ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le ragioni del debito comune europeo, oltre il pretesto del Covid
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Eccezionalità del Covid e problemi permanenti del disegno europeo - 2. Perdita di peso del “mercato europeo” e venti di statalismo sull’Unione - 3 Il debito comune e le sue prospettive.
1. Eccezionalità del Covid e problemi permanenti del disegno europeo
L’accordo trovato nel Consiglio europeo del 21 luglio 2020 è politico programmatico, ma molte sue conseguenze sono giuridicamente inevitabili. La più rilevante è l’emissione di un debito comune europeo, equivalente sul piano dei principi a quegli eurobond di cui si parla da dieci anni e che finora avevano visto le resistenze dei paesi meno indebitati. Su questo dibattito pluriennale si è inserita l’epidemia Covid, circostanza straordinaria che ha molto facilitato l’accordo politico della settimana scorsa. Un rifiuto di principio del debito comune avrebbe infatti alimentato ulteriormente polemiche ed incertezze che da anni scuotono la costruzione europea. Mi riferisco allo scetticismo verso una sorta di superstato europeo, non governato da rappresentanti politici comuni eletti[1], senza uffici amministrativi controllati da un’opinione pubblica comune. Quest’ultima, che interagisce coi propri rappresentanti politici, e li controlla socialmente, è infatti configurabile solo a livello nazionale[2].
Si tratta di un “unicum geopolitico”, molto più fluido delle confederazioni, ma di cui troviamo incursioni anche nei più intimi dettagli della vita quotidiana. Verso tutto questo montava da anni, nelle opinioni pubbliche di molti stati membri, uno scetticismo rivelato sia dal referendum Brexit, sia dalla nascita, nei più importanti paesi europei, di tendenze tutt’altro che entusiaste del disegno comunitario; queste tendenze, al di là delle banalizzazioni di alcune forze politiche che vi si collegano, non possono essere puramente e semplicemente esorcizzate[3], etichettandole come populiste e retrograde.
Al di là della retorica secondo cui l’Europa ci avrebbe regalato 70 anni di pace, legata invece ad altri fattori di geopolitica internazionale, le libertà europee di muovere persone, imprese, merci e capitali sono state molto positive. Esse hanno infatti eroso rendite di posizione e contribuito al benessere comune; nel mercato unico han potuto coesistere paesi con meno stato e meno imposte, relativamente liberisti , oppure, secondo innumerevoli sfumature intermedie, più socialdemocratici, con più imposte ed intervento pubblico. Lo sfondo condiviso era quello di economia mista, con possibilità di iniziativa economica privata e vari assetti “stato-mercato”. L’obiettivo era di passare da una competizione politico-militare ad una economica, a seconda dell’efficienza raggiunta in concreto da ciascun paese nel suo mix stato-mercato.
2. Perdita di peso del “mercato europeo” e venti di statalismo sull’Unione
Il disegno di cui al punto precedente si è incrinato sotto vari profili, come l’eccesso regolatorio autoprodottosi per armonizzare la concorrenza economica con altri valori quali la sicurezza, la sanità, l’ambiente etc… La normativa comunitaria si è infatti intromessa nei minimi dettagli delle caratteristiche produttive delle imprese, e dei beni di largo consumo, fino alle prese elettriche e alla taglia minima per la pesca delle vongole. A questa sensazione di invadenza burocratica si è aggiunta la crisi dei mercati (il mercato unico) e dell’idea semplicistica di concorrenza presupposta dalla Comunità[4].
I propositi europeisti di integrazione politica attraverso l’economia si sono scontrati anche con la perdita di centralità produttiva da parte del continente. Molte produzioni Europee sono diventate economicamente mature e la globalizzazione ha spostato le “fabbriche del mondo”, spesso tra l’altro in paesi con tradizioni più antiche e raffinate di quelle europee. In misura notevole l’Europa è diventata cioè un mercato di consumo, anziché di produzione, e con una minore portata unificante dei rapporti economici. Sarebbe improprio parlare, come fanno gli economisti, di fallimento del mercato, composto da aziende, ciascuna delle quali ha l’obiettivo particolare di produrre e vendere beni e servizi, non di contribuire a un migliore ordine sociale. Al di là degli opportuni caveat dell’ordoliberismo tedesco e dell’economia sociale di mercato, la politica Europea di unificazione si aspettava troppo da una sorta di semplicistica personalizzazione dei mercati, come fossero entità senzienti con obiettivi di autoregolamentazione; per questo neppure ha senso criticare i mercati perché non raggiungono obiettivi che neppure si pongono, in quanto spettano invece alla politica e agli studi sociali. Economia di mercato significa semplicemente ammettere l’iniziativa economica privata, sempre in qualche misura tollerata nel tempo e nello spazio, salva la religione civile del comunismo. Ammettere il mercato non significa però che esso possa sempre e comunque autoregolarsi, ignorando i bisogni pubblici e privati cui non è in grado di rispondere. Proprio l’aumento di tali bisogni ha messo gli stati europei in una posizione delicata, sia per “sostenere il tenore di vita” cui la società era ormai abituata, sia per salvaguardare le organizzazioni produttive, evitandone la disgregazione. L’Europa è complessivamente diventata più statalista, per fronteggiare i suddetti squilibri economici; ciò è avvenuto col “consumo a debito”, sia da parte di privati sussidiati sia da parte di politiche di investimenti pubblici. Di fronte alla necessità di iniziativa economica di pubblici poteri, gli obblighi e i divieti un tempo dettati in nome della concorrenza hanno provocato le già indicate crisi di rigetto e le risposte di cui al paragrafo successivo.
3. Il debito comune e le sue prospettive
Uno degli strumenti più diffusi del moderno intervento pubblico di cui al paragrafo precedente è l’emissione di moneta, ormai prerogativa pubblica (sovrana con evidenti relazioni con l’espressione sovranismo), limitata da vincoli europei di varia natura[5]. Verso questi vincoli si dirigono molte delle tendenze antieuropee di cui al precedente paragrafo 1. Tra esse c’erano anche quelle di paesi europeisti (e rigoristi), restii a spendere il credito del proprio stato a beneficio dei prestiti di un altro. Si tratta di resistenze comprensibili, non liquidabili eticamente in termini di “egoismi nazionali”, essendo naturale la tendenza a sfruttare la propria capacità di credito, sui mercati, prima di tutto nell’interesse proprio, anziché in quello di altri stati, che tra l’altro hanno già consumato la propria.
Paradossalmente il Covid, come circostanza straordinaria, su cui l’accordo del 21 luglio calca molto la mano, ha consentito a tutti di accettare un compromesso, salvando le forme, ma tenendo le proprie riserve mentali; non a caso, dietro ogni frase della risoluzione del Consiglio, è palpabile la necessità di superare, con formule verbali, differenze tra impostazioni molto distanti.
Il debito comune europeo sembra rispondere alle nostalgie sovraniste verso la vecchia creazione unilaterale di base monetaria. E’ un po' come se la sovranità monetaria europea sostituisse la perduta sovranità monetaria nazionale (cari sovranisti, la sovranità ve la diamo noi europeisti). I paesi rigoristi hanno accettato il debito comune, con una serie di limiti e condizioni, per mantenere il disegno europeo di cui al punto 1. Il fallimento di uno stato dell’Unione lo costringerebbe infatti a politiche protezionistiche, contro le libertà europee, o ad accettare colonizzazioni economiche svalutando il costo del lavoro.
L’accordo politico sul debito comune, da utilizzare per metà a fronte di sussidi a fondo perduto, porrà problemi di gestione amministrativa molto superiori a quelli del quantitative easing che ha difeso i titoli pubblici dei paesi dell’area euro dalla speculazione ribassista.
Si tratterà infatti di erogare e distribuire sussidi ai paesi più danneggiati dal COVID, a riprova che i redditi nazionali basati su turismo, ristorazione e ricreazione sono molto più fragili di quelli basati su produzioni organizzate di beni e servizi. E’ prevedibile quindi un flusso di aiuti netto verso i paesi del sud Europa, anche tenendo conto del loro contributo alla gestione e al ripianamento di un debito che è comune, quindi anche loro. Vista la modestia delle risorse comunitarie proprie di cui agli ultimi paragrafi dell’accordo, dove di nuovo c’è solo una vaga imposta ecologica sulla plastica, dovranno essere gli stati membri a contribuire ai rimborsi del debito comune in proporzione ai rispettivi redditi nazionali.
L’attribuzione e gestione degli aiuti aumenterà i livelli di competenze, comunitarie e nazionali, che si intrecciano. Ciò è destinato in primo luogo a creare vischiosità nella ripartizione dei sussidi, con relativi strascichi polemici nelle opinioni pubbliche dei vari paesi. Per i paesi, come l’Italia, già in difficoltà nell’ordinaria amministrazione dei fondi comunitari, in buona misura restituiti perchè inutilizzati, si profilano sfide burocratiche non facili.
[1] Nonostante il Parlamento Europeo, il vero governo dell’Europa è affidato alla commissione, dall’investitura politica molto indiretta.
[2] Sulle relative barriere linguistico-culturali e di appartenenza a vari sistemi di welfare cfr. i parr.4.16 ss del mio volume di Scienza delle finanze reperibile sul mio sito universitario didatticaweb.
[3] Si pensi ai movimenti di opinione retrostanti alla recente sentenza della corte costituzionale tedesca (maggio 2020) sul quantitative easing.
[4] Come se a competere fossero piccoli commercianti a artigiani, non organizzazioni con migliaia di dipendenti ed elevatissimi costi di impianto ed avviamento.
[5] Non mi dilungo sulle illusioni e i limiti all’emissione di moneta per i quali rinvio al mio Moneta e sovranità tra economia e diritto, in Innovazione e diritto, online ad accesso aperto n.6-2017.
La trattazione scritta. Un arabesco (Art. 221, comma 4, l. n. 77/2020 di conversione al d.l. “Rilancio”)
di Franco Caroleo e Riccardo Ionta
“Alla tavola rotonda bisognerà anche invitare uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco sulla nostra psicologia. In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi”.
L’articolo, in continuità con i due precedenti scritti apparsi su Giustizia Insieme, esamina la nuova disposizione dell’art. 221, comma 4, della legge 17 luglio 2020, n. 77 (di conversione al d.l. “Rilancio”) relativa alla disciplina della trattazione scritta. Lo scritto evidenzia le criticità dell’ennesima norma e propone delle soluzioni alle principali questioni in una cornice teorica che riguarda i concetti di trattazione, comparizione e udienza.
I precedenti articoli:
1) L’udienza civile ai tempi del coronavirus. Comparizione figurata e trattazione scritta (art. 2, comma 2, lettera h, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11).
2) Trattazione scritta. Un’impalcatura
Sommario: 1. Arabesco – 2. Stesso istituto, nuova disposizione – 3. Il mix delle trattazioni – 4. Potere del giudice e limiti – 5. Innovazioni e questioni – 5.1 I termini della trattazione scritta – 5.1.1 Il termine per il deposito delle note scritte – 5.1.2 L’incidenza della sospensione feriale – 5.2 L’applicazione della disciplina ex art. 181 c.p.c. – 5.3 L’istanza di trattazione orale – 5.4 Il provvedimento del giudice “in udienza” – 5.5 Deposito senza scambio – 5.6 Il giuramento del c.t.u. – 5.7 Il verbale – 6. Trattazioni. Comparizioni. Udienza – 6.1 Trattazione orale e scritta – 6.2 Comparizione in presenza, da remoto, figurata – 6.3 Udienza
1. Arabesco
“Alla tavola rotonda bisognerà anche invitare uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco sulla nostra psicologia. In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi”. È Flaiano che scrive. E sono passati circa cinquanta anni.
L’art. 221, comma 4, della legge 17 luglio 2020, n. 77 - di conversione del c.d. decreto legge “Rilancio” (decreto legge 19 maggio 2020, n. 34) - è un tratto di quel particolare arabesco giuridico che forma la disciplina della trattazione scritta del procedimento civile.
Punto iniziale è stato l’art. 83, comma 7, lett. h) del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) - prima in vigore fino al 30 giugno 2020, poi al 31 luglio 2020 e poi di nuovo al 30 giugno 2020 - e il punto finale appare sconosciuto, forse inesistente, sicuramente arzigogolato da raggiungere. Nell’attesa, oltre ai ripensamenti temporali, sono apparse diverse versioni della norma e altri emendamenti, forse meglio formulati, non approvati[1].
L’art. 221, comma 4, appare una norma di compromesso - al ribasso per le idee e per la tecnica - che asseconda i manifestati timori di quella parte del mondo giudiziario restia alle ipotesi di micro-cambiamento. Del resto, Manzoni, riferendosi ad un epoca ancora più antica, già scriveva che “Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.
La norma, comunque, insistendo nella trattazione scritta, certifica gli effetti positivi di uno strumento che si è diffuso rapidamente nella giustizia civile - per immediatezza e facilità d’uso - consentendo una ripartenza effettiva ed efficace dei procedimenti.
2. Stesso istituto, nuova disposizione
“Il giudice può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. Il giudice comunica alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza che la stessa è sostituita dallo scambio di note scritte e assegna alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data per il deposito delle note scritte. Ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento. Il giudice provvede entro i successivi cinque giorni. Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice provvede ai sensi del primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile”.
L’art. 221, comma 4 - in disparte l’ingannevole rubrica dell’articolo - introduce una disposizione nuova relativa alla trattazione scritta, applicabile sino al 31 ottobre 2020, finalizzata espressamente a soddisfare le “esigenze sanitarie derivanti dalla diffusione del COVID-19” (art. 221, comma 2).
La disciplina della trattazione scritta ex art. 221, comma 4, nonostante l’infelice formulazione della norma, deve essere considerata in continuità con quanto disposto dall’art. art. 83, comma 7, lett. h) del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (divenuto inefficace dal 30 giugno 2020). In tal senso depone un’esigenza di semplicità e di semplificazione, la lettera dello stesso comma che presuppone implicitamente la lettera della vecchia norma[2] e la circostanza per cui il debole sforzo legislativo si è concentrato solo su taluni degli aspetti controversi dell’art. 83 (termini e applicazione dell’art. 181 c.p.c.).
L’imperativo dell’art. 83, comma 7, lett. h) è stato tuttavia quello di consentire l’ordinaria trattazione orale della causa, e quindi la presenza negli uffici, solo quando indispensabile. Scopo della norma è stato quello, in sostanza, di escludere la presenza negli uffici di giustizia.
L’imperativo dell’art. 221, comma 4, è invece quello di consentire la trattazione scritta quando l’ordinaria trattazione orale del procedimento non appare strettamente necessaria. Scopo della nuova norma è quello di moderare e ponderare la presenza negli uffici di giustizia - per lo più inadeguati ad un ritorno alla “normalità” delle udienze ante Covid - permettendo al giudice, nei limiti prescritti, di disporre la trattazione scritta del procedimento civile, o meglio, di talune fasi dello stesso.
3. Il mix delle trattazioni
L’art. 221, comma 4 - muovendo dal presupposto che non sono più consentite molte delle misure dell’art. 83, tra cui il rinvio dei procedimenti - inserisce la possibilità di strutturare l’udienza, in cui è trattata una pluralità di procedimenti, differenziandone le forme di trattazione.
La trattazione (orale) in presenza (codice di procedura civile) è difatti affiancata dalla trattazione (orale) con collegamento da remoto (art. 221, comma 7), dalla trattazione (orale) mista (art. 221, comma 6) e dalla trattazione scritta (art. 221, comma 4).
La trattazione (orale) in presenza è tornata, dall’1 luglio 2020, a costituire la modalità ordinaria di trattazione dei procedimenti civili.
La trattazione (orale) da remoto o mista (art. 221, comma 6 e 7) si risolve essenzialmente nella possibilità di consentire, alle parti e ai difensori, la partecipazione all’udienza tramite collegamento da remoto. È confermata ancora l’impressione secondo cui la partecipazione da remoto non incida sulla forma della trattazione ma esclusivamente sulla modalità della comparizione.
La trattazione da remoto “piena” esclude totalmente la presenza in aula dei soggetti processuali, ad eccezione del giudice (art. 221, comma 6). Per essere disposta necessita del “consenso preventivo” delle parti ed è possibile per tutte quelle fasi del procedimento che non necessitano della “presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice”.
La trattazione (orale) mista coincide invece con la possibilità concessa ad “una o più parti” o ad “uno o più difensori” di comparire tramite collegamento da remoto (art. 221, comma 7). Per esser disposta richiede la sola istanza della parte interessata e presuppone che l’udienza preveda la comparizione in presenza di almeno un soggetto processuale diverso dal giudice (altre parti, altri difensori, ausiliari, informatori, testimoni, ecc.).
4. Potere del giudice e limiti
L’art. 221, comma 4, affida direttamente al giudice - in linea con una delle possibili interpretazioni dell’art. 83 secondo cui l’intermediazione del provvedimento presidenziale non era necessaria, ma solo eventuale, per attivare le forme alternative di trattazione - il potere di disporre la trattazione scritta della fase procedimentale, rimettendo alla sua valutazione la moderazione delle presenze in aula per il giorno di udienza.
I limiti espressi posti al potere del giudice sono due.
Il primo riguarda la fase procedimentale per cui può esser disposta la trattazione scritta. In continuità con l’art. 83, comma 7, lett. h), la nuova disposizione prevede tale forma di trattazione per “le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti” (e, può aggiungersi, del pubblico ministero).
Il secondo limite, innovativo rispetto alla disciplina precedente, è temporale. Il giudice deve disporre e comunicare alle parti il provvedimento che dispone la trattazione scritta almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza.
C’è poi un terzo limite, implicito, relativo all’opportunità di trattare la singola fase del procedimento in forma orale o scritta, rimessa al prudente valutazione del giudice che deve necessariamente considerare la fase in corso, il singolo adempimento previsto, i diritti oggetto della controversia.
5. Innovazioni e questioni
5.1 I termini della trattazione scritta
L’art. 221, comma 4, introduce quattro termini relativi al potere del giudice di disposizione della trattazione scritta:
i) il provvedimento con cui il giudice dispone la trattazione scritta deve essere comunicato alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza;
ii) il giudice assegna alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data per il deposito delle note scritte;
iii) ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento;
iv) il giudice provvede sull’istanza di trattazione orale entro i successivi cinque giorni.
5.1.1 Il termine per il deposito delle note scritte
Nel provvedimento che dispone la trattazione scritta il giudice assegna alle parti un termine (unico per le parti) fino a cinque giorni prima della data di udienza per il deposito delle note scritte.
La principale questione che pone l’innovazione legislativa riguarda le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine.
La natura ordinatoria e le interpretazioni tradizionali
Il termine per il deposito delle note scritte è certamente da considerarsi ordinatorio, in assenza di espressa dichiarazione legislativa di perentorietà (art. 152 c.p.c.).
Parte della dottrina riconosce la validità dell’atto processuale compiuto dopo la scadenza (non prorogata) di un termine ordinatorio[3]. Altra parte, invece, ne afferma l’invalidità[4], al più valutabile discrezionalmente dal giudice[5].
In giurisprudenza si segnalano orientamenti oscillanti.
Secondo un primo indirizzo, il discrimine tra un termine ordinatorio ed uno perentorio non deve rinvenirsi tanto in una diversa forza cogente, quanto piuttosto nelle modalità pratiche attraverso cui detta vis si esplica: nel caso di termine perentorio, la decadenza opera ipso iure, essendo vietata ogni dilazione; nel caso di termine ordinatorio, invece, l’effetto preclusivo si verifica in caso di mancata concessione della proroga giudiziale prima della scadenza. Una differente soluzione, volta ad escludere che l’inosservanza del termine produca effetti giuridici, priverebbe di qualsiasi senso il dato testuale dell’art. 154 c.p.c., che consente la proroga del termine ordinatorio solo laddove non sia ancora spirato[6]. È fatta, però, sempre salva la rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c., purché la decadenza si sia verificata per causa non imputabile alla parte[7].
