Il collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo?
di Fabio Francario
Sommario: 1. Importanza dell’istituto nella cornice del N.G.E.U. e del P.N.R.R. - 2. Ragioni della difficoltà d’inquadramento sistematico dell’istituto. - 3. Focus sulla normativa specifica del Collegio consultivo tecnico - 4. Una ipotesi ricostruttiva - 5. Osservazioni conclusive: il collegio consultivo tecnico di fronte all’alternativa tra l’essere una reale misura di semplificazione ed efficienza o un inutile aggravamento amministrativo.
1. Importanza dell’istituto nella cornice del NGEU e del PNRR.
Attualmente, la figura del Collegio consultivo tecnico è annoverata tra le misure di semplificazione in materia di contratti pubblici contemplate nell’ambito del Capo I del Titolo I del d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale). Non si tratta di una figura completamente nuova[i], ma nelle intenzioni del legislatore vorrebbe assumere un ruolo strategico per garantire il rilancio dell’economia nello scenario post pandemico. Per essere pienamente compresa va quindi considerata nel contesto del quadro normativo e degli obbiettivi predefiniti a livello comunitario dal Next Generation EU (NGEU) e a livello nazionale dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il programma di intervento straordinario, voluto dalle Istituzioni europee non solo per contrastare la pandemia, ma per favorire la ripresa e lo sviluppo economico e sociale, viene sviluppato in Italia dal PNRR ed è opinione diffusa e condivisa che si sia di fronte ad una occasione irripetibile. La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa. Dal momento che la pubblica amministrazione assume un ruolo vitale nell’attuazione del complesso piano, l’attenzione del legislatore si è pertanto concentrata anche sulla necessità di approntare uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa nell’ambito delle misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano. L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, tutti convergenti nell’unica finalità di garantire la celere conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni: rimozione del fenomeno della “paura della firma”, previsione di meccanismi procedimentali sostitutivi e de - giurisdizionalizzazione della soluzione dei conflitti
Le principali misure di semplificazione specificamente dedicate ad accompagnare la realizzazione del PNRR sono individuate nel d.l. 16 luglio 2020 n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito con l. 11 settembre 2020 n. 120 e nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure).
La prima linea d’intervento seguita è stata quella di rimuovere la difficoltà di assumere decisioni in un quadro normativo, economico, tecnico e sociale estremamente complesso, incerto e farraginoso, intervenendo sul regime giuridico della responsabilità amministrativa e penale dei funzionari pubblici al fine di rimuovere la c.d. “paura della firma”. Sotto questo profilo l’attenzione è stata rivolta all’elemento personale della pubblica amministrazione, al “fattore umano”. L’art. 21 del d.l. n 76 del 2020 è intervenuto sul tema della responsabilità erariale, limitando la responsabilità dei funzionari pubblici per danno erariale alle sole ipotesi in cui ne venga accertato il dolo e precisando che tale limitazione “non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”. L’ulteriore precisazione che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso” vale a chiarire anche che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come invece sostenuto da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile. L’art. 23 ha invece circoscritto il reato di abuso d'ufficio alla violazione di puntuali disposizioni di leggi e atti con forza di legge da cui non residuino margini di discrezionalità.
La seconda linea d’intervento ha invece interessato i procedimenti amministrativi, e si è concretizzata nella previsione di misure di semplificazione, finalizzate a garantire la definizione dei processi decisionali, in tempi rapidi e comunque la certezza della loro conclusione. Il d.l. 76/2020, oltre a introdurre modifiche della disciplina generalmente dettata dalla legge 241/1990, recate dall’art. 12, generalizza di fatto l’impiego della figura del Commissario straordinario per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali di particolare complessità, prevedendo che i Commissari operino in deroga alla disposizioni di legge in materia di contratti pubblici (“fatto salvo il rispetto dei principi …”) e che possano essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazioni appaltante (art. 9). Il d.l. 77/2021 prevede invece la possibilità di attivare meccanismi sostitutivi commissariali in caso di mancata adozione di atti e provvedimenti necessari all'avvio dei progetti del Piano, ovvero di ritardo, inerzia o difformità nell'esecuzione dei progetti da parte dei soggetti attuatori del PNRR (art. 12), così come nel caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente idoneo a precludere la realizzazione in tutto o in parte la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR o nel PNC (art. 13). Sotto il profilo più strettamente organizzativo, il d.l. 77/2021 prevede inoltre l’istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di una cabina di regia con poteri d’indirizzo, d’impulso e di coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR (art 2); l’istituzione di una Soprintendenza speciale presso il Ministero della cultura con competenza per i beni che siano interessati dagli interventi previsti nel PNRR e con poteri comunque di avocazione e sostitutivi delle Soprintendenze locali nei casi in cui si renda necessario per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR (art. 29); l’istituzione di un Comitato speciale presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici tenuto a esprimersi sui progetti di fattibilità tecnico economica delle opere non solo a livello meramente consultivo, ma con potere anche decisorio, sostitutivo della conferenza dei servizi competente all’approvazione definitiva del progetto nei casi in cui siano stati espressi dissensi in seno ad essa (art 44).
