quadriennali (nell’eventualità fisiologica), biennali o annuali (in quelle patologiche) che caratterizzano la progressione in carriera dei magistrati e si finirebbe, de facto, col valutare doppiamente la frazione temporale, di congrua durata, eccedente l’anno o il biennio oggetto di scrutinio suppletivo, vagliata sia nell’ambito dell’indicato scrutinio suppletivo “allargato”, sia all’interno della successiva valutazione di professionalità, ove prevista”.
[28] I. Mannucci Pacini, Basta aggettivi, in www.questionegiustizia.it, 2020.
[29] Sul punto vedi G. Campanelli, Nuovo Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in questione giustizia.it, 9 aprile 2016.
Mio padre vive!
Intervista di Donatella Palumbo a Caterina Chinnici
Il 29 luglio 1983 a Palermo, in via Pipitone Federico, vennero assassinati il magistrato Rocco Chinnici, due carabinieri addetti al servizio di tutela - Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta - e Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile dove abitava il magistrato e dinanzi al quale era parcheggiata la Fiat 126 imbottita di esplosivo. Unico superstite Giovanni Paparcuri, autista del magistrato. Sono trascorsi 37 anni eppure il ricordo è ancora vivo, soprattutto nella mente e nel cuore della figlia Caterina Chinnici, che ha seguito l’esempio del padre diventando magistrato. Attraverso le parole di Caterina Chinnici il ricordo non assume una dimensione solo privata ma è testimonianza dell’impegno civile di un magistrato che ha compiuto il suo dovere fino alla fine senza cedere alla prepotenza mafiosa, contribuendo con il sacrificio del bene più prezioso - la sua vita - alla tenuta democratica dello Stato e dei diritti e delle libertà di tutti noi. Una vita “al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni”, come recita la motivazione con cui è stata assegnata al magistrato la Medaglia d’oro al valore civile. Una testimonianza per chi c’era e in quegli anni ha vissuto la tragicità degli eventi proseguendo tenacemente il proprio lavoro e per i giovani magistrati della mia generazione che, pur non avendo vissuto quel periodo, hanno come modello per la propria formazione colleghi come Rocco Chinnici, nel solco del cui esempio cercano di affrontare le difficoltà quotidiane della funzione con spirito di servizio, dedizione al lavoro e rigore morale.
1) Il 29 luglio 1983 Rocco Chinnici venne ucciso, unitamente a due uomini della scorta e al portiere dello stabile della sua abitazione, in un agguato mafioso. Un dolore intimo e personale per la morte di un genitore che assunse una dimensione pubblica per il ruolo svolto da suo padre. Che ricordo serba di quella terribile giornata e a cosa pensa ogni volta che ricorre questa data?
“Quel giorno non mi trovavo a Palermo. Ero a Caltanissetta, sulla strada da casa al tribunale. Come sempre mi accompagnò mio marito. Passammo prima dal suo studio, accanto al quale c’era la casa dei suoi genitori. Era già successo tutto ma ancora non sapevamo. Incrociai uno sguardo strano di mia suocera ma sapevo che suo marito era malato e lo ricollegai a questo. Pochi minuti dopo, però, telefonarono dalla questura di Caltanissetta e rispose mio marito. Improvvisamente cambiò espressione, si contrasse in volto e disse «No, lo zio Rocco no»: in quel momento capii. È così che ho saputo dell’attentato a mio padre. Partimmo per Palermo ma non ricordo nulla di quell’ora di strada, a parte un grande vuoto e la sensazione di sprofondare. Volevo andare subito da mio padre e mi accompagnarono all’obitorio, dove avevano già spostato i corpi delle vittime, e lì lo vidi per un attimo. Poi andai a casa dai miei fratelli, che qualche minuto prima dell’esplosione avevano bevuto il solito caffè preparato da nostro padre, l’ultimo. Li trovai impietriti in quello scenario di devastazione, anche loro sotto shock. Mia mamma fu avvisata da un cugino, una volante andò a prenderla a Trapani nella scuola dove lei era impegnata in commissione d’esami durante le sessioni di maturità. Quel giorno il dolore si è annidato dentro di me, non se n’è più andato. Lo stordimento iniziale, la rabbia, ma a poco a poco la volontà di proseguire nel nostro percorso di vita con dignità e coraggio. A papà infatti la rabbia non sarebbe piaciuta. Lui stesso, pur consapevole dei rischi ai quali si esponeva, aveva scelto di portare avanti fino in fondo il proprio impegno civile mantenendo sempre intatta la propria benevolenza. Il suo sacrificio non è stato vano: per il messaggio culturale che ha lasciato ai giovani, per come il suo lavoro ha contribuito a tutta l’antimafia moderna e agli importanti risultati che ne scaturiscono, per gli sviluppi che le sue intuizioni continuano ad avere adesso a livello europeo, anche attraverso il mio personale impegno al Parlamento Europeo. Questo è ciò che penso ogni anno in occasione del 29 luglio, perché in questo c’è il significato più alto della memoria: la continuità”.
