Fabio Saitta, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Catanzaro, è autore del volume Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo (Napoli, Editoriale Scientifica, 2023). Ne illustra i contenuti nell’intervista curata da Enrico Zampetti, di seguito pubblicata.
(E.Z.) Il volume prende le mosse da quello che si definisce un “fatto sociale indiscusso e incontrovertibile” ossia che, attualmente, il rapporto tra giudice e legge “vede il primo nettamente preponderante” (p. 20). Più precisamente, si richiama l’attenzione sulla sempre “più accentuata giurisdizionalizzazione della produzione delle regole normative, a discapito della produzione naturale delle stesse da parte del legislatore” (p. 17). Come introduzione a questa intervista, può, quindi, essere utile indicare da subito quali siano le ragioni di fondo alla base di questa “fuga verso un diritto sempre più giurisdizionale” (p. 29).
(F.S.) Qui si dovrebbe fare un lungo discorso, perché a questa “fuga”, cioè in definitiva al progressivo indebolimento del potere legislativo, hanno sicuramente contribuito più fattori.
In primis, la complessità giuridica: il diritto riflette la complessità della società, la cui irrefrenabile crescita ha reso indispensabile l’assunzione del momento giurisprudenziale nel processo di formazione ed implementazione della regola giuridica, determinando la fine del dominio giuspositivistico ottocentesco. Il rapporto tra legislatore e giudice è influenzato in modo rilevante dalla complessità: con riguardo all’evoluzione dell’assetto dei centri di produzione normativa; ai mutamenti nella configurazione degli interessi regolati, non più riducibili alle contrapposte figure dell’interesse pubblico e dell’interesse privato; all’evoluzione del sistema delle fonti, sempre più distante dal quadro armonico assicurato dalla costruzione geometrica ed ordinata della gerarchia.
La c.d. “crisi della legge” è frutto dell’acquisita consapevolezza dello sfuggire dell’esperienza quotidiana alle maglie delle leggi vigenti. Il moltiplicarsi delle visioni etiche, che frenano un legislatore opportunista e restio a misurarsi con decisioni critiche, il diffondersi delle “scelte tragiche” su aspetti essenziali della vita umana un tempo affidati alle leggi naturali ed un’evoluzione tecnologica troppo rapida per il legislatore fanno sì che i giudici – sia costituzionali che comuni – siano sempre più spesso destinatari di “deleghe” del legislatore, quindi costretti ad assicurare la tutela dei diritti e degli interessi costituzionalmente protetti mediante decisioni adottate sulla base di principi e scarne indicazioni legislative.
L’ingresso nell’armamentario giuridico di norme generali prive di fattispecie, come quelle costituzionali, ha pure contribuito ad espandere la discrezionalità dell’interprete, che è stato posto di fronte alla necessità di contemperare principi e valori, istanze individuali e collettive. La trasformazione dello Stato costituzionale ha posto, quindi, legislatore e giudici sempre più in posizione paritaria.
Non può essere certo trascurato, poi, il linguaggio del legislatore contemporaneo, spesso di modesta qualità ed in taluni casi volutamente ambiguo, che crea enormi problemi interpretativi ed applicativi. E’ a tutti noto come, non di rado, il legislatore utilizzi consapevolmente termini generici ed espressioni con più significati possibili, rimettendo al giudice il compito di riempirli di contenuto al momento della decisione del caso concreto. Si pensi ai concetti generici o alle clausole generali: conferire a queste ultime un elevato grado di indeterminatezza rappresenta spesso per il nostro legislatore una facile scorciatoia per trovare un compromesso tra forze politiche in disaccordo su questioni scottanti. E’ assai diffusa, dunque, l’impressione che il legislatore tenda ad addossare sempre più spesso ai giudici la soluzione di importanti questioni che imporrebbero scelte politiche da parte sua.
All’esaltazione della giurisdizionalizzazione del diritto ha, poi, sicuramente contribuito la globalizzazione del diritto, che Maria Rosaria Ferrarese ha definito “sconfinato”. Si allude alla diffusione dei soggetti che emanano regole giuridiche: alla legislazione degli Stati nazionali si affiancano ormai da tempo le normative dell’Unione europea, delle organizzazioni internazionali, delle autorità amministrative indipendenti e di soggetti privati, con una moltiplicazione di fonti accentuata dal c.d. soft law, prodotto da organi privi di potere legislativo, ma avente in concreto efficacia normativa.
(E.Z.) Nel volume si afferma che “il ruolo che si ritiene debba essere assegnato al giudice dipende inevitabilmente dalla concezione che si abbia del diritto (in senso oggettivo) e, soprattutto, dalla funzione che quest’ultimo è chiamato ad assolvere” (p. 45). In ragione di questa premessa, nel primo capitolo del libro, il tema viene opportunamente trattato con riferimento alle varie concezioni del diritto, inquadrando la discrezionalità del giudice nell’ambito della teoria generale dell’interpretazione. Per avviarci in questo cammino, quali indicazioni di massima possiamo trarre per il nostro tema dalle concezioni ascrivibili al giuspositivismo, al giusnaturalismo e al giusrealismo?