La terza linea d’intervento è stata quella che si è ormai soliti definire come “de-giurisdizionalizzazione”, per indicare misure o istituti volti ad evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’intervento del giudice arresti o ritardi la realizzazione degli interventi pubblici. La necessità di realizzare gli interventi previsti nel PNRR e nel PNC ha fatto sì che il legislatore abbia non solo dettato norme specificamente volte ad accompagnare la realizzazione di tali piani, ma abbia altresì colto l’occasione per intervenire a regolare in via generale il rapporto tra processo amministrativo e opere pubbliche cercando di limitare la possibilità d’intervento del giudice sull’appalto. Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 4 del dl 76/2020 coglie l’occasione per dettare diverse disposizioni volte ad assicurare la stabilità dell’aggiudicazione e del conseguente affidamento del contratto. In primo luogo, estende l’applicazione dell’art. 125 comma 2 del c.p.a. agli appalti aggiudicati entro al 31 dicembre 2021 (termine poi spostato al 30 giugno 2023), il che comporta lo spostamento della tutela sul versante puramene risarcitorio, dal momento che esso statuisce che “la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato e il risarcimento del danno avviene solo per equivalente”. Precisa, in secondo luogo, che “la pendenza di un ricorso giurisdizionale nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto” non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione dello stesso e che “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente”. Precisa ancora, in terzo luogo, che di norma i giudizi in materia di appalti dovrebbero essere definiti nel merito con sentenza in forma semplificata in esito all’udienza cautelare. Dunque, sembrerebbe d’intendere, a meno che l’aggiudicazione non venga immediatamente sospesa dal giudice amministrativo, il contratto deve essere stipulato e non può esser più caducato e il ricorrente che abbia ragione dovrà limitarsi ad una tutela meramente risarcitoria. Sotto questo profilo, senza entrare nei profili concernenti la costituzionalità di tali norme con riferimento soprattutto all’art 113 Cost., è dunque evidente l’intento di limitare quanto più possibile l’incidenza della pronuncia giurisdizionale sull’affidamento dei lavori. Le previsioni, come detto, sono d’ordine generale, ma il PNRR è stato comunque l’occasione per generalizzare tale disciplina.
Con specifico riferimento invece alle opere previste nel PNRR e nel PNC, oltre a misure acceleratorie[ii], nella prospettiva della de-giurisdizionalizzazione sono state previste anche misure volte a cercare proprio di evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale.
L’art. 6, espressamente dedicato sin dalla rubrica al Collegio Consultivo Tecnico, reca infatti previsioni dichiaratamente volte a scoraggiare il ricorso al momento giurisdizionale per la risoluzione di dispute o questioni che possono insorgere nell’esecuzione dell’appalto, al fine di evitare che l’incidente giurisdizionale comprometta o ritardi la realizzazione dell’intervento. Per i lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche d’importo pari o superiore alla soglia comunitaria, l’art. 6 prevede infatti che il CCT debba essere obbligatoriamente costituito “per la rapida risoluzione delle controversie o dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso”. L’istituzione rimane facoltativa per i lavori sotto soglia.
Se si guarda ai diversi istituti giuridici che il legislatore ha pensato d’impiegare per accompagnare la realizzazione del Piano, la prima considerazione da fare è che, tanto l’impiego della figura del commissario, quanto degli altri meccanismi sostitutivi che consentono di portare a conclusione i procedimenti spostando verso l’alto il livello decisionale, non sono una novità, ma solo la generalizzazione, per le opere PNRR e PNC, di tali misure. Altrettanto può dirsi per la stessa limitazione del possibile contenuto della tutela giurisdizionale. In tutti questi casi, si è sostanzialmente di fronte ad una estensione di norme e istituti già dettati per altre situazioni: per l’impiego dei commissari è esplicito il rinvio all’art 4 del d.l. 18 4 2019 n. 32; per il superamento del dissenso il modello è quello dell’avocazione ormai generalmente prevista dall’art 14 quinquies della l. 241/1990; anche per la limitazione dei poteri del giudice si estende la norma già dettata a suo tempo per le infrastrutture strategiche e codificata nell’art 125 c.p.a..
Anche il CCT, di per sé, non è una novità assoluta, ma, in questo caso, la disciplina non si limita al mero richiamo o adattamento di un istituto predefinito nella sua struttura giuridica. La disciplina recata dal decreto semplificazioni (d.l. 76/2020), come modificata e integrata dal decreto semplificazioni - bis o governance PNRR (d.l. 77/2021), si presenta fortemente innovativa e lascia chiaramente intendere che, nelle intenzioni del legislatore, l’istituto dovrebbe assumere un ruolo assolutamente strategico nell’ambito delle misure di accompagnamento strumentali alla garanzia di realizzazione del PNRR.
2. Ragioni della difficoltà d’inquadramento sistematico dell’istituto.
Nonostante l’attenzione che viene adesso specificamente dedicata all’istituto dal legislatore e il ruolo strategico che gli viene attribuito per garantire la realizzazione degli interventi infrastrutturali del PNRR, dire esattamente cosa sia il CCT e, soprattutto, che natura ed efficacia abbiano le sue decisioni, non è cosa semplice.
Per diverse ragioni.
Innanzi tutto perché le nuove norme, per quanto dedichino particolare attenzione all’istituto, risultano comunque scarne, lacunose e contraddittorie. Le disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del d.l. 76/2020 attribuiscono al Collegio funzioni e compiti eterogenei; prevedono che esso emani atti aventi natura ed efficacia profondamente diverse (pareri, determinazioni, atti aventi natura di lodo irrituale); ne prevedono la costituzione, a seconda dei casi, come obbligatoria o facoltativa; quando obbligatoria, richiedono necessariamente la presenza dell’operatore economico all’interno dell’organismo, anche se la funzione di questo è limitata alla sola consulenza.
Per quanto la preparazione e l’intelligenza dell’interprete possano, sotto questo profilo, cercare di armonizzare la ricostruzione del dato normativo, vi sono in ogni caso perlomeno due altre ragioni che, oggettivamente, impediscono di rispondere in maniera precisa all’interrogativo sulla natura del CCT e delle sue decisioni.
La prima è proprio nel fatto che, come detto, la figura s’iscrive chiaramente nel novero delle misure di “de -giurisdizionalizzazione”, pensate cioè per evitare o limitare quanto più possibile il rischio che l’incidente giurisdizionale arresti o ritardi la realizzazione degli interventi previsti nel PNRR o nel PNC. L’istituto generale di riferimento è quindi quello delle cd ADR (Alternative Dispute Resolution), categoria pensata appunto per includere le diverse ipotesi in cui dispute o controversie tra le parti vengono definite prima e al di fuori della sede giurisdizionale. Il riferimento alle ADR vuole però dire tutto e niente, stante la irriducibilità delle stesse ADR ad un modello unico. Al di là della radice comune dell’offerta di una “giustizia non giurisdizionale”, le varie forme di ADR non sono riducibili a un’unica tipologia perché non sono un fenomeno unitario e sempre uguale a sé stesso. Se si guarda l’esperienza maturata nell’ambito della contrattualistica internazionale, nel quale si origina la figura dei dispute boards per accompagnare l’esecuzione dei contratti di durata, si vede subito che i modelli sono diversi e tendono a distinguersi a seconda che abbiano carattere aggiudicativo o assistenziale; a seconda cioè che siano diretti a risolvere una lite insorta tra le parti attraverso categorie assimilabili a quelle giudiziarie ovvero a comporre la controversia attraverso procedure di tipo conciliativo in ragione di criteri equitativi piuttosto che di giustizia. Talora con soggezione agli effetti della decisione, talora con libertà di aderire o meno alla proposta conciliativa. Ferme in ogni caso le garanzie di indipendenza, terzietà e professionalità dei membri, i dispute boards possono quindi formulare tanto pareri o raccomandazioni non vincolanti (Dispute Review Board – DRB), quanto possono assumere decisioni immediatamente vincolanti per le parti (Dispute Adjudicative Board – DAB) .