2) La città di Palermo, dal 1979 al 1982, venne scossa da plurimi omicidi di mafia contro uomini delle forze dell’ordine, politici e magistrati: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Erano gli anni in cui suo padre, Rocco Chinnici, assunse la direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Ebbene, di fronte a questa lunga scia di sangue quale era lo stato d’animo di suo padre e come veniva vissuto in famiglia il suo lavoro e i rischi cui andava incontro?
“Papà amava molto il suo lavoro. Le difficoltà le metteva nel conto e non lo condizionavano. Si è sempre sforzato di tenerci al riparo dalle preoccupazioni e dalle tensioni che, sicuramente, con il passare del tempo si facevano strada sempre di più. Da metà anni Settanta, tuttavia, le limitazioni dovute a ragioni di sicurezza e le conseguenti rinunce diventarono progressive, e io ebbi la netta sensazione che fosse iniziata una nuova epoca dalla quale non si sarebbe più tornati indietro, sebbene lui ripetesse che era una situazione transitoria. Smise di andare in ufficio a piedi, venivano a prenderlo con l’auto blindata. Non poté più andare con mamma a fare una passeggiata, al cinema o al teatro. Non accompagnava più noi alle feste. Poi dal 1980 si intensificarono le telefonate minatorie, alcune anche in piena notte. Papà arrivava sempre prima di noi a prendere la cornetta del telefono, tranne un paio di volte in cui rispose mamma per errore, ma ormai a quel punto la paura era entrata in casa. Mamma voleva che lui lasciasse l’ufficio Istruzione e che presentasse istanza per andare alla procura generale di Torino ma non credo che papà abbia mai avuto realmente questa intenzione, anche se per tranquillizzare mamma si mostrava a volte possibilista. Sentiva di essere al suo posto e noi stessi ci rendemmo conto che non potevamo chiedergli di rinunciare al lavoro che stava portando avanti: per lui sarebbe stato come tirarsi indietro”.
3) Una delle intuizioni più importanti di suo padre quando dirigeva l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo fu la creazione di una struttura collaborativa tra magistrati dell’ufficio che negli anni successivi sarebbe diventato il “pool antimafia”, un gruppo di lavoro capace di creare sintonie professionali e anche amicizie tra magistrati e uomini della polizia giudiziaria, al fine di alleviare la solitudine e l’isolamento che spesso connotano il nostro lavoro. Quanto credeva suo padre nel lavoro di squadra, soprattutto con riferimento al contrasto dei reati di criminalità organizzata?
