I viaggi missionari e le traversie giudiziarie di Paolo. Un pericoloso agitatore. “Civis romanus sum”
Rimanendo fedeli alla cronaca di Luca in Atti degli Apostoli, scopriamo che i primi guai di Paolo di Tarso con la giustizia iniziano nel corso del secondo viaggio missionario, che egli decide di compiere per far visita e rafforzare le comunità gesuane formatesi nell’area ricompresa tra la Cilicia, la Panfilia (regioni anatoliche collocabili nell’attuale Turchia meridionale), e l’isola di Cipro, durante la sua prima missione. Paolo, come di consueto assecondando una visione notturna, si spinge però ancora più a nord, in direzione della Troade (l’attuale penisola di Biga, sempre in Turchia), salpando da lì verso l’Ellade ed intraprendendo la predicazione in Macedonia, che era provincia romana.
A Filippi, principale città macedone, durante la predicazione, mentre è accompagnato dall’apostolo Sila, anch’egli romano, viene avvicinato da “una serva posseduta da uno spirito di divinazione” (Atti 16,16), che attraverso i suoi vaticini procurava un gran guadagno ai suoi padroni. La donna prende a seguirli per giorni, gridando alla gente che i due sono servi del signore venuti ad annunciare la via della salvezza. La cosa indispettisce non poco Paolo, che la sottopone a un esorcismo (pratica straordinariamente frequente nel Nuovo Testamento), per liberarla dal demone che la possedeva. L’accaduto suscita però la reazione dei padroni della posseduta, i quali – temendo la perdita economica – trascinano Paolo e Sila in piazza e li presentano prima ai capi della città (arcontes), poi ai magistrati (strategoi) accusandoli di predicare riti inaccettabili e non leciti ai romani. Indotti dall’insurrezione della folla, i magistrati ne ordinano la pubblica fustigazione dei due con verghe e la carcerazione.
Da un punto di vista giuridico la ricostruzione appare dotata di una certa verosimiglianza, essendo gli strategoi certamente identificabili con i pretori, una delle magistrature giudiziarie più prestigiose sin dall’età repubblicana. Durante il principato e più ancora nel basso impero le prerogative della carica si erano ridotte a meri ruoli di mantenimento dell’ordine pubblico e il numero dei pretori era stato gradualmente aumentato. Ma si trattava comunque di un ufficio che, sebbene oneroso (alle funzioni pubbliche era necessario provvedere con proprie risorse), era molto ambito in quanto poteva dare accesso al senato.
Nell’arrestare Paolo e Sila, i pretori di Filippi fanno uso della loro potestà di coercitio, un potere ampiamente discrezionale in cui rientravano sia la fustigazione (verberatio) che l’arresto (in vincula ducere), esercitato per reprimere fatti dannosi per l’ordine pubblico. Pur non trovando limiti giuridici chiari, l’applicazione di tali misure sanzionatorie nei confronti dei cittadini romani doveva comunque conseguire ad un pubblico dibattimento. Sul principio della pubblicità, e dell’approvazione del verdetto da parte di una assemblea popolare, basava anche la provocatio ad popolum, che consentiva ai cittadini di sottrarsi alla sanzione della pena capitale decisa da un magistrato, istituto definitivamente introdotto nell’ordinamento dalla Lex Valeria del 300 a.C.
Nel caso di Filippi tuttavia, l’intervento dei pretori si direbbe principalmente destinato a sedare un improvviso tumulto di folla individuando e catturandone i responsabili (e verosimilmente vergandoli sul posto), senza la formulazione di una vera e propria imputazione. Tanto più che i romani non erano soliti interferire in questioni di natura religiosa, come quelle che – in questo caso – sembravano essere state denunciate dalla popolazione pagana, secondo cui i due cristiani diffondevano riti illeciti.
Va detto oltretutto che Paolo in un primo momento tace la propria condizione di civis romanus, salvo rivendicarla il giorno successivo, quando già i pretori – forse convinti anche da un terremoto notturno e dalla conversione con battesimo del carceriere – ne avevano disposto la liberazione. Egli rifiuta di essere rilasciato di nascosto, denuncia il fatto che lui e Sila sono stati vergati ed incarcerati senza processo pur essendo romani, e pretende che i magistrati vengano a liberarli di persona. I pretori, informati dai littori, secondo quanto riporta da Luca “ebbero paura quando seppero che si trattava di cittadini romani”, e si precipitano a portargli le proprie scuse, pur chiedendo loro di allontanarsi dalla città.