Stando ad un diverso indirizzo, la scadenza di un termine ordinatorio non comporta il mutamento della natura del termine medesimo e la sua trasformazione in perentorio. La conseguenza è che non si avverano preclusioni o decadenze di sorta, sempre che non si sia verificata una situazione esterna incompatibile[8].
Il contrasto così descritto consente allora di immaginare, per il caso qui in esame e in base a quanto appena descritto, due possibili scenari interpretativi:
a) se si sposa la tesi più rigida, la nota scritta depositata oltre il termine a ritroso di cinque giorni fissato dall’art. 221, comma 4, senza presentare istanza di proroga prima della scadenza (o, anche successivamente, richiesta di rimessione in termini), non può considerarsi valida;
b) se si aderisce all’altro orientamento, la nota scritta depositata tardivamente produce i medesimi effetti della nota tempestivamente depositata.
L’onere di comparizione e la funzione del deposito della nota scritta.
La soluzione alla problematica degli effetti del tardivo deposito delle note può giungere anche per un’altra strada che richiede un passaggio preliminare utile ad avvicinarsi alla peculiarità della “nota scritta”.
La funzione del deposito della nota scritta, che non è una “memoria” autorizzata dal giudice, è quella di consentire alla parte di soddisfare l’onere di comparizione per la fase del procedimento a trattazione scritta. Funzione estremamente peculiare, unica ed eccentrica rispetto al sistema codicistico.
L’art. 221, comma 4, con l’espresso richiamo all’art. 181 c.p.c., chiarisce infatti che il mancato deposito delle note scritte equivale alla mancata presenza in udienza. Di conseguenza, come la presenza delle parti (nel giorno e nel luogo fissato per l’udienza) è il modo di soddisfazione dell’onere di comparizione per la fase del procedimento trattata in forma orale, il deposito della nota scritta, nel termine fissato dal giudice, è il modo di soddisfazione dell’onere di comparizione per la fase del procedimento trattata in forma scritta. In altri termini, il provvedimento del giudice che dispone la trattazione scritta (della singola fase procedimentale) non fa venire meno l’onere di comparizione per le parti ma determina il solo mutamento della forma di soddisfazione del medesimo, vincolante per le parti e per il giudice, sino ad un diverso provvedimento di segno opposto.
L’onere di comparizione - propedeutico alla soddisfazione degli eventuali oneri previsti per la singola fase processuale - rimane quindi insoddisfatto se la parte non deposita la nota scritta. Se entrambe le parti non depositano le rispettive note, allora il giudice ne accerta la mancata comparizione e applica l’art. 181 c.p.c.
Deposito tardivo e udienza
Una volta chiarita la funzione giuridica della nota scritta - ed esplicitata la conseguenza del mancato deposito - può sostenersi che la soluzione della questione in merito alle conseguenze del tardivo deposito “passa” per l’udienza (o non passa per l’udienza).
L’interpretazione per cui, in caso di trattazione scritta, l’udienza “scompare”, postula il venir meno dell’onere di comparizione visto che non vi è alcuna udienza in cui comparire. La conseguenza è che la nota scritta tardivamente depositata non può avere alcuna efficacia anche perché non avrebbe, in assenza del giorno di udienza, un termine ultimo di deposito.
L’interpretazione, sostenuta nel presente scritto, secondo cui l’udienza non “scompare”, muove invece dal presupposto della sussistenza dell’onere di comparizione dalle parti. Agganciando la comparizione all’udienza - e specificando che l’onere di comparizione è per l’udienza - può affermarsi l’efficacia del deposito tardivo della nota scritta purché entro il termine ultimo del giorno (e dell’ora) di udienza[9].
La soluzione proposta - che, come detto, muove dalla sussistenza dell’udienza (si veda par. 6) anche per la fase procedimentale a trattazione scritta - distingue tra tardivo deposito e mancato deposito della nota scritta. È tardivo quando effettuato oltre il termine dei cinque giorni. È mancato quando non interviene entro l’ora e il giorno stabilito per l’udienza.
È la stessa norma, per usare un argomento letterale, a giustificare la distinzione nella parte in cui afferma l’applicazione dell’art. 181 c.p.c. “se nessuna delle parti effettua il deposito telematico” senza alcun riferimento alla tardività.
L’obiezione secondo cui detta possibilità determinerebbe una lesione del contraddittorio nei confronti della parte rispettosa del termine, o meglio una violazione del principio della parità delle armi (data l’unicità del termine), è rimediabile in base al potere del giudice che, in base al proprio prudente apprezzamento, è chiamato a concedere un ulteriore termine alla parte lesa per eventuali repliche.
L’obiezione secondo cui, così ragionando, il termine previsto sarebbe inutile, non tiene conto dell’esistenza nel mondo giuridico, e processual-civilistico, di numerosi termini la cui violazione non implica conseguenza processuali e sulla circostanza per cui la norma si fonda non sulla coercizione ma sulla leale collaborazione delle parti. Senza contare che l’esperienza recente della trattazione scritta, in cui il termine per il deposito è stato disposto dai protocolli, ha dimostrato una diffusa efficacia dello stesso, pur in assenza di sanzione.
5.1.2 L’incidenza della sospensione feriale
L’art. 221, comma 4, prevede che il provvedimento con cui il giudice dispone la trattazione scritta deve essere comunicato alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza. Ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento e il giudice provvede sull’istanza entro i successivi cinque giorni.
La norma pone la questione, data l’entrata in vigore il 19 luglio 2020, degli effetti della sospensione feriale sulla decorrenza dei termini.
Il regime sospensivo ex legge n. 742/1969 si applica senza dubbio al termine fissato per le parti per il deposito delle note scritte e a quello per la presentazione dell’istanza di trattazione orale.
La stessa conclusione non può essere seguita per il termine di 30 giorni assegnato al giudice per comunicare che l’udienza si celebrerà nelle forme della trattazione scritta.
La disciplina della sospensione dei termini processuali in periodo feriale attiene infatti all’attività dei difensori e delle parti (pubblica e privata) e non ai termini posti al giudice, tenuto conto che lo scopo di tale istituto è quello di assicurare un periodo di riposo agli avvocati[10].
Del resto, né l’ordinamento giudiziario né il codice di procedura civile contengono alcuna norma che vieti al giudice di istruire, nel periodo delle ferie giudiziarie, cause di natura non urgente (non riguardanti, cioè, materie previste dall’art. 92 dell’ordinamento giudiziario vigente). Con la conseguenza che atti di direzione, istruzione e trattazione di tali cause nel periodo feriale non comportano nullità del processo o del provvedimento del giudice per vizio di costituzione di quest’ultimo[11].
5.2 L’applicazione della disciplina ex art. 181 c.p.c.
La norma in esame, chiarendo uno dei punti controversi del precedente art. 83, comma 7, lett. h) e in linea con l’interpretazione espressa nei protocolli di molti tribunali, prevede che “Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice provvede ai sensi del primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile”.
Il mancato deposito delle note scritte è qualificato come “mancata comparizione delle parti” (art. 181 c.p.c.) al pari della fattispecie in cui “nessuna della parti si presenta all’udienza” (art. 309 c.p.c.).
5.3 L’istanza di trattazione orale
Con una previsione già presente in taluni protocolli, è possibile per ciascuna delle parti la presentazione di un’istanza di trattazione orale del provvedimento entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento che dispone la trattazione scritta.
L’istanza - che deve esser motivata per consentire al giudice la ponderazione tra le esigenze espresse dai difensori e le ragioni della trattazione scritta - non vincola il giudice alla revoca del provvedimento.
L’affermazione si fonda sullo scopo della norma e sulla ragione per cui il dissenso non è previsto come ostativo e il consenso delle parti non è previsto come necessario (diversamente da quanto espresso dal comma 7 del medesimo articolo per la trattazione da remoto).
5.4 Il provvedimento del giudice “in udienza”
La nuova disposizione non prevede più la possibilità per il giudice di provvedere “fuori udienza” all’esito del deposito delle note scritte. Al contempo, non è previsto alcun termine per il giudice entro il quale provvedere.
La norma pone due questioni principali: qual è il termine entro cui il giudice deve provvedere e qual è il termine a partire dal quale il giudice può provvedere.
L’interpretazione che tiene distinte il concetto di trattazione, udienza e comparizione - per cui se c’è trattazione del procedimento, quale ne sia la forma, allora c’è udienza - porta a ritenere che la trattazione scritta è per l’udienza in cui le parti comunque compaiono, sebbene in modo figurato. In tal ordine di senso, in caso di trattazione scritta, e al pari della trattazione in presenza o da remoto, il giudice può provvedere solo a partire dal giorno dell’udienza e, essendo venuta meno l’eccezione extracodicistica della possibilità di adottare il provvedimento “fuori udienza”, deve provvedere entro il giorno dell’udienza (anche assumendo, eventualmente, la causa in riserva all’esito della valutazione delle note scritte).
5.5 Deposito senza scambio
La trattazione scritta, in continuità con l’art. 83 comma 7, lett. h), si manifesta attraverso le “note scritte”.
Al pari di quanto avvenuto con la norma sopra citata, il legislatore emergenziale, nel riferirsi alle note scritte delle parti, adopera contestualmente i termini “scambio” e “deposito”.
Tuttavia, a differenza della precedente normativa emergenziale, i termini non sono più raccolti in un’endiadi (“mediante lo scambio e il deposito”). Il comma quarto dell’art. 221 sembra piuttosto utilizzarli come sinonimi lasciando supporre che il deposito della nota scritta con modalità telematica sia più che idoneo a soddisfare l’esigenza di contraddittorio che la norma intende garantire.
In effetti, il deposito telematico di un documento ha il duplice effetto di perfezionare la sua acquisizione agli atti del fascicolo telematico e consentirne la ricezione nella sfera di conoscenza della controparte (che può agilmente prenderne visione in via telematica).
Peraltro, se l’intentio legis fosse stata nel senso di valorizzare distintamente l’operazione di “scambio”, ci si sarebbe aspettati che la disposizione regolasse cronologicamente il deposito delle note difensive (ad esempio, con la concessione di termini sfalsati, così da garantire una più efficace interlocuzione tra le parti, come previsto in taluni protocolli). Invece, l’art. 221, comma 4 prevede per il deposito delle note un termine unico per tutte le parti.
5.6 Il giuramento del c.t.u.
Il comma 8 dell’art. 221 recita: “In luogo dell’udienza fissata per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio ai sensi dell’articolo 193 del codice di procedura civile, il giudice può disporre che il consulente, prima di procedere all’inizio delle operazioni peritali, presti giuramento di bene e fedelmente adempiere alle funzioni affidate con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico”.
La norma disciplina la forma attraverso cui il c.t.u. partecipa all’udienza di giuramento, colmando una lacuna lasciata dalla precedente legislazione emergenziale[12], consentendo al giudice di disporre che, in luogo del giuramento in presenza il giorno dell’udienza, il consulente depositi apposita dichiarazione, sottoscritta digitalmente, contenente il giuramento menzionato dall’art. 193 c.p.c. In altri termini la norma, escludendo la presenza del c.t.u., consente di configurare l’udienza per il giuramento come una di quelle che non richiede “la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti” (art. 221, comma 8). La medesima norma, incidendo solo sulla modalità di partecipazione del c.t.u., consente comunque di attuare una modalità mista con presenza delle parti in udienza o con il collegamento delle stesse da remoto.
La discutibile formulazione della disposizione impone almeno tre rilievi:
a) la norma è rivolta al solo c.t.u.: non sarà quindi possibile ricorrere alla forma scritta per i giuramenti previsti per altri ausiliari giudiziali (ad esempio, l’esperto e lo stimatore ex art. 161 disp. att. c.p.c. o il curatore dell’eredità giacente ex art. 193 disp. att. c.p.c.);
b) l’ipotesi disciplinata è solo quella dell’udienza di giuramento ex art. 193 c.p.c.; deve allora escludersi che all’udienza in cui il c.t.u. venga convocato per esprimere il proprio parere o fornire chiarimenti possa farlo a mezzo di nota scritta;
c) il deposito della dichiarazione contenente il giuramento può essere effettuato “prima di procedere all’inizio delle operazioni peritali”; con questa previsione sembra dunque spostarsi in avanti il momento del giuramento, consentendo che possa avvenire anche dopo il conferimento dell’incarico (e quindi anche dopo l’emissione dell’ordinanza con cui il giudice dispone i termini per lo scambio di relazione e osservazioni tra parti e c.t.u.)[13].
5.7 Il verbale
L’art. 221, comma, 4 non è intervenuto a chiarire se la trattazione scritta vada comunque raccolta in un verbale di udienza (a comparizione figurata).
Come già rilevato per l’art. 83, comma 7, lett. h), la trattazione scritta, prescindendo dall’oralità[14], sembra non rendere indispensabile un atto scritto propedeutico al provvedimento del giudice.
Tuttavia, si possono individuare tre elementi che inducono a riconoscere quantomeno un’utilità del “verbale”, con la precisazione che l’atto in questione ha un funzione in parte diversa dal codicistico processo verbale[15]: a) la circostanza secondo cui con la trattazione scritta vi è comunque un giorno di udienza per cui le parti hanno l’onere di comparire, seppur in modo figurato; b) il fatto che la norma rimandi alla disciplina ex art. 181 c.p.c. in caso di mancato deposito delle note (e, quindi, in assenza di note scritte, si presenta quantomai pratica la rilevazione a mezzo verbale della mancata comparizione figurata); c) in ogni caso, la necessità di accertare la regolarità delle comunicazioni e l’avvenuto deposito delle note.
6. Trattazioni. Comparizioni. Udienza
La tesi del presente scritto (e dei precedenti) - sulla cui base sono sostenute le soluzioni proposte alle problematiche poste dalla trattazione scritta - muove dalla premessa per cui udienza, trattazione e comparizione sono concetti distinti, resi multidimensionali dalla normativa emergenziale. La conclusione è che esistono più forme in cui avviene la trattazione (orale o scritta) della causa, plurime modalità in cui viene soddisfatto l’onere della comparizione (in presenza, da remoto, in modo figurato) e che la forma di trattazione, ovvero della comparizione, determina la conformazione dell’udienza, non la relativa esistenza.
6.1 Trattazione orale e scritta
La trattazione è l’attività preparatoria del giudizio programmata e impostata dalle parti e dal giudice (artt. da 180 a 190 c.p.c.).
La forma della trattazione è la modalità attraverso cui i soggetti del processo si relazionano e comunicano tra di loro[16]. È la sintesi della forma degli atti del processo espressi nell’udienza, in prevalenza orali e formali, che possono comunque essere compiuti, nei limiti delle diverse previsioni di legge, nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo (art. 121 c.p.c.).
La trattazione, afferma l’art. 180 c.p.c., è orale. Le parti si relazionano e comunicano in forma orale, quindi intervenendo contestualmente, e di essa si redige processo verbale.
La trattazione, afferma l’art. 221, comma 4 - in continuità con l’art. 83, comma 7, lett. h), d.l. n. 18/2020 - può essere anche scritta. Le parti si relazionano e comunicano mediante il solo deposito telematico di note. La trattazione scritta, consentita per il periodo emergenziale, è diversa sia da quella prevista dalla vecchia formulazione dell’art. 180 post-riforma del 1950 e dall’ art. 83 bis disp. att. c.p.c., sia da quella di cui all’art. 281 quinquies c.p.c., inclusive comunque di una parte di oralità.
6.2 Comparizione in presenza, da remoto, figurata
Comparizione è la partecipazione effettiva - all’udienza e a mezzo del difensore - della parte costituita. Tramite la comparizione la parte soddisfa un onere (art. 181 e 82 c.p.c.) ed esercita i poteri processuali attribuiti.
L’onere di comparizione ha, attualmente, tre differenti modalità di soddisfazione: in presenza, da remoto mediante collegamento, per iscritto mediante il deposito della nota.
La comparizione delle parti in udienza si manifesta, ordinariamente, attraverso la presenza all’udienza stabilita (art. 309 c.p.).
La comparizione delle parti può avvenire altresì attraverso il collegamento da remoto (art. 221, comma 6 e 7).
L’art. 221, comma 4 (in continuità con l’art. 83, comma 7, lett. h), d.l. 17 marzo 2020, n. 18) inserendosi nello spettro dell’art. 121 c.p.c., consente alle parti una comparizione in senso figurato in quanto le parti sono “rappresentate” e partecipano al giudizio, soddisfacendo l’onere ed esercitando i poteri processuali, per mezzo di una nota scritta. L’ultima parte del comma - per cui se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, si applica l’art. 181 c.p.c. – richiama espressamente per la trattazione scritta la norma cardine, prevista nel codice di procedura civile, sull’onere di comparizione delle parti.
6.3 Udienza
L’udienza in cui la causa è trattata in forma scritta non scompare, per tre ragioni.
La prima ragione è concettuale, la seconda è (a)letterale, la terza ragione è che difronte alla complessità (o confusione normativa, che dir si voglia) servono regole e soluzioni semplici.
La prima ragione è di ordine concettuale, perché è necessario chiarire cosa si intenda per “udienza”, prima di annunciarne la fine.
Udienza è il luogo e il giorno in cui, e per cui, i soggetti del processo hanno l’onere di comparire, dinanzi al giudice (art. 84 disp. att. c.p.c.), e compiere determinati atti del processo.
Il giorno è programmato dal presidente del tribunale che determina i giorni della settimana in cui i magistrati devono tenere udienza[17] o dal magistrato[18]. Il giorno dell’udienza è il termine in cui soddisfare l’onere di comparizione, il momento in cui compiere specifiche attività previste dal codice ovvero il termine di riferimento entro cui compierle.
Il luogo dell’udienza è il tribunale adito e l’aula, o per questa altra sala, dove è presente il giudice designato (artt. 163, n. 1, 414 c.p.c.)[19].
Il giudice è l’unico soggetto necessario per l’udienza, e su di esso grava il dovere di “tenerla” e dirigerla[20]. L’assenza degli ulteriori soggetti che hanno l’onere o il dovere di presenziare ha diversificate conseguenze sul processo - il rinvio, ad esempio (artt. 164, 181 c.p.c.) - ma non sull’udienza che deve essere comunque tenuta dal giudice.
L’udienza non è un mero contenitore ma uno spazio-tempo in cui si verifica la trattazione della causa. La trattazione, o meglio la sua forma, ne determina la struttura e ogni qualvolta vi è trattazione di almeno un procedimento, allora vi è udienza.
Nell’udienza in cui la causa è trattata oralmente l’onere di comparizione è soddisfatto con l’intervento contestuale delle parti e del giudice e con il compimento degli atti processuali in forma orale. L’intervento contestuale dinanzi al giudice pretende un giorno e un luogo materiale, o virtuale, in cui realizzarsi. Giustifica la presunzione assoluta per cui i provvedimenti resi si ritengono conosciuti (art. 176 c.p.c.). Richiede la necessità di documentare i soggetti intervenuti, le attività compiute e per questo si redige processo verbale (artt. 126, 180 c.p.c., 84 disp. att. c.p.c.). Asseconda quella concentrazione e immediatezza che si manifesta, con la massima evidenza, nella decisione a seguito di trattazione orale (artt. 281 sexies, 429 c.p.c.).
