“Buongiorno a tutti, mi chiamo Tina e sono la mamma di un ragazzo con sindrome di Down. Non ho paura di pronunciare questa parola, e sono felice di essere qui a raccontare la mia storia…”.
Tina non ha paura; neppure di dimostrare ai suoi concittadini che è possibile riprendersi con orgoglio il maltolto per fare del bene là dove è stato seminato per anni il male. Ha messo su una cioccolateria sociale, “Dulcis in Fundo”, in un immobile confiscato alla camorra, proprio quella del suo paese, Casal di Principe, e vi fa lavorare ragazzi disabili; combatte ogni giorno la sua battaglia per dare una possibilità a persone che vivono spesso nascoste e prive di prospettive, e offre piccoli assaggi di felicità prodotti dove un tempo c’era solo prevaricazione.
“Io sono Roberto, e mi occupo di quelli che per tanti sono gli “scarti”… Con i minori entrati nel circuito penale, che per parte della società vanno abbandonati, produciamo bellissimi oggetti da materiali riciclati…”
A Roberto brillano gli occhi quando parla dei ragazzi a cui, con i suoi collaboratori, cerca di trasmettere una nuova consapevolezza di sé. Una vita possibile, lontana dalla violenza: un “Altromodo” -questo è il nome della cooperativa- di affermare se stessi.
C’è poi anche la N.C.O. all’incontro dell’ANM napoletana a Casal di Principe con i giovani e le associazioni impegnate nel sociale: per parlare di beni confiscati e restituiti alla collettività in un luogo simbolo quale è la villa che era stata di Walter Schiavone, fratello del capo clan, Francesco. Quella villa odiosamente nota come Villa Scarface, citata da Roberto Saviano in Gomorra, e oggi destinata alla cura e alla riabilitazione di persone con disabilità. Ma non si tratta della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, così come i casalesi presenti non sono quelli delle cronache giudiziarie. E lo gridano forte.
Oggi a occupare il territorio è una immensa onda che sanifica ciò che era stato intossicato, e si riprende ciò che illecitamente e violentemente le è stato negato per troppo tempo.
N.C.O. sta qui e ora per Nuova Cooperazione Organizzata; e anche Nuova Cucina Organizzata: su beni confiscati, un incredibile numero di realtà produttive e sociali che rappresentano nel modo più concreto la vera offesa alle regole incivili del crimine organizzato.
Il contrasto alle mafie sottraendo loro i patrimoni illecitamente accumulati, ma soprattutto destinandoli a un “ri-uso” sociale che porta nuovo e solido benessere -tanto più solido in quanto conquistato con l’orgoglio consapevole di chi vuole rinascere- in terre troppo a lungo massacrate da una asfissiante presenza criminale.
La Nuova Cooperazione Organizzata è una associazione che non raccoglie gruppi criminali ma straordinarie realtà che operano su beni confiscati; o liberati, come tengono a dire: una sala di incisione (“Etiket”) , luoghi di accoglienza e cura per utenti della salute mentale (“Eureka”), terreni dove si produce uva autoctona, dalla quale nascono ottimi vini (“Vitematta”); e, ancora, una casa per donne rifugiate, soprattutto africane (“Casa di Alice”); produzione di caffè da parte delle detenute del carcere femminile di Pozzuoli (“Le Lazzarelle”).
Pasquale, che parla per tutti loro, ci racconta di quando qualche decennio fa si piazzava per strada, nei luoghi più esposti di Casal di Principe, a fare politica a modo suo: e ai comizi contro coloro che violentavano la sua terra erano soltanto in tre, due sul palco e uno giù ad ascoltare! Tanti concittadini, però, nascosti dietro le finestre. Ora, dopo anni di impegno sociale, è l’orgoglioso esponente di una forza che non si arrende e che in fondo rappresenta un segno tangibile di democrazia partecipata.
Il contrasto alle mafie deve essere ancora al centro dell’agenda del Paese[1], e l’esperienza giudiziaria di questo trentennio dimostra quanto siano insostituibili gli strumenti di aggressione ai patrimoni illeciti da quelle accumulati, oggetto nel tempo di evoluzione normativa sempre più dettagliata ma non sempre ordinata e sistemica oltre che di critiche in punto di teoria del diritto e di politica giudiziaria -da parte di molte voci della dottrina- soprattutto sotto il profilo della prevenzione patrimoniale: ritenuta da alcuni “la stampella di una giustizia penale che ha perso efficienza ed è diventata incapace di concretizzare i suoi scopi[2]”. Opinione in ordine alla quale è lecito motivatamente dissentire, posto che l’attuale architettura regolativa delle misure di prevenzione patrimoniale, grazie soprattutto a una illuminata elaborazione giurisprudenziale, ha spostato l’asse verso una decisa giurisdizionalizzazione che offre adeguate garanzie anche nell’ambito di quel procedimento.