Oltre a quella della mancanza, nell’esperienza delle ADR, di un unitario modello di riferimento, l’ulteriore ragione che rende fortemente problematico l’innesto dell’istituto nell’ordinamento pubblicistico è che forme e strumenti di “giustizia non giurisdizionale”, che di per sé non sono certamente ignoti al nostro sistema di diritto amministrativo, sono tuttavia fortemente condizionati dal vincolo d’indisponibilità gravante sull’esercizio del pubblico potere finalizzato alla cura del pubblico interesse. Il che, per tradizione, porta a circoscriverne l’ambito all’esperienza dei ricorsi amministrativi, rimedi a carattere decisorio in cui non viene però garantita la terzietà del giudicante rispetto alle parti. La possibilità di impiegare rimedi alternativi, che possono ritenersi espressivi non già di autotutela amministrativa, ma di una logica partecipativa e consensuale, è quindi generalmente consentita nei soli casi in cui le questioni riguardino situazioni disponibili di diritto soggettivo. L’art 12 c.p.a. afferma chiaramente che “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti cpc”. Il Codice dei contratti pubblici dedica un apposito capo, il secondo, titolo dedicato al Contenzioso, nella parte VI del Codice ai rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale, prevedendo le figure dell’accordo bonario (art 205), della transazione (art. 208) e dell’arbitrato (art. 209), oltre che del parere precontenzioso ANAC (art. 211).
Chiarire che sono deducibili in arbitrato le sole controversie che riguardino situazioni (giuridiche soggettive) disponibili, circoscrivendo in tale ambito l’operatività delle ADR, non basta però a risolvere tutti i problemi, in quanto in ambito pubblicistico, al di là dei vincoli modali derivanti dalle previsioni specificamente recate dall’art. 209, bisogna comunque fare i conti con i limiti che in linea di principio derivano dal divieto di arbitrato obbligatorio[iii] e dalla preclusione del ricorso all’arbitrato irrituale[iv]. Il principio della libera disponibilità esclude che, in assenza di una espressa volontà della parte, l’arbitrato possa essere reso obbligatorio per effetto di una norma di legge; il medesimo principio, per altro verso, non è però tale da giustificare anche che l’arbitrato si svolga nelle forme irrituali, perlomeno in assenza di una espressa previsione o disciplina di legge.
La mancanza di un unitario modello di riferimento, l’assorbimento dei rimedi non giurisdizionali nell’ambito dell’autotutela amministrativa e l’esclusione della possibilità di decidere le liti concernenti situazioni disponibili nelle forme dell’arbitrato irrituale o rendendo obbligatorio ex lege il ricorso all’arbitrato sono tre fattori che allo stato impediscono un coerente inquadramento sistematico dell’istituto sulla base delle figure tradizionalmente note.
3. Focus sulla normativa specifica del Collegio consultivo tecnico.
I dati salienti che immediatamente si ricavano dalle disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del d.l. 76/2020 e successive modifiche e integrazioni sono apparentemente incoerenti.
La costituzione del Collegio è obbligatoria per i lavori d’importo pari o sopra soglia, ma rimane facoltativa per quelli sotto soglia; i membri del Collegio devono essere nominati da entrambe le parti, ma in caso di disaccordo alla nomina del Presidente provvede unilateralmente la parte pubblica; il Collegio deve essere formato assicurando eterogeneità, esperienza e qualificazione professionale dei membri, ma questi possono essere anche legati da rapporti di lavoro o collaborazione con le parti; il Collegio rende pareri o determinazioni aventi natura di lodo arbitrale irrituale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.; l’acquisizione del parere in alcuni casi è obbligatoria, in altri rimane facoltativa; l’osservanza o inosservanza delle pronunce rese dal Collegio influisce in ogni caso sulla responsabilità contrattuale ed erariale e sul regime delle spese del contenzioso giurisdizionale che venga eventualmente intrapreso successivamente.
Attesi i già ricordati divieti di istituire forme di arbitrato obbligatorio ed irrituale, il solo fatto che l’istituzione del Collegio possa essere ritenuta obbligatoria e che le pronunce possano avere valore ed efficacia di lodo irrituale basta a rendere immediatamente l’idea di come sia problematico l’impiego della figura in ambito pubblicistico. La possibilità che il Collegio assuma determinazioni aventi natura di lodo contrattuale rivelerebbe un carattere decisorio, ovvero aggiudicativo, che mal si concilierebbe con una pura e semplice funzione di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto, che lascerebbe chiaramente propendere nel senso di una natura non aggiudicativa del board.
Le linee guida elaborate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ed adottate dal MIMS con d.m. n. 12 del 17 gennaio 2022 (Adozione delle Linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle stazioni appaltanti delle funzioni del Collegio consultivo tecnico) hanno cercato di completare la trama normativa disegnata dalla fonte primaria riempiendone i vuoti. Non solo. Hanno soprattutto fornito una chiave interpretativa che spiega le apparenti contraddizioni con il fatto che il legislatore ha volutamente tenuto insieme i possibili modelli, preoccupandosi di creare le condizioni per l’ammissibilità dell’istituto in ambito pubblicistico e rimettendo alla scelta delle parti l’opzione per un modello puramente consultivo o aggiudicativo in modo che potessero tener conto delle specificità del caso concreto.