Nell’udienza in cui la causa è trattata per iscritto l’onere di comparizione è soddisfatto con il solo deposito (telematico) di documenti scritti, le note di comparizione, tramite cui le parti compiono altresì gli atti processuali. La comparizione figurata necessita di un giorno - sia perché la trattazione scritta non incide sul calendario delle udienze, sia per la necessità di un riferimento temporale per l’attività delle parti e del giudice - ma non di un luogo materiale o virtuale in cui realizzarsi, vista la non necessaria contestualità. Il luogo rimane, come riferimento geografico e come dimensione, ed è la stanza a scomparire. La scrittura rende ultronea la necessità di documentare quel che accade nella contestualità, e quindi il processo verbale, rimanendo indispensabile comunque verificare e dare atto della comparizione, o della sua mancanza, al fine di provvedere nel contradditorio delle parti (e quindi redigere un atto, il giorno dell’udienza, che comunque ha la stessa sostanza del verbale). La comparizione figurata esclude la presunzione dell’art. 176 c.p.c. La discussione tramite atti scritti elide la concentrazione e l’immediatezza della fase decisoria, non il contraddittorio, consentendo comunque la decisione ex artt. 281 sexies c.p.c. o 429 c.p.c
La seconda ragione è (a)letterale, perché la formulazione dell’art. 221, comma 4, è ingannevole.
La disposizione afferma che le udienze civili sono “sostituite dal deposito telematico di note scritte”, richiamando il concetto di “sostituzione” usato altresì nella norma relativa all’udienza per il giuramento del c.t.u. (art. 221, comma 8).
Il legislatore, in tale ipotesi, sembra aver utilizzato impropriamente il termine “udienza”, sovrapponendo il relativo concetto a quello di trattazione. In tal senso depongono tre elementi.
In primo luogo, il concetto di sostituzione utilizzato non coincide con nessun istituto processuale (es. art. 81 c.p.c.), né con il concetto comune di “sostituzione” il quale implica l’avvicendamento di elementi aventi la medesima natura (un’udienza non potrebbe essere “sostituita” da ciò che udienza non è[21]). Se il legislatore avesse voluto eliminare l’udienza avrebbe configurato il provvedimento del giudice che dispone la trattazione scritta come un provvedimento di revoca dell’udienza, strutturando diversamente la cadenza dei termini per il deposito delle note scritte (25 giorni dalla comunicazione del provvedimento, invece che con provvedimento comunicato 30 giorni prima dell’udienza, con ulteriore termine di 5 giorni prima dell’udienza per il deposito delle note) e figurando il termine decisorio per il giudice secondo uno schema simile a quello dell’art. 183, comma 7, c.p.c.
In secondo luogo, la previsione della possibilità per le parti di presentare istanza “di trattazione orale” suggerisce, con immediatezza, che ad esser sostituita è solo la forma di trattazione.
In terzo luogo, il richiamo alla disciplina del primo comma dell’art. 181 c.p.c. determina la qualificazione del mancato deposito delle note scritte come mancata comparizione delle parti ad un udienza che, in qualche modo, deve esserci[22].
La terza ragione risponde ad un bisogno di semplificazione.
La tesi per cui l’udienza “scompare” (o meglio, la fissazione dell’udienza viene revocata per effetto del provvedimento di trattazione scritta e l’udienza diviene un mero termine) determina una serie di problemi concettuali e pratici complessi da risolvere in assenza di disposizioni legislative. La sottrazione di un elemento è solo in apparenza semplificatorio in quanto l’udienza è la parte centrale di un sistema complesso di atti e posizioni giuridiche soggettive, il procedimento civile.
È il rasoio di Occam, spinto dagli arabeschi legislativi, a suggerire che, in ogni caso e ove possibile, è preferibile evitare ipotesi complesse (e che semplicità non significa facilità).
[1] Una prima versione della norma prevedeva il mantenimento della trattazione scritta, e di altre innovazioni utilizzate durante le prime fasi dell’emergenza, in via “sperimentale” sino al dicembre 2021. Un ulteriore emendamento, poi scavalcato da quello che ha condotto all’attuale disposizione, prevedeva delle modifiche al testo dell’art. 83 (con serie difficoltà di coordinamento normativo) prevedendo che “al comma 7, lettera h), sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Salvo che anche solo una parte faccia pervenire motivata richiesta di trattazione da remoto ovvero in presenza entro dieci giorni dalla data dell'udienza calendata, si svolgono con le suddette modalità le udienze di ammissione dei mezzi di prova di cui all'articolo 183, comma 7, del codice di procedura civile, le udienze per l'esame della Consulenza Tecnica d'Ufficio, le udienze fissate per la precisazione delle conclusioni, le udienze fissate ai sensi dell'articolo 281-sexies del codice di procedura civile. Il giudice, con comunicazione da inviare a cura della cancelleria almeno cinque giorni prima dell'udienza calendata, assegna alle parti un termine per il deposito di sintetiche note scritte sino a tre giorni prima ed un termine per repliche sino ai giorno prima dell'udienza calendata. Il giudice, il giorno fissato per l'udienza, redige il verbale nel quale, previa verifica che le comunicazioni ai difensori a cura della cancelleria siano state regolarmente effettuate, dà atto del deposito di note scritte ed eventuali repliche ed assume i conseguenti provvedimenti. Nel caso di mancato deposito di note scritte da parte di tutte le parti, il giudice emette i provvedimenti previsti dall'articolo 309 del codice di procedura civile»”.
[2] Lo stesso Dossier del Dipartimento Bilancio (la norma è stata inserita durante l’esame della Commissione Bilancio) afferma che “Il comma 4 dispone in merito alla possibilità di svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante il deposito telematico di note scritte. Il testo riproduce parzialmente quanto già previsto dalla lettera h) del comma 7 dell’articolo 83, la cui efficacia è limitata al 30 giugno. In particolare si prevede la possibilità, per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori (e dunque quando non siano essenziali le parti), di procedere con lo scambio e il deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice. Rispetto al testo in vigore fino al 30 giugno sono tuttavia disciplinati più nel dettaglio alcuni profili concernenti i termini…”.
[3] Satta S., Commentario al codice di procedura civile. Disposizioni generali, I, Milano, 1966, p. 532; Liebman E.T., Manuale di diritto processuale civile. Principi, 6ª ed., Milano, 2002, p. 223.
[4] Andrioli V., Commentario al codice di procedura civile, I, 3ª ed., Napoli, 1957, p. 410.
[5] Balbi C.E., La decadenza nel processo di cognizione, Milano, 1983, p. 43; Mandrioli C. e Carratta A., Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 2018, p. 255.
[6] La giurisprudenza di legittimità ha chiarito a più riprese come il termine ordinatorio sia suscettibile di proroga solo in presenza di un’istanza ad hoc della parte interessata prima del suo decorso (cfr. Cassazione nn. 589/2015; 4448/2013; 23227/2010). Diversamente argomentando, non solo si violerebbe il disposto normativo, ma “si lascerebbe la parte interessata arbitra di decidere del corso temporale del procedimento, in contrasto con l’intenzione manifestata dal legislatore nel subordinare anche la possibilità di ottenere un’ulteriore proroga alla concorrenza di motivi particolarmente gravi, e le si consentirebbe di procrastinare ad libitum il tempo stabilito per il verificarsi dell’effetto preclusivo voluto dalla legge” (cfr. Cassazione nn. 1064/2005; 6895/2003; 10174/1998).
[7] cfr. Cassazione n. 23227/2010.
[8] cfr. Cassazione n. 9288/1995, confermata da Cassazione n. 420/1998; si veda anche Cassazione nn. 26039/2005 (in ordine al termine di dieci giorni assegnato al ricorrente per la notificazione del ricorso e del decreto giudiziale di fissazione dell’udienza di discussione al convenuto, in materia di controversie di lavoro) e 25662/2014 (relativamente al termine per la nomina del consulente tecnico di parte).
[9] Una soluzione simile la si rinviene in Cassazione n. 12245/1998 che, con riferimento alla trattazione scritta prevista nel vecchio testo del comma secondo dell’art. 180 c.p.c., aveva chiarito che l’omesso rispetto del termine ordinatorio unico per il deposito di note non comporta né una decadenza della parte né l’invalidità dell’atto compiuto in ritardo, ma potrebbe soltanto comportare un vulnus di quest’ultima, per violazione del principio del contraddittorio.
[10] Come risulta dai lavori parlamentari (Proposta di legge dell’8 settembre 1968) e da decisioni della Corte Costituzionale (nn. 222/2015, n. 49/1990, 255/1987, 53/1982) che, a tutela dei diritti della difesa, ne hanno esteso la disciplina ai termini cd. sostanziali di rilevanza processuale. Cfr. Sezioni Unite pen. nn. 7478/1996, 42361/2017; Cassazione civile n. 24620/2010.
[11] Cfr. Cassazione nn. 1628/1975, 1382/1962, 421/1958.
[12] Che già era parsa ovviabile facendo ricorso al il giuramento telematico dell’ausiliare (ossia mediante deposito di nota scritta contenente l’accettazione dell’incarico), da tempo ammesso in molti tribunali e avallato dalla delibera del CSM dell’11.10.2017relativa alle buone prassi in materia di esecuzioni immobiliari.
[13] Al riguardo, è bene rammentare che, in ogni caso, resta valido il giuramento prestato in un momento successivo al conferimento dell’incarico ed anche contestualmente al deposito della relazione tecnica (cfr. Cass. n. 3907/1974, 2460/1967).
[14] La necessità di attestare quanto avviene nel processo discende dal carattere orale che contraddistingue il processo civile, il quale comporta l’esigenza di una trasposizione scritta al fine di lasciare traccia delle attività svolte: Satta S., Diritto processuale civile, Cedam, 2000, p. 203.
[15] Il processo verbale è il documento in cui si dà conto degli atti che vengono posti in essere nel corso dell’udienza. Deve contenere l’indicazione delle persone intervenute, le loro dichiarazioni (art. 44 disp. att. c.p.c.) e la descrizione delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti (art. 126 c.p.c.).
[16] Mandrioli C., Diritto processuale civile, Tomo II, Giappichelli, 2011, p. 72.
[17] Artt. 163 c.p.c., 69 bis, 80, 113 disp. att. c.p.c.; artt. 201 e 202 della Circolare CSM sulla formazione delle tabelle; ed è indicato, per la singola causa, dalla parte (art. 163 c.p.c.).
[18] Artt. 168 bis, 175, 415 c.p.c., 81 e ss. disp. att. c.p.c.).
[19] Le ipotesi in cui l’attività processuale può svolgersi al di fuori del tribunale sono tassativamente stabilite (ad esempio: artt. 203, 255, 259, 262 e 421 c.p.c.) e l’art. 67 disp. att. c.p.c. - che consentiva al giudice conciliatore di tenere le udienze, in caso di urgenza, nella propria abitazione - è stato abrogato.
[20] Artt. 127, 168 bis c.p.c., 80 disp. att. c.p.c. e ss.; art. 202 Circolare CSM sulla formazione delle tabelle.
[21] A meno di non voler riconoscere l’esistenza di una non-udienza, pericolosamente evocativa dei non-compleanni raccontati dal reverendo Lewis Carroll.
[22] L’art. 181 c.p.c. non trova mai applicazione nelle ipotesi in cui l’udienza non si tiene. Significativo è il caso in cui, ad esempio, le parti omettano il deposito delle memorie ex art. 183 c.p.c. (art. 183, comma 7, c.p.c.) e per cui non si applica l’art. 181 c.p.c.
Sul destino dell’Europa – Parte seconda. Intervista di Marco Dell’Utri a Roberta De Monticelli, Donatella Di Cesare, Luisa Passerini e Marina Sereni
di Marco Dell’Utri
Sommario: 1. Le domande - 2. La scelta del tema - 3. Le risposte - 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koinè culturale e politica oltre l’homo oeconomicus ?
4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
2. La scelta del tema
Marco Dell’Utri Non più di tre mesi fa, questa rivista ritenne opportuno sollecitare una riflessione a più voci sul destino dell’Europa.
L’iniziativa, in larga misura, traeva motivo dall’osservazione, in piena crisi pandemica, dell’ennesima dimostrazione di incapacità, dei diversi governi europei, di reagire, nei termini di una spontanea solidarietà, attraverso l’adozione, se non di comuni politiche, di strategie o azioni coordinate, destinate a far fronte alle nuove e improvvise difficoltà dei paesi maggiormente colpiti dalla violenza dell’epidemia.
Sembrava, allora, che l’istinto egoistico o conservativo che aveva accompagnato le reazioni politiche delle classi dirigenti continentali alla crisi economica del 2008, alle sempre più diffuse insofferenze nei confronti delle istituzioni europee (fino all’abbandono della Gran Bretagna) o, ancora, alle vicende dell’immigrazione africana e mediorientale nei territori europei, fosse tornato a prevalere su quell’antico disegno di integrazione politica che aveva animato le visionarie prospettive dei governanti europei usciti dalle macerie della seconda guerra mondiale.
Una riflessione meno frettolosa, o emotiva, sulle odierne difficoltà del progetto politico europeo – scrivevamo – avrebbe potuto agevolare una comprensione più adeguata delle cause del (prefigurabile?) fallimento del disegno dell’Unione continentale, invitando a ricercarne le eventuali origini in una più radicale crisi dell’intera cultura o della civiltà occidentale, presa tra gli istinti predatori o distruttivamente nichilistici che animano (o rianimano) gli egoismi neocapitalistici, e le (pur sostenute) declamazioni dei diritti di emancipazione delle persone e delle comunità politiche.
Su queste premesse, ritenemmo utile sollecitare una riflessione sui riconoscibili limiti dell’originario progetto eurounitario del secondo dopoguerra, o sulle eventuali carenze delle classi dirigenti del secondo Novecento.
Nel quadro del discorso che coinvolge l’impegno culturale del giurista – provavamo a interrogarci – sembrava non ozioso domandarsi se l’orizzonte di un nuovo inizio avrebbe potuto individuarsi in un percorso inverso a quello originariamente avviato negli anni ‘50: ossia in un cammino che, lungi dal muovere dall’alto (da una preliminare ‘ingegneria’ delle istituzioni del potere), sapesse porre al centro del progetto europeo il valore ‘sovrano’ della persona e delle sue prerogative di elaborazione delle istanze di senso, capaci di valorizzarla fuori da una mortificante prospettiva politica ‘difensiva’, ridotta a una mera gestione amministrativa della sua sola sopravvivenza biologica.
Una prima parte di questa riflessione collettiva è stata pubblicata su questa rivista domenica 3 maggio 2020 (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1059-sul-destino-dell-europa), attraverso la proposizione degli interventi di Giuliano Amato, di Massimo Cacciari, di Virgilio Dastoli e di Walter Veltroni.
A distanza di breve tempo, gli eventi che si sono andati succedendo, di settimana in settimana, hanno via via incoraggiato, da un lato, l’adozione di letture più ottimistiche sul senso di realtà del sentimento eurounitario (l’acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE; la predisposizione di una linea di credito agevolata e senza condizionalità nell’ambito del MES per la spesa sanitaria; la messa a punto del c.d. SURE per il sostegno dei lavoratori; la proposta della Commissione Europea per un Recovery Fund, di recente definita in seno al Consiglio europeo) ma, dall’altro, la riaffermazione di prese di posizione di segno contrario, inclini a negare alcuna adeguata giustificazione all’assunzione di politiche di finanziamento o di sostegno economico ai singoli paesi europei maggiormente colpiti dalle sopravvenienze, al di fuori dei parametri di equilibrio già negoziati, o comunque in assenza di adeguate garanzie di corrispettività (la ferma opposizione dei c.d. ‘paesi frugali’ al Recovery Fund, la decisione del Tribunale costituzionale tedesco sulla dimensione dell’acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE).
Permane, dunque, la sensazione che le linee del confronto politico, nel quadro delle istituzioni di vertice dell’Unione, non divergano in ragione della diversa lettura dei percorsi di realizzazione degli interessi europei, bensì della stessa configurabilità di un interesse europeo distinto e assorbente rispetto all’egoistico perseguimento degli interessi dei singoli attori nazionali.
Nel ‘limbo’ della condizione attuale – che appare più simile a uno ‘stallo’, che a una fase di procedimento politico – si collocano le riflessioni proposte da quattro donne diversamente coinvolte dalle responsabilità civili e politiche del nostro tempo: Roberta De Monticelli e Donatella Di Cesare, entrambe impegnate nell’approfondimento degli studi e nella diffusione del pensiero filosofico, non solo sul piano accademico, ma anche al più generale livello del dibattito della società civile; Luisa Passerini, storica della cultura e studiosa sensibile e attenta alle vicende della storia europea e, infine, Marina Sereni, politica a tutto tondo, attualmente responsabile sul piano istituzionale, quale Viceministra degli Affari Esteri italiani.
3. Le risposte
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
Roberta De Monticelli Lo hanno visto tutti: proprio mentre non ci speravamo più, una grande opportunità si è riaperta con la fase Post-COVID19. Questo inaspettato evento, vale a dire un impegno nuovo in direzione di una più vera unione fiscale, è stato promosso sostanzialmente da parte dei due paesi leader, su iniziativa della Francia di Macron e con una sorprendente nuova disponibilità da parte della Germania di un’Angela Merkel che passerebbe alla storia se le cose andassero avanti nel modo giusto. Purtroppo noi italiani facciamo ancora in tempo a sabotarlo o ad azzopparlo nella sua grande portata – materiale e simbolica. Perché troppo a lungo è prevalsa da noi una nozione sbagliata di “solidarietà europea”. Insisto: quella vera è quella che va in direzione di un’unione fiscale, una delle unioni ancora non realizzate – che comporterebbe un’autorità fiscale comune, e alla lunga quindi una comune politica fiscale, come del resto ha recentemente suggerito addirittura Christine Lagarde, invitando l’UE a darsi degli strumenti fiscali comuni, perché non tutto si può fare attraverso il controllo della moneta. Vorrei più tardi riprendere il tema dell’idea sbagliata di solidarietà, ma intanto terrei a sottolineare quanto la circostanza che la svolta di oggi sia dovuta all’iniziativa di due capi di Stato o di Governo riproduca il modo in cui quasi sempre sono avvenute le grandi svolte nel processo di integrazione europea, avviato idealmente con la fondazione del Movimento Federalista Europeo e materialmente col Mercato Comune e le Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Le grandi svolte sono in generale rese possibili dalle decisioni politiche nazionali – perché è ancora a quel livello che il potere politico si esercita: ma tutto, poi, dipende dalla giustezza delle idee e dall’efficienza delle istituzioni sovranazionali esistenti (esistono, eccome!) – e quindi dalla preparazione di chi le anima e anche del supporto che esse hanno al livello sovranazionale. Del resto, come sempre avviene, le decisioni politiche sono essenzialmente risposte a eventi non previsti: e qui sembra si stia avverando una specie di profezia emessa da Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, in occasione dell’entrata dell’Italia nell’Euro, nel dicembre 2001: “Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Questo è politicamente impossibile proporlo ora. Però un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti verranno creati” (cit. in G. Costa 2018, Giacomo Vaciago in Search of a Soul for Europe, “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, 2018, n. 4, pp. 359-376).