(F.S.) In estrema sintesi e seguendo, se mi è consentito, un ordine diverso, inizierei ribadendo che il giusnaturalismo, pur avendo fornito talvolta soluzioni astratte o poco convincenti, ha sempre svolto l’importante funzione di evidenziare la necessità che nel diritto positivo siano costantemente integrati i principi del diritto naturale, per garantire l’esigenza di giustizia, tentando di impedire che il diritto positivo venga ridotto a mera espressione dell’arbitrio del sovrano. Come ha efficacemente notato Angelo Falzea, si tratta, quindi, di un movimento di pensiero che sta alla base dell’edificazione di regole giuridiche di ordine superiore in ragione dei valori ai quali le società umane riconoscono una importanza e un peso più elevato rispetto ai valori dei quali è fatto il vivere comune.
Il giusrealismo – che, forse, non può considerarsi una vera e propria corrente dottrinale, limitandosi a raggruppare diverse tendenze accomunate dalla netta ostilità, al contempo, verso il giuspositivismo (inteso come formalismo giuridico) e verso il giusnaturalismo – si caratterizza, sia nel filone americano che in quello scandinavo, per un approccio di tipo “pragmatico-comportamentistico” connesso ad un’idea prettamente sociale del diritto e ad una tendenza alla concretezza anziché alle regole astratte della ragione, nonché – per quanto qui maggiormente interessa – per l’assegnazione ai giudici di un ruolo centrale nella vita giuridica ed una peculiare concezione del problema dell’interpretazione.
Portando a considerare il diritto sul piano della realtà sociale empirica, esso ha contribuito a far in modo che, mentre una volta era considerato addirittura sovversivo credere che i fattori extragiuridici potessero influenzare le decisioni giudiziali, oggi appare addirittura ingenuo dubitarne e, quantomeno per i casi relativamente più importanti o difficili, credere che si possano trovare argomenti giuridici forti per entrambe le parti è divenuto un luogo comune.
Quanto al giuspositivismo, nel libro ho provato a spiegare perché, nella versione “riformata” di Hart, esso esprima – a mio avviso – una posizione equilibrata, articolata e complessa, che apre all’ermeneutica, ritenendo, da un lato, che significato e verità non coincidano e non siano sovrapponibili e, dall’altro, che il diritto sia indeterminato o incompleto, ergo che, per poter essere applicate ai casi concreti, le norme debbano essere interpretate e che tale attività comporti la creazione del diritto entro i limiti comunque stabiliti dal legislatore.
(E.Z.) È un dato che, nel corso del novecento, il giuspositivismo abbia subito un significativo ridimensionamento, anche al di là del contesto del nazismo o della reazione di alcuni giuristi agli orrori del nazismo (v., ad esempio, Radbruch). Come puntualmente rilevato nel libro, soprattutto dopo l’avvento delle costituzioni europee del dopoguerra il giuspositivismo si rende conto (anche) dal suo interno “di come ogni concezione imperativistica e lo stesso formalismo kelseniano siano ormai inadeguati per spiegare i nostri sistemi giuridici” (p. 56). Semplificando al massimo, senza potere in questa sede ripercorrere la ricchezza e l’approfondimento del volume, la domanda - posta volutamente in termini generici - è la seguente: a partire da Hart, passando per Dworkin, fino a giungere al neocostituzionalismo e alle teorie ermeneutiche, come cambia l’approccio all’interpretazione e, più esattamente, quale ruolo assumono nel processo interpretativo del giudice i valori, i principi, la morale?
(F.S.) Costituzionalizzandosi e democratizzandosi mediante l’inclusione di diritti fondamentali azionabili e di principi sostanziali, lo Stato mette in moto un processo di “rimaterializzazione” del diritto positivo. Il ragionamento giuridico non può più essere ridotto ad una deduzione sillogistica da norme e prescindere da un accertamento della ratio e degli scopi dei provvedimenti e delle disposizioni né dal bilanciamento di principi, che a loro volta devono essere riempiti di contenuto mediante concezioni sostanziali di valori. La rigida separazione tra diritto e morale appare adesso come la prescrizione di un ideale e la pretesa di superiorità epistemologica del giuspositivismo rispetto al giusnaturalismo risulta ribaltata: se ne accorgono bene gli stessi giuspositivisti, i quali propongono una giustificazione politica (valorativa) per una teoria del concetto di diritto come dispositivo disconnesso dalla morale.