Particolare importanza in tal senso assumono le norme recate nell’ambito del paragrafo terzo (“Insediamento, funzioni e competenze”), che richiamano l’attenzione sull’importanza del verbale attestante l’effettivo insediamento del Collegio, per il fatto che in questo momento le parti sono chiamate a consumare la scelta se attribuire o meno alle determine del Collegio valore di lodo arbitrale ai sensi dell’art 808 ter c.p.c.. Il CCT può infatti operare come collegio arbitrale solo se il consenso sia stato ritualmente prestato dalle parti ai sensi dell’art. 6 comma 3 del d.l .76/2020, norma avente forza e valore di legge che dispone che le determinazioni del Collegio hanno natura del lodo contrattuale previsto dall’art 808 ter c.p.c. “salva diversa e motivata volontà espressamente manifestata in forma scritta dalle parti stesse”. La previsione recata dalle linee guida, lungi dal porsi in contradizione con quelle di rango primario, è chiaramente volta a creare certezza sulla effettiva e consapevole volontà delle parti al riguardo e si spiega in ragione del fatto che l’arbitrato non può essere imposto alle parti obbligatoriamente e richiede, specie se irrituale, accettazione espressa e in forma scritta della clausola arbitrale[v]. La chiara ed espressa dichiarazione di volontà delle parti sul punto è dunque necessaria per evitare che l’attività che verrà successivamente svolta dal CCT possa essere eventualmente invalidata lamentando il fatto che le determine con valore di lodo contrattuale siano state adottate senza una positiva enunciazione in forma scritta di una volontà in tal senso. Questo spiega anche perché le linee guida richiedano in questo momento anche la comparizione dei rappresentanti delle parti, dei quali il Collegio dovrebbe pertanto assicurarsi siano munite del potere di rappresentanza idoneo ad impegnare sotto questo profilo la parte. Le linee guida non recano disposizioni di dettaglio per quel che riguarda tempi e modi di svolgimento del contraddittorio sui quesiti posti; ma, tenendo presente che il termine a disposizione del Collegio per pronunciare sui quesiti posti è di quindici o massimo venti giorni (dalla formulazione dei quesiti), il verbale potrebbe rappresentare la sede opportuna anche per prevedere una eventuale disciplina di dettaglio, specie nel caso le parti optino per attribuire la natura di lodo contrattuale alle determinazioni del Collegio.
Anche se le parti abbiano manifestato espressamente la volontà di attribuire alle determine del CCT valore di lodo arbitrale ai sensi dell’art 808 ter cpc, va tuttavia precisato che non tutte le questioni possono essere decise con tale efficacia. Sotto questo profilo, le Linee guida chiariscono che possono essere decise con valore di lodo irrituale le sole questioni che sarebbero altrimenti oggetto semplicemente di un parere facoltativo, da rendere su “controversie e dispute tecniche di ogni natura” ai sensi dell’art 6 dl 76/2020. Restano infatti escluse le questioni che sono oggetto di parere obbligatorio ai sensi dell’art 5 del dl 76/2020 per i casi di sospensione volontaria o obbligatoria dell’esecuzione dei lavori, salva la sola ipotesi di cui alla lett. C) dell’art. 5 del dl 76/2020 (“sospensione per gravi ragioni d’ordine tecnico … in relazione alle modalità di superamento delle quali non vi è accordo tra le parti”). Non possono essere quindi decise con efficacia di lodo arbitrale irrituale le questioni relative a sospensione dell’esecuzione dei lavori derivante dall’applicazione di disposizione di legge penale, del codice antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d lgs 159/2011 o da vincoli inderogabili posti da fonti dell’Unione europea; oppure determinata da gravi ragioni di ordine pubblico o di salute pubblica; o ancora da gravi ragioni di pubblico interesse. In tutti questi casi è infatti evidente che non si è in presenza di interessi disponibili delle parti, vuoi perché la decisione amministrativa è vincolata a monte dalla norma di legge penale o unionale, vuoi perché sussiste un forte margine di apprezzamento discrezionale circa la sussistenza di ragioni di pubblico interesse; ed è pertanto esclusa la possibilità di devolvere in arbitrato le relative questioni. Nulla è invece espressamente detto con riferimento all’ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 5 del dl 76/2020, che prevede che il CCT renda “parere” preliminare rispetto alla decisione di risolvere il contratto “nel caso in cui la prosecuzione dei lavori per qualsiasi motivo … … non possa procedere con il soggetto designato … … salvo che per gravi motivi tecnici ed economici sia comunque … possibile o preferibile proseguire con il medesimo soggetto”. La possibilità di pronunciare in tal caso con efficacia di lodo irrituale sembrerebbe comunque preclusa non solo dall’impiego del termine “parere”, ma anche dal fatto che la decisione circa la risoluzione del contratto rimane espressamente riservata alla stazione appaltante[vi].
Anche con riferimento al problema del rapporto con gli altri rimedi, le linee guida offrono un importante chiarimento, precisando che, se le parti hanno riconosciuto natura di lodo contrattuale alla decisione del CCT, il rimedio è alternativo all’accordo bonario.
4. Una ipotesi ricostruttiva
4.1. Il quadro apparentemente problematico e contraddittorio disegnato dalla normazione primaria non deve scoraggiare l’interprete perché le difficoltà d’inquadramento e di coordinamento con istituti preesistenti si verificano praticamente tutte le volte in cui si introducono nuovi meccanismi di adr con l’intento di de-giurisdizionalizzare la decisione o composizione di una lite. L’attenzione è portata a concentrarsi sull’efficacia e sull’ utilità della nuova figura, piuttosto che sulla sua coerenza sistematica, perché un rimedio adr nasce atipico quasi per definizione; e a questo dato, in ambito pubblicistico, si aggiunge il profilo problematico della sua ammissibilità, originato dalla limitata disponibilità delle situazioni soggettive.