Donatella Di Cesare L’ideologia dell’antiutopismo, che si è andata affermando dopo il crollo del Muro di Berlino, ha provocanti enormi danni. Anzitutto sulla politica che, priva di una visione del futuro e di un afflato filosofico, si è ridotta a mera governance amministrativa. Come se il suo compito si riducesse semplicemente a risolvere, più o meno bene, i problemi urgenti che di volta in volta si pongono. Così si è imposta l’idea che non ci sarebbe alternativa – there is no alternative. Questo modo svilente di intendere la politica, che non può immaginare vie diverse dal capitalismo, ha avuto effetti nocivi per l’Europa, quel grande sogno che non sogniamo più. Anziché elevare lo sguardo, abbiamo abbassato gli occhi, assecondando così i nuovi sovranismi. Le frontiere sono state rafforzate – intorno all’Europa, ma anche fra gli Stati-nazione. Prima sono stati respinti i migranti; poi, con l’esplodere della pandemia, sono riaffiorate le vecchie ombre dell’antico e inquietante nazionalismo. Mai come ora l’Europa è l’orizzonte a cui occorre guardare.
Luisa Passerini Premetto che è mia intenzione rispondere a questa intervista condivisa dal punto di vista delle mie competenze nel campo della storia culturale, senza pretese generaliste.
La domanda tocca un tasto dolente, in senso sia collettivo sia individuale, almeno per quanto mi riguarda personalmente. Dal primo punto di vista, basta aver ascoltato alla radio la rassegna stampa mattutina nelle ultime settimane per rendersi conto di come la speranza in un’Europa unita alternativamente affiori e affondi: dopo l’amarezza per l’incomprensione da parte dell’Unione Europea verso i problemi dell’Italia, i segni di disponibilità europea sono apparsi confortanti ma sono sbiaditi quando si è passati alla messa in atto concreta, e si sono nuovamente rafforzati agli annunci di prestiti da parte della Banca Centrale Europea. Vedo queste alternanze non solo come disappunti e compiacimenti a proposito di vantaggi economici, ma anche come sintomi delle disavventure del vecchio sogno dell’unità europea. È sempre stato un sogno, e tanto più sembrava tale in uno dei periodi cruciali della storia d’Europa, gli anni tra le due guerre, specialmente nel paese che ora ci appare più lontano dal continente europeo, il Regno Unito. Proprio a metà degli anni Trenta, di fronte all’ascesa di Hitler, la parola d’ordine dell’Europa unita assunse nuovo significato nei circoli progressisti britannici. Nonostante il suo carattere indefinito, quello slogan riusciva a nutrire l’idea di una federazione di stati europei e a significare solidarietà contro il nazi-fascismo. Se era utopico e irrealizzabile dal punto di vista storico, costituiva tuttavia un germe di idee di libertà e un potenziale legame tra popolazioni diverse. Pochi anni più tardi, un giovane inglese, Frank Thompson, dopo essere stato paracadutato in Serbia all’inizio del 1944, scriveva parole significative sulla prospettiva di un’Europa unita e di quale preparazione avrebbe richiesto sul piano culturale. Thompson – che faceva parte dello Special Operation Executive, il servizio militare segreto creato da Winston Churchill nel 1940 – era impegnato nella Resistenza antinazista in Bulgaria, dove fu giustiziato nel maggio del 1944 dal governo bulgaro filo-Asse. In quegli anni di catastrofe pressoché mondiale aveva scritto alla madre e al fratello Edward lettere piene di entusiasmo per un’unione sovranazionale di stati europei. La collocava fermamente nel contesto dell’umanità come un tutto, osservando come sono deboli e indifesi gli esseri umani se non si uniscono, dopo tutte le sofferenze patite per millenni. Si riprometteva di contribuire alla realizzazione di quella prospettiva con un progetto per la comunicazione tra i linguaggi europei, basato sulle sue competenze nel campo della linguistica comparata: ciascun bambino doveva imparare in modo attivo una lingua di un determinato gruppo linguistico e in modo passivo quella di un altro, entrambe scelte sulla base di similarità e contrasti rispetto alla sua lingua madre. Mi piace ricordare che le speranze di Thompson andavano nello stesso senso del romanzo di Roman Gary, Education européenne, scritto tra il 1941 e il 1944.
Dal mio punto di vista personale, negli ultimi anni avevo quasi completamente perso la fiducia nel potenziale della parola d’ordine di un’Europa unita, rispetto a quello che ancora credevo negli anni 1990. Si era ormai quasi del tutto dissolta la speranza ingenua (da me condivisa con altre e altri) che i contributi del nostro lavoro intellettuale potessero avere a tempi relativamente brevi un potenziale liberatorio sul piano delle politiche dell’Europa. La distanza che ci separa dall’inizio del secolo Ventunesimo ha segnato un’ulteriore caduta di illusioni e accentuato la consapevolezza delle difficoltà di avvicinarci in questa fase storica all’Europa di giustizia, libertà, democrazia e accoglienza adombrata nel 1941 dal Manifesto di Ventotene. Nei mesi recenti, mi è parso che la catastrofe che abbiamo vissuto potrebbe restituire significato a una comunicazione di base su un piano culturale come quello che albergava il progetto escogitato da Frank Thompson. Ma non nel senso ottimistico di “ricominciare dalla cultura” per costruire un’Europa politicamente unita – qualunque sia lo statuto, quasi certamente mitico, della frase di Jean Monnet. No: nel senso più specifico e modesto di usare il nostro mestiere, il lavoro intellettuale svolto da ciascuno di noi sul suo terreno di ricerca e trasmissione del sapere, per contribuire a re-intravedere una qualche forza utopica di quell’antico slogan, collocandolo in un contesto mondiale. Senza fare scale di comparazione tra la nostra esperienza e quella di altre catastrofi nella storia, in molti abbiamo potuto intuire la verità di parole come quelle di Frank Thompson per il nostro presente. La nostra catastrofe è stata accompagnata da un sommovimento emotivo, indotto dal suo intervento penetrante su scala locale, ma anche dalla sua estensione globale. Tutto questo ci spinge a tentare di porre ogni nostro impegno significativo in quella dimensione.
Assumersi compiti limitati con intenti che cerchino di tener conto del mondo richiede uno sforzo utopico, ma anche la consapevolezza che l’utopia è irrealizzata per definizione. Ci serve come banco di prova o cartina al tornasole rispetto al presente. Quello che ci vuole è il coraggio di stabilire e mantenere una tensione tra l’utopia e l’attuale realtà, non l’illusione di realizzarla.
Marina Sereni L’Europa moderna è il luogo di nascita dello Stato nazionale. Lo Stato nazionale è anche la forma che si è data storicamente - a partire dal 1789 - la democrazia a suffragio universale, che resta l'elemento imprescindibile di ogni progetto di integrazione politica ed economica basato su valori condivisi e sulla tutela dei diritti fondamentali. La sfida che ci troviamo davanti è quindi quella di dare legittimazione democratica piena a quell'embrione ancora immaturo di "Stati Uniti d'Europa" che è oggi l'Unione europea.
Il percorso sarà ancora lungo. Come indicato nel contributo italiano alla discussione nel quadro della prossima Conferenza sul futuro dell'Europa, bisogna partire dal basso, creare un autentico discorso democratico pan-europeo, superando la logica dei singoli discorsi nazionali sull'Europa, spesso fra loro incompatibili. È da una coscienza europea condivisa, da partiti politici che si collochino su una prospettiva transnazionale e pan-europea, che scaturirà un dibattito democratico veramente europeo, possibile radice di quel futuro super-Stato europeo a base democratica in cui vi sia accountability.
In questo senso, il progetto europeo ha ragion d’essere - e maggiori chance di riuscita - se concepito come un “cantiere vivo”, un progetto che persegue pragmaticamente un “bersaglio mobile” e che è pertanto capace di adattarsi alle necessità storiche. Credo che la crisi del Coronavirus ne sia la prova: dopo un’iniziale fase di sgomento in cui abbiamo effettivamente visto emergere egoismi che hanno deluso molti europei, è prevalsa la consapevolezza delle classi politiche che nessuno può uscire dalla crisi da solo o, peggio, a scapito di qualcun altro. Seppure con fatica, le strade della responsabilità e della solidarietà sono risultate essere le uniche percorribili, proprio perché rispondenti ad una logica pragmatica, capace di superare i tabù ideologici. Le scelte già operative sono numerose e straordinariamente importanti: acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE per 750 miliardi di Euro; 200 miliardi della BEI per gli investimenti e la liquidità delle imprese; una linea di credito agevolata e senza condizionalità per 200 miliardi nell’ambito del MES per la spesa sanitaria; 100 miliardi per SURE con cui si potranno sostenere le misure di protezione per i lavoratori. A tutto questo si è aggiunta la proposta della Commissione Europea per un Recovery Fund da 750 miliardi di Euro, di cui 500 in forma di contributi a fondo perduto, da mettere a disposizione dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi del Covid. Questa proposta – che si costruisce attraverso la garanzia del Bilancio Pluriennale europeo – per diventare effettiva dovrà essere accettata dal Consiglio Europeo (cioè dai 27 governi degli Stati Membri) e il Parlamento europeo avrà l’ultima parola. Quindi ci aspetta ancora un negoziato impegnativo, perché sappiamo delle resistenze che ancora ci sono. Ma il dato politico rimane: siamo di fronte ad un pacchetto di misure di valore eccezionale che prefigurano un salto di qualità del progetto europeo destinato a rimanere anche per il futuro. E la capacità di costruire alleanze e dialogo da parte del nostro Paese, in particolare con Francia e Germania, è stata determinante.
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2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
Roberta De Monticelli A me non sembra che si possa parlare di fallimento, ma solo di realizzazione incompiuta, fortemente deficitaria, costantemente minacciata – e allora si ci può chiedere perché. Ma – per fare un esempio di questi giorni: se per l’ennesima volta il Parlamento italiano viola la legge europea e se ne impippa delle raccomandazioni e sanzioni, rifiutando di approvare una disciplina trasparente sugli appalti delle spiagge (che rispetti fra l’altro il diritto dei cittadini a che siano preservate spiagge libere), questo prova che l’UE esiste, ma alcuni Stati nazionali ne riconoscono la parte di sovranità solo quando fa loro comodo, ad esempio quando chiedono “solidarietà”. Comunque l’esempio che ho fatto è già un inizio di risposta alla questione del perché la realizzazione del progetto politico è così deficitaria e così lenta. Il problema di fondo è la riluttanza dei governi nazionali a cedere progressivamente fette di sovranità dove sarebbe necessario – in funzione dell’ambizione molto più grande e “storica” di creare una sovranità democratica sovranazionale o federale Europea. Difendendo la propria sovranità anche contro i patti sovranamente sottoscritti, i governi nazionali si condannano all’impotenza, lasciando spazio alla logica degli interessi delle potenze nazionali. Potenze ormai piccine, su scala globale. E di questo forse alcuni dei leader europei più avveduti, in Francia e in Germania e forse anche in Italia (ora penso soprattutto a Gentiloni) si stanno accorgendo. Per “condanna all’impotenza” intendo ad esempio il voto all’unanimità invece che a maggioranza qualificata da parte delle rappresentanze nazionali nel Consiglio, sulle questioni cruciali per la sopravvivenza dell’UE: non a caso – questo sì è un sogno che bisogna pregare si avveri – si medita, dove si può, di ridurne l’impiego e soprattutto di levarlo di mezzo per le decisioni da prendere ora. E’ chiaro che la concorrenza fra Parlamento e Commissione da una parte (che sono, com’è noto, gli organi legislativo ed esecutivo dell’UE) e il Consiglio dall’altra (dove decidono infine i leader politici nazionali) – costituisce l’ostacolo maggiore al processo di integrazione europea: un enorme ostacolo piantato di traverso sui binari di quel processo. Perché pone l’uno contro l’altro, virtualmente, da un lato un vero Parlamento sovranazionale, che esprime un vero esecutivo sovranazionale, e dunque virtualmente una democrazia sovranazionale, effettivamente cosmopolitica: cioè il diavolo stesso per i nostri sovranisti e i movimenti neo-tribali italiani ed europei. E dall’altro lato un organismo intergovernativo, sostanzialmente un coro stonato, che fa eco, ciascuno secondo le sue note, al duo franco-tedesco. Il solo decisivo, più spesso discorde e ora come nei momenti buoni concorde. E bisogna pregare, dicevo, che l’accordo duri fino alla miglior realizzazione possibile del progetto attuale dei Recovery Funds: per evitare che tutto rientri nella triste norma passata e si avveri l’altra concezione sulla natura effettiva dell’UE, la concezione della Realpolitik che vede nell’UE “nient’altro che un incidente nella storia delle tormentate relazioni politiche e militari di Francia e Germania” (Costa 2018, p. 360).
Non credo quindi che ci siano né motivi politici contingenti né una crisi culturale o di civiltà alla base della fatica e della precarietà del progetto UE. E’ piuttosto la stessa altezza etico-politica, e la grandiosità istituzionale dell’idea, che ne rende tanto difficile la realizzazione – pensiamo al fatto che anche dal punto di vista teorico dissociare l’idea di sovranità democratica da quella di nazione è una novità quasi assoluta, che introdusse Altiero Spinelli in molti suoi scritti (e non solo nel Manifesto di Ventotene, il solo che si conosce), e non è stata sufficientemente discussa. E dal punto di vista pratico, è una novità assoluta che il processo di costituzione di una Federazione – gli Stati Uniti d’Europa – sia iniziato pacificamente, per iniziativa delle libere volontà personali, nell’accordo all’inizio quasi unanime delle rappresentanze dei popoli coinvolti. Quando questo processo sarà finalmente giunto a compimento, la grandezza degli Adenauer, dei De Gasperi, degli Schumann e dei Mitterrand, perfino dei Monnet e poi via via di coloro che hanno reso possibili le grandi svolte, impallidirà di fronte alla grandezza del pensiero di Altiero Spinelli, forse la sola aquila teorica del pensiero politico europeo del Novecento. Perché nella storia come nella vita quotidiana tale è il rapporto fra le idee e le forze: le idee da sole non hanno forza, ma le forze possono essere guidate nelle direzioni giuste solo da chi ha le idee, e dalle istituzioni normative che le realizzano.
Donatella Di Cesare Sarebbe un giudizio avventato parlare di «fallimento» per un progetto nato solo qualche decennio fa. Ma è indubbia la profonda delusione che serpeggia ovunque. Nella memoria di molti popoli europei resterà indelebile la mancanza di solidarietà avvertita durante la catastrofe del coronavirus. Per l’ennesima volta l’Unione ha rischiato di rivelarsi un’assemblea scomposta di com-proprietari che, a colpi di compromessi vacillanti, si contendono lo spazio per difendere ciascuno i propri interessi. E proprio qui sta il grande nodo politico: quello dello Stato-nazione. Né motivi contingenti, né crisi di civiltà. L’Europa si è sempre considerata in crisi, già solo per la sua provenienza enigmatica, per la sua storia tormentata, per sua identità eccentrica. Distinti in questo dai greci, così orgogliosamente autentici, gli europei, si sono sempre sentiti altri e estranei. L’Europa avrebbe dovuto diventare non solo l’inedito luogo comune di una riscoperta della politica, ma anche il laboratorio dove sperimentare nuove forme di cittadinanza, sganciata dalla filiazione e dalla nascita, e sbarazzarsi del mito tossico della nazione. Purtroppo quando è stato il momento di mettere alla prova i diritti umani, accogliendo chi chiedeva rifugio, la patria di quei diritti ha tradito se stessa.
Oggi l’Europa è all’esterno un Iperstato-nazione, un guardiano dell’immunità securitaria, che difende poliziescamente le proprie frontiere, all’interno un coacervo di Stati-nazione che difendono ciascuno la propria pretesa identità Al contrario, avrebbe dovuto essere da tempo una forma politica sovra-nazionale. Mentre si immaginava una cittadinanza europea basata solo sulla residenza, aperta perciò agli stranieri, in grado, anzi, di inventare lo statuto inedito del «cittadino europeo», privo di una nazionalità interna all’Europa, tutto è finito in un insensato raddoppiamento dell’appartenenza, in un duplicato privilegio della nascita. All’apertura progressiva dello spazio Schengen, che dal 1985 avrebbe dovuto agevolare la libera circolazione, ha fatto seguito l’immunizzazione ossessiva delle frontiere. La forma politica dello Stato e il mito della nazione sono il grande ostacolo dell’Europa.
Luisa Passerini Una delle contraddizioni storiche che vedo tra il progetto politico originario dell’Europa unita e il presente si colloca a monte dell’unità basata sull’euro, ma a mio parere ha inciso su tutto l’insieme progettuale. Quel disegno si dava come inclusivo dell’apertura dei confini geografico-culturali e della realizzazione dell’uguaglianza di genere, mentre assistiamo al fallimento della messa in pratica di tali principi e delle promesse fatte su questi temi. Metto in chiaro fin da subito che per uguaglianza di genere non intendo né una semplice rivendicazione di parità tra donne e uomini né una valorizzazione delle donne in quanto donne. Parlo invece di un riconoscimento dei diritti in tutte le scelte di genere che possa incidere profondamente nel modo di intendere la democrazia e la cittadinanza. Noto di passaggio che a tutt’oggi la cittadinanza europea non è data indipendentemente dalla cittadinanza nazionale; conferisce una serie importante di diritti nell’ambito europeo (che variano – come gli obblighi – a seconda della condizione di lavoratore subordinato o indipendente oppure studente), ma la prima è derivata e aggiuntiva rispetto alla seconda, e quindi possono darsi delle discrasie, anche gravi, tra i diritti riconosciuti ai cittadini a livello europeo e a livello nazionale.
Rispetto all’alternativa proposta dalla domanda, ritengo che motivi politici contingenti abbiano certamente avuto un peso, ma siano collegati a una forma di pregiudizio che è l’opposto della civiltà. Considero che sia tale l’insistenza su “valori europei”, “identità culturale europea”, “patrimonio culturale europeo” concepiti in modo ristretto ed esclusivo, stabilendo gerarchie sia tra il retaggio europeo e il resto del mondo sia all’interno della stessa eredità europea e tra le diverse regioni d’Europa. Per sollevarci da questo pantano ci vuole l’impegno in una critica radicale rispetto a quei vecchi discorsi, che in parte c’è stato nel corso di un lungo dibattito intellettuale su scala internazionale per quanto riguarda i valori e l’identità. Recentemente c’è stata anche la critica del patrimonio non solo dal punto di vista teorico e storico, ma da quello economico, come hanno fatto Luc Boltanski e Arnaud Esquerre mostrando l’intreccio tra locale e multinazionale nello sfruttamento del marchio della cultura europea a fini turistici. Tutto questo parla di fine del primato della civiltà europea, in un modo che la retorica pubblica dell’UE non riconosce adeguatamente. Da molto tempo sono convinta della rilevanza anche politica di una critica in profondità – non solo concettuale ma anche terminologica (pensiamo a parole come “migrante” o “straniero”) – delle forme di europeità ignare del proprio carattere ibrido, dovuto ai continui scambi economici, intellettuali e culturali nel corso della storia. Non ci si può esimere dal farsi carico di questo retaggio spesso funesto, il lato oscuro dell’Europa: eurocentrismo, esclusivismo gerarchico, genocidio. Bisogna eroderlo dall’interno, capire che non si può evitare di sapersi europei, e nello stesso tempo interrogarsi sui riflessi di tutto questo anche per gli altri: che cosa significa “post-coloniale” nell’Europa di oggi? “post-imperialista”? “decoloniale”? Se non si pongono queste domande – in qualsiasi forma purché con chiarezza – non resta che crogiolarsi nella “crisi di civiltà”, espressione vaga e vittimistica. Non si tratta di restaurare le crepe di una civiltà che già teneva a stento, spesso ai danni degli altri. Certo non è possibile saltare via dalla posizionalità ricevuta. Si può invece accettare di sperimentare una specificità europea, propria di una tradizione molteplice e contraddittoria, senza smettere di esplorarne i debiti e le aporie. Cercando di dire sempre di dove parliamo, da quale posizione geopolitica e intellettuale, e con quali vantaggi o svantaggi.