Com’è noto, nella seconda metà del secolo scorso, si è assistito al passaggio dal tempo dei codici a quello delle costituzioni, dalla legislazione minuta a quella dei principi, dei diritti fondamentali che si affermano per il tramite di una fonte di derivazione legislativa che sottrae alcune posizioni giuridiche del singolo alla disponibilità della maggioranza politica, quindi ad un nuovo modo di essere degli stessi sistemi giuridici democratici, che, attraverso i neonati giudici delle leggi, hanno rotto il tradizionale schema imperniato sulla classica divisione dei poteri. E’ il fenomeno definito “neo-costituzionalizzazione”, consistente nell’avvertita esigenza di valorizzare ed applicare i principi e le regole ricavati dalle costituzioni nazionali, per dirla con le parole del compianto Paolo Grossi, di “cercare e trovare il diritto nel sostrato valoriale di una civiltà storica”, che ha generato un’ampia revisione di interi settori giuridici per effetto degli interventi – interpretazione adeguatrice ed applicazione diretta delle norme costituzionali – ad opera delle corti costituzionali e degli stessi giudici comuni. A partire da un determinato momento, i principi costituzionali sono stati invocati per orientare l’interpretazione di norme generali e per procedere alla concretizzazione delle clausole generali, finendo per favorire la diffusione di una generale propensione a riconsiderare interi istituti, che sono stati letteralmente pervasi nella loro intrinseca natura dai valori espressi dalle carte costituzionali. Ad un certo punto, intorno agli anni ‘70, il processo di alterazione della dinamica classica della relazione tra legge ed interpretazione è apparso ormai irreversibile ed ha determinato una sensibile trasformazione del giudice.
Del resto, i principi espressi dalle norme costituzionali sono valori che, dopo essere stati stabilmente incorporati nel sistema del diritto positivo, esigono una piena giuridicità e, a causa della loro pluralità e coesistenza, nonché per il differente peso che assumono di volta in volta nelle singole fattispecie concrete, devono essere bilanciati dall’interprete al fine di determinare la norma applicabile e la soluzione preferibile sulla scorta di un giudizio dipendente da molteplici caratteri. Va da sé, poi, che l’idea che i principi costituzionali siano sempre da ponderare – piuttosto che da applicare – e che tale ponderazione debba essere effettuata con principi morali inventati dai giudici possa suscitare alcune perplessità. Le operazioni di bilanciamento giudiziale presentano indiscutibilmente un tasso più o meno elevato di creatività, tant’è che gli stessi fautori dell’interpretazione “per principi” non possono far a meno di notare che un bilanciamento senza gerarchia deresponsabilizza il giudice, libero di non pronunciarsi su priorità di valori, con conseguente pericolo di scadimento nel puro decisionismo e nell’arbitrio; da qui la triplice esigenza di: evitare che il giudizio sui valori favorisca l’intolleranza e visioni assolutiste o fondamentaliste della vita; garantire che le argomentazioni giudiziali siano fedeli al testo costituzionale; assicurare una certa continuità nella giurisprudenza.
Se, poi, andiamo al problema principale indagato nel libro, che è quello di stabilire se l’attività interpretativa lato sensuintesa, cioè la scelta della norma applicabile ad un caso, richieda necessariamente oppure solo contingentemente il ricorso a valutazioni morali, la risposta è sicuramente affermativa, nel senso che il giuspositivismo è solito ammettere una siffatta connessione interpretativa, come conferma il ruolo della discrezionalità giudiziale riconosciuto da Kelsen, da Hart e dallo stesso Ferrajoli. Nello Stato costituzionale di diritto, dunque, l’accertamento della validità materiale delle norme giuridiche richiede, oltre alle componenti valutative tipiche di qualsivoglia attività interpretativa, anche una forma di ragionamento morale. Ciò ancorchè sia del tutto ovvio che, una volta che principi morali siano entrati a far parte del diritto, la loro applicazione risenta di tecniche, argomenti e ragioni specificamente giuridiche: la comprensione e l’applicazione di quel principio saranno sempre mediate da forme di ragionamento giuridico, seppur inframmezzate da considerazioni giuridiche, in una fusione che non comporta l’abbandono della tesi positivistica della separazione, ma ne limita la rilevanza alla sola determinazione della validità formale.
Che il giuspositivismo attuale non si ponga necessariamente in contrasto in relazione al tema dei rapporti tra diritto e morale è confermato dal pensiero di Angelo Falzea, che, pur essendo stato un giuspositivista, non è mai stato restio nell’invocare l’etica e nel parlare di valori oltre che di diritti.