“Ci credeva moltissimo. E quella fu una delle innovazioni dirompenti nate dal suo lavoro. Basti pensare al fatto che oggi la cooperazione, sia giudiziaria che di polizia, è un pilastro delle strategie investigative per la lotta contro le organizzazioni criminali. Quell’idea non è solo all’origine del pool antimafia, ha ispirato anche la nascita delle direzioni distrettuali antimafia coordinate dalla direzione nazionale antimafia, e di riflesso anche la procura europea istituita di recente. Mio padre analizzava, approfondiva, e per questo aveva maturato una grande conoscenza del fenomeno mafioso. Aveva capito che alcuni fatti di sangue apparentemente indipendenti erano tasselli di uno stesso scenario, che c’erano connessioni tra mafia, imprenditoria e politica, che era necessario monitorare i movimenti di denaro sui conti correnti bancari. Si rese conto, cioè, che non era possibile combattere la mafia un reato per volta, e così decise di costituire un gruppo. Era indispensabile superare la frammentazione delle conoscenze e garantire la condivisione delle informazioni tra magistrati, così come la condivisione delle scelte successive. Un metodo che fece dell’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo un modello di efficienza nella lotta alla mafia. Uno schema consolidato nel tempo venne così scardinato, ma non fu l’unico. Per esempio, papà iniziò a dare direttamente indicazioni alla polizia giudiziaria, coordinandone l’attività: per questo ricevette una lettera di richiamo, ma con il nuovo codice di procedura penale del 1989 quella prassi diventò legge e ancora oggi la polizia giudiziaria è alle dipendenze funzionali del pubblico ministero, ad ulteriore dimostrazione di quanto le intuizioni di Rocco Chinnici abbiano inciso sull’evoluzione dell’antimafia moderna”.
4) Rocco Chinnici aveva una visione moderna e innovativa delle tecniche investigative e diede, in particolare, grande impulso alle misure di prevenzione patrimoniali come strumento elettivo per indebolire l’organizzazione criminale mafiosa aggredendone direttamente il profitto illecitamente accumulato. Nel suo Ufficio lavorarono anche due grandi magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ricorda qualche episodio che possa far comprendere il livello dei loro rapporti professionali e personali?
“Mio padre li scelse uno per uno i giudici con cui formare quel gruppo di lavoro successivamente denominato pool antimafia. Paolo Borsellino lo affiancava già da qualche anno, Giovanni Falcone invece arrivò dopo. Papà lo convinse a trasferirsi all’ufficio Istruzione dalla sezione fallimentare del tribunale di Palermo. Voleva infatti avviare le prime indagini bancarie e pensò di sfruttare la capacità di leggere i bilanci societari e di ricostruire i movimenti di denaro che Falcone aveva maturato in ambito civilistico. Tre personalità diverse, appartenenti a correnti diverse della magistratura, ma tra loro c’erano coesione, complicità, stima e amicizia. Si frequentavano anche fuori dal lavoro, spesso con il coinvolgimento delle famiglie. Ricordo molti momenti trascorsi insieme ma quello che meglio esemplifica i loro rapporti personali e professionali è, ritengo, il momento in cui io, allora giovane uditore giudiziario in servizio proprio all’ufficio Istruzione, li vedevo appartarsi in un angolo del palazzo di giustizia per scambiarsi informazioni sottovoce. In quei conciliaboli c’è la rappresentazione di tutto quanto ho appena detto e, in più, della grande fiducia reciproca senza la quale quell’approccio d’èquipe non sarebbe stato possibile”.
5) Ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera, l’Associazione Libera celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno attraverso la lettura dell’elenco dei nomi di tutte le vittime di mafia, tra i quali figura anche suo padre. Nel corso di questa giornata, così come in altre occasioni, di fondamentale importanza risulta la partecipazione dei giovani, sempre più spesso impegnati in percorsi di legalità nel corso dell’anno scolastico. Per Rocco Chinnici quanto era importante coinvolgere in dibattiti ed incontri le istituzioni, la società civile e, in particolare, i giovani al fine di sensibilizzare le coscienze sui temi del contrasto alla criminalità organizzata e quanto credeva suo padre nelle nuove generazioni e nella loro capacità di riscatto?