Marina Sereni Non condivido affatto l’assunto secondo cui quello a cui abbiamo assistito sinora sarebbe un fallimento del progetto europeo. Dovremmo parlare di fallimento solo facendo nostra la logica massimalista secondo cui, fino a quando non si avranno gli “Stati Uniti d’Europa”, tutti i progressi sul fronte dell’integrazione sono irrilevanti. Non è su questa logica che abbiamo costruito il percorso europeo. E se lo avessimo fatto, probabilmente ci saremmo trovati con risultati molto inferiori di quelli che comunque abbiamo ottenuto in questi sessant'anni.
Non dobbiamo dimenticare che, pur con tutti i limiti, l’integrazione europea è una storia di successo. E il successo è stato proprio nel cammino, un cammino di compromessi, certo, ma anche un cammino in cui la logica della cooperazione ha sempre finito col prevalere su quella del conflitto. Era quello che aveva in mente Robert Schuman scrivendo la celebre Dichiarazione di cui abbiamo da poco celebrato i settant'anni (“L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”). Il percorso di integrazione, incluso l’obiettivo finale degli “Stati Uniti d’Europa”, va visto come uno straordinario mezzo per prevenire il riaffiorare di conflitti secolari e per gestire l’interdipendenza in maniera cooperativa, nell'interesse primario dei cittadini europei. Se dunque questa è la nostra prospettiva, ne discende non solo la validità dei concetti che ho già menzionato di Europa come “cantiere vivo” e “bersaglio mobile”, ma anche il riconoscimento del successo senza precedenti del progetto europeo.
Il problema è quindi come rinnovare continuamente l’apporto di sostegno politico dei popoli europei ad un progetto di integrazione che vive fasi storiche diverse, in modo che non manchi mai di legittimazione democratica. Al tempo stesso, le forze politiche a sostegno dell’integrazione devono ponderare attentamente l’idoneità del “capitale politico” corrente dell’UE a raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi.
Sul piano istituzionale negli anni passati si è rafforzata una dimensione intergovernativa – la sede del Consiglio Europeo in cui le decisioni debbono essere prese con l’unanimità degli Stati Membri – a scapito delle sedi comunitarie, la Commissione e soprattutto il Parlamento Europeo, che pure ha via via assunto un importante ruolo di co-decisione nel processo legislativo europeo. Oggi – tanto più di fronte alla crisi economica che il Covid19 produrrà – tutte le istituzioni sono chiamate a fare scelte coraggiose.
Il rischio di un’Unione europea come nuova “Torre di Babele” è un valido argomento nell’arsenale dei critici dell’UE ed è un rischio reale.
Un esempio concreto di questo rischio non è tanto la Brexit, che è certo stato un evento triste e traumatico ma pur sempre dentro una logica democratica, quanto piuttosto la creazione all’interno dell’Unione di gruppi di Stati membri dalle ambizioni divergenti. Se permettiamo che all’interno dell’Unione si diffonda la sensazione che esiste un’Europa di “serie A” e una di “serie B”, un’Europa dei “forti” e una dei “deboli”, poniamo le basi del fallimento del progetto di integrazione.
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3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koinè culturale e politica oltre l’homo oeconomicus?
Roberta De Monticelli Ho risposto già in parte a questa domanda. Le prassi pedagogiche e progressive presupporrebbero l’assimilazione del pensiero degli Spiriti Liberi del Novecento, un crogiuolo di idee grandiose che forse solo ora cominciano a trovare applicazione, almeno nelle menti di chi può farle fruttare. Per Spiriti Liberi intendo quelli che non rimasero intrappolati nella logica della guerra fredda e delle sue ideologie, e che sarebbero stati del tutto impermeabili alle malinconiche avventure seguite alla cosiddetta fine delle ideologie, dalla filosofia postmoderna ai mostriciattoli generati dalla fusione in dosi e componenti diverse degli elementi illiberali di dottrine hegeliane, marxiste, schmidtiane, heideggeriane, foucaultiane, convergenti in attacchi spesso violenti contro Modernità e Illuminismo/Umanismo (cioè in sostanza contro la ragione teorica e quella pratica, contro le scienze, in particolare economiche e sociali, e la democrazia).
Chi sono questi Spiriti Liberi? Ho già citato il Grande Edificatore, Altiero Spinelli. Fra i suoi amici e sodali ci fu il Grande Imprenditore, Adriano Olivetti. Ci furono un grande scrittore e un grande critico, fondatori di una delle più belle riviste italiane del Novecento, “Tempo presente”: Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Ci furono tutti gli uomini e le donne del Partito d’Azione, la cui discendenza fatichiamo a riconoscere oggi in Italia, perché è come se avessero perduto lo scintillio e il respiro dell’idealità, cioè della cognizione (anche affettiva, sensoriale) dei valori e disvalori, senza cui l’intelletto analitico (pur assolutamente necessario, con tutte le sue tecnicalità e le sue capacità di calcolo!) non vede abbastanza lontano.
E ne troviamo, in questi “Spiriti Liberi”, di spunti per pensare con onestà e chiarezza alcune delle questioni ove più tristemente è venuta a mancare una sovranità europea, o peggio si è manifestata in violazione dei valori della Carta di Nizza: Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia. Ad esempio i migranti respinti alle porte orientali e meridionali. Ad esempio la questione dell’allargarsi delle disuguaglianze. O le discriminazioni di genere. O la legislazione sugli estremi della vita.
Donatella Di Cesare La subordinazione della politica all’economia che contraddistingue la globalizzazione ha avuto devastanti effetti in ambito europeo. La cosiddetta «troika», cioè Commissione Europa, Banca Centrale e Fondo monetario internazionale, è un’istituzione indipendente, non eletta, che incarna uno stato d’eccezione. Ma questo stato d’eccezione non ha i caratteri delle dittature del passato, dove c’era un’autonomia della politica. Nell’Unione Europea l’eccezione non è transitoria; piuttosto costituisce la regola ed è, anzi, il funzionamento normale. Ciò vuol dire una completa subordinazione della politica all’economia. È questa governance finanziaria lo stato d’eccezione ai tempi del Leviatano neoliberale. Le affinità culturali, la rete degli scambi di studio e di ricerca, i sogni, i progetti, le ambizioni che accomunano i popoli europei avranno poco margine di fronte a questa violenza economica.
Luisa Passerini Nelle circostanze in cui ci troviamo, parlare di prassi pedagogiche e progressive mi sembra doveroso, ma mi pongo molte domande su quale capacità di dar vita a una koinè culturale e politica possano avere tali prassi. Soprattutto mi chiedo: quale tipo di comunità? Con quale disegno politico? Quale ethos? E a questo punto, quale homo oeconomicus? Da tempo, il punto di riferimento non è più la comunità dei popoli “europei”. In essi sono presenti in modo determinante – anche sul piano economico – sia soggetti multinazionali sia individui e gruppi di persone provenienti da tutte le parti del mondo, alcuni in condizioni privilegiate e altri in posizioni emarginate, sfruttate, estreme. Durante le fasi acute della pandemia, le immagini dei profughi ai confini tra Turchia e Grecia erano terrificanti e umilianti per noi europei che assistevamo senza fare nulla, memori dei costosi accordi con Erdogan. Il silenzio sceso improvvisamente sia sugli sbarchi sia sulle voci razziste e xenofobe in proposito non ha cancellato lo scandalo dell’impotenza e assenza di volontà politica dell’Unione Europea rispetto alle mobilità di persone che cercano di attraversano le sue frontiere interne ed esterne. Sì, in Italia c’è stata una parziale regolarizzazione dei migranti e del lavoro nero, ma pensiamo anche ad altri paesi dell’Unione nell’Est Europa, come l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca. È soprattutto rispetto a queste situazioni che l’Europa ha tradito l’ispirazione democratica e universalistica di cui si è a lungo detta portatrice.
Vorrei aggiungere che in questa situazione carica di azioni violente e proiezioni negative, un contributo della storia culturale e orale, umile quanto si vuole ma a mio parere prezioso, è l’analisi del ruolo della memoria e del linguaggio in riferimento all’immigrazione. I temi della libertà, della subordinazione, della democrazia, della differenza culturale e della deprivazione di memoria possono essere posti a due livelli di discorso, quello esistenziale-morale e quello politico-normativo. Il primo pertiene al legame di ogni singola persona con le sue radici e memorie sia culturali sia emotive, legame che permette al soggetto di mantenerle vive nello stesso tempo in cui sviluppa nuove radici e produce nuove memorie nella società di elezione. Il secondo livello concerne il rapporto di una persona migrante con il paese che ha scelto, non solo con le sue leggi ma anche con la cultura diffusa che lo caratterizza. Posso dire per esperienza che quest’ultima non contiene quasi mai solo elementi di razzismo, ma sempre anche di accoglienza e scambio quotidiani nelle scuole e nei quartieri dove ho raccolto testimonianze orali e visive con persone che hanno sperimentato la migrazione.
Marina Sereni L’integrazione giuridica ed economica tra gli Stati membri dell’Unione non ha eguali al mondo per profondità e risultati raggiunti. Dal punto di vista economico, l’integrazione europea ha consegnato ai cittadini decenni di crescita e benessere senza precedenti.
Per trarre il senso di questi benefici, basta dare uno sguardo ad uno studio pubblicato di recente dal Servizio per le ricerche del Parlamento europeo, che ha provato a quantificare i vantaggi economici dell'azione comune a livello europeo e il rischio connesso all’arresto o all’inversione del processo di integrazione nel contesto dell’attuale crisi del Coronavirus: le stime suggeriscono che l'erosione del Mercato unico costerebbe all'economia europea tra il 3,0 e l'8,7 per cento del suo PIL (il "valore aggiunto europeo" perduto in modo permanente); la perdita del potenziale non sfruttato, invece (il cd. “costo della non Europa”), ammonterebbe a circa il 14% del PIL dell'UE in dieci anni.
Ciò detto, non credo sia stato del tutto mancato l’obiettivo di creare una comunità culturale e politica in Europa. Le giovani generazioni, ad esempio, sono e rimangono tradizionalmente le più entusiaste del progetto europeo e con maggiore frequenza affermano di identificarsi con i valori dell’Europa unita e dei suoi simboli. Più in generale, la fiducia degli europei nell’Unione continua ad essere sensibilmente più elevata rispetto a quella nei Governi e nei parlamenti nazionali.
In ciò è possibile, a mio avviso, vedere una prova del superamento almeno parziale del paradigma dell’homo oeconomicus da cui ha preso slancio il processo di integrazione. Un segnale chiaro di tale cambio di paradigma è dato dall’introduzione del concetto di cittadinanza europea, che non entra in competizione con le cittadinanze nazionali, ma anzi le affianca e contribuisce così a solidificare un senso di appartenenza all’Unione che va oltre le tradizionali quattro libertà e il Mercato unico.
Il cambio di paradigma che si intravede nelle stesse linee di sviluppo dell’Unione Europea – green deal, sfida digitale, lotta alle diseguaglianze, gender equality – indica la possibilità di rinnovare uno dei caratteri più originali e positivi del progetto europeo: la capacità di coniugare libertà economica e solidarietà, quel modello sociale europeo che per molti decenni è stato alla base del consenso verso il processo di integrazione e che oggi – in termini nuovi ma con la stessa ambizione – possiamo rilanciare per riconquistare la mente e i cuori della maggioranza dei cittadini europei.
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4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
Roberta De Monticelli Questo è certamente un buon punto di partenza: e a questo riguardo suggerisco, come letture da rendere antologiche per i nuovi corsi di educazione civica che si vogliono aprire nelle scuole italiane, due grandi libri.
Il primo è Il radicamento di Simone Weil (1942) uno dei grandi “Spiriti Liberi” del secolo scorso, che ci insegna come i diritti individuali si fondano sulla giustizia, ma la giustizia è fatta di ciò che ciascuno di noi deve – agli altri, ma anche a tutte le altre creature, alla terra, ai paesi, al passato, ai patrimoni culturali e ideali, agli ultimi della terra. A proposito di questo, del resto, è un tema ben noto di Simone Weil come di Camus quello di indicare la bellezza come il lato sensibile della giustizia: ed entrambi, Weil e Camus, intensamente lavoravano a una costituente per l’Europa. Oggi c’è un intelligente politico tedesco, Sven Giegold, che ha costituito un movimento insieme per l’Europa e per la pietà della nostra violentata terra, insomma i Verdi-Europei, una concreta speranza di partito multinazionale, in prima istanza italo-tedesco, che sta costituendosi attraverso importanti e seguitissimi Webinar, cui consiglio calorosamente di partecipare.
Il secondo grande libro da comodino e da banco scolastico è Il diritto di essere un uomo – Antologia mondiale della libertà, in cui la filosofa Jeanne Hersch (una specie di venerato maestro per me anche se la conobbi solo dopo esserle del tutto indegnamente succeduta sulla cattedra di filosofia a Ginevra), raccolse nel suo biennio di direzione della sezione filosofica dell’UNESCO (1966-1968) le voci di tutti i popoli, dalle voci antichissime a quelle più moderne, accostando le steli babilonesi ai Voltaire e a Eleonora Roosevelt, che manifestassero un senso per la pari dignità degli esseri umani. Un libro meraviglioso, diviso in sezioni di passi e pagine memorabili, una sorta di breviario cosmopolitico dell’umanesimo di ogni luogo e tempo (ne esiste una recente edizione italiana, Mimesis 2015).
Infine, ai docenti stessi per orientare il lavoro dei ragazzi consiglio la lettura di G. Vaciago (2015), Un’anima per l’Europa, il Mulino, Bologna, e anche del già citato articolo di G. Costa (2018), vedi fine della prima risposta: ammirevole per la sintesi con cui espone e discute non solo le tesi di Vaciago, ma anche di due altri importanti economisti, Zingales, e Ciocca nel suo confronto con lo storico e filosofo Angelo Bolaffi (Bolaffi A. - Ciocca P. (2017), Germania/Europa, Donzelli, Roma). Questi testi, e il saggio di Costa che li discute tutti, sono un ottimo antidoto alla sequela di luoghi comuni radicati nella nostra ignoranza economica e giuridica, e nei residui ideologici dei vari “ismi” che ci portiamo tutti dietro.
Ma vorrei, per concludere, tornare al tema della solidarietà. Oggi il bicchiere della solidarietà europea, dopo l’accordo di massima sui fondi per la ricostruzione, viene presentato come mezzo pieno o mezzo vuoto. Ottimisti e pessimisti si fermano qui: per gli ottimisti tutta la grandezza del progetto europeo originario – e io intendo quello spinelliano – si risolverà anche per l’avvenire in un aumento di questa solidarietà; per i pessimisti l’insufficienza di questo aumento è la miccia che scatenerà ulteriormente i sovranisti. Ma quale concetto di “solidarietà” hanno in mente gli uni e gli altri? Fondamentalmente, trasferimenti di denaro dalle nazioni la cui economia girava e girerà molto meglio a quelle in cui andava e continuerà ad andare peggio. E nelle grida dei più, nei messaggi politici, quasi nessuno contesta l’assurdo antropomorfismo che ci presenta i paesi “virtuosi” come “egoisti”, e l’Europa come più o meno “altruista”; nessuno parimenti contesta la solita immagine del “battere i pugni”, più o meno vigorosamente, sul tavolo dell’Europa, come se noi stessi non fossimo parte di questo sgangherato intero, e dunque insieme pugno e tavolo. Che se poi si intende invece il tavolo tedesco o altri tavoli “nordici”, allora bisognerebbe pur dirlo: ma non si può, perché allora la “solidarietà”, che si baserebbe sull’appartenenza a una casa comune, cessa di essere un buon argomento, soprattutto se la si intende come un obbligo a una sola direzione, e neppure un obbligo di credito, ma un obbligo di dono.
Non può essere questo, la solidarietà. Ma – a proposito di “civiltà della persona” – l’espressione è di Spinelli – deve essere una virtù fondata non sulla coesione tribale dei sovranisti, ma sull’interdipendenza sempre più accentuata delle attività individuali a livello globale. Solidarietà è il valore che ispira una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza, non solo economica. Che accresca oltre i limiti della propria nazione la sovranità politica dei cittadini. Che ne faccia una democrazia veramente sovranazionale, appunto, con tutte le sue istituzioni – a partire dall’unione fiscale. Questa: e non i trasferimenti a forza di arlecchinate o di pugni sul tavolo. Che il cielo ispiri i nostri politici, perché l’occasione è di quelle che possono fare epoca.
Donatella Di Cesare È tempo di smettere di parlare di «sovranità della persona». Questo modo di intendere il soggetto ha lasciato dietro di sé macerie e non è più accettabile. Nessuno è sovrano, nessuno autonomo. Prima del sé viene sempre l’altro. E il sé si costituisce di volta in volta solo nella risposta all’altro, nella torsione, in quel suo volgersi assumendosi responsabilità. Proprio per questo è anche tempo di guardare con occhio critico la «cultura dei diritti». Quella in cui viviamo è una democrazia immunitaria che prevede diritti e tutela solo per alcuni, per i «cittadini», e che abbandona i reietti, gli esposti, quelli che non hanno una cittadinanza, un drappo nazionale, uno Stato a difenderli.
La «battaglia dei diritti», in cui si crede spesso di scorgere il fronte più avanzato della civiltà e del progresso è un boomerang. Si auspicano cura, assistenza per tutti. Ma il «tutti» è una sfera sempre più chiusa e ha frontiere. L’inclusione è un ostentato miraggio, l’uguaglianza è una parola vacua che suona ormai come un affronto. Il divario si amplia, lo scarto si approfondisce. Non è più solo l’apartheid dei poveri. Il discrimine è proprio l’immunità, che scava il solco della separazione. L’Europa non può essere Europa se continuerà a concepirla in questo modo.
Luisa Passerini Non ‘esperanto’, semmai la capacità di accogliere una pluralità di lingue, come sperava Frank Thompson, con tecniche che permettano di andare oltre Babele. Farò ancora una volta riferimento alla mia esperienza nell’organizzazione del lavoro culturale. Nei vent’anni dal 2001 ho lavorato a fondare e gestire delle Giornate di studio e discussione intitolate a Ursula Hirschmann e al gruppo “Femmes pour l’Europe” costituito da lei, Fausta Deshormes e altre donne a Bruxelles nel 1975.
Quegli incontri si sono succeduti prima all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e poi all’Università di Torino. Le Giornate, come si può vedere dagli Atti pubblicati in forma digitale, hanno dato spazio centrale al tema dei diritti, partendo dalla giurisprudenza e allargando il discorso in varie direzioni. Per esempio, Elena Paciotti ha indicato come il diritto europeo abbia agito da promotore non solo a livello legale ma anche culturale, nelle politiche contro le discriminazioni di genere e sul terreno delle azioni positive e i diritti parentali; tuttavia ha riconosciuto che le strutture economiche e familiari insieme con politiche sociali inadeguate hanno favorito il permanere delle disuguaglianze nello stesso campo, particolarmente in un quadro reso complesso dall’immigrazione.