(E.Z.) Nel dare atto dei progressivi cambiamenti che hanno variamente caratterizzato il processo interpretativo, il libro, tra i numerosissimi spunti, richiama l’attenzione su alcuni elementi: rottura della logica della fattispecie (p. 75); assunzione del valore degli interessi come criterio di valutazione della prescrittività legale (p. 75); sostituzione del metodo sussuntivo con il criterio del bilanciamento degli interessi e dei valori (p. 111). Di qui due domande tra loro correlate:
a) pur nell’apprezzamento di fondo per questi sviluppi del processo interpretativo (che vanno anche) oltre i canoni previsti dall’articolo 12 delle preleggi, quali sono i limiti invalicabili entro cui l’attività del giudice deve contenersi, per evitare che “lo Stato costituzionale di diritto sia sostituito da uno Stato aristocratico di giurisdizione”? (così Villata, citato nel volume a p. 186);
b) sul piano delle concezioni del diritto, perché l’opzione da preferire, in grado di scongiurare il rischio paventato, sarebbe quella per un “giuspositivismo critico” o “moderato”, la quale, come anche si trae dall’insegnamento della scuola civilistica messinese e in particolare di Angelo Falzea, riuscirebbe ad assicurare un adeguato equilibrio tra “esigenze di certezza del diritto e l’inevitabile dinamismo dell’interpretazione”, tra “apertura ai valori e rigore metodologico”? (p. 207; cfr. anche p. 191 ss.)
(F.S.) a) Come ho evidenziato nel libro, un conto è dire che l’interprete deve valutare gli interessi cristallizzati nella norma e le possibilità di adeguare quest’ultima ai vari momenti dell’evoluzione storica (Pugliatti), oppure osservare che ogni interpretazione esige una presa di coscienza della realtà storico-sociale del sistema e quindi un confronto tra il passato e il presente (Falzea), o anche notare – muovendo dalla nota impostazione gadameriana secondo cui il significato di ogni testo dipende sempre dal senso della domanda a cui esso vuole rispondere – che l’interprete non si deve porre in posizione passiva, ma deve immettere e far valere nel processo ermeneutico tutta l’attualità e contemporaneità del suo concreto e storico esistere (Grossi). Fin qui, ci si limita ad attribuire all’interprete il ruolo di mediatore tra testo e caso, norma e vita, ed a superare la vetusta visione dell’interpretazione come operazione di mera sussunzione o di apodittico sillogismo. Pensare che gli enunciati normativi possano avere un significato univoco, dato dalla somma dei significati delle singole parole, è evidentemente una banalità: il linguaggio è una questione complessa e – come abbiamo detto più volte con riguardo all’art. 12 delle Preleggi – le stesse singole parole possono avere più significati, ragion per cui il significato di una disposizione, per quanto chiara e precisa possa essere, non è mai scontato e il mito delle disposizioni chiare ed univoche è, appunto, un mito.
Acclarato, dunque, che ogni interpretazione è massimamente e resta manifestazione ed esercizio di libertà del pensiero, che però non vuol dire arbitrio, occorre, tuttavia, distinguere tra una creazione quale scelta, da parte del giudice, dell’interpretazione maggiormente sostenibile tra i possibili significati ascrivibili all’enunciato normativo ed una creazione quale introduzione, nel contesto del diritto positivo, di nuove disposizioni normative. Non v’è dubbio, infatti, che, pur essendo la legge, come ogni enunciato linguistico, suscettibile di una pluralità di interpretazioni, la sua naturale incertezza non deve condurre alla conclusione che l’interprete possa trarre da essa qualsiasi significato: esiste un punto di rottura oltre il quale l’interpretazione cessa di essere tale e si converte nella creazione di una nuova disposizione. Insomma, una cosa è interpretare un testo normativo, precisando i confini di una norma (riducendone la vaghezza), altra cosa è formulare una norma nuova: l’interpretazione è sempre interpretazione di qualcosa.
Come evidenzia bene Luigi Ferrajoli, dire che le norme sono “create” dall’interpretazione è come dire che la quinta sinfonia di Beethoven è creata dalla sua esecuzione e dalla sua interpretazione. In queste ultime parole, riecheggia la metafora dell’interprete senza spartito che ha ispirato il titolo del mio libro e che emerge in modo ancora più evidente nell’osservazione secondo cui la discrezionalità nell’applicazione della legge è simile in qualche modo a quella che si riscontra nell’esecuzione di uno spartito musicale: un’opera può essere eseguita in vari modi, ma esiste un limite, superato il quale, ciò che si esegue non è più quello spartito (Ferrua).
L’opera di adeguamento di un testo, dunque, non può essere condotta sino al punto di leggervi quel che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse. Per individuare il confine oltre il quale si verifica quel superamento patologico dei limiti della discrezionalità interpretativa e si degenera nel creazionismo giudiziario da me criticato, va, allora, tenuto presente che esiste un’alternativa tra applicare in modo meccanico una norma senza inquadrarla sistematicamente e senza guardare alla fattispecie concreta e tranciare in toto il vincolo con il testo legislativo, che dovrebbe continuare ad avere una posizione di centralità nei procedimenti applicativi, facultando così ogni arbitrio interpretativo.
b) Nell’ultimo paragrafo del primo capitolo, ho provato a dimostrare come il giuspositivismo – che ha ormai da tempo apertamente respinto la teoria formalistica dell’interpretazione (si pensi a Kelsen e ad Hart), la quale ha finito per fare capolino, sia pure in termini assai diversi, in alcuni studiosi dichiaratamente antipositivisti (si allude chiaramente alla teoria dell’unica risposta corretta di Dworkin, nella quale è stata sovente rinvenuta una riproposizione di argomenti formalistici), sostanzialmente cambiando i connotati (tanto da essere stato ridefinito “post-positivismo”) – può essere, in alcune versioni recentemente definite “intelligenti e informate”, di persistente utilità.