L’episodio, oltre a mostrare il carattere coriaceo di Paolo, rende evidenti le straordinarie garanzie legate allo status di cittadino romano, ed il conseguente rispetto per l’individuo e la sua incolumità da parte delle autorità, anche nei punti più remoti dell’Impero. La Lex Iulia de vi publica, emanata nel 17 a.C., puniva infatti disciplinarmente i magistrati che adottavano sanzioni coercitive nei confronti di un romano non ancora giudicato. Viene però spontaneo chiedersi come si potesse dimostrare di essere romani. La questione non è risolta in modo definitivo. Il conseguimento della cittadinanza attraverso il servizio militare, per esempio, prevedeva il rilascio di un diploma in bronzo, che poteva essere esibito. C’è anche da rilevare come l’Impero potesse contare su un sistema anagrafico efficiente, fondato su frequenti censimenti. E spesso ai cittadini che si mettevano in viaggio attraverso altre aree territoriali era necessario ottenere il rilascio di un lasciapassare. Nel caso di Paolo, però, sembra che per dimostrare di essere cittadini romani, o quantomeno per istillare il dubbio nelle autorità, potesse essere sufficiente dichiararlo. L’ipotesi non è del tutto balzana, essendo altamente probabile che l’informazione fosse controllabile, con conseguenze nefaste in caso di una attestazione falsa.
Spostatisi a Tessalonica, Paolo e Sila vengono nuovamente presi di mira, stavolta dagli ebrei raccolti presso la sinagoga locale, che li trascinano davanti alle autorità cittadine (in quest’occasione Luca utilizza peraltro il termine “politarcas”), tentando di facilitarne il compito attraverso la chiara indicazione dell’ipotesi di reato: “essi agiscono contri i decreti di Cesare, dicendo che c’è un altro re, Gesù” (Atti, 17:7). Si rivela così la specifica fattispecie che poteva interessare le autorità romane portando i cristiani alla condanna. Si trattava evidentemente del reato di lesa maiestas, lo stesso che era stato contestato a Gesù di Nazareth, la cui imputazione era stata chiaramente trascritta nel cartello affisso alla croce. Nel caso di Cristo era lui stesso ad essersi autoproclamato re, in spregio all’autorità del Princeps romano, ma si trattava probabilmente di una fattispecie duttile, idonea ad essere utilizzata in tutti i casi di comportamenti che attentassero alla sacralità della persona dell’imperatore. Condotte che dovevano essere trattate con una certa indulgenza laddove si limitassero a questioni di natura ideologica o religiosa e non tracimassero in un incitamento alla ribellione, o comunque in un pericolo per l’ordine pubblico, come doveva essere invece avvenuto nel caso del nazareno.
È anche vero che il termine “politarcas”, utilizzato da Luca è difforme da quello di “strategoi”, con cui ci si riferiva ai pretori di Filippi, il che non contribuisce alla chiarezza. Il politarca era una magistratura tipica della Macedonia romana del primo secolo, il cui ruolo era assimilabile a quello del prefetto, cui non sarebbero ricollegabili poteri di natura giudiziaria. È possibile però ritenere che a Tessalonica Paolo e Sila – nonostante l’attenta formulazione da parte dei membri della sinagoga del reato che si assumeva integrato – non vengano neanche condotti dinanzi ad autorità romane. I due si salvano grazie al pagamento di una cauzione (più verosimilmente una ammenda), versata da Giasone, che a Tessalonica li ospitava, ottenendo sul posto l’immediato rilascio.
Paolo finisce nei guai poco dopo anche a Corinto, dove era rimasto un anno e mezzo a predicare nella sinagoga locale, con un discreto successo, culminato nella conversione di Crispo, definito in Atti “capo della sinagoga” (Atti 18,8). La comunità giudaica del posto però, probabilmente stanca delle interferenze, ritenendo favorevole il momento politico, lo conduce a forza al cospetto del nuovo proconsole della provincia di Acaia, Lucio Giunio Gallione, che era poi il fratello di Seneca. Gallione peraltro si disinteressa radicalmente della disputa (“Se si tratta di questioni intorno a parole, a nomi e alla vostra legge vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste cose”), allontanando i questuanti dal tribunale. Il racconto di Luca appare attendibile. L’ indubbia l’esistenza storica di Gallione, risultante da più fonti, consente di inquadrare cronologicamente l’evento nell’anno 51 o 52 d.C. Anche il fatto che Paolo sia stato portato al suo cospetto è perfettamente verosimile: il vastissimo imperium del proconsole, al quale spettava per un anno il governo delle province pacificate, comprendeva senz’altro un ampio potere giurisdizionale.