Ma sono soprattutto da riconoscere le criticità di cui quegli strumenti soffrono tuttora non tanto nella fase dell’ablazione -che risente comunque delle lungaggini e delle necessità proprie dell’accertamento, sia esso penale o di prevenzione- quanto in quella dell’affidamento e della gestione dei beni: amministrazione, destinazione e utilizzazione quali momenti topici, durante i quali si gioca la partita decisiva per la efficacia o il fallimento di tutto il sistema.
Sono più che note le scottanti difficoltà da affrontare per “proteggere” questa fase dalle mire predatorie di sodalizi che tentano di riappropriarsi, in modo surrettizio, dei beni a loro sottratti dallo Stato con tanto sforzo e impiego di risorse; così come quelle insite nella individuazione di professionisti accorti e indipendenti, capaci di opporsi alle tentazioni e alle minacce; e, infine, nella scelta dei soggetti destinatari e delle forme di utilizzazione. E su tale piano tutte le istituzioni coinvolte -magistratura, Agenzia Nazionale Beni Confiscati e Sequestrati, enti pubblici- devono garantire attenzione e visione.
E’ per questo che le esperienze di Casal di Principe e di tanti altri comuni del casertano ci sono apparse tanto più virtuose e degne di racconto poiché rappresentative di una effettiva possibilità di vittoria sull’Antistato, di riscatto del territorio, e di esercizio diffuso e democratico del “ri-uso”: dovendosi pertanto prestare grande attenzione alle preoccupazioni che quelle associazioni e imprese sociali hanno manifestato, ad esempio, rispetto a progetti di possibile accentramento politico-amministrativo della gestione dei beni già destinati alle cooperative, recentemente emersi nel dibattito pubblico[3]. Ferma restando la necessità di costanti controlli di legalità, resta forse determinante la salvaguardia di una responsabilità di gestione diffusa e orizzontale: maggiormente orientata verso una pluralità democratica, volta a dare spazio alle diversificate forze sane della società e anche -probabilmente- meno attaccabile da pericolose spinte devianti, sempre in agguato.
Uno dei beni liberati dalla oppressione della mafia casertana è stato destinato a una cooperativa di donne (“E.V.A.”) che gestisce centri antiviolenza, servizi per la prevenzione e il contrasto degli abusi e dei maltrattamenti all’infanzia, asili-nido e case per donne maltrattate: quelle che grazie alla mano che è stata tesa verso di loro hanno abbandonato le proprie abitazioni, con annesse violenze, per provare a recuperare il sentimento di sé; e oggi si dedicano a sostenerne altre, e i loro figli, e gestiscono con la cooperativa “Casa Lorena” laboratori di prodotti alimentari commerciati nelle reti locali di economia sociale. Per loro ha preso la parola Valeria, testimone di tante piccole e grandi vittorie contro una violenza di genere che viene esaltata e rinforzata, se possibile, quando è agita in contesti criminali organizzati. Nei quali tutte, ma proprio tutte le vie di scampo appaiono sbarrate.
E, ancora, Elisabetta: che all’interno di un bene confiscato ha dato vita a un caffè letterario, “Artespressa”, un centro di aggregazione giovanile per instillare e diffondere i virus benefici dell’arte e della cultura tra ragazzi abituati a respirare mortificazione e brutalità. Una scommessa di libertà e bellezza, puntando su coloro ai quali nessuno aveva finora dato fiducia e alternative.
Nella sala destinata al dibattito -che era il grande e inquietante salone di ingresso della villa del capo mafia- viene a un certo punto ripetutamente pronunciata la parola “follia”: alla domanda sul perché si faccia tutto questo, perché tanti ragazzi, tante donne e tanti uomini abbiano deciso di impegnarsi nel volontariato e nel sociale in modo del tutto disinteressato, sfidando anche chi sarebbe in grado di esercitare ritorsioni, la risposta quasi unanime è nella pulsione verso sentimenti e comportamenti di umanità solidale che in certi contesti possono apparire in contrasto con la ragionevolezza di scelte di autoconservazione e di tutela del proprio ristretto e cieco confine.
La risposta, o meglio una delle tante, è nell’amore, un po' matto ma tanto benefico, per una giustizia sociale che per essere realizzata richiede a ciascuno una piccola e coraggiosa cessione di egoistica sovranità.
[1] Con la Legge 2 marzo 2023, n. 22 l’attuale Parlamento ha istituito la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Tra i compiti, la verifica dell’attuazione del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, e l’indicazione di eventuali iniziative di carattere normativo o amministrativo necessarie per rafforzarne l’efficacia
[2] MURONE, Aggressione dei patrimoni illeciti ed esigenze deflattive: una dicotomia soltanto apparente, ARCHIVIO PENALE 2016, n. 3
[3]Così nel dibattito svoltosi al secondo “Forum Espositivo dei Beni Confiscati” tenutosi a Napoli dal 21 al 23 aprile 2023