Innanzitutto, filosofi del calibro di Villa hanno dimostrato in modo convincente che l’avalutatività delle descrizioni non è affatto una componente concettuale del giuspositivismo, ben potendosi sostenere che nelle attività conoscitive degli studiosi del diritto siano presenti giudizi di valore “senza per questo mettere in questione il giuspositivismo a livello del concetto”.
Probabilmente anche perché mi sono laureato a Messina, dove le prime lezioni che ho seguito sono state quelle da lui svolte nell’ambito del corso di Introduzione alle scienze giuridiche, mi è parso fondamentale l’insegnamento di Angelo Falzea, che, contestando radicalmente l’idealità del valore giuridico, in un sol colpo ha chiuso la partita tanto con il giusnaturalismo tradizionale quanto con il positivismo giuridico più formalistico, contrapponendo ad entrambi una concezione del diritto “reale oggettiva”, che vede il diritto come una realtà che l’uomo trova nella sua vita, che si definisce nel suo linguaggio e nella sua cultura e che costituisce la base di valori positivamente validi al di là di qualsivoglia volontà arbitraria e mera soggettività. Pur tenendo ferma la positività del diritto come presupposto irrinunciabile della scienza giuridica, Falzea non l’intende in termini formali né naturali, ponendo a fondamento e garanzia di essa la permanenza di un interesse fondamentale di cui è portatrice la comunità giuridica (che, in antitesi alla Grund-norm kelseniana, lui chiama Grund-Wert). Si tratta di una “positività ermeneutica” che egli rinviene, in definitiva, nella circostanza che la decisione di ogni singolo caso è giusta proprio in quanto è presa dal giudice facendo confluire in essa il complesso dei principi e della storia che costituiscono il tessuto ordinante di una società. Pur essendo pienamente consapevole del primato ontologico del valore, che spiega e rende razionali le scelte normative, Falzea traccia, però, un confine al di là del quale l’interprete non può valicare il dato testuale né disporre dei sensi simbolici e formalizzati. Un giusto dosaggio tra giuspositivismo e valori – condiviso, peraltro, con Rodolfo De Stefano, giusfilosofo che, oltre ad aver insegnato per tanti anni con lui a Messina ed essersi anch’egli formato seguendo l’insegnamento di Pugliatti, ha costantemente affermato che l’interpretazione giuridica deve sì accertare i valori reali e sostanziali, le esigenze di giustizia via via emergenti nella realtà della vita sociale in modo da adeguare ad esse il diritto positivo, ma restando pur sempre confinata entro il limitato raggio delle correzioni ed integrazioni rese logicamente possibili dallo schermo simbolico dei testi di legge e del loro linguaggio – che, non soltanto a mio avviso, è di prepotente attualità, in quanto consente a Falzea di criticare con fermezza gli orientamenti che, muovendo dal carattere disorganico e mutevole della realtà giuridica odierna, “suggeriscono di passare da una regolamentazione per fattispecie […] a una regolamentazione per principi” e “quando riconducono il diritto al fatto – o, che è lo stesso, lo rimettono ai giudici – fanno tornare indietro culturalmente il pensiero giuridico, riportandolo sulla via senza sbocco del realismo giuridico”.
Del resto, è stato dimostrato in modo convincente che difendere il principio di avalutatività non è incompatibile con una seria presa in considerazione dei valori facenti parte del fenomeno sociale oggetto di studio. La circostanza che fra gli strumenti a disposizione del giurista per giudicare sulla validità di una norma vi siano anche i valori incorporati nella Costituzione, infatti, non implica in alcun modo che il giurista li debba necessariamente fare propri, ben potendo i giudizi di valore essere impiegati in funzione conoscitiva, al fine di descrivere l’esistenza di norme effettive ancorchè invalide o la disapplicazione di norme vigenti e valide o, ancora, la vigenza di norme invalide.
E’ per questo che un giuspositivismo critico può svolgere questa importante funzione senza perdere i propri presupposti fondamentali e, in particolare, senza oltrepassare la linea di confine tra i giudizi di valore giuridici interni (ricognitivi), collocabili all’interno della scienza del diritto, e quelli ideologico-politici (creativi), che fanno parte, invece, della politica del diritto.
In conclusione (mi rendo conto che ci sarebbe tanto altro da dire), mantenendo fermi alcuni punti teorici fondamentali, tra i quali la distinzione tra mera “interpretazione” della legge ed “integrazione” dell’ordinamento, gli assunti fondamentali dell’ermeneutica giuridica, ove depurati delle affermazioni più estreme, e quelli di un moderno positivismo critico – che riconosca, cioè, un essenziale ed ineliminabile momento valutativo che caratterizza l’attività di interpretazione ed applicazione del diritto – si possono sicuramente conciliare.
