Tra la porta di Dio e le fiamme dell’Inferno galleggia l’infinito variabile di un’umanità brulicante di dritti e rovesci, di luce e buio, dove il contrasto non è contraddizione né ridondanza ma regola che quell’infinito sorregge e garantisce, riducendolo a normalità vivente, sostanza dell’essere.
Ed è in questo magma esistenziale che Audiard pesca il senso del suo prodotto, confezionandolo in forma di stupefacente paradosso: Manitas Del Monte, straricco narcotrafficante messicano si rivela intimamente donna e tale vuole diventare grazie al più bravo chirurgo del mondo, alla cui selezione e reclutamento incarica Rita Mora Castro, un’eccellente avvocatessa di Città del Messico che accetta il mandato in cambio di uno stratosferico compenso da valere come leva di un’emancipazione professionale ed economica dallo studio legale d’appartenenza, privo per lei di reali gratificazioni personali.
L’irrinunciabile desiderio per la propria vera identità tradita, sondato e apprezzato dal chirurgo prescelto a conferma della giustezza etica dell’intervento, marca di struggente intensità l’ammissione, espressa in quel mix di sussurrante imbarazzo e rauco pudore con cui Manitas confessa a Rita la propria aspirazione alla conversione di genere; un modus che al confronto con l’armonica e limpida voce sua, una volta risoltosi in Emilia, diventa già prologo sonoro di quella sagra dei contrasti della quale Audiard si serve per la (ri)affermazione della accattivante e variopinta discordia della vita. E anche i modelli stessi che quelle voci incarnano - Manitas, leader mondiale della droga e pluriassassino, da una parte; Emilia, appassionata redentrice dei desaparecidos uccisi dal suo stesso Cartello, dall’altra; ambedue dello stesso sangue e carne e interpretati entrambi da Karla Sofìa Gascòn - paiono destinati ad inscenare un’unità fatta però di due metà, un ibrido composto da quell’addenda di frammenti che la vita stessa, ibrida essa stessa e frammentaria, ci offre nell’illusione di un unicum esistenziale.
Conflitto etico che ritroviamo incarnato nella stessa Rita, che da legalista di professione muta nel suo opposto, una volta divenuta consapevole socia del narcos, fruitrice delle sue illecite ricchezze, partecipe dei suoi ingannevoli progetti e parte attiva di ogni azione e ribellione di Emilia, compreso il blitz armato volto alla liberazione dopo il suo rapimento. E ancora nella rappresentazione della formale unità d’intenti tra Emilia, Rita e il loro staff e il gruppo di maggiorenti messicani, interpreti di una borghesia opulenta e corrotta, interessata a promuovere e foraggiare per egoistico perbenismo d’apparenza l’impresa salvifica intrapresa dalla Perez. E una volta in più nell’attrazione corrente tra Emilia ed Epifanìa, madre di un figlio scomparso ad opera di Manitas; carnefice e vittima trascinate entrambe in un vortice amoroso a simboleggiare nei loro opposti l’affascinante paradosso esistenziale.
E pur nel rapporto tra bene e male e nel confronto di genere che Manitas/Emilia cumula nel suo ruolo ambivalente, non sembrano tuttavia traspirare dal film - se non ad una lettura di superfice - propositi moraleggianti o messaggi d’assenso in chiave LGBT; e quel monito declamato da Rita al chirurgo per convincerlo ad operare il cambio di sesso - «se il corpo cambia, cambia l’anima; se l’anima cambia, cambia la cultura; se la cultura cambia, cambia la società» - più che una convinta asserzione, un editto regolatore, ha il tenore vibrante di una domanda, che Audiard pone allo spettatore e alla quale egli stesso non sa offrire risposte che non siano intrise di precarietà e mutabilità. «Ascoltare significa accettare» avverte Manitas all’atto dell’impegnativo disvelamento d’identità fatto a Rita; e con lo stesso proclama, sinonimo non di certezza ma di accoglienza, il film ci invita ad accettare la multiforme complessità della vita.
Ogni sintesi di opposti lascia però dietro di sé tracce dei suoi poli. È un’addenda, si diceva, non una fusione con esito altro; e così, come se il corpo non tollerasse violenze, orme indelebili di Manitas residuano illese all’olfatto del figlio che, avvinto alla “zia Emilia”, con un fiato armonico sublimato dal pathos del momento, evoca come presente il suo papà, captandone l’odore di montagne, di caffe, di cibo piccante, di olio di motore, di coca cola light col limone, di ghiaccio e sudore, di sassolini roventi per il sole, di sigaro «…di quando ci hai abbracciato l’ultima volta», con l’effetto di resuscitare in Emilia quella ferocia mascolina che la porterà a vendicarsi del “tradimento” della moglie Jessi, svelandole l’avvenuta transizione di genere, e con Rita ad allestire un commando armato destinato alla sua liberazione.
Emilia Perez è anche un film musicale, dove musica e danza sono anch’esse esaltazione di un contrasto e di sintesi al tempo stesso, non certo per affievolire, ma nell’intento ben riuscito - e la splendida Zoe Saldàna nei panni di Rita Mora Castro ne è interprete abile e convincente - di rendere meno retorico e più poetico l’intero itinerario filmico.