Ad Efeso il proselitismo di Paolo trova invece, ancora, la reazione dei pagani. Le conversioni avevano rovinato gli affari degli artigiani locali, che fabbricavano e vendevano oggetti sacri in onore della dea Diana, protettrice della città. Si era sollevato un tumulto contro i cristiani. Ma in questo caso Paolo, dopo aver rischiato il linciaggio assieme ai suoi compagni di viaggio macedoni, Alessandro, Gaio e Aristarco, viene salvato dall’intervento del cancelliere dell’assemblea cittadina (il grammateos), che riporta la folla alla calma ricordando il rischio delle rappresaglie delle autorità in caso di manifestazioni sediziose.
Ma tutto ciò è niente, a fronte di quanto gli capiterà di lì a poco a Gerusalemme.
Ultimo atto. Paolo a Gerusalemme.
Salpato dall’Ellade (Atti, 21), Paolo giunge a Tiro, in Libano, e da lì a Cesarea. Nonostante i numerosi tentativi di dissuaderlo da parte dei discepoli che incontra sul tragitto, sale a Gerusalemme, comincia immediatamente la predicazione in sinagoga. La reazione degli ebrei ortodossi non tarda a farsi sentire. Si continuava a ritenere inaccettabile l’allargamento ai pagani del messaggio cristiano, ma l’altra accusa – ben più grave – rivolta a Paolo, era quella (secondo Luca falsa) di avere consentito l’ingresso al Tempio di Trofimo di Efeso, un greco che faceva parte del suo seguito. La folla lo afferra e lo espelle dalla sinagoga chiudendone le porte. Mentre sta per avere inizio il linciaggio, viene avvisato del tumulto un tribuno della coorte (chiliarco), Claudio Lisia, il quale provvede al formale arresto di Paolo, e – resosi conto delle difficoltà di ricostruire un’accusa chiara – lo conduce nella fortezza. Lo scopo, secondo Luca, era quello di “interrogarlo a colpi di flagello” al fine di sapere quale motivo la folla gridava contro di lui.
La dinamica degli avvenimenti narrata da Luca ha un certo grado di verosimiglianza. Il tribunus cohortis, era uno degli ufficiali superiori dell’esercito romano, comandante della coorte urbana, ovvero dell’unità di polizia cittadina, e la fortezza di Gerusalemme (che era poi la Torre Antonia), dove anche Cristo fu condotto davanti a Pilato, era la sede della guarnigione romana e del procuratore, collocata sul lato nord del Tempio, a controllare la città.
Paolo viene legato con delle cinghie, ma proprio nel momento in cui la situazione sta volgendo al peggio, l’arrestato si rivolge al centurione che gli è accanto dicendogli: “Potete voi flagellare un cittadino romano non ancora giudicato?”, paralizzando la scena. Il centurione corre a riferire al tribuno la notizia. La circostanza semina quindi il terrore sia trai suoi carcerieri che nel tribuno, ed imprime una svolta notevole all’iter giudiziario, in quanto – stando a quel che ci dice Luca – da quel momento l’incolumità di Paolo verrà concretamente garantita dall’esercito. Claudio Lisia lo farà proteggere sia il giorno successivo, quando i saducei tenteranno di linciarlo durante una seduta al Sinedrio, dove era stato condotto dibattere le accuse che gli erano rivolte, sia due giorni dopo, quando Paolo stesso, venuto a sapere che i sacerdoti stavano organizzando il suo omicidio, manda il nipote a chiedere aiuto al tribuno che ne dispone infine l’immediata traduzione notturna, con una scorta di 500 militari, a Cesarea, sede del governatore Felice.
Si può chiaramente comprendere come Luca, che molto sembra porre l’accento sull’odio selvaggio montato trai sacerdoti nei confronti Paolo, stia implicitamente descrivendo il passaggio ad un'altra fase processuale, il che è anche evidenziato dal fatto che il prigioniero viene accompagnato da una lettera di Claudio Lisia al governatore, in cui il tribuno ha annotato brevemente gli avvenimenti e le ragioni dell’arresto di un cittadino romano. Cesarea sarà infatti la sede processuale dove il governatore, Marco Antonio Felice (effettivamente procuratore della Giudea dal 52 al 62 d.C.), darà inizio al dibattimento. Non senza avere citato in giudizio anche i suoi accusatori.