Ritenere che il giudice debba agire in base alle fattispecie astratte presentate dal diritto positivo – e non, ad esempio, a determinati ideali – è, infatti, cosa ben diversa dal ritenere che la sua azione – ad esempio, la qualificazione normativa di un fatto – sia priva di scelte interpretative.
(E.Z.) I tre capitoli centrali del libro sono specificamente dedicati all’attività interpretativa del giudice amministrativo. Complici le “maglie larghe” del codice del processo amministrativo (ma anche della precedente legislazione processuale), tale attività non sempre pare contenersi nei limiti di un’ordinaria attività interpretativa. Il volume esamina numerosissimi istituti processuali propri di ciascuna fase del processo indicandone le evoluzioni e illustrandone le varie interpretazioni offerte dalla giurisprudenza (cap. II: instaurazione, fase cautelare e istruzione probatoria, p. 211 ss.; cap. III direzione del processo, p. 301 ss.; cap. IV decisione e giudizio di ottemperanza, p. 351 ss.). Solo per citarne alcuni: translatio iudicii; astensione facoltativa; intervento iussu iudicis; qualificazione e conversione delle azioni; poteri istruttori officiosi; principio di non contestazione; verificazione e consulenza tecnica; ammissione di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti in appello; annullamento con rinvio al primo giudice; modalità del contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio; sospensione del processo; spese di giudizio; condanna al risarcimento del danno; giurisdizione di merito e poteri sostitutivi; modalità di ottemperanza; dichiarazione d’inefficacia del contratto d’appalto e sanzioni alternative. Sarebbe molto interessante soffermarsi su ciascuno degli istituti processuali menzionati nel libro, ma non possiamo farlo in questa sede. Ci può, però, indicare due o tre tra questi istituti che, secondo il suo convincimento, rivelano più di altri una vicenda interpretativa che si pone al di fuori dei limiti fisiologici dell’interpretazione?
(F.S.) Diciamo che c’è l’imbarazzo della scelta.
Se mi è consentito, però, più che evidenziare ipotesi nelle quali è il giudice amministrativo ad esondare, diciamo così, dai limiti fisiologici dell’interpretazione, menzionerei due casi in cui è la legge processuale a lasciargli eccessivi spazi di manovra: la decisione sulle spese di giudizio e la dichiarazione d’inefficacia del contratto d’appalto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione.
Per quanto attiene al primo caso, è noto a tutti come in passato la giurisprudenza amministrativa propendesse nettamente per la compensazione delle spese, che praticava con larghezza talmente eccessiva da invertire quasi il rapporto tra regola ed eccezione delineato dal dettato normativo; prassi fondata sull’anacronistica considerazione che non fosse consentito condannare l’amministrazione alle spese del giudizio perché essa pur essendo formalmente parte del processo non assume mai la veste di parte soccombente, agendo sempre come organo pubblico preposto all’esecuzione e alla salvaguardia della legge. Una politica giurisprudenziale che era evidente manifestazione della concezione, ormai da tempo superata, del processo amministrativo come processo di parti non paritarie.
Dopo l’avvento del codice, è stato applicato più frequentemente il criterio generale della soccombenza, ma si rinvengono tuttora tante sentenze in cui il giudice amministrativo afferma di avere ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione ovvero escluderla. Non mancano, poi, decisioni in cui si torna ad affermare tralatiziamente che la statuizione del giudice assunta in ordine all’assegnazione delle spese di causa (compresa la possibilità di compensarle tra le parti) costituisce una valutazione ampiamente discrezionale di equilibrio processuale, senza che il giudicante sia tenuto a motivare la decisione assunta. E, come segnalo nel libro, la gamma di formule con le quali viene giustificata la compensazione delle spese è assai variegata: “complessità delle questioni trattate”, “natura degli interessi coinvolti”, “definizione transattiva”, “peculiarità della vicenda”, “evoluzione del quadro giurisprudenziale di riferimento”, “margini di opinabilità delle valutazioni oggetto di causa”; e chi più ne ha più ne metta.
Infine, dev’essere – a mio avviso – stigmatizzata la prassi di non applicare il principio della soccombenza nel caso in cui la parte intimata non si sia costituita in giudizio ed il ricorso sia stato accolto, prassi che sembra muovere dalla deprecabile idea di una sorta di superiorità sociale dell’amministrazione intimata rispetto al ricorrente.
Tutto ciò mi ha indotto a concludere polemicamente il paragrafo dedicato a quell’istituto con l’affermazione – evidentemente mutuata da un noto scritto di Mario Nigro – che il giudice amministrativo continua ad essere il… “signore delle spese”.