Le linee guida aiutano a capire che il legislatore ha inteso tenere insieme più modelli, preoccupato di consentire l’ingresso rimedio in ambito pubblicistico, lasciando alle parti la scelta di quale di volta in volta adottare nel caso concreto. Dalla scelta del modello aggiudicativo o consultivo deriva poi un regime giuridico a tratti differenziato in punto di natura ed efficacia giuridica delle decisioni e del collegio stesso. Vedendo il fenomeno nel suo complesso, l’impressione che si ha è dunque che non si è di fronte a un tipico organismo arbitrale, né ad un tipico organismo di mediazione o conciliazione, né ad un tipico organismo consultivo, ma che si sia di fronte ad un organismo giustiziale di diritto pubblico atipico. Volendo avere una visione unitaria, l’idea è che il CCT rappresenti una forma di espressione di funzione giustiziale amministrativa, contaminata dalla necessaria partecipazione del soggetto interessato nell’organismo decisionale e dall’attribuzione a quest’ultimo del potere di pronunciare in maniera irrituale. Il profilo è senz’altro meritevole di ben altro approfondimento sotto il profilo della trattazione scientifica, ma si può comunque provare a spiegare un po’ meglio l’idea anche solo nell’ambito di queste note.
Le uniche figure di adr finora ritenute ammissibili in ambito pubblico sono state i ricorsi amministrativi e gli arbitrati rituali.
I ricorsi amministrativi (in opposizione, gerarchico, gerarchico improprio e, volendo, ricorso straordinario al Capo dello Stato) vengono sempre decisi da organi amministrativi, ai quali l’interessato rivolge la sua domanda di giustizia. Non solo il decidente non è un vero giudice, terzo e imparziale, ma l’interessato non partecipa nemmeno alla formazione della decisione. Può solo domandare e la decisione viene presa, unilateralmente, dall’Amministrazione.
Anche nel caso del CCT, la costituzione dell’organo non ha base negoziale, ma legale. La regola, per gli appalti sopra soglia, è che l’organo deve essere necessariamente costituito presso la stazione appaltante, che decide se il collegio debba essere costituito da tre o cinque membri. In caso di disaccordo sulla nomina del Presidente, la nomina è riservata alla parte pubblica ed è sempre la parte pubblica (stazione appaltante) a prendere unilateralmente la decisione quando l’istituzione è facoltativa (ante operam). E’ quindi un organo consultivo costituito per assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico primario alla esecuzione dell’opera pubblica, che rende pareri obbligatori nelle ipotesi di sospensione di cui all’art 5 e facoltativi in tutti gli altri casi. Pareri che, a seconda dei casi (808 ter cpc), possono essere vincolanti o meno per la definizione di una controversia tra stazione appaltante e operatore economico. In alcuni casi, cioè, decidono (significativamente in tali casi le disposizioni usano la locuzione “determinazione” e non “parere”); in altri suggeriscono la decisione. È dunque un organo consultivo necessario, che però non rende solo pareri, ma può anche assumere vere e proprie decisioni. Se ci si fermasse a questa sola considerazione, il cumulo di funzioni consultive e decisorie non rappresenterebbe una novità assoluta nel nostro Ordinamento, dal momento che il sistema dei ricorsi amministrativi e della giustizia amministrativa più complessivamente considerata già ammette e tollera l’ipotesi che un unico soggetto (a cominciare dal Consiglio di Stato) possa cumulare esercizio di funzione giurisdizionale e consultiva.
I veri elementi di novità o, se si preferisce, di rottura rispetto allo schema tipico dei ricorsi amministrativi, noti in ambito pubblico come adr, sono due.
Il primo è quello della necessaria partecipazione, come componente dell’organo decidente, dell’operatore economico, e cioè della parte privata direttamente interessata (rectius: di membri da questa nominati). La decisione, parere o determinazione che sia, non viene presa più unilateralmente dalla sola amministrazione. Rispetto al sistema dei ricorsi amministrativi, s’introduce l’elemento della consensualità, in luogo della unilateralità, nella decisione sul ricorso (o nella resa del parere).
L’altro elemento di novità o di rottura che si coglie, con riferimento alle forme di adr ritenute ammissibili in ambito pubblico, riguarda la possibilità d’impiego della forma dell’arbitrato irrituale. La rottura rispetto all’impiego tradizionale del modello arbitrale non risiede nel fatto che si introduce una forma di arbitrato obbligatorio, cosa che non avviene (è obbligatoria la costituzione del Collegio, non la decisione in forma arbitrale, che dipende pur sempre dalla concorde volontà delle parti); ma nel fatto che una norma di legge consente che, perlomeno nell’attuale contingenza storica, dispute o controversie con la PA possano essere decise anche a mezzo di un arbitrato irrituale. La previsione legislativa predetermina requisiti e modalità di scelta degli “arbitri” (art 6, comma 2) e delinea i tratti essenziali del procedimento (art. 6, comma 3), sottraendo entrambi i profili ad una assoluta libertà negoziale e superando con ciò le riserve più volte formulate dalla Corte di Cassazione e legittimando così l’ingresso della figura in ambito pubblicistico.
Dunque, un rimedio giustiziale sicuramente atipico in ambito pubblicistico per il fatto che la norma di legge consente che dispute e controversie vengano risolte di comune accordo anche in forma irrituale.
Rimossi i limiti di forma e procedura altrimenti ostativi all’ingresso dello strumento in ambito pubblicistico, nella migliore tradizione delle adr il legislatore si è poi preoccupato essenzialmente di garantire l’efficacia e l’effettiva utilità della nuova figura, senza preoccuparsi troppo di avere un modello unico di riferimento.
Ecco così che, a seconda dei casi, il CCT può emanare semplicemente pareri che si auspica le parti osservino convinti dalla particolare competenza dei membri del Collegio, oppure può emanare vere e proprie decisioni vincolanti per le parti (può cioè avere, secondo il linguaggio delle adr, sia carattere assistenziale, che aggiudicativo); ecco che i membri devono essere particolarmente competenti e qualificati, ma possono anche essere in qualche modo legati da un rapporto con la parte; ecco che il CCT sembra poter decidere secondo diritto o anche secondo equità o in via conciliativa, come lascerebbero intendere anche la sostanziale riproposizione della norma sulle spese processuali prevista per la mediazione civile dall’ art 13 d.lgs. 28/2010 e la previsione dell’onere della “scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte” che tende a svincolare la decisione dalla domanda delle parti; ecco che i pareri possono essere anche non vincolanti, ma in ogni caso condizionano fortemente il regime della responsabilità erariale; ecco che la stessa istituzione del CCT è di regola obbligatoria per gli appalti pari o sopra soglia, ma diventa facoltativa ante operam e per gli appalti sotto soglia.