“Papà dischiuse le porte degli uffici giudiziari. Metaforicamente, intendo. Nel senso che, superando e quasi forzando la propria innata riservatezza, parlava del suo lavoro per sensibilizzare la cittadinanza, per spiegare cos’era la mafia in un’epoca in cui spesso ne veniva negata l’esistenza, per mettere in guardia dai pericoli legati all’uso di droghe. Interveniva alle conferenze, ai dibattiti televisivi, e fu proprio in quegli anni, periodo ’79-‘80, che per esempio si iniziò a parlare di una nuova legislazione che consentisse di perseguire i reati di mafia in quanto tali. Con grande impegno papà si batteva già insieme a Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, affinché fosse previsto il reato di associazione di stampo mafioso e affinché i giudici potessero colpire la mafia nel vivo, cioè nella sua ricchezza conseguita illecitamente. Sostenne pubblicamente la necessità di approvare la legge Rognoni-La Torre con la quale poi, nel settembre 1982, fu effettivamente introdotta la nuova figura di reato, cioè l’associazione di tipo mafioso, e furono rese obbligatorie le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei beni illecitamente conseguiti dall’organizzazione mafiosa. Inoltre papà parlava spesso con i giovani. Era sua convinzione che dovesse essere combattuta l’acquiescenza a un certo sistema, e che questo andava fatto a livello sociale, riducendo il disagio delle famiglie, portando il lavoro e la cultura che, diceva sempre, vuol dire libertà. E siccome l’illegalità trova terreno fertile dove prosperano ignoranza e indigenza, lui volle scommettere soprattutto sui giovani. Perché credeva nei ragazzi. Diceva che se i giovani sono messi in condizione di studiare, la loro intelligenza può renderli cittadini consapevoli, in grado di esercitare i diritti e di fare le proprie scelte. La sorte e il futuro dei giovani erano stimoli fortissimi per lui, e non potrò mai dimenticare quanto era rimasto segnato dalla tragedia di una ragazza, inquilina del nostro palazzo, trovata morta per overdose. Decise allora che doveva fare di più, e iniziò ad andare sistematicamente nelle scuole per informare i ragazzi sui rischi che correvano. Nessun magistrato aveva mai fatto queste cose prima di lui”.
6) Lei è entrata in magistratura nel 1979, anno in cui furono uccisi i magistrati Emilio Alessandrini e Cesare Terranova. L’anno successivo, nel 1980, vennero assassinati anche i magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa. Per ogni giovane magistrato il periodo del tirocinio rappresenta un momento importante, vissuto con grande entusiasmo atteso che finalmente, dopo tanti anni di studio, si ha la possibilità di confrontarsi con la realtà giudiziaria, con gli affidatari e con gli altri colleghi in tirocinio per prepararsi adeguatamente ad assumere le funzioni nella prima sede di assegnazione, spesso uffici di frontiera caratterizzati da molteplici criticità. Cosa ha significato per lei, giovane magistrato, svolgere l’uditorato e lavorare nel primo ufficio di destinazione in quel periodo scosso da eventi così tragici?
“Era un periodo di tragici eventi, sì, e ovviamente anche di forti tensioni, ma non c’era il tempo di pensarci più di tanto perché all’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo si lavorava incessantemente. Io e gli altri uditori di quell’epoca abbiamo avuto la grande fortuna di poter imparare il mestiere da alcuni autentici fuoriclasse della magistratura, peraltro in un clima reso molto familiare dalla loro carica umana che andava sempre a braccetto con una rigorosissima professionalità. Il mio è stato un uditorato bellissimo, perché come giudice affidatario mio padre scelse per me Paolo Borsellino, che di papà aveva lo stesso profilo umano, la stessa severità, la stessa capacità di essere instancabile. Lo conoscevo già perché frequentava anche casa nostra. Con me era paterno, mi rendeva partecipe del suo lavoro. Io studiavo i fascicoli e gli esponevo il mio punto di vista sui possibili provvedimenti. Un giorno Paolo mi portò con sé al carcere, dove doveva interrogare un imputato per omicidio. Di solito gli uditori prendevano contatto insieme, in gruppo, con questo tipo di realtà. Paolo volle che lo accompagnassi e per me già il solo varcare le porte di ferro del penitenziario fu traumatico, ma dopo fui ancora più turbata dal trovarmi faccia a faccia con un assassino. È davvero difficile per un giovane magistrato quel momento in cui necessariamente si entra nei particolari del fatto per capire come è stato compiuto il crimine. Ma ecco l’insegnamento che viene dall’esempio: mentre a me quasi tremavano le gambe, Paolo rimase lucido e distaccato, pose le domande in modo fermo ma trattando sempre quel detenuto come una persona. È stato un grande maestro per me”.
