CEDU e cultura giuridica italiana. 12) Carta dei diritti fondamentali UE e CEDU.
Intervista di Roberto Conti al Prof. Enzo Cannizzaro
Riprendiamo il filo delle interviste che Giustizia Insieme ha, prima della crisi pandemica, dedicato al ruolo della CEDU nell'ordinamento interno, ora approfondendo i nessi di collegamento, non sempre nitidi, con la Carta UE dei diritti fondamentali. L'argomento è di notevole importanza anche in relazione alle recenti prese di posizione della Corte Costituzionale sul ruolo della Carta UE nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e del giudice comune rispetto alle ipotesi di concorrente rilevanza della Costituzione. Le risposte del Prof. Cannizzaro indagano in modo profondo sulle disposizioni delle due Carte dei diritti sovranazionali ed offrono orizzonti di notevole profondità non soltanto dogmatico, individuando operativamente le prospettive che dovrebbero animare i giudici -comune e non - nell'opera di armonizzazione dei livelli di protezione dei diritti - che trovano concorrente protezione nelle tre Carte - e di individuazione dello standard più elevato di tutela. Emerge, così, una prospettiva dinamica che sembra nettamente valorizzare il piano dell'interpretazione per gestire quello delle fonti, nella quale l'opera del diritto vivente risulta tanto affascinante quanto impegnativa, evocando livelli di conoscenza e di approfondimento dei paradigmi normativi che chiamano, ancora una volta, gli operatori pratici del diritto a livelli di responsabilità e professionalità certamente elevati.
1) Qual è, a suo giudizio, il metodo che l’interprete deve adottare per individuare, all’interno della Carta UE, i diritti immediatamente precettivi e i principi, al fine di modularne l’efficacia nei rapporti verticali ed orizzontali?
Non è facile attribuire un contenuto normativo alla distinzione fra regole e principi nei termini indicati dall’art. 52, par. 5, della Carta. Tale disposizione, difatti, non indica alcun criterio che consenta all’interprete di operare tale distinzione.
La prima parte della disposizione indica che “(l)e disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze”. Questa frase dovrebbe valere, indistintamente, per tutte le disposizioni della Carta e non soltanto per quelle che contengano principi. Sarebbe ben strano che le norme della Carta che formulino regole possano essere attuate da atti delle Istituzioni e da quelli degli Stati membri al di fuori dall’ambito delle proprie competenze. Una considerazione analoga vale altresì per la seconda frase dell’art. 52, par. 5, la quale indica che i principi “possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”. Non si vede, francamente, a quale altro fine potrebbero essere invocate le disposizioni della Carta che costituiscono regole.
Dato che l’art. 52, par. 5, non fornisce alcun elemento per determinare la differenza fra regole e principi, è ragionevole ritenere che la qualificazione di una disposizione della Carta come regola ovvero come principio dovrà essere compiuta caso per caso, sulla base di una interpretazione delle singole disposizioni della Carta.
Ciò è quel che ha fatto la Corte di giustizia. Partendo dal presupposto che, rispetto alle regole, i principi dovrebbe avere, logicamente, una contenuto normativo “attenuato”, la Corte ha, in varie occasioni, identificato dei principi sulla base di una interpretazione casistica. In particolare, la Corte di giustizia ha teso a qualificare come principi quelle disposizioni della Carta il cui contenuto va identificato attraverso l’attività legislativa di esecuzione. Così, nella nota sentenza AMS (15 gennaio 2014, C‑176/12), la Corte, pur senza qualificare l’art. 27 della Carta come un principio, ha indicato che “(r)isulta dunque chiaramente dal tenore letterale dell’articolo 27 della Carta che tale articolo, per produrre pienamente i suoi effetti, deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale”.
Di converso, nella sentenza 6 novembre 2018, causa C-684/16, Max Planck, la Corte ha precisato che “(d)isponendo, in termini imperativi, che «[o]gni lavoratore» ha «diritto» a «ferie annuali retribuite», senza segnatamente rinviare in proposito – come fatto, ad esempio, dall’articolo 27 della Carta, che ha dato luogo alla sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale – ai «casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali», l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, riflette il principio essenziale del diritto sociale dell’Unione al quale non è possibile derogare se non nel rispetto delle rigorose condizioni di cui all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta …”.
Insomma, nel medesimo settore dei diritti sociali, la Corte sembra indicare che, al fine di determinare la natura di una disposizione della Carta, occorra guardare al grado della completezza dispositiva al fine di verificare se essa sia capace di incardinare un diritto fondamentale in capo ai singoli senza l’assistenza di norme di esecuzione, europee o nazionale.