Tutti elementi di un puzzle che, alla fine, presenta una nuova e atipica forma di adr, risultante dalla contaminazione del rimedio giustiziale amministrativo con gli elementi tipici privatistici del consenso e della irritualità delle forme.
5. Osservazioni conclusive: il Collegio consultivo tecnico di fronte all’alternativa tra l’essere una reale misura di semplificazione ed efficienza o un inutile aggravamento amministrativo.
Le norme non sono del tutto chiare e appaiono a tratti contraddittorie, ma le antinomie derivanti dalla lettera o dal senso logico delle espressioni impiegate possono e devono esser risolte seguendo il criterio interpretativo della finalità perseguita dal legislatore.
Il criterio teleologico rende evidente come la ratio normativa sia quella di estendere in ambito pubblicistico una forma atipica di adr, diversa dai ricorsi amministrativi e dall’arbitrato, in modo da avere uno strumento in grado di garantire “la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto” e di “favorire, nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, per non pregiudicare il raggiungimento degli obbiettivi individuati nel PNRR e nel NGEU.
L’istituto non viene pensato come misura deflattiva del contenzioso, finalizzata ad evitare l’aggravio dei carichi di lavoro dei tribunali ordinari e a rinverdire la stagione dei giudizi arbitrali per accertare maggiori compensi o risarcimenti all’operatore economico. Al contrario, l’istituto è pensato proprio per rendere l’esecuzione del contratto impermeabile e insensibile alla lite, per evitare cioè che si originino situazioni contenziose che possano ritardare o pregiudicare la realizzazione dell’opera pubblica PNRR o che, una volta ultimata, possano aumentarne il costo finale secundum eventum litis. Risulta quindi espressamente concepito come rimedio finalizzato ad assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera. La chiave di volta dell’operazione è tutta nella particolare competenza e qualificazione che viene richiesta ai membri del collegio. Questo deve infatti essere composto in maniera da assicurare al suo interno la presenza di tutte le professionalità necessarie per decidere qualsiasi disputa o controversia, senza possibilità di avvalersi di consulenze tecniche d’ufficio e deve prendere le proprie decisioni in termini strettissimi (15 – 20 giorni). E questo anche quando si chieda di pronunciare non un semplice parere, ma un vero e proprio lodo arbitrale.
Ai membri del collegio può essere quindi chiesto di pronunciarsi in un tempo nemmeno paragonabile a quello di un arbitrato o meno che mai di un giudizio ordinario e senza nemmeno la possibilità di avvalersi di consulenze specialistiche esterne per l’attività istruttoria. Ed è evidente che la scommessa può funzionare solo se si assicura un elevato standard qualitativo delle professionalità coinvolte.
Non sembra però che tutti i segnali vadano in tal senso.
Il recepimento delle linee guida, licenziate dal CSLP già a ottobre del 2021, è stato a lungo ritardato attendendo che la legge 29 12 2021 n. 233 (di conversione del dl 6 11 2021 n. 152 recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – PNRR e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose) modificasse l’art 6 del d.l. 76/2020 introducendo il comma 7 bis, che ha disposto che “ In ogni caso, i compensi dei componenti del collegio consultivo tecnico, determinati ai sensi del comma 7, non possono complessivamente superare:
a) in caso di collegio consultivo tecnico composto da tre componenti, l'importo corrispondente allo 0,5 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro; tale percentuale e' ridotta allo 0,25 per cento per la parte eccedente i 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro e allo 0,15 per cento per la parte eccedente i 100 milioni di euro;
b) in caso di collegio consultivo tecnico composto da cinque componenti, l'importo corrispondente allo 0,8 per cento del valore dell'appalto, per gli appalti di valore non superiore a 50 milioni di euro; tale percentuale e' ridotta allo 0,4 per cento per la parte eccedente i 50 milioni di euro e fino a 100 milioni di euro e allo 0,25 per cento per la parte eccedente i 100 milioni di euro”.
All’atto pratico, ciò ha implicato la riduzione di circa due terzi del compenso stimabile in base al testo originario delle linee guida, che avevano previsto e continuano a prevedere che il compenso debba essere composto da una parte fissa proporzionata al valore dell’opera e da una parte variabile in ragione della quantità e dell’attività concretamente svolta con il limite che il compenso complessivamente riconosciuto a ciascun componente non può comunque superare il triplo della parte fissa (cfr. par. 7.2. linee guida). Soprattutto, ha implicato il completo azzeramento del corrispettivo che dovrebbe esser dovuto per la parte variabile, che dovrebbe cioè dipendere dalla qualità e quantità delle prestazioni effettivamente rese dal collegio, dal momento che, nella generalità dei casi, il tetto così imposto implica che la sola parte fissa già consumi il massimo della somma disponibile. Il corrispettivo è stato così reso completamente indifferente rispetto alla durata dell’appalto e all’impegno concretamente richiesto per qualità e quantità delle prestazioni rese. A dispetto della chiara previsione recata dal comma 7 dell’art 6 del d.l. 76/2020 secondo la quale “i componenti del collegio consultivo tecnico hanno diritto a un compenso a carico delle parti e proporzionato al valore dell’opera, al numero, alla qualità e alla tempestività delle determinazioni assunte”. Disincentivare l’assunzione dell’impegno e delle responsabilità connesse all’esercizio della funzione non pare in linea con gli obbiettivi che ci si prefigge di raggiungere attraverso l’istituto.
Un secondo fattore di rischio per il raggiungimento dell’obbiettivo perseguito dal CCT può derivare da un approccio manifestamente superficiale all’istituto da parte della giurisprudenza, specie se questa si mostra non sufficientemente preparata e poco incline a confrontarsi con il carattere innovativo della figura come in precedenza delineato e ricostruito.
