GREEN BOOK
Una recensione di Dino Petralia
L’alternanza degli opposti allerta l’attenzione e la converte nella sintesi della sfida.
Questo lo slogan che intesta il verde libro di un Farrelly al cospetto di una storia (vera) di poco e molto, di brutalità e delicatezza, di bianco e nero.
Tony Lip e Don Shirley, crudo buttafuori il primo, raffinato pianista di colore il secondo, per l’imponderabile della vita s’imbattono l’un l’altro in un limbo metropolitano di esigenze antitetiche ma convergenti: Tony, a corto di soldi e senza più lavoro, accetta malvolentieri il ruolo di autista tuttofare per il facoltoso musicista; questi, attratto dalla sfida per l’ideale libertario dei neri d’America, spinge il suo tour fino agli Stati meridionali intrisi di pregiudizio razziale e di rischi personali. La rudezza risolutrice di Lip soddisfa il bisogno di sicurezza del pianista; l’affidabile munificenza di Shirley risolve l’ansia di sopravvivenza familiare del neo autista. Inizia così, agli albori degli anni sessanta, un percorso al maschile di un “Thelma e Luise” trasfigurato nei volti e negli eventi ma allineato nell’analogo compito di liberazione esistenziale.
Un compito che illumina il tramite rendendolo gradevole e condivisibile agli occhi dello spettatore.
Un compito che, nel contrappunto di storie e stili umani dei due dialoganti, sfuma a sfondo nobile ma non per questo meno evidente, incorniciando il viaggio in un’armonia di ambiguità e contrasti destinati a risolversi nell’unisono umano di un pranzo di Natale dal sapore, però, un pò troppo favolistico e sdolcinato.
Ma l’uguaglianza tra bianco e nero inizia a consumarsi già prima dentro il percorso, con l’effetto di una comune catarsi dagli scrupoli dell’anima e del corpo, un’emenda dalle proiezioni pulsanti di un preconcetto razziale e culturale abilmente dipinto con la delicata ruvidità di Lip e l’insolente eleganza di Shirley.
Il tocco pittorico dei due profili li fa essere già predisposti all’armistizio sociale.
A ben vedere, infatti, Tony non avverte un razzismo culturale limitandosi a replicare l’uso di termini e simboli beceri (eloquente il cogliere con due dita i bicchieri di due operai di colore giunti a casa sua per delle riparazioni, gettandoli nell’immondizia); dalla sua il pianista di colore, intriso di manierismo borghese, disilluso sulla potenza di una tolleranza vincente che non riesce a superare, si affida al buttafuori per esaudire la sua sfida.
Gli opposti di colore, cultura, gusto e contegno tendono così ad una sintesi liberatoria che nelle sequenze filmiche transita per un continuo e grazioso interscambio tra autista e passeggero: il primo impone con successo al secondo un inedito (per lui) pollo fritto mangiato con le mani e lo converte al popolare sound di Little Richard fino a convincerlo a suonare un improbabile pianoforte in un localino di periferia, suscitando vibrazioni corali di assenso; il colto Shirley, a sua volta, addestra Tony a sottrarsi alla banalità dei suoi scritti alla moglie, introducendolo ad uno stile più vero del cuore, ma soprattutto emancipandolo dal solo rozzo linguaggio del corpo e avviandolo ad una lenta cosmesi di un’anima che c’è, primitiva e inabissata dal bisogno e tuttavia dolcemente levigata di un’umanità vincente.
Consumata così la conversione tra reciproche censure e contrattuali difese in una tenera e solidale comunanza umana tra Tony e Shirley, il progetto etico si compie accarezzando con la storica voce di Robert Plant un’ideale fusione cromatica del bianco e del nero, e pure dei verdi del book e delle luccicanti Cadillac, nelle mille tinte incolori dell’anima.