Il gruppo “Femmes pour l’Europe” si prefiggeva lo scopo di portare avanti l’ispirazione del Manifesto di Ventotene per un’Europa intesa come federazione ispirata agli ideali di libertà, giustizia sociale e uguaglianza, aprendola alla prospettiva di genere. Le componenti del gruppo si proponevano di contribuire in prima persona a questa impresa, riflettendo sul loro doppio ruolo di mogli di europeisti e di donne europeiste, e operando in tale direzione. Uno degli stimoli principali alla formazione del gruppo era stata la percezione di una tensione tra la sfera pubblica e la sfera privata, come indica il nome del gruppo in francese, lingua nella quale “femmes” significa sia donne sia mogli.
Anche se c’era un elemento di subordinazione nel punto di partenza, il carattere intersoggettivo della loro iniziativa conteneva molti aspetti positivi, che ci sta a cuore riscattare ed elaborare. La definizione di Ursula Hirschmann come “europea errante” riflette la valorizzazione di una genealogia di donne che hanno contribuito a forgiare una molteplicità di modi di appartenere all’Europa e che hanno operato attivamente per rendere possibile – non solo nel pensiero e nell’immaginazione, ma anche nell’azione politica e sociale – un’Europa diversa da quella esistente.
La prospettiva di genere aggiorna il tema dei diritti in modo sostanziale, aprendo una riflessione sulle forme di cittadinanza europea che tenga conto della soggettività incorporata. Il riferimento al corpo è decisivo e rientra nell’estensione dello sguardo di ricerca alla soggettività, intesa come capacità di coniugare identità e alterità nell’ambito delle scelte di genere. I discorsi dell’omofobia e dell’omonazionalismo possono essere assunti a testimoni dei contenuti e limiti della cittadinanza in Europa, mentre il concetto di marginalità sessuale può diventare una lente preziosa per interpretare l’esigenza politica di appartenenza.
Sono altrettante basi teoriche per l’auspicio di una rifondazione della cittadinanza europea che comprenda elementi di giustizia sociale post-nazionale, uguaglianza e coabitazione pacifica tra diversi, in un aggiornamento del progetto federalista europeo di Ventotene.
Con lo stesso intento un’altra studiosa, Rosi Braidotti, si è prefissa di pensare un’Europa federata come progetto post-nazionalista e post-eurocentrico. Gli aggiornamenti proposti da Braidotti vanno nel senso di raccogliere i messaggi dei movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti, sviluppando la nozione politica di una cittadinanza flessibile orientata in senso multiculturale. La posizionalità da cui può prendere avvio questa operazione – che pertiene non solo al piano intellettuale e filosofico, ma anche a quello dell’immaginario sociale e delle emozioni – è la teoria di genere intesa come retaggio discorsivo e metodologico di portata globale: una posizionalità intesa non come prospettiva che riguardi solo le donne ma come soggettività e intersoggettività capaci di raccogliere il retaggio del pensiero e dei movimenti di genere nel mondo. Vorrei precisare che questa è la posizione da cui sto parlando, ma non è la sola a suggerire un allargamento dell’idea dei diritti: per fare un esempio significativo, Stefano Rodotà aveva parlato di diritto d’amore proprio in riferimento a identità, genere e diritto.
Negli ultimi vent’anni, le idee di una soggettività incorporata e del primato dell’intersoggettività che hanno ispirato gli studi di genere si sono arricchite sullo sfondo dei cambiamenti geopolitici in cui rientrano la diaspora mondiale delle popolazioni e l’assetto ecologico del pianeta, andando oltre il concetto della sovranità della persona. Per quanto riguarda la geografia globale che ci fa da contesto, il termine “intersoggettività” si è dilatato enormemente in senso spaziale e temporale, fino a includere oltre agli umani anche soggetti come la foresta amazzonica, considerata anch’essa capace di diritti. È un invito a continuare a fissare lo sguardo contemporaneamente su problemi locali e continentali, tenendo presente che li condividiamo con una comunità vivente di estensione globale seppur lacerata da conflitti e divisioni.
Marina Sereni Il riconoscimento della dignità della persona umana, iscritto nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri prima ancora che in strumenti giuridici quali la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Carta europea dei diritti dell’uomo, è una conquista fondamentale della civiltà occidentale, che va difesa sempre e con forza. Porre l’essere umano al centro dell’edificio politico non ha significato soltanto l’apertura di una “stagione dei diritti” senza precedenti nella storia. Il primato della persona umana ha avuto come conseguenza logica il trionfo della democrazia come sistema politico. Affermare il primato dell’essere umano, infatti, implica per lo Stato un vincolo al rispetto dell’individuo, di modo che la volontà dell’individuo diviene anche la fonte della legittimità del potere politico. Ciò contrariamente a quanto è avvenuto nei totalitarismi che hanno afflitto il XX secolo, regimi in cui (alcuni) individui trovavano affermazione attraverso lo Stato a scapito di altri individui e comunità.
In Europa abbiamo realizzato moltissimo sul fronte dei diritti umani, civili e politici e dovremmo giustamente ritenerci fieri di questo. Tuttavia non ci sfugge come oggi – anche in Europa – si manifestino segnali di crisi delle democrazie liberali, tanto da essere entrato nel lessico politico la definizione-ossimoro di “democrazie illiberali”. Né possiamo sottovalutare i tentativi di screditare l’Europa e le democrazie da parte di entità esterne che si muovono attraverso la rete con una azione organizzata di disinformazione per condizionare l’opinione pubblica. È un tema delicato e cruciale.
La Conferenza sul Futuro dell’Europa – che prevede un percorso di partecipazione e di dibattito pubblico molto ampio – ha dovuto rallentare il suo calendario a causa della pandemia. Ritengo che essa rappresenti uno strumento essenziale per costruire una nuova “narrazione” sull’Europa e i suoi valori fondanti. La democrazia, non solo a livello nazionale, ma anche europeo, non può fare a meno di simboli e prassi unificanti, capaci di suscitare il coinvolgimento dei cittadini al livello degli ideali e dei sentimenti e di mettere in moto il loro senso di responsabilità e solidarietà.
4. Le conclusioni
Il suono di una parola-chiave oscura gli orizzonti dell’antico sogno europeo: sovranità; il nuovo ‘fantasma’ che si aggira nel cuore dell’Europa.
Il grande ostacolo dell’unità europea – ricorda con sobria lucidità Donatella Di Cesare – sembra rintanarsi nella forma politica dello Stato e nel mito storico della Nazione.
Tutte le svolte più significative della storia europea, nota Roberta De Monticelli, sono il frutto di scelte politiche nazionali, poiché è ancora a quel livello che il potere viene esercitato e che sembra essersi storicamente arrestato.
Il cammino delle vicende europee (là dove hanno obiettivamente compiuto un percorso) è dunque il frutto della ‘giustezza’ delle idee nazionali che le hanno concepite, e del supporto (del semplice supporto) che le istituzioni sovranazionali sono in vario modo riuscite a garantir loro.
Le stesse istituzioni dell’Unione vivono nella propria carne l’invadenza degli egoismi nazionali, ne avvertono dall’interno gli attentati continui al disegno di una compiuta unità, ne riflettono la concorrenza, che finisce col porre l’una istituzione contro l’altra, secondo una logica sovente destinata a condannarle all’impotenza o allo stallo.
È emblematico, in quest’ultimo senso, il caso (nuovamente emerso nell’aspra vicenda negoziale conclusa, nell’ambito del Consiglio europeo, con riguardo alla definizione dei termini del Recovery Fund) della pretesa di invocare il meccanismo dell’unanimità per la formazione delle decisioni collegiali.
Si tratta di un tema antico, che l’avvertita riflessione di Edoardo Ruffini aveva affidato, nel 1927, a un piccolo saggio storico sul principio maggioritario[1]: un testo mai abbastanza letto e richiamato nei discorsi condotti attorno alla sostanza dell’idea democratica, e che testimonia dell’intrinseca debolezza storica del principio dell’unanimità sul piano dell’edificazione di un potere corporativo realmente comune.
La rinnovazione delle reciproche diffidenze tra le sovranità nazionali europee finisce dunque per offrire argomenti ineludibili all’idea, qui richiamata da Roberta De Monticelli, secondo cui l’Unione Europea altro non sarebbe che un incidente nella storia delle tormentate relazioni politiche e militari di Francia e di Germania.
E tuttavia, la distruttiva competizione destinata a rinnovare le volontà di potenza nazionali (che la lunga esperienza bellica del XX secolo sembra non aver cancellato del tutto) ha ormai cambiato pelle, trasferendosi dal piano politico-militare, a quello, assai più insinuante (ma non meno tremendo), della capacità produttiva dei diversi sistemi nazionali, quando non della semplice attitudine a ‘generare valore’ sul piano finanziario e meramente speculativo.
Si tratta di un’evoluzione del discorso economico che ha finito col determinare – vorrebbe dirsi secondo la logica e i termini che furono cari alla riflessione di Emanuele Severino – la completa subordinazione della politica alla tecnica, al suo ‘strumento’, come opportunamente ricorda Donatella Di Cesare, là dove sottolinea come questa governance finanziaria sia divenuta il modo di funzionamento ‘normale’ dell’Unione Europea e, dunque, il punto in cui si rivela l’autentico ‘stato d’eccezione’ ai tempi del Leviatano neo-liberale.
Le affinità culturali, la rete degli scambi di studio e di ricerca, i sogni, i progetti e le ambizioni che accomunano i popoli europei – ammonisce ancora Di Cesare – sembrano destinati a disporre di uno scarso margine di manovra di fronte a questa violenza economica, poiché le politiche nazionali sono ormai concepite unicamente alla luce di un’ideologia anti-utopistica, priva di prospettive e schiacciata sulla semplice gestione dell’esistente: si tratta di un’attitudine politica governata dall’idea della ‘conservazione’, in cui affondano le proprie radici i rigurgiti del sovranismo contemporaneo e il rifiuto del sogno europeo che lo identifica, e per cui le nozioni dello ‘sviluppo’ o della ‘crescita’, lungi dall’indicare il senso di un’evoluzione qualitativa, si riducono a contrassegnare i termini numerici di una sola misura.
La riflessione sulle vie di un possibile riscatto dell’esperienza politica sembra intravedersi nelle parole di Marina Sereni, là dove sottolinea, in primo luogo, l’essenzialità di un percorso dell’unità europea che sappia conservare le proprie origini e il proprio statuto democratico.
Il progetto politico su cui si fonda il disegno dell’Unione europea non è questione che possa ridursi al solo apporto di una classe politica o di élite variamente selezionate, trattandosi piuttosto di coinvolgere i popoli europei in un progetto capace di adeguarsi alle contingenze delle diverse fasi storiche, rifiutando e combattendo la sensazione, perdente o fallimentare, di un’Europa ‘a vari livelli’, di un’Europa ‘dei forti’ e di una ‘dei deboli’: si tratta, dunque, di richiamare le diverse formazioni politiche, collocate su un piano transnazionale e pan-europeista, ad assumersi la responsabilità della comune elaborazione di un’autentica ‘coscienza europea’.
Da questo punto di vista, non mancherebbero gli spunti o i riflessi di un effettivo cambio di paradigma suscettibile di essere riconosciuto nelle linee di sviluppo dell’Unione Europea. Green deal, sfida digitale, lotta alle disuguaglianze, gender equality: temi e progetti destinati a valorizzare uno dei caratteri più originali e positivi del progetto europeo, individuato nella capacità di coniugare la libertà economica e la solidarietà, secondo quel modello che per lungo tempo aveva convogliato il consenso popolare verso il processo di integrazione.
Ancora un richiamo al valore della ‘solidarietà’, come dimensione necessariamente complementare al naturale riconoscimento delle libertà individuali e collettive, nel comune impegno di edificazione di un sistema di convivenza ispirato all’idea di giustizia.
Ma quale significato – si interroga opportunamente Roberta De Monticelli – dobbiamo attribuire all’espressione che allude alla solidarietà? L’idea che la condivisione dei sacrifici e delle difficoltà affrontate dalle singole comunità nazionali possa essere realizzata attraverso il semplice trasferimento di fondi non può essere accettata; si tratta, piuttosto, di porre le premesse per un’interdipendenza sempre più accentuata delle attività individuali a livello globale. Se la solidarietà è il valore che ispira una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza (non solo economica), occorrerà allora accrescere la sovranità politica dei cittadini oltre i limiti della propria nazione, in vista di una democrazia autenticamente sovranazionale.
Qui il pensiero di De Monticelli finisce col riempire di contenuto concreto, di figure e di volti, quell’invito alla coniugazione dei valori di libertà e di giustizia invocata da Marina Sereni; sono le figure e i volti degli Spiriti Liberi del Novecento: Altiero Spinelli, Adriano Olivetti, i fondatori di una delle più belle riviste italiane del Novecento, Tempo presente, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, gli uomini e le donne del Partito d’Azione.
Anche Luisa Passerini ricorre alla rievocazione di una figura simbolica, come quella di Frank Thompson, allo scopo di riaffermare il carattere essenziale dell’utopia, ‘dell’umanità come un tutto’, e delle ineludibili responsabilità della classe intellettuale nel tener vivo lo sforzo di conservazione di una tensione ideale, di quella necessaria ‘apertura’ in cui si colloca la progettazione politica, nella consapevolezza dell’irrealizzabilità concreta dell’obiettivo, ma insieme nella determinazione a trarne motivo continuo di ispirazione per la prassi politica.
La riflessione che Luisa Passerini conduce nell’offrire le sue risposte assume un interesse di particolare intensità, la dove sottolinea come il generico riferimento al disegno di una comune koinè culturale europea impone, preliminarmente, di rispondere alla domanda a quale tipo di comunità, con quale disegno politico e quale ethos e, infine, a quale homo oeconomicus intendiamo riferirci.
Da tempo, il punto di riferimento non è più la comunità dei popoli ‘europei’. In essi sono presenti in modo determinante – anche sul piano economico – sia soggetti multinazionali sia individui e gruppi di persone provenienti da tutte le parti del mondo, alcuni in condizioni privilegiate e altri in posizioni emarginate, sfruttate, estreme.
È impossibile non condividere quanto Passerini ci invita a guardare con spirito critico ogni qualvolta si faccia riferimento ai ‘valori europei’, alla ‘identità culturale europea’, al ‘patrimonio culturale europeo’, concepiti in modo ristretto ed esclusivo, stabilendo gerarchie sia tra il retaggio europeo e il resto del mondo, sia all’interno della stessa eredità europea e tra le diverse regioni d’Europa.
L’essenziale ricognizione di Passerini ci ammonisce a non sottovalutare il modo in cui la retorica pubblica delle istituzioni europee ha sostanzialmente rimosso l’evento della fine del primato della civiltà europea, attraverso la riproposizione (anche terminologica, come nel caso delle parole che alludono alle figure del ‘migrante’ o dello ‘straniero’) delle forme di ‘europeità’ ignare del proprio carattere ibrido, dovuto ai continui scambi economici, intellettuali e culturali nel corso della storia. Occorre farsi carico di questo retaggio, spesso funesto, del ‘lato oscuro dell’Europa’: eurocentrismo, esclusivismo gerarchico, genocidio: occorre ‘eroderlo dall’interno’, capire l’impossibilità di sapersi europei senza interrogarsi sui riflessi di tutto questo anche per gli altri; prendere davvero ‘sul serio’ il valore di cosa significhi ‘post-coloniale’, ‘post-imperialista’, ‘decoloniale’, nell’Europa di oggi.
In questa prospettiva critica, ‘demitizzante’ o ‘decostruttiva’, assume particolare valore l’ammonimento di Donatella Di Cesare vòlto a disvelare la dimensione retorica (quando non la sottile ipocrisia) che rischia di celarsi dietro l’espressione che si richiama alla ‘sovranità della persona’. Si tratta di un modo di intendere il soggetto (secondo il contrassegno della modernità inaugurata da Cartesio) che ha lasciato dietro di sé macerie, nella misura in cui ha affidato all’oblio la dimensione costitutivamente ‘mondana’ dell’uomo, nel senso, heideggeriano, dell’uomo che necessariamente realizza il suo ‘progetto’ in una rete inestricabile di relazioni e di rapporti storicamente determinati, per cui ‘nessuno è sovrano’, ‘nessuno autonomo’: prima del sé viene sempre l’altro, e il sé si costituisce di volta in volta solo nella risposta all’altro, nella torsione, in quel suo volgersi assumendosi responsabilità.
Ecco, allora, come la riflessione della cultura aiuta il giurista a ‘riposizionarsi’, con un rinnovato occhio critico, rispetto alla c.d. ‘cultura dei diritti’; una cultura che ha permesso (non occorre qui decidere se in buona o mala fede) il declino, e infine la degenerazione, della democrazia liberale faticosamente disegnata dai nostri ‘padri costituenti’, in una ‘democrazia immunitaria’ (un’espressione che Di Cesare fa propria e che richiama la lunga riflessione biopolitica di Roberto Esposito), che prevede diritti e tutele solo per alcuni, per i ‘cittadini’, e che abbandona i reietti, gli esposti, quelli che non hanno una cittadinanza, un drappo nazionale, uno Stato, a difenderli.
È la lezione finale di Luisa Passerini – di raffinata sensibilità teorica – a fornire un modello concettuale di riferimento (storicamente educato, come quello della ‘prospettiva di genere’) a cui riportare, in termini aggiornati, la riflessione sul tema dei diritti e sulle forme di cittadinanza europea che tenga conto della c.d. soggettività ‘incorporata’.
Il riferimento al corpo assume qui un valore decisivo, non solo per la costituiva esposizione ‘carnale’ del sé all’altro (e dunque alla dimensione totalmente originaria del ‘fatto relazionale’), ma anche per l’estensione dello sguardo di ricerca a una soggettività intesa come capacità di coniugare insieme identità e alterità (com’è tipico nell’ambito delle scelte di genere).
In questo senso, sottolinea Passerini, i discorsi dell’omofobia e dell’omonazionalismo possono essere assunti a testimoni dei contenuti e dei limiti della cittadinanza in Europa, mentre il concetto di marginalità sessuale può diventare una lente preziosa per interpretare l’esigenza politica di appartenenza.
La proposta teorica di Luisa Passerini si avvale degli aggiornamenti proposti da Rosi Braidotti e della sua raccolta dei messaggi dei movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti, sviluppando la nozione politica di una cittadinanza flessibile orientata in senso multiculturale.
La ‘posizionalità’ (da cui può prendere avvio questa operazione, rilevante, oltre che sul piano intellettuale e filosofico, su quello dell’immaginario sociale e delle emozioni) è la teoria di genere intesa come retaggio discorsivo e metodologico di portata globale: una ‘posizionalità’ intesa come prospettiva che non riguarda solo le donne, ma che si estende al concepimento di soggettività e intersoggettività capaci di raccogliere il retaggio del pensiero e dei movimenti di genere nel mondo.
L’idea di una soggettività inestricabilmente legata all’unicità del ‘corpo’ che la esprime, e del primato dell’intersoggettività che la rende viva, dopo aver ispirato gli studi di genere, si è arricchita dell’intera fenomenologia storica dei cambiamenti geopolitici: un discorso complesso, in cui rientrano, tanto la diaspora mondiale delle popolazioni, quanto lo stesso assetto ecologico del pianeta.
Si tratta di ripensare dalle fondamenta quell’idea (tutta moderna) di un diritto costruito sulla dimensione della persona come polo di aggregazione di ‘appartenenze’ (di diritti, di prerogative, di beni o sfere di sovranità), e di tornare a riflettere sul valore di una disciplina di studio che tutto punti sul valore costitutivo della relazione, dell’intersoggettività come reciproca e scambievole capacità di dare e di ricevere, fino a includere, oltre agli umani, anche entità come la foresta amazzonica, considerata anch’essa capace di diritti, e dunque di rinnovare lo sguardo su quell’antica distinzione tra le ‘persone’ e le ‘cose’ che proprio l’interrogazione sul corpo, secondo l’illuminante riflessione di Roberto Esposito[2], induce a porre in crisi.