Questa conclusione sembra evocare la notissima distinzione fra norme dell’Unione aventi effetti diretti e norme dell’Unione che ne sono invece prive. Questa distinzione, però, mal si attaglia al campo dei diritti fondamentali. Una norma europea non aventi effetti diretti, infatti, non può essere applicata dal giudice nazionale se non a fini interpretativi mentre, come si è detto, l’art. 52, par. 5, prevede che una disposizione della Carta che formuli un principio ben potrà essere utilizzata non solo come parametro di interpretazione, ma anche come parametro di validità del diritto dell’Unione e delle norme nazionali che ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Se così non fosse, infatti, si riproporrebbe, su base europea, la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, che venne spazzata via già dalla prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale
Ritengo, quindi, che la differenza fra regole e principi nell’ambito delle disposizioni della Carta vada compiuta sulla base di una analisi caso per caso, che tenga conto del contenuto della disposizione della Carta ma anche di altre disposizioni che potrebbero contribuire alla determinazione di tale contenuto. Nella citata sentenza Max Planck, difatti, la Corte ha ricostruire il contenuto del diritto alle ferie retribuite sulla base di atti internazionali vincolanti per l’Unione. Non è escluso che tale metodo non possa essere utilizzato anche per interpretare le disposizioni della Carta che prevedono una attività di integrazione e precisazione ad opera di norme derivate, europee o nazionali.
Ritengo altresì che la differenza fra regole e principi non attenga alle conseguenze giuridiche prodotte. Sia le regole che i principi, infatti, orientano l’interpretazione degli atti europei e di quelli nazionali che operano nella sfera del diritto dell’Unione e costituiscono parametro di validità per tali atti. La differenza dovrebbe invece consistere nella circostanza che i principi, a differenza delle regole, potranno essere precisati nel loro contenuto attraverso una attività interpretativa che consideri altre norme del sistema.
In ogni caso, sia le regole che i principi della Carta non possano essere applicate al di là dell’ambito di applicazione del diritto europeo. In particolare, una disposizione della Carta non potrà attribuire ad un atto europeo effetti che esso non possa di per sé produrre.
2) L’orientamento inaugurato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/2017 ed i successivi seguiti (Corte cost. nn.20/2019, 69/2019, 117/2019 e 182/2020) in che misura può determinare una diversità di tutela fra i diritti contemplati nella Carta UE e nella CEDU e, in caso di risposta positiva, presta il fianco a critiche?
Il sistema presupposto dal noto dictum formulato dalla Corte costituzionale nella sentenza 269/2017, era teso a risolvere il problema della doppia pregiudizialità attraverso un criterio di priorità: una legge confliggente, in ipotesi, sia con i diritti tutelati dalla Carta che con quelli garantiti dalla Costituzione avrebbe dovuto far preliminarmente oggetto di rinvio incidentale di costituzionalità. L’inevitabile conseguenza di tale regola sarebbe stato l’accentramento in capo alla Corte costituzionale del potere di disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione riferito a disposizioni della Carta.
Dal dictum della Corte, peraltro irragionevolmente sintetico, si può trarre una seconda regola, di carattere sostanziale, che si accompagna a tale criterio di priorità. Tale regola riguarda lo standard di tutela dei diritti: un problema centrale nell’attuale coesistenza di sistemi alternativi di tutela. La Corte ha precisato, infatti, che, nel considerare le disposizioni della Carta, ne avrebbe assicurato una interpretazione conforme rispetto alla Costituzione.
Ambedue le regole - quella procedurale sull’ordine di priorità e quella sostanziale sui parametri interpretativi e sugli standards di tutela - appaiono molto criticabili e ispirate a posizioni ideologiche piuttosto che a una equilibrata esigenza di cooperazione.
Innanzitutto, l’imposizione di un dovere in capo al giudice di disporre un rinvio incidentale di costituzionalità di una legge confliggente con una disposizione della Carta avrebbe privato il giudice nazionale simultaneamente di due prerogative delle quali esso dispone in virtù del diritto europeo: il potere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia e il potere, o fors’anche il dovere, di disapplicare la legge reputata in conflitto con una disposizione di diritto europeo dotata di effetti diretti.
Una tale privazione sarebbe stata ancor più penalizzante qualora la vicenda normativa all’attenzione del giudice nazionale avesse richiesto un rinvio pregiudiziale di validità ovvero un rinvio in parte di interpretazione e in parte di validità. Ciò sarebbe avvenuto, in tutta evidenza, qualora l’interpretazione di una norma della Carta fosse stata richiesta dal giudice nazionale al fine di determinare la validità di un atto europeo frapposto fra la Carta e la legge nazionale.
Lungi dal rappresentare una ipotesi teorica, questa appare, al contrario, la tipica vicenda giuridica che metta in essere l’interpretazione della Carta. È noto, infatti, che la Carta opera, ai sensi del suo art. 51, par. 1, rispetto ad atti dell’Unione nonché ad atti nazionali che ricadano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Or bene, la tipica situazione nella quale un atto legislativo nazionale ricade nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione è data da una legge nazionale adottata in attuazione di un atto dell’Unione. In tal caso, un giudice nazionale potrebbe disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione rispetto ad una norma della Carta proprio al fine di valutare la compatibilità con la Carta della sola legge nazionale, ovvero dell’atto europeo, ovvero di ambedue. In tali situazioni, che possono mettere in gioco sia l’interpretazione della Carta che la validità di un atