Le parole pronunciate nel pomeriggio di ieri dalla Presidente del Consiglio sul manifesto di Ventotene non sono casuali. Si collocano nel solco di un preciso progetto di ripulitura semantica, di maquillage ideologico, di anestetizzazione storica. A prescindere da scivolamenti più o meno grossolani di singoli componenti dell’entourage meloniano in atteggiamenti nostalgici (e tralasciando, bien sûr, l’elettorato), il linguaggio ufficiale della Presidente del Consiglio è rigorosamente epurato da qualsiasi riferimento tanto al passato fascista che, da Salò al Movimento Sociale Italiano e Alleanza Nazionale, lambisce l’orlo delle vesti di Fratelli d’Italia, quanto alla matrice antifascista su cui, come roccia, poggia la Costituzione repubblicana.
Un atteggiamento apparentemente neutro dal punto di vista ideologico, perfettamente compendiato nel termine afascismo, coniato da Mussolini stesso, ripetutamente evocato, e recentemente ripreso proprio con riferimento al governo Meloni da Urbinati e Pedullà in un saggio del marzo 2024, intitolato Democrazia afascista. L’intento è semplice: celare dietro un’apparente neutralità ogni riferimento ad una ideologia difficilmente difendibile in contesti istituzionali; rendere meno visibili e quindi meno indigeste determinate implicazioni in senso autoritario del complessivo progetto riformatore del Governo, presentate come necessarie ai fini della governabilità e ciò a prescindere da chi governerà, così illudendo di salvare il gioco democratico. Ma anche: reclamando l’inattualità del fascismo, relegato espressamente a concetto obsoleto e storicamente superato, prendere fermamente le distanze dall’antifascismo, a sua volta declassato ad inutile orpello retorico, ridicolo quasi nella sua vuota insistenza.
E tuttavia l’equidistanza si rivela apparente. Sebbene la parola fascismo non sia mai pronunciata, l’attenzione per le nomenclature (a partire dai Ministeri), la retorica nazionalista (in sonoro contrasto col concetto di Stato, troppo spesso sostituito dal suo quasi sinonimo), la vocazione autoritaria ed accentratrice sono tratti caratterizzanti la semantica governativa. E dall’altro lato, accanto alla rivendicata impossibilità per ragioni squisitamente storiche di definirsi antifascista, spicca l’assenza di qualsiasi riferimento all’egualitarismo, alla solidarietà, ai principi della Prima così come della Seconda Parte della Costituzione. Del resto, dileggiare la matrice antifascista di quei principi vuol dire dileggiare essi stessi.
E il dileggio e la mistificazione hanno toccato oggi un picco grottesco appuntandosi sul Manifesto di Ventotene, e con lui sugli uomini e le donne che dal fondo più buio della Storia hanno saputo vedere, con la forza dell’intelletto e della passione civile, lo spiraglio attraverso il quale sarebbe poi effettivamente nato il nuovo giorno in cui oggi viviamo. La lettura di brani decontestualizzati del Manifesto intendeva presentare quelle idee come antidemocratiche. Alle orecchie di chiunque ricordi la storia, quelle parole hanno invece l’unica colpa di una vocazione bruciante per la libertà e di una lucidità spietata sulle difficoltà della sua riaffermazione sopra la prigionia.
Il Manifesto costruisce un lucido viaggio intellettuale intorno ai pericoli del nazionalismo imperialista come germe capace di arrestare il progresso portato dall’indipendenza nazionale, delle distorsioni culturali come capaci di trasformare i cittadini in sudditi, di istituzioni politiche incapaci di contenere il conflitto sociale e che quindi finiscono per risolverlo abolendo la libertà popolare, delle logiche economiche che si autoperpetuano, della falsificazione della storia nei suoi dati essenziali nell'interesse della classe governante. Il Manifesto propugna il valore permanente dello spirito critico affermatosi contro il dogmatismo autoritario, invoca la volontà di liberazione anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano come smarriti per il colpo ricevuto. E attraverso questa immensa ondata che lentamente si solleva, fatta di masse popolari e non di stati nazionali, il Manifesto affida alla guida di uomini realmente internazionalisti la costruzione di un paradigma nuovo: la federazione Europea, fatta di opere nuove e di uomini nuovi, lo stato internazionale il cui primo dovere sarebbe stato quello di riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Ecco il senso della rivoluzione europea in senso socialista da cui ieri la Presidente del Consiglio ha preso così fermamente le distanze.