7) Qual è l’insegnamento più grande che ha ricevuto da suo padre e che ha praticato nella sua vita professionale?
“Il suo modo di essere magistrato mi ha fortemente ispirato. Era un giudice rigoroso nell’applicare la legge ma sempre umano nei confronti delle persone che era chiamato a giudicare. Un vero servitore dello Stato e della collettività. Il suo esempio ha avuto un ruolo determinante nella mia scelta di intraprendere la carriera di magistrato. E poi lui mi ha insegnato ad andare sempre oltre le difficoltà per portare avanti quello in cui credo. Pur conscio di cosa significasse in quegli anni essere magistrato, non ha mai cercato di dissuadermi e anzi ha sempre sostenuto questa mia passione. Ma questo insegnamento, il non farsi scoraggiare dalle difficoltà, me lo aveva sempre dato, fin da quando ero piccola. Era proprio questo, per esempio, il suo messaggio quando io, bambina tranquilla ma con il vezzo della velocità sulla bicicletta, cadevo rovinosamente procurandomi sbucciature a volte anche profonde: lui non mi sgridava, nessuna ramanzina, anzi mi medicava, mi rimetteva in sella e mi diceva «ora ricomincia a correre e cerca di farlo meglio». Coraggio e determinazione: questo l’’insegnamento più importante che ho ricevuto da mio padre e che ho praticato nella vita e nel lavoro”.
8) Dal 2015 Rocco Chinnici è onorato come Giusto nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano, un memoriale per tutti coloro che si sono opposti ai genocidi e ai crimini contro l’umanità. Sul cippo in suo onore si legge “Magistrato integerrimo e di grande umanità, coraggioso promotore del primo pool antimafia del Tribunale di Palermo, ucciso dalle cosche nel 1983”. Secondo suo padre, quali erano le qualità professionali, umane ed etiche che dovevano essere incarnate da un magistrato e come lui le praticava?
“Né lui né i suoi colleghi impegnati in prima linea avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto senza una solidissima base di valori che li sorreggeva nel loro eccezionale impegno. La giustizia, la legalità, il senso del dovere, la fedeltà allo Stato e alle istituzioni. Tutto questo si traduceva poi in una straordinaria dedizione al lavoro. Mio padre aveva proprio la religione del lavoro, riusciva a smaltire impressionanti quantità di lavoro. Una domanda molto simile a quella che lei mi pone adesso la fecero a lui un giorno durante un’intervista televisiva, e lui disse proprio così: che un magistrato deve innanzitutto lavorare”.
9) Un’ultima domanda: cosa direbbe oggi suo padre Rocco Chinnici ad un giovane che si appresta a muovere i primi passi in magistratura, soprattutto in contesti criminali difficili?
“Ai giovani magistrati che prendevano servizio all’ufficio Istruzione come uditori papà trasmetteva un grande entusiasmo. Me lo hanno testimoniato tanti colleghi che hanno iniziato la carriera proprio con lui. Parlava loro della responsabilità che si ha nello svolgere la professione di magistrato, a maggior ragione in un contesto territoriale difficile come quello di Palermo, e al tempo stesso li stimolava a lavorare con passione, anche contagiandoli con la sua che era smisurata. Sono sicura che anche oggi a un giovane magistrato Rocco Chinnici direbbe di lavorare tenendo sempre come riferimenti l’impegno, la passione e il senso di responsabilità”.
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