Nel concludere la riflessione su un primo giro di interviste dedicate al ‘destino dell’Europa’ (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1059-sul-destino-dell-europa), si era sottolineata l’acquisizione di un ultimo ‘lascito possibile’ del dibattito culturale, rinvenibile nell’idea del riscatto dell’antica umiltà del diritto come ‘arte dell’incontro’ e come disciplina capace di coltivare il desiderio (ma anche il coraggio) per la cura dell’altro, come del misterioso, e sempre inconsapevole, custode del senso della vita.
Il dialogo di oggi torna ad offrire sicure e autorevoli conferme al concepimento di quell’illusione; un’utopia (sempre ‘regolativa’) da affidare, con rinnovata fiducia, alle buone volontà del tempo che viene.
[1] Edoardo Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico, Milano, Adelphi, 1976 (1927).
[2] Roberto Esposito, Le persone e le cose, Torino, Einaudi, 2014.
Riccardino
di Christine Von Borries
Riccardo Lo Presti, Riccardino per gli amici, telefona per errore alle cinque del mattino al numero di telefono della casa di Marinella del commissario Montalbano. Quando Salvo risponde capisce che l’uomo è convinto di parlare con un amico e che lo sta aspettando per un appuntamento davanti ad un bar insieme ad altri due amici. Con i cabasisi che gli girano vorticosamente si vendica non svelandogli l’errore e gli conferma che lo raggiungerà dopo pochi minuti.
Comincia così l’ultimo romanzo che Andrea Camilleri ha dedicato al suo, ormai nostro, commissario di Vigata le cui storie ci accompagnano da quarant’anni. L’indagine riguarda quattro amici trentenni, che hanno fatto le elementari insieme. Tre sono sposati con le rispettive sorelle mentre Riccardino con una tedesca che si è trasferita a Vigata.
L’omicidio di Riccardino avviene all’improvviso davanti agli amici e Montalbano dovrà lottare contro se stesso e non solo. L’indagine punterà prima verso una strada di tradimenti, passione e risentimento. Poi verso grossi interessi economici chiaramente illeciti, mentre si susseguono le pressioni di politici e addirittura di un vescovo. Per la prima volta Salvo sente di non avere più “gana” e cioè voglia, forza, passione per risolvere l’ennesimo omicidio e addentrarsi nelle brutture e pochezze dell’animo umano di chi vi ricorre. Condanna senza se e senza ma le motivazioni addotte da chi toglie la vita ad un uomo. L’indagine viene assegnata inizialmente al nuovo comandante della squadra mobile di Montelusa ma grazie al vescovo Partanna, in seguito viene affidata al commissario di Vigata, nonostante la sua riluttanza. Da quel momento, Montalbano affronta vari misteri. Le tensioni sotterranee tra i quattro amici. Un camionista dipendente della miniera dove lavorano i tre sopravvissuti che fa avanti e indietro in un piccolo vicolo ogni notte. Prestiti bancari prima negati e poi concessi dopo la telefonata del potente di turno. Il commissario con l’arma dell’intuizione e l’abilità nel “fare teatro” destabilizza i testimoni con domande assurde e innocue, tanto da apparire “cretino”. Così mette i testimoni gli uni contro gli altri e fa loro abbassare la guardia. Mentre si muove nelle sabbie mobili delle apparenze comincia a fare emergere la verità e in tanti tentano a quel punto di togliergli l’inchiesta.
Come sempre, Salvo non guarda in faccia nessuno e di fronte alle doppie facce delle persone, quella rispettabile e quella indicibile, scava per arrivare al nucleo, alla verità, al responsabile del delitto. Senza seguire solamente la pista più ovvia che farebbe comodo a molti. Trova sulla sua strada, messi di traverso, tanti personaggi. Il vescovo Partanna si accorge troppo tardi che il commissario non si farà addomesticare e di avere un avversario degno di questo nome. Il pm Tommaseo si fa manovrare quando sente parlare di donne e di sesso ma di fronte ad una storia ben più grossa si tira indietro. Questa volta però l’avversario più duro da combattere è l’Autore, lo scrittore locale, al quale anni prima Montalbano aveva raccontato varie sue indagini dalle quali ha tratto romanzi diventati famosi. Ancora di più lo sono diventate le loro trasposizioni cinematografiche. Camilleri in poche righe di ironia e sarcasmo sferzanti, dice quanto Montalbano debba schivare la fama del suo alter ego televisivo per essere lasciato in pace, dato che se un romanzo lo leggono qualche centinaio di migliaia persone, le serie televisive sono viste da vari milioni. Nel corso del romanzo si instaura così un dialogo tra i due. L’Autore contatta più volte Montalbano per influire sull’andamento e sulla fine dell’indagine. Ma Montalbano, ritrovata la passione per ciò che si cela dietro le apparenze, soprattutto quelle più false e cortesi, non si accontenta del facile e accomodante finale che gli viene proposto.
Andrea Camilleri, come ci dice lui stesso nelle note finali, ha scritto questo romanzo nel 2005 dando indicazioni affinché fosse pubblicato dopo la sua morte. Convinto che non avrebbe scritto altre storie con Montalbano come protagonista. Come sappiamo, fortunatamente non è andata così. Nei 14 anni successivi ci ha infatti regalato ancora tanti romanzi, alcuni con altre avventure del commissario di Vigata. Tutti hanno un grande merito: ci guidano con mano delicata in storie pervase da forti ideali di giustizia, che descrivono lotte a volte impari contro poteri forti; ma sono capaci nel contempo di farci ridere di cuore con un senso dell’umorismo che rimane senza uguali.
E allora grazie Andrea Camilleri per non avere mai perso, fino all’ultimo, la “gana di scrivere”.
Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
di Paola Filippi
Sommario: 1. Premesse - 2. Migliorare il Csm nella cornice costituzionale, la scelta del tema - 3. La promessa costituzionale di autonomia e indipendenza - 4. La rappresentanza elettorale, la politica delle decisioni e i sistemi elettorali - 5. Le correnti - 6. La trasparenza nel governo della magistratura, la semplificazione, il controllo e l’organizzazione - 7. La cura.
1.Premesse
Il percorso dell’umanità, così come la vita degli uomini, è segnato da eventi imprevisti, imprevedibili, non governabili o governati male, insomma coefficienti causali sfuggiti al controllo.
L’accidente in un cui incappa il singolo uomo può cambiargli la vita, quella di chi lo incrocia e addirittura la storia di una nazione; figuriamoci se l’accidente riguarda i popoli, come nel caso di una pandemia.
Questo secondo volume della collana i Dialoghi di Giustizia Insieme è andato in stampa in piena pandemia da Covid-19, nella c.d. fase 2.
Dai primi di marzo, ogni sera alle ore 18:00, sempre con il fiato sospeso, abbiamo atteso il numero zero: zero nuovi contagiati, zero malati e soprattutto zero morti. Mentre scrivo non è ancora così, né in Europa né nel resto del mondo.
Come staremo quando tu lettore aprirai questo volume e ti accingerai a leggere queste pagine? Nel tuo momento – il tuo che leggi – conosceremo quello che più ci agita e ci fa stare come “color che son sospesi”, ovvero quali saranno i cambiamenti del vivere sociale, quale la sorte della nostra socialità nel distanziamento.
Il momento di chi scrive è fermo – non potrebbe essere diversamente –, quello di chi legge mobile e, al tempo stesso, molteplice come i lettori e i tempi di lettura e magari di rilettura. Così, alla domanda “siamo ancora socialmente distanziati?” arriverà pure la risposta netta del lettore post-pandemico “no, i convegni si fanno in presenza e le mani si stringono di nuovo”.
Come è stato il debellato il Covid-19 caro lettore post-pandemico non te lo chiediamo, non vorremmo risposte evasive. Se ti accingi a leggere questi dialoghi, non sei un virologo (solo durante la pandemia abbiamo creduto tutti di esserlo) e quindi non ci daresti risposte esatte; e poi è lungi da noi l’idea di importunarTi oltre su virus, cure e vaccini per il Covid-19.
Qui trattiamo la malattia degenerativa di cui è affetto il governo autonomo della magistratura.
2. Migliorare il Csm nella cornice costituzionale, la scelta del tema
Questa premessa un po' anomala e dialogata, in linea con il titolo della collana, era indispensabile per contestualizzare e dare atto di quanto è avvenuto nel mondo nell’intervallo temporale tra l’11 ottobre 2019, il giorno in cui, presso il complesso monumentale di San Lauro in Roma, si è svolto il convegno dal titolo “Migliorare il Csm nella cornice costituzionale” – primo convegno organizzato dalla rivista Giustizia Insieme – e la pubblicazione di questo secondo volume della collana.
Il tema è: il CSM e il governo autonomo della magistratura. I dialoghi riguardano la promessa costituzionale di autonomia e indipendenza, la rappresentanza e le degenerazioni corporative e di riflesso la trasparenza nel governo della magistratura.
In questo momento la luce alla fine del tunnel della pandemia nutre la speranza che nella fase post-pandemica si migliori.
In questo percorso la raccolta dei dialoghi del convegno si innesta dunque perfettamente nella spinta ideale verso il miglioramento globale.
Migliorare il “governo” della magistratura è un imperativo categorico.
Ma quali le ragioni contingenti della scelta del tema del primo Convegno organizzato dalla rivista Giustizia Insieme?
Anche in questo caso un piccolo passo indietro è essenziale, non solo per spiegare la scelta dell’argomento di discussione, ma anche per rendere comprensibili taluni passaggi che leggerete negli interventi. L’immoralità di alcuni magistrati ha esteso gli effetti del malaffare a macchia d’olio.
Un trojan inoculato nel cellulare di un magistrato destinatario di indiscusso apprezzamento da parte di un ampio segmento dell’elettorato (Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, dal maggio 2008 fino al marzo 2012, e componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella consiliatura dal 2014 al 2018), come nel racconto di Esiodo ha determinato l’apertura del vaso di Pandora, rendendo pubblico il malaffare endemico che ammorba il governo autonomo della magistratura.
E’ emersa in tutta la sua gravità una crisi dei valori etici e morali che va ben oltre l’immaginabile ed è ben più grave della c.d. degenerazione correntizia, di cui pur si aveva consapevolezza.
L’antefatto è questo: il 9 maggio 2019 si incontrarono, in un albergo romano in orario notturno, un magistrato, attualmente deputato del PD, un ex senatore del PD, all’epoca indagato dalla Procura di Roma, alcuni magistrati, consiglieri del CSM e Luca Palamara, ex consigliere, appena cessato dall’incarico, all’epoca sostituto della Procura di Roma, con una domanda pendente di Procuratore aggiunto. Il tema dell’incontro, tra gli altri – forse solo per alcuni, ma almeno “apparentemente” per tutti – era la nomina del successore del Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone.
A seguito della pubblicazione, nella forma dello stillicidio, delle conversazioni e delle chat intercettate attraverso un captatore informatico, inoculato come un virus nel cellulare di Luca Palamara, tra giugno e settembre si sono dimessi cinque consiglieri e il Procuratore generale della Corte di Cassazione. I messaggi contenuti nel cellulare di Palamara hanno svelato una modalità di conferimento degli incarichi direttivi fondato su accordi spartitori e patti di scambio. Un sistema di gestione trasversale del potere rispetto alle correnti, ridotte a dividendo per il calcolo dei posti “pro quota” da assegnare.
Il c.d. caso Palamara ha certificato, in un generale sconcerto, lo stato di profondo malessere del Consiglio superiore della Magistratura.
Una crisi di credibilità dell’Istituzione grave, sia tra i magistrati che tra la pubblica opinione.
L’opinione comune è che prevalgano, almeno a volte, logiche di gestione del potere –soprattutto per le nomine dei capi degli uffici giudiziari – che scolorano fortemente la funzione di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura assegnata al Consiglio Superiore dalla Costituzione.
L’idea diffusa, che è prevalsa nel dibattito politico, è che il male si annidi nelle correnti interne all’Associazione Nazionale dei Magistrati: da qui il proposito di escogitare un sistema elettorale che impedisca alle correnti di interferire, attraverso il controllo della scelta della componente togata, nella vita consiliare.
I messaggi privati contenuti nella cronologia del telefono di Luca Palamara, pubblicati senza alcuna regola, hanno aperto scenari sconcertanti sul governo della magistratura e sulla questione morale da affrontare e risolvere con urgenza.
Sullo sfondo, un’altra questione che prima o poi dovrà essere affrontata: quella della violazione del diritto alla riservatezza degli autori dei messaggi, rimasti nella memoria del telefono di Palamara, e pubblicati con l’enfasi giornalistica, inutili per le indagini e solo prova di immoralità o mera “grettezza” dell’interlocutore di turno di Palamara.
Ma questa è un’altra storia.
3. La promessa costituzionale di autonomia e indipendenza
I temi trattati nei dialoghi che hanno animato il convegno, con l’apertura di Giorgio Costantino, riguardano il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’idea che di tale organo avevano i nostri costituenti, come ce la illustra Francesca Biondi in “Il CSM: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione”. Seguendo gli argomenti trattati attraverso il file rouge della cura al male che affligge il governo autonomo nelle forme dello sfrenato “carrierismo”, utile appare il suggerimento, relativo allo status dei consiglieri togati, di ripristinare la previsione che “chi è stato consigliere non può, nei due anni successivi alla scadenza del mandato, partecipare ad un concorso per l’assunzione di un incarico direttivo o semi-direttivo o nuovamente essere collocato fuori ruolo”; e poi quello di “una modifica degli artt. 21 e 30 della legge n. 195 del 1958, nella parte in cui prevede che l’intero Consiglio sia rinnovato contestualmente. Un rinnovo parziale del C.S.M. aiuterebbe, oltre che a garantire una maggiore continuità nell’esercizio delle funzioni, a spezzare alcune logiche di appartenenza, da un lato, e ad assicurare un adeguato ruolo ai laici i quali, invece, generalmente scontano – almeno nei primi anni – un deficit di conoscenza rispetto ai colleghi magistrati”. Modifica da introdurre con legge costituzionale, secondo Giacomo D’Amico.
L’importanza del governo autonomo in termini di indipendenza della magistratura lo illustrano nei loro interventi Alessia Fusco in “Indipendenza dei giudici europei” e Roberto Conti in “ Indipendenza dei giudici nazionali e giurisprudenza UE”.
Alessia Fusco ci ricorda l’importanza sottesa al recupero del significato dell’indipendenza “come problema da studiare e non come soluzione granitica, ma anche come strumento funzionale ad un principio ben preciso che è la soggezione del giudice alla legge, con riferimento non soltanto all'ordinamento nazionale ma al complesso delle fonti che derivano dall' intelaiatura multiforme dell'ordinamento costituzionale, che è costituito anche dalle fonti ordinamentali e sistemiche dell'Unione Europea – da un lato – e del Consiglio d'Europa – dall'altro”. L’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, fulcro dell’attività giurisdizionale, reclama un CSM autenticamente autonomo e indipendente dagli altri poteri dello Stato. Roberto Conti sollecita una nuova Gardone alla quale partecipino accanto ai magistrati, gli accademici e gli avvocati che hanno a cuore la democrazia e i diritti fondamentali.
Da Gardone la magistratura è cambiata. Diverso è anche l’accesso in magistratura e diversa la formazione: ce lo spiegano Angelo Costanzo in “La formazione del magistrato e la sua legittimazione”, Ernesto Aghina in “Come si forma un magistrato” e Giacomo Fumu in “Accesso e selezione dei magistrati”. L’età media dell’accesso è di trentuno anni e, considerato il tirocinio, il neo-magistrato inizia la sua attività in prima sede intorno ai trentatre anni, con l’effetto che la magistratura italiana ha l’età media più alta d’Europa: questo l’allarme lanciato da Ernesto Aghina. Meglio sarebbe ripensare all’accesso anche in termini di sviluppo graduale all’interno di una scuola come nel sistema francese, ci fa riflettere Angelo Costanzo. Dell’importanza della formazione, anche comune con il ceto forense per evitare l’autoreferenzialità già temuta dall’assemblea costituente, ce ne parla Giacomo Fumu. E’ fondamentale poi la formazione anche in termini di autocontrollo del magistrato, come ci ricorda Andrea Apollonio.
4. La rappresentanza elettorale, la politica delle decisioni e i sistemi elettorali
Il tema della rappresentanza elettorale, non può che partire da una necessaria premessa: “la presenza nell’ ordine giudiziario di una percentuale così elevata di donne reclama con urgenza di essere adeguatamente rappresentata nell’ organo di autogoverno mediante misure di riequilibrio, idonee ad assicurare non solo eguali posizioni di partenza, ma anche un risultato finale”.
E ancora“ è necessario essere consapevoli della doverosità di politiche attive di pari opportunità, imposte dagli interventi riformatori rispettivamente del 2003 e del 2001 sugli artt. 51 e 117 co.7 Cost. e dai vincoli internazionali e comunitari: non si tratta infatti di discriminazioni a rovescio di dubbia legittimità, ma di trattamenti idonei al superamento della nozione liberale classica di eguaglianza formale, o eguaglianza competitiva, in direzione dell’ eguaglianza sostanziale, intesa come parità di risultati, che sola integra la dimensione sostanziale dell’ eguaglianza”. Di ciò ci avverte, con il suo garbo risoluto, Gabriella Luccioli.
Donatella Ferranti in “La rappresentanza di genere” ben chiarisce come “la questione della rappresentanza femminile nel CSM non è da inquadrare tanto nel tema della discriminazione, quanto in un tema politico: si tratta di rappresentare nel modo migliore e più completo il corpo della magistratura e dunque anche la differenza di genere. Oggi la rappresentanza dei magistrati nel CSM rischia di essere soprattutto rappresentanza di gruppi che sono nati con propri connotati politico-culturali, ma che a volte hanno rischiato di trasformarsi e di operare come gruppi di potere”.
Imprescindibile punto di partenza per la riforma è dunque che occorre “mirare a un sistema elettorale che rispecchi le caratteristiche e le diversità anche di genere presenti nel corpo della magistratura e che riesca a garantire che ciascun componente che lo rappresenta agisca nell’interesse dell’istituzione, secondo la propria competenza e sensibilità culturale”.
La ricerca del sistema elettorale migliore, in ottica crociana, passa attraverso l’analisi storica dei sistemi nella loro complessità, criticità ed effetti. La rassegna ce la offre Giuseppe Santalucia in “I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme”.
Ma il sistema elettorale non è la panacea, “non risolve né previene i guasti del consociativismo giudiziario”. Ce lo ricorda Giacomo D’Amico, che analizza i possibili sistemi elettorali: il sistema del voto singolo trasferibile (illustrato anche da Francesca Biondi), già elaborato dalla commissione Balboni nel 1996; il sistema elettorale adottato per il Senato nel 1993, con distribuzione dei seggi secondo il metodo D’Hondt. D’Amico ne illustra i pregi, i rischi e le criticità; evidenzia il pericolo di cordate trasversali, personali ed accorpamenti; mette in guardia dalle ricadute derivanti dalla scelta dei collegi elettorali.
Bisogna poi tener presente che i risultati dei sistemi elettorali sono in realtà ridisegnati, nella pratica attuativa, dagli escamotage ispirati dallo spirito di conservazione dei gruppi preesistenti.