E ancora il manifesto – in un passo ieri fortemente travisato – si propone di superare il socialismo utopistico volto alla collettivizzazione delle risorse ed all’abolizione della proprietà, definito principio puramente dottrinario, individuando l’autentico principio ispiratore del socialismo nell’idea per cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime”; ed ecco perché “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. Ne segue, in senso esplicativo, un programma lucidissimo: individuazione delle imprese ritenute strategiche e necessarie per la collettività, da ricondurre sotto il controllo statuale; necessaria redistribuzione delle ricchezze patrimoniali accumulate, allora identificata nella riforma agraria; uguaglianza sostanziale, declinata in modo commovente come necessità di dare ai giovani le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita: la scuola, ma anche la riduzione delle differenze salariali; la solidarietà sociale – precondizione per la libertà – e la necessità di assicurare a tutti le condizioni materiali per una vita dignitosa.
Altro passaggio oggetto di travisamento è quello sulla natura rivoluzionaria del momento costituente: il Manifesto riteneva l’ordinario funzionamento della democrazia come inidoneo a porre le basi istituzionali di un nuovo modello, e contiene una critica severa delle forze democratiche, comuniste, sindacali, di tutti quei corpi che tendevano a riprodurre, al loro interno, le condizioni del fallimento degli stati nazionali. Questa parte finale del Manifesto, relativa al partito rivoluzionario, è squisitamente programmatica e politica, e propugna la fedeltà assoluta agli ideali descritti e la necessità di portarli e farli vivere in tutte le sedi sociali, senza distinzione di classe, nella convinzione che soltanto attraverso un cambiamento culturale si sarebbero potute ottenere istituzioni veramente libere e costruire la nuova democrazia.
La storia ha dato ragione a buona parte delle idee condensate nel Manifesto, che non perdono di forza in ragione degli slanci utopistici ed emotivi, pur perfettamente leggibili nel contesto di riferimento. Questo testo, oggi, aiuta a comprendere quanto attuale ed urgente sia la necessità di una rinnovata riflessione sulle condizioni della convivenza civile, sul ruolo delle idee e della progettualità, sulla loro capacità di innescare processi di liberazione dalle tirannie, siano esse politiche, economiche, burocratiche.
Al tempo stesso, il Manifesto ammonisce: “Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati.
Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo.”.
Il brusio di indignazione levatosi ieri, nell’aula di Montecitorio, alla lettura dileggiante di stralci decontestualizzati del Manifesto, è stato un segnale confortante di veglia delle coscienze e delle memorie. Non si può altro che indignarsi, di fronte alla costruzione progressiva di un clima entro il quale, alla fine, alla grande massa sembrerà accettabile, o comunque normale, la rimozione e poi lo scardinamento del fondamento antifascista sul quale è nata la nostra comunità repubblicana. Dissacrare non è solo demistificare (nel senso positivo del processo), ma anche normalizzare l’inconcepibile, l’indicibile, addomesticare l’inaccettabile. È in atto un processo di mitridatizzazione dei cui singoli passaggi occorre tenere nota attentamente, per poter ricostruire il disegno complessivo. Ed intanto prendere parte al brusio di indignazione, sperando che sia udibile, e che si elevi, e che si estenda, ché se anche quello tacesse vorrebbe dire che la memoria si è perduta, e con lei l’intelletto.
Per leggere il "Manifesto di Ventotene", Progetto di un manifesto per un'Europa libera e unita, di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/file/repository/relazioni/libreria/novita/XVII/Per_unEuropa_libera_e_unita_Ventotene6.763_KB.pdf
Si vedano anche Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella risponde ad alcune domande di giovani partecipanti al 40° seminario per la formazione federalista europea in occasione dell’80° anniversario del Manifesto di Ventotene il 29 agosto 2021 e le interviste curate da Marco dell'Utri per Questa Rivista nell'estate 2020, Sul destino dell’Europa intervista di Marco Dell’Utri a Giuliano Amato, Massimo Cacciari, Virgilio Dastoli e Walter Veltroni e Sul destino dell’Europa - Parte seconda. Intervista di Marco Dell’Utri a Roberta De Monticelli, Donatella Di Cesare, Luisa Passerini e Marina Sereni.