I poteri giudiziali sull’efficacia del contratto sono evidentemente connotati da un’amplissima discrezionalità. Lasciamo stare se si tratti di giurisdizione estesa al merito, di una valutazione equitativa, ecc. ecc.. Certamente, nella concreta ponderazione dei contrapposti interessi, il giudice chiamato a decidere le sorti del contratto sembra esercitare una discrezionalità più propriamente pertinente all’esercizio del potere amministrativo, anche se un siffatto potere non può ritenersi totalmente “nuovo”, essendoci svariate ipotesi in cui al giudice vengono attribuite valutazioni discrezionali di carattere concreto e specifico, limitate dal solo parametro della ragionevolezza. Parimenti indubbio è che la scelta legislativa di affidare al giudice amministrativo un così delicato bilanciamento di interessi sia quantomeno opinabile, specie ove si consideri l’ampia libertà che era stata lasciata agli Stati membri dal legislatore comunitario: si sarebbero potute prospettare soluzioni diverse, id est individuare il c.d. “organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice” in un organo non giurisdizionale, come ad es. l’A.V.L.P. (oggi A.N.AC.).
Così non è stato, per cui ci troviamo di fronte ancora una volta all’attribuzione al giudice amministrativo del compito di effettuare un bilanciamento di interessi espressi in clausole generali che gli conferiscono grande discrezionalità decisoria, con tutti i pro e i contro che ciò comporta, in particolare in un settore così delicato come quello degli appalti pubblici. Non a caso, d’altronde, anche nell’ambito del Consiglio di Stato non sono mancate perplessità su questa tendenza legislativa a configurare, in modo sempre più frequente, vere e proprie ipotesi di “giudice-amministratore”, quasi a voler confermare il vecchio motto “juger l’administration c’est administrer”, ed un fine giurista come Giovanni Verde si è chiesto fino a che punto sia possibile “caricare sul giudice […] il peso di scelte che spettano in primo luogo a chi ci rappresenta democraticamente”.
(E.Z.) Alla fine del quarto capitolo vengono ancora esaminati alcuni “casi controversi” di quella che “per comodità, preferiamo definire giurisprudenza amministrativa «creativa»” (p. 458 ss.): modulazione degli effetti caducatori della sentenza di annullamento; termine per ricorrere nel rito appalti; appellabilità dl decreto cautelare monocratico; individuazione di una anomala ipotesi di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse; effetto sospensivo automatico del ricorso; onere della prova dell’inutilità della partecipazione al procedimento (art. 21 octies, co. 2, l. 241 del 1990); scia e autotutela; abuso del processo. Non abbiamo il tempo di soffermarci su tutti questi casi controversi (magari potranno essere ripresi nel dibattito successivo all’ intervista). Tuttavia, quali sono i casi in cui è più evidente una forzatura del dato normativo e, soprattutto, in che modo e in base a quali argomentazioni viene giustificata dalla giurisprudenza una così evidente forzatura?
(F.S.) Anche qui c’è l’imbarazzo della scelta, ma siccome il tempo a nostra disposizione continua a diminuire mi limito anche stavolta ad indicare soltanto due casi.
Un’opzione interpretativa quantomeno ardita – non a caso definita da Enrico Follieri vera e propria “ingegneria processuale” e da Michele Fornaciari “ultimo parto di una fantasia […] veramente inesausta” – è quella, oggi al centro dell’attenzione per la vicenda delle cc.dd. “concessioni balneari”, attinente alla modulazione degli effetti caducatori della sentenza di annullamento.
Tra le tante osservazioni critiche che sono state rivolte a questo indirizzo sin dal 2011, mi sembra particolarmente efficace quella secondo cui, quando utilizza il potere di modulare gli effetti dell’annullamento che si è autoproclamato, il giudice si sostituisce arbitrariamente alla pubblica amministrazione valutando in sua vece l’opportunità o meno del mantenimento di tali effetti per tutelare un interesse pubblico e svolge un ruolo ben diverso da quello che gli è stato assegnato nell’ambito della giurisdizione di legittimità (R. Dipace). La manipolazione della pronuncia (tipica) di annullamento, infatti, viene posta in essere a seguito di una chiara ponderazione tra gli interessi presenti in giudizio, con evidente superamento del confine tra giudicare ed amministrare (A. De Siano).
Francesco Caringella, a cui va tutta la mia stima, rivendica la “signoria” del giudice amministrativo sugli effetti delle proprie pronunce, assumendo che serve ad assolvere al non agevole compito di “calibrare la misura della tutela, necessaria e sufficiente, onde placare l’ansia di protezione che anima il ricorso”. Mi sia consentito garbatamente dissentire, condividendo l’auspicio che l’attività lato sensu creativa del giudice si svolga sempre all’interno di un processo conoscitivo basato su un metodo dialettico, in cui la creazione giudiziale sia la sintesi delle contrapposte opinioni delle parti e non il frutto di intuizioni solitarie del giudice, per quanto ispirate dal nobile intento di assicurare una giustizia effettiva (A. Cassatella).