L’attuale sistema elettorale, adottato d’urgenza con la legge n. 44 del 2002, allo scopo non celato di “contenere il peso delle correnti” è un classico esempio dell’heterogonie der zwecke di Wilhelm Wundt. Il sistema elettorale introdotto nel 2002 ha, infatti, prodotto l’effetto di rafforzare gli aspetti deviati delle correnti che, con subitaneo spirito di conservazione, hanno messo in atto sistemi di scelta apicale e cartelli elettorali per assicurarsi un adeguato numero di seggi.
Il paradosso dell’attuale sistema lo fotografa Alfonso Amatucci, che, aprendo il forum sui mali del CSM, ha segnalato – a conferma di quanto affermato da Giacomo D’Amico – che l’attuale sistema elettorale produce l’effetto per cui, da una lato, “se un gruppo organizzato vuole ottenere seggi, deve esso stesso (e non gli elettori) compiere delle scelte preventive”; e, dall’altro, che “se non lo fa, quand’anche non lo faccia per nobili ragioni, soccombe”. In questo secondo caso, l’effetto del tutto irragionevole è che un gruppo che dagli elettori ottenga più voti degli altri potrebbe addirittura non avere rappresentanti o averli in numero inferiore. Il danno di un sistema elettorale quale quello attuale è che la scelta apicale del gruppo elimina la naturale chances di partecipare alla competizione elettorale al candidato più stimato nel suo ambito lavorativo.
Il monito di Alfonso Amatucci è che, con questo sistema elettorale, si perde l’occasione di veder composto l’organo di autogoverno da uno “stimato magistrato”, e ciò è un danno per l’istituzione perché “quanto più è elevato il prestigio di un magistrato, tanto minore è la sua dipendenza da orientamenti non fondati su ragioni cristalline”.
Con l’attuale sistema elettorale sono i dirigenti delle correnti che scelgono i candidati e con essi coloro che saranno eletti. Esempio eclatante la lista dei candidati p.m. per le elezioni del 2018: quattro i candidati della lista per quattro seggi, per quattro correnti in lizza.
Nella pratica è stato realizzato un sistema peggiore di quello osteggiato dal senatore Francesco Cerabona nel dibattito che si svolse nel marzo del 1958 sul sistema da adottare per l’elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. All’epoca si ipotizzava il sistema di voto per il tramite di delegati. La necessità che la scelta degli eletti sia dell’intero corpo degli elettori e non di pochi, ben la richiamò allora l’onorevole con le parole che seguono: “Quindi vadano a votare, votino personalmente, perché personalmente potranno meglio dare il loro giudizio. Altrimenti si tratterà di voti addomesticati, specie quando sono in gioco i nomi dei grossi papaveri e non dei papaverini!
Il papavero si impone con l'aspetto ed anche con l’odore. Il magistrato ha una personalità, un intelletto, una coscienza! Voti personalmente! I magistrati arriveranno anche a piedi nudi, che magari attraverseranno fiumi e torrenti, pur di giungere a Roma e compiere il loro dovere. Essi hanno coscienza e capacità per poter votare, non a mezzo di procuratori, ma personalmente, e vorranno scegliere uomini che, singolarmente, conoscono e stimano”.
Tra i sistemi elettorali non si è tralasciato di trattare il metodo del sorteggio, affrontato da Salvo Spagano, che ci ha portato indietro nel tempo, al primo esempio noto di sorteggio: quello dell’antica Atene. Le conclusioni tratte dalla storia sono che “l’utilizzo del caso nella selezione del decisore, e quale che sia l’ampiezza della discrezionalità che gli si tributi, è uno strumento tutt’affatto neutrale, e ciò con buona pace di un dibattito corrente poco avvertito, che lo riduce ad una panacea livellatrice e ri-vendicativa di torti, veri o presunti, patiti per mano di qualsivoglia autorità”. Nessuna buona soluzione può provenire dal sorteggio, solo la falsa premessa che tutti sono bravi a far tutto e la perdita dell’autorevolezza.
Il sistema del sorteggio è incompatibile, come spiega Giacomo D’Amico, con il principio costituzionale dell’elezione dei componenti del Consiglio, sia in caso di sorteggio successivo che anteriore all’elezione. Il dissenso è unanime: ne spigano le ragioni, anche istituzionali, Giuseppe Santalucia e Bruno Giordano.
Sulla stessa linea, Francesco Dal Canto, che definisce il sorteggio “una non-soluzione” e ricorda come era stata avanzata “ nel d.d.l. costituzionale n. 4275/2011 e prima ancora, negli anni Settanta, dal Movimento sociale italiano”. Anche lui, come Francesca Biondi, sottolinea che l’effetto sarebbe quello di un “Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno”. Poi, nelle sue conclusioni Francesco Dal Canto ben ci illustra come occorre essere consapevoli in ordine al fatto che i congegni “elettorali non sono da soli risolutivi, è opportuno rintracciare una soluzione che vada nel senso di ridurre gli effetti perversi del correntismo senza, allo stesso tempo, frustrare il pluralismo di cui le correnti sono espressione”. Scarta i poggetti di legge C. 226 e C. 227, presentati negli scorsi mesi alla Camera dei deputati per iniziativa dei deputati Stefano Ceccanti e Marco Di Maio (in realtà riproduttivi di proposte analoghe presentate nella XVI legislatura), tesi all’introduzione di un sistema, di tipo maggioritario, caratterizzato dall’articolazione in sedici piccoli collegi uninominali (uno per i magistrati di legittimità, quattro per i pubblici ministeri, undici per i giudici di merito) e dalla circostanza che ogni elettore può votare soltanto per il collegio ad egli relativo. Il rischio è, da un lato, la provincializzazione e il localismo; dall’altro, l’estromissione delle minoranze culturali dal Consiglio, in danno del pluralismo.
Illustra i lati positivi del progetto elaborato dalla Commissione Scotti nel 2016, che si caratterizza per il pregio di coniugare il sistema maggioritario con quello proporzionale, con collegi territoriali e un collegio nazionale e due turni: “il primo maggioritario, su base territoriale, il secondo, proporzionale per liste concorrenti, su base nazionale”.
Illustra la proposta avanzata a suo tempo dalla Commissione Balboni, istituita nel 1995, la cui peculiarità è quella del “voto singolo trasferibile”, con il vantaggio di “mantenere un elevato grado di proporzionalità” e di “valorizzare l’apprezzamento dei singoli magistrati”.
Secondo questa proposta, “i Collegi sono plurinominali e l’elettore si esprime votando un singolo candidato di una lista e indicando, in ordine di preferenza, altri candidati, non necessariamente della stessa lista, ai quali il voto potrebbe essere trasferito qualora il primo candidato non possa essere eletto o non abbia bisogno del voto per essere eletto”.
Infine espone i pregi del sistema proporzionale “temperato”, caratterizzato dalla previsione di tanti collegi uninominali quanti sono i magistrati da eleggere (esclusi quelli di legittimità, da concentrare in un collegio apposito), con collegamento di ciascun candidato con candidati in altri collegi facenti parte dello stesso gruppo e con distribuzione dei seggi su scala nazionale con il sistema proporzionale. Una volta ripartiti su scala nazionale i seggi tra i diversi gruppi, risultano eletti i candidati che, nel rispettivo collegio, ottengono la percentuale di voti più alta”.
5. Le correnti
L’attuale sistema ha enfatizzato il potere dei segretari e dirigenti delle correnti ovvero il potere dei singoli a scapito di quello assembleare e dell’elettorato. La scelta dei candidati, sin da subito, è stata effettuata sulla base del requisito della notorietà a livello nazionale a scapito del miglior indicatore di moralità e autorevolezza effettiva, costituito dalla stima dei colleghi della porta accanto.
Se è vero – come ci ha ricordato Giacomo D’Amico e confermato Francesco Dal Canto – che il sistema elettorale non è la panacea di tutti mali che affliggono il governo autonomo della magistratura, certo è che alcuni sistemi sono peggiori di altri, e tra i peggiori si colloca senz’altro l’attuale sistema, che ha rimesso nelle mani di pochi il potere che, per Costituzione, spetta all’elettorato.
Dei mali del CSM ce ne parla Giorgio Spangher, consigliere laico della prima consigliatura eletta con il sistema elettorale introdotto con la legge n. 44 del 2002.
Giorgio Spangher ci ricorda come “nel contesto del Consiglio Superiore, le correnti che, certamente, hanno come substrato un elemento culturale ideologico, legato alla visione ed alla missione della giurisdizione […] si strutturano anche come centri di potere”. Di qui i rischi del sistema Palamara, divenuto nella sua persona lo snodo di un centro di potere, in cui si incrociavano i notabili delle correnti della magistratura e della politica.
Come ci ricorda Giorgio Spangher, le correnti negli ultimi vent’anni sono diventate “il volano per ulteriori manifestazioni di potere”, il volano per “incarichi direttivi, nomine agli organismi europei, le varie designazioni del c.d. fuori ruolo”.
Ma le correnti non sono solo un male. Carlo Guarnieri – riprendendo la premessa di Giorgio Spangher, con riguardo alla connotazione culturale ideologica di fondo che le caratterizza – con ragionamento sottile, alla luce delle scelte che, in taluni settori, i magistrati sono chiamati a compiere, ne coglie un pregio ovvero che “le correnti svolgono un ruolo non indifferente: segnalano infatti all’esterno dell’istituzione, almeno a grandi linee, le modalità con cui la discrezionalità verrà esercitata. Lo stesso collateralismo – oggi peraltro molto meno in voga – collegando correnti di magistrati a indirizzi politici introduceva, anche se in modo surrettizio, una forma di responsabilità”.
Ecco che nell’analisi prende piede, per bocca degli accademici, il vero male, ovvero “il declino della dimensione programmatica delle correnti giudiziarie che oggi possono essere accusate di voler influire non tanto sulle politiche giudiziarie quanto sulla spartizione delle posizioni direttive”.
Alla domanda “C’è uno spazio nel quale l'associazionismo giudiziario può esercitare il suo ruolo senza diventare metastasi del sistema di autogoverno?”, la risposta di Eugenio Albamonte è positiva, ma condizionata. La prima condizione è che “ bisogna manutenere la tenuta democratica” dei gruppi della magistratura associata. Le associazioni della magistratura “devono essere delle strutture democratiche, trasparenti e quanti in esse militano devono impegnarsi e garantire che esse non siano un simulacro che viene agito dall’esterno o dall’interno attraverso logiche opache, che non vi abbiano più accoglienza centri di potere palesi od occulti che non coincidano con le rispettive dirigenze statutarie, democraticamente elette e perciò politicamente responsabili rispetto al proprio corpo sociale.”
La prima condizione è dunque la democrazia interna e l’assemblearità dei gruppi della magistratura associata.
La seconda condizione è che occorre “modificare urgentemente il sistema elettorale”, e la modifica deve avvenire secondo due obiettivi: quello di valorizzare “la responsabilità politica delle aggregazioni”; e quello di fornire agli elettori la “possibilità reale di scelta tra più candidati”.
6. La trasparenza nel governo della magistratura, la semplificazione, il controllo e l’organizzazione
I mali dell’autogoverno si superano anche attraverso la ragionevolezza, la condivisione e il rispetto delle regole, al quale deve essere ancorata la discrezionalità delle scelte. Si ridimensionerebbe così il tema del delicato equilibrio tra autonomia e controlli, “ossia il delicato equilibrio tra prerogative del CSM (di cui all’art. 105 Cost.) ed effettività dei principi di buon andamento e imparzialità, nonché inviolabilità del diritto di difesa (artt. 24 e 97 Cost.), come scrive Sandro Saba.
Il mancato rispetto delle regole della discrezionalità comporta la perdita di autorevolezza del Consiglio Superiore, che diventa ostaggio del giudice amministrativo che ne annulla le delibere. Conseguenza del mal governo è pure che il giudice amministrativo viene elevato a rango di organo superiore all’organo di governo autonomo della magistratura, in barba alla sua qualità di organo di alta amministrazione e alla rilevanza costituzionale che lo connota.
La trasparenza e la ragionevolezza delle regole sono di primaria importanza: Elisabetta Pierazzi, a riguardo, evidenzia la necessità di “un radicale mutamento di prospettiva. Le regole devono essere chiare e comprensibili; le decisioni devono essere adottate in modo trasparente e motivato; chi le prende se ne assume la responsabilità”. Le decisioni, infine, “devono essere sottoposte al controllo del corpo dei magistrati, elettori e amministrati, per essere valutate non soltanto con i rimedi amministrativi ma anche al momento delle elezioni”.
Ecco qui come il CSM si svela come luogo della politica delle decisioni, concetto diverso dalla rappresentanza politica, come ci spiegano Francesca Biondi e Francesco Dal Canto, e con ciò confermano, come ha fatto Carlo Guarnieri, l’importanza di gruppi della magistratura associata “sani” e di consiglieri che orientino le loro decisioni secondo i programmi esposti agli elettori, ovvero in base a principi e regole generali e astratte.
Le regole organizzative alle quali gli uffici devono attenersi e la verifica dell’effettività dell’applicazione, come ci ricorda Giovanni Salvi, riverberano effetti positivi sull’efficacia dell’azione giudiziaria e l’esercizio della funzione nel migliore dei modi possibili.
Sempre in tema di organizzazione degli uffici giudiziari Antonella Magaraggia in “La sottile linea rossa tra controllo e collaborazione” ci ricorda che “quando si mette mano all’organizzazione, si mette mano alla giurisdizione” e che “intervenire sull’organizzazione non è mai una scelta neutra, non è un’opzione riconducibile a una dimensione meramente tecnica, ma coinvolge scelte di politica giudiziaria” – con ciò confermando quanto detto da Giorgio Spangher e Carlo Guarnieri, con riguardo all’utilità sotto tale profilo delle ideologie.
Diverso è il modo di dirigere l’ufficio in ragione dell’opzione ideologica del dirigente, e anche in ciò l’appartenenza alle correnti può offrire elementi di conoscenza, purché l’informazione si adotti in quanto generale e astratta. Anche nel controllo e nell’organizzazione la politica delle decisioni ha un ruolo essenziale, e Alessandra Camassa ci ricorda come nella deriva populista e demagogica“il termine “controllo” nel settore giustizia da parte del dirigente dell’Ufficio è stato spesso confuso con dirigismo e con efficientismo”, mentre esso è essenziale per il buon andamento del servizio giustizia.
Beatrice Bernabei richiama la nostra attenzione sulla necessità della semplificazione e, dopo averci riportato alla mente l’amministrazione del Conte de “Il Castello” di Kafka, ci avverte che l’obiettivo della semplificazione “non può essere raggiunto se non partendo dall’interno dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, attraverso una attenta opera di razionalizzazione e semplificazione dell’esistente”. La degenerazione correntizia passa anche attraverso il potere di fornire informazione per canali “clientelari”, e non istituzionali. Anche il dato neutro dell’inoltro di una richiesta, o il dato neutro della conoscenza dello stato di una pratica diventa strumento clientelare quando la richiesta è complicata da formulare e l’informazione in ordine alla fase del procedimento non è facile da ottenere, attraverso le vie istituzionali.
La semplificazione è la direzione verso cui “bisogna muoversi, per migliore il CSM nella cornice costituzionale”.
La semplificazione è un utile antidoto al correntismo.
6. Siamo davvero convinti che il male si annidi nell’associarsi e partecipare?
La domanda che nel dialogo che anima questo volume e in cui vorremmo coinvolgere il lettore è dunque: siamo davvero convinti che il male siano le correnti o meglio i gruppi associati della magistratura?
A proposito della partecipazione, Antonio Gramsci ha scritto “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire partecipare. Chi vive veramente non può non essere cittadino partecipe. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Io partecipo, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, partecipo. Perciò odio chi non partecipa, odio gli indifferenti.”
Dopo aver letto le parole di Antonio Gramsci ben difficilmente si può affermare che il male è nell’associarsi e nel partecipare; piuttosto il male è, all’opposto, nell’abbandono della partecipazione, nell’abbandono dell’etica della polis. E’ l’isolamento che consegue all’abbandono dell’agorà il complice del potere dei pochi e dell’esercizio debosciato dello stesso.
Quanto sia importante la partecipazione, ce lo ricorda Morena Piazzi con il suo intervento dal titolo “Se il qualunquismo vince?”. La risposta alla sua domanda è sotto gli occhi di tutti: se il qualunquismo vince il governo della magistratura cade in mano di chi, lontano dalla politica ragionevole e trasparente delle decisioni, opera nell’interesse dei suoi accoliti.
Il male che si annida nelle correnti è da individuare allora nella perdita delle idee, degli ideali e dei valori e, come ha detto Marcello Basilico, “intanto le correnti possono trovare ragione d’esistere e legittimazione ad agire, in quanto rivelino valori identificativi e dimostrino di operare in tendenziale coerenza con quei valori. Un riscatto su queste basi, insomma, passa attraverso il recupero della loro identità politica”.
Non è il confronto culturale attivo che “ammalora” la magistratura, non è la partecipazione alla vita associativa, bensì la ragione non collettiva che muove il singolo.
E’ la strumentalizzazione del gruppo a fini individuali che, da centro di elaborazione del pensiero, lo trasforma in consorteria che “compete e combatte” per la collocazione dei suoi adepti in centri di potere e soddisfa le ambizioni dei singoli.
7. La cura
Sono molti i percorsi da intraprendere: affrontare il male del carrierismo, deflagrato per la miccia innestata dal d.lgs. n. 160/2006, con l’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi, male da affrontare attraverso la revisione delle regole che governano la discrezionalità; dare concretezza alla valutazione sulle attitudini; semplificare e razionalizzare le regole; ma, soprattutto, richiamare l’attenzione sul ruolo del magistrato, sulla funzione di servizio sull’attenzione alla richiesta di giustizia.
E’ essenziale riscoprire il ruolo del magistrato come quello di colui che ascolta, osserva e si confronta, per incidere efficacemente, con la sua giurisprudenza e l’organizzazione del suo ufficio, nel percorso della legalità del nostro paese.
“Ricalibrare al nostro interno le giuste misure e più stabili paletti etici” al fine di rafforzare “il senso del limite”, al fine di riscoprire la tensione verso “idealità più autentiche e genuine” – per usare le parole di Dino Petralia.
Non possiamo far prevalere l’idea che “la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare” – come ci avverte Giuseppe Santalucia –, ma occorre che per interessi collettivi e pubblici, mai individuali, ci si riappropri degli spazi lasciati in balia del malgoverno di pochi.
E se la partecipazione in termini di appartenenza è uno scoglio insormontabile, che dalle nuove generazioni è percepito come minaccia all’indipendenza, allora ben vengano “le aggregazioni fluide” richiamate da Giuseppe Santalucia, che siano animate però dal motto del rispetto delle regole, della trasparenza delle decisioni, dell’efficienza del servizio giustizia e dell’attenzione alla questione morale. Sarà di grande aiuto ricordare che la magistratura non deve essere corporativa, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, bensì deve essere impegnata a ricercare soluzioni per il miglior servizio giustizia.
La cura contro il correntismo è nelle mani dalle nuove generazioni di magistrati.
Ma non bisogna farsi illusioni: è dalla determinazione con la quale i giovani magistrati sapranno riappropriarsi dei luoghi dell’elaborazione culturale da porre a servizio della politica delle decisioni consiliari nonché dalla risolutezza con la quale saranno in grado di ripudiare e emarginare coloro che hanno asservito al carrierismo la partecipazione alla vita associativa dipende il futuro dell’autonomia del governo della magistratura italiana.
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