IL TRADITORE
Nella Palermo degli anni ottanta, tra la pace apparente tra le famiglie mafiose di città e campagna e i progetti di nuovi e più lauti profitti derivanti dalla droga, riesplodono i contrasti interni a Cosa Nostra a tutto vantaggio del gruppo egemone e spietato dei corleonesi di Totò Riina.
Tommaso Buscetta, forte di un carisma personale ad onta del suo ruolo di semplice soldato nella gerarchia criminale, fugge in Brasile, scampando a morte certa. Tornerà presto in Sicilia estradato dalle prigioni sudamericane dove era finito da grosso narcotrafficante.
Nella fessura tra cronaca e storia Bellocchio colloca dunque il suo lavoro.
Arduo ed esigente, apparentemente condizionato dalla vincolante verità dei fatti, eppure in grado di astrarsene, forgiandosi in sequenze emotive non scontate e rifrazioni binarie continue e seducenti, responsabili di un’attenzione al dubbio piuttosto che al giudizio.
E così, la dissociazione di Buscetta dallo Stato e a sua volta da Cosa Nostra autorizza nel regista l’edificazione di un dualismo espressivo che non indulge a comprensione né cede a riprovazione o forse, nel rimbalzo tre le due, ne annulla la convergenza riportandola al ground zero dell’eterno contrasto eros/thanathos, argini di un conflitto interno del pentito, moltiplicato nel sociale, che in ogni parola, accento, silenzio o ruga Favino recita con magistrale padronanza di tutto.
L’alternanza sonno/veglia in don Masino, disseminata su tutto l’itinerario filmico con i suoi incubi virtuali e reali, sfuggendo al senso della chiaroveggenza e del timore onirico, riafferma la compresenza del conflitto, riproposto (mir)abilmente monco nell’ultima scena quando l’uomo ormai anziano ed infermo, delicatamente denudato dei simboli della guerra (l’arma tenuta al suo fianco), silenziosamente celebra la sua sopravvivenza (anche al giudice Falcone) concedendosi ad un sonno senza sogno.
L’intermezzo dello sciame di topi che giungono o fuggono, più semplicemente corrono, incastonato tra le scene di mafia e di giustizia, non cede alla banalità del facile paragone con gli uomini di Cosa Nostra ma a ben vedere eleva il suo senso nel dualismo steinbeckiano (“Uomini e Topi”) della convivenza tra l’orripilanza del minaccioso animaletto e la forza vincente dell’umanità; un doppio che proprio a Buscetta il film ancora una volta riporta, indirizzando lo spettatore sull’irrisolto dilemma del giusto e dell’ingiusto.
L’interrogativo duplica poi nuovamente il suo percorso filmico nella perfetta proiezione del duplice e parallelo tradimento, sapientemente rappresentato nel voluto accostamento tra l’infedeltà primaria del collaboratore rispetto ai dettami dell’organizzazione criminale e quella, altrettanto primaria, sleale e disgustosa, di Pippo Calò, mafioso di rango transitato con i corleonesi di Riina, reo agli occhi di don Masino di avere accarezzato, coccolato e protetto fin da bambini i suoi figli siciliani per poi ucciderli con spietata e simbolica precedenza e preferenza in quello tra i due più somigliante al padre.
Il confronto processuale Buscetta-Calò, sinonimo scenico anch’esso di un doppio che vince e convince, risolve la difficoltà della riproduzione conducendo il reale e leggendario capolavoro giudiziario ad una rara rappresentazione, non artefatta da toni retorici e/o artifizi filmici captativi di facile ed entusiastico tifo sportivo.
L’altezza della narrazione, intramezzata anche da spazi di sequenze vere e con qualche perdonabile concessione al tipo fiction, ma col concorso di un formidabile cast di interpreti di parole, occhi e gestualità - oltre Favino, Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno) e Fabrizio Ferracane (Pippo Calò) svettano in modo netto, Nicola Calì in assoluto silenzio incarna poi perfettamente lo sguardo nero, minaccioso e beffardo di Totò Riina - centra anche l’obiettivo di consegnare (finalmente) al pubblico una mafia senza onore né valore, gonfia di denaro, gravida di nefaste connivenze istituzionali, avvizzita nei suoi rituali beceri e volgari.
La firma di Nicola Piovani alle musiche del film, l’occasione di una splendida ed eterna Historia de un amor (replicata anche ne “La finestra di fronte” di Ozpetek) e alcuni noti passaggi del Va Pensiero di Giuseppe Verdi, mescolano scene e interpreti in un indistinguibile mix di armoniosa perfezione.