Già si è detto della (non necessaria e) distratta lettura delle norme primarie nel caso si debba procedere alla risoluzione del contratto “per qualsiasi motivo” da parte della Sezione Quinta del Consiglio di Stato (sent. 4650/2022). Ad essa si può aggiungere la mancata comprensione delle ragioni che hanno indotto le linee guida a dettare criteri restrittivi per la nomina dei presidenti dei CCT, manifestata dal TAR Lazio con l’ord.za 2585 del 19 aprile 2022, che ha censurato le linee guida nella parte in cui determinano “la impossibilità per gli avvocati del libero Foro di essere nominati Presidenti di istituendi Collegi”. La “esperienza e qualificazione professionale adeguata alla tipologia dell’opera” e la “comprovata esperienza nel settore degli appalti delle concessioni e degli investimenti pubblici” sono requisiti richiesti non dalle linee guida, ma dalla stessa fonte primaria (l’art 6 del d.l. 76/2020) che ne ha poi demandato la declinazione in concreto alle linee guida. La limitazione operata dalle linee guida, all’accesso alla funzione di presidente (non anche di componente) del CCT, non ha interessato solo la categoria professionale degli avvocati, ma tutte le categorie astrattamente abilitate dalla norma primaria: “ingegneri, architetti, giuristi ed economisti”. Per nessuna di tali professioni la semplice iscrizione all’albo consente di assumere l’incarico in seno ad un CCT e rimane pertanto difficile comprendere perché ciò possa essere invece essere consentito ad un avvocato che di fatto si è magari specializzato in diritto di famiglia o altra materia che poco o nulla abbia a che fare con la materia delle opere pubbliche. Questa e non altra sembrerebbe la conclusione raggiunta dal TAR “a seguito di approfondita riflessione (assumendo che) non risulta, prima facie, espressione di un corretto e ragionevole esercizio della discrezionalità riconosciuta … in relazione all’individuazione dei requisiti professionali del Presidente dell’anzidetto Collegio”, ritenendo irragionevole la mancata equiparazione della categoria degli avvocati del libero foro a quella dei “dirigenti di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato soggette all’applicazione del codice dei contratti pubblici” senza rendersi conto che per quest’ultima è assolutamente ragionevole presumere la richiesta esperienza nel settore degli appalti e delle concessioni regolate dal codice dei contratti pubblici. Insomma, non si può presiedere un CCT se non si ha specifica e comprovata esperienza professionale in materia di appalti pubblici, ma la pronuncia sembra essere di diverso avviso.
La normativa speciale per il P.N.R.R. ha dunque posto le premesse per introdurre nel nostro ordinamento un meccanismo di mediazione e conciliazione destinato ad operare in ambito pubblicistico, che avrebbe lo scopo di tutelare l’interesse specifico alla realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei tempi programmati, componendo sul nascere i conflitti tra operatore economico e stazione appaltante. Anche la legge delega per il nuovo codice dei contratti pubblici continua a muoversi su questa linea, dal momento che ha esplicitamente inserito tra i principi e criteri direttivi “l’estensione e il rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in fase di esecuzione del contratto”. L’estensione e il rafforzamento delle adrin materia di contratti pubblici passa dunque per l’esperienza del CCT, ma è evidente che se si vuole che l’istituto svolga efficacemente la sua missione bisogna crederci e valorizzarlo, e non disincentivarlo e banalizzarlo. Altrimenti è meglio lasciar perdere, perché si aumenterebbe soltanto la confusione già esistente e si aggraverebbero inutilmente le procedure.
Riferimenti bibliografici
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[i] Non si tratta di una novità assoluta. Dando attuazione alla legge delega del codice dei contratti pubblici (l. 28 gennaio 2016, n. 11), che all’art. 1, comma 1, lett. aaa) aveva previsto tra i principi e i criteri direttivi specifici la “razionalizzazione dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del contratto,…” l’istituto era stato già introdotto dall’art. 207 del codice dei contratti pubblici come istituto precontenzioso di carattere facoltativo “con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura…”.
Nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 21 marzo 2016, n. 855 sullo schema di decreto legislativo poi divenuto il d.lgs. n. 50/2016, il Consiglio di Stato aveva però sollevato più di un dubbio sulla figura, soprattutto in ragione della mancata definizione dei rapporti con gli altri rimedi precontenziosi già esistenti, e ne aveva proposto la soppressione.
Le osservazioni del Consiglio di Stato non erano state recepite dal Governo, ma l’istituto veniva soppresso dal successivo decreto correttivo (l’art. 207 del d.lgs. n. 50/2016 viene infatti abrogato dall’art. 121, comma 1, del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56).
L’istituto rinasce due anni dopo ad opera del decreto c.d. sblocca cantieri. L’art. 1, commi da 11 a 14, della l. 14 giugno 2019, n. 55, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, ne prevede la costituzione facoltativa su accordo delle parti, con le medesime funzioni di cui al codice dei contratti pubblici, ma in via temporanea, ossia fino alla data di entrata in vigore del regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice dei contratti pubblici, di cui all’art. 216, comma 27-octies, del codice.
Differentemente da quanto originariamente stabilito dall’art. 207, comma 6 del d lga 50/2016, il quale disponeva che “se le parti accettano la soluzione offerta dal collegio consultivo…l’accordo sottoscritto vale come transazione”, il decreto sblocca cantieri prevedeva che “L'eventuale accordo delle parti che accolga la proposta di soluzione indicata dal collegio consultivo non ha natura transattiva, salva diversa volontà delle parti stesse” (art. 1, comma 13, terzo periodo, del d.l. n. 32/2019).
Il decreto c.d. “semplificazioni” (d.l. 16 luglio 2020 n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120) ne ri-disciplina presupposti e funzioni, in via apparentemente soltanto temporanea e sperimentale (l’originario termine del 31 dicembre 2021 è stato prorogato fino al 30 giugno 2023)., negli articoli 5 e 6.
[ii] Sotto questo profilo, il riferimento è al recente intervento operato con il d.l. 7 luglio 2022, n. 85 (Disposizioni urgenti in materia di concessioni e infrastrutture autostradali e per l'accelerazione dei giudizi amministrativi relativi a opere o interventi finanziati con il Piano nazionale di ripresa e resilienza), il quale all’art. 3, rubricato “Accelerazione dei giudizi amministrativi in materia di PNRR”, detta le seguenti disposizioni:
“1. Al fine di consentire il rispetto dei termini previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), qualora risulti anche sulla base di quanto rappresentato dalle amministrazioni o dalle altre parti del giudizio che il ricorso ha ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR, in caso di accoglimento della istanza cautelare, il tribunale amministrativo regionale, con la medesima ordinanza, fissa la data di discussione del merito alla prima udienza successiva alla scadenza del termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza, disponendo altresi' il deposito dei documenti necessari e l'acquisizione delle eventuali altre prove occorrenti. In caso di rigetto dell'istanza cautelare da parte del tribunale amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato riformi l'ordinanza di primo grado, la pronuncia di appello e' trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell'udienza di merito. In tale ipotesi, si applica il primo periodo del presente comma e il termine di trenta giorni decorre dalla data di ricevimento dell'ordinanza da parte della segreteria del tribunale amministrativo regionale, che ne da' avviso alle parti. Nel caso in cui l'udienza di merito non si svolga entro i termini previsti dal presente comma, la misura cautelare perde efficacia, anche qualora sia diretta a determinare un nuovo esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione.
2. Nella decisione cautelare e nel provvedimento di fissazione dell'udienza di merito, il giudice motiva espressamente sulla compatibilita' della misura e della data dell'udienza con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.
3. Le pubbliche amministrazioni sono tenute a rappresentare che il ricorso ha ad oggetto una procedura amministrativa che riguarda interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR.
4. Sono parti necessarie dei giudizi disciplinati dal presente articolo le amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera l), del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 109, per le quali si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso gli uffici dell'Avvocatura dello Stato. Si applica l'articolo 49 del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
5. Ai procedimenti disciplinati dal presente articolo si applicano, in ogni caso, gli articoli 119, secondo comma, e 120, nono comma, del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
6. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche nei giudizi di appello, revocazione e opposizione di terzo.
7. All'articolo 48, comma 4, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 109:
a) dopo le parole «di cui al comma 1» sono aggiunte le seguenti: «e nei giudizi che riguardano le procedure di progettazione, autorizzazione, approvazione e realizzazione delle opere finanziate in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR e relative attivita' di espropriazione, occupazione e di asservimento, nonche' in qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR»;
b) dopo le parole «al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.» sono aggiunte le seguenti: «In sede di pronuncia del provvedimento cautelare si tiene conto della coerenza della misura adottata con la realizzazione degli obiettivi e il rispetto dei tempi di attuazione del PNRR.».
8. Nelle ipotesi in cui, prima della data di entrata in vigore del presente decreto, la misura cautelare sia gia' stata concessa, qualora il ricorso abbia ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi opere o interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR, l'udienza per la discussione del merito e' anticipata d'ufficio entro il termine del comma 1. In tale ipotesi si applicano le ulteriori disposizioni contenute nel presente articolo”.
[iii] Cfr. Corte cost. 13 giugno 2018 n. 123: “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le ipotesi di arbitrato previste dalla legge sono illegittime solo se hanno carattere obbligatorio, e cioè impongono alle parti il ricorso all’arbitrato, senza riconoscere il diritto di ciascuna parte di adire l’autorità giudiziaria ordinaria (sentenze n. 221 del 2005, n. 325 del 1998, n. 381 del 1997, n. 152 e n. 54 del 1996, n. 232, n. 206 e n. 49 del 1994, n. 488 del 1991, n. 127 del 1977). In particolare, con la sentenza n. 127 del 1977, che ha dato avvio al predetto orientamento, questa Corte ha affermato il principio secondo cui la “fonte” dell’arbitrato non può essere individuata in una legge ordinaria o in una volontà autoritativa, «perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, primo comma, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, primo comma”.
[iv] Ex multis v. Cass., Sez. III, 08 aprile 2020 n. 7759: “non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati per superare ogni possibile ostacolo all'utilizzabilità dell'arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione. Certamente non v'è alcuna incompatibilità di principio tra la natura pubblica del contraente e la possibilità di un componimento negoziale delle controversie nascenti dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione. Ma resta il fatto che tale componimento, se derivante da un arbitrato irrituale, verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali, appunto) individuati all'interno della medesima logica negoziale, in difetto qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta. Quei medesimi soggetti sarebbero destinati poi ad operare secondo modalità parimenti non predefinite e non corredate delle suindicate garanzie di pubblicità e trasparenza”.
[v] V. ante, sub note 3 e 4.
[vi] In realtà una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. V, 7 giugno 2022 n. 4650) avrebbe escluso la possibilità di rendere anche soltanto il parere in caso di risoluzione per grave inadempimento. L’affermazione, non necessaria ai fini della decisione e contenuta in un obiter, appare però fondarsi unicamente sull’assunto apodittico che << la interpretazione preferibile … induce ad escludere la fattispecie della risoluzione per grave inadempimento dell’appaltatore … malgrado l’inciso “per qualsiasi motivo”>>. Non è dato sapere quale ragione o percorso argomentativo porti a ritenere “preferibile” una interpretazione che priva di rilevanza la chiara volontà del legislatore di richiedere il parere “nel caso in cui la prosecuzione dei lavori, per qualsiasi motivo, … non possa procedere con il soggetto designato … (e)… la stazione appaltante, previo parere del collegio consultivo tecnico, …. dichiara senza indugio , in deroga alla procedura di cui all’art 108, commi 3 e 4 del d lgs 18 4 2016 n. 50, la risoluzione del contratto …” (art. 5, c. 4, d.l. 76/2020). Più che a fronte di un’interpretazione contra legem, sembrerebbe di essere in presenza di una pura e semplice opzione volitiva, che in realtà non attribuisce alcun significato, nè si sforza minimamente d’interpretare l’inciso “per qualsiasi motivo”; senza nemmeno accorgersi che la procedura di cui all’art. 5 c. 4 è dettata in deroga proprio a quella altrimenti vigente per procedere alla risoluzione del contratto per inadempimento.