Un rapido cenno, poi, ad una questione che mi è sempre stata a cuore (anche se devo confessarvi che ormai mi sono rassegnato): l’interpretazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge sul procedimento.
Risale a più di quindici anni fa l’affermazione del Consiglio di Stato secondo cui, ancorchè tale disposizione ponga in capo all’amministrazione (e non al privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non poteva essere diverso, onde evitare di gravare la pubblica amministrazione di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento), è preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Secondo tale giurisprudenza, dunque, solo dopo che il ricorrente ha adempiuto quest’onere di allegazione (che la norma implicitamente porrebbe a suo carico), la pubblica amministrazione sarà gravata del ben più consistente onere di dimostrare che, anche se quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato.
Di fronte ad una simile affermazione, che subordina gli oneri di allegazione e prova incombenti sull’amministrazione resistente all’adempimento, da parte del ricorrente, di un onere di allegazione di cui nella norma, sinceramente, non v’è proprio traccia, non ho potuto far altro che constatare amaramente quanto sia errata l’affermazione condensata nel noto brocardo “in claris non fit interpretatio”. Il giudice amministrativo, infatti, ha riscritto a proprio piacimento una norma giuridica che non generava alcun dubbio interpretativo.
(E.Z.) Riprendendo concetti che percorrono tutto il libro, nell’ultimo capitolo si evoca l’esigenza di tornare a un diritto calcolabile, prevedibile, dove il rapporto tra giudice e legislatore sia correttamente equilibrato (p. 533). Tuttavia, vi è la consapevolezza che l’incertezza non possa essere del tutto eliminata, ma che la si debba attenuare attraverso un uso accorto della funzione legislativa e, soprattutto, attraverso un controllo della decisione giurisdizionale che ne sappia dimostrare la “correttezza della soluzione raggiunta, la sua razionalità, persuasività, efficienza (anche economica)” (p. 145). Più precisamente, i percorsi giurisprudenziali dovrebbero rendersi “prevedibili” attraverso l’argomentazione (motivazione) della decisione, l’esperimento dei rimedi impugnatori, un uso equilibrato del precedente giudiziale, il ruolo critico e di controllo della dottrina. L’ultima domanda è, allora, riservata proprio alla dottrina, che, come anche si evidenzia nel volume, avrebbe ormai perso molta della sua capacità di influire sui giudici e sull’evoluzione giurisprudenziale (p. 160). Ad oggi quale compito dovrebbe svolgere la dottrina perché il suo apporto assuma uno specifico rilievo e una reale utilità sia per l’attività (interpretativa) del giudice che per l’attività legislativa?
(F.S.) E’ opinione diffusa che l’interpretazione manifesti oggi un bisogno di correttezza che, non potendo più essere soddisfatto dal giuspositivismo, richieda l’apporto della dottrina, chiamata a mettere in pratica con rigorosi ragionamenti il principio per cui, tra le possibili interpretazioni di una norma, la più corretta è quella sostenuta dalla migliore giustificazione argomentativa, idonea a confutare e superare ogni argomento contrario. Come magistralmente evidenziato da Luigi Mengoni, in presenza di un diritto positivo spesso assai difficile da decifrare, la dogmatica dovrebbe assicurare una “recezione controllata” delle valutazioni sociali dell’ordinamento positivo mediante la loro trasformazione in categorie sistematiche e, lungi dall’imbrigliare l’interprete, offrire una base di partenza per esplorare la possibilità di nuove soluzioni in luogo di quelle già sperimentate.
Purtroppo, la dottrina è venuta meno al proprio compito principale, che oggi dovrebbe essere quello di approfondire la discussione razionale sul contenuto dei principi, molti dei quali sono continuamente affermati, ma in modo approssimativo o grossolano, il che contribuisce a rendere arbitrarie molte decisioni giudiziarie dichiaratamente ispirate ai principi stessi. Sempre secondo Mengoni, ciò è dovuto, innanzitutto, al crescente fiorire di un filone di letteratura giuridica di tipo descrittivo, rappresentata da raccolte più o meno ordinate di aforismi giurisprudenziali, registrati acriticamente come basi di previsione dei futuri comportamenti dei giudici. Ma, come riferisco nel libro, vi sono varie altre ragioni pratiche che, verosimilmente, fanno sì che il peso della dottrina sia oggi assai modesto proprio nell’evoluzione del diritto amministrativo.
Sta di fatto che siffatta tendenza è tutt’altro che rassicurante, nella misura in cui, quanto più s’indebolisce il ruolo della scienza giuridica, tanto più aumenta la possibilità che si formi un residuo irrazionale proveniente dalla precomprensione soggettiva del giudice: va, quindi, accettato senza indugio l’invito rivolto alla dottrina da Riccardo Villata a non perdere mai “la consapevolezza del proprio ruolo” ed evitare il rischio di apparire o risultare “compiacente” o “dormiente”.
Nel mio piccolo, ci ho provato.