Ora, è evidente, e numerosi romanisti lo hanno spiegato, che non si possano trattare gli Atti degli Apostoli come un documento adatto ad una ricostruzione giuridica attendibile del processo di Gerusalemme a Paolo, essendo chiaro che l’intento dell’autore era radicalmente destinato a scopi apologetici e religiosi. Tuttavia nel racconto di Luca si può intravedere la struttura costitutiva di un processo penale davanti al governatore provinciale, nel primo secolo.
Si inizia cinque giorni dopo (Atti, 24), quando i detrattori di Paolo si presentano, il sommo sacerdote Anania in testa ed alcuni anziani al seguito, assieme a Tertullo, l’avvocato da loro ingaggiato per l’occasione. Di Tertullo non si sa nulla, se non quello che di lui è scritto in Atti. Si può però ipotizzare che fosse stato scelto perché romano, esperto in legis actiones: il profilo adatto a formalizzare l’accusa nei confronti di Paolo. La strategia di Tertullo nella sua requisitoria iniziale non si rivela però efficace. L’ipotesi criminosa prospettata non è infatti stavolta il reato di lesa maiestas, ma in sostanza quello di seditio. Tertullo pone cioè l’accento sul fatto che Paolo sarebbe in fomentatore di disordini trai giudei, e l’apostolo si difenderà affermando una assoluta carenza di prove, atteso il fatto che nel momento in cui era stato arrestato al Tempio “non c’era folla né tumulto”. L’accusa, continua Paolo, è stata mossa dagli anziani senza portare testimoni, ed è probabilmente una rappresaglia per la sua posizione sulla questione della resurrezione dei morti, cui i saducei non credevano. Il passo mette in chiara evidenza la natura ancora solidamente accusatoria della procedura criminale adottata in provincia nel I secolo, basata sull’accusatio privata, portata in questo caso dai rappresentanti del Sinedrio.
Il governatore Felice, che a quanto dice Paolo era ben addentro le questioni della setta gesuana, si limita a sottoporre Paolo ad una libertà vigilata (“ordinò che fosse custodito, lasciandogli una certa libertà”), di fatto evitando la decisione in punto di responsabilità. Una scelta – secondo Luca – imputabile al fatto che Felice voleva ottenere da Paolo del danaro per la tutela con cui lo avvantaggiava. Una ‘sospensione processuale’ che secondo quanto riportato in Atti, dura oltre due anni, fino all’insediamento del nuovo governatore Porcio Festo.
Porcio Festo, pressato dai sacerdoti perché si affretti a ricondurre Paolo da Cesarea a Gerusalemme per condannarlo, prende tempo, profilando a Paolo stesso la possibilità di essere giudicato a Gerusalemme. L’apostolo – ancora una volta straordinario avvocato di sé stesso – rifiuta decisamente, affermando che le accuse sono false e che comunque il processo, nel caso, dovrà proseguire dove si trova incardinato, ossia davanti al tribunale di Cesare. Paolo, teme però a quel punto che Festo abbia le mani legate, e che le cose stiano volgendo al peggio, e sceglie lo strumento dell’appellatio ad Cesarem, la cui straordinaria formulazione è riportata in Atti 25, 10-12, accolta da Festo con l’icastica formula: “Cesarem appellasti; ad Cesarem ibis”. La richiesta formalizzata da Paolo costringe Festo a farlo condurre a Roma.
Dopo un funestissimo viaggio navale di tre mesi, Paolo sbarca a Pozzuoli, e di lì si dirige a Roma, dove gli viene concesso di abitare dove vuole, sorvegliato da un soldato di guardia. Paolo non perde tempo ed instancabilmente, a soli tre giorni dall’arrivo, convoca i principali rappresentanti della comunità giudaica locale, presso i quali doveva comunque possedere prestigio, riprendendo così l’attività di predicazione.
Così si concludono gli Atti degli Apostoli, solo aggiungendo che Paolo trascorse due anni in quell’abitazione, “annunciando il regno di Dio senza impedimento” (Atti 28, 30-31). Nulla si dice di più sulla prosecuzione del processo, sebbene alcuni ipotizzino che il riferimento temporale riguardi un termine di comparizione oltre il quale l’accusa, se non coltivata a Roma dall’attore, decadeva, con conseguente proscioglimento della parte presente.
La notizia del successivo martirio di Paolo, si rinviene per la rima volta in una lettera di papa Clemente I risalente alla fine del primo secolo, ed è poi riferita 300 anni dopo da Eusebio di Cesarea, che la colloca nel periodo del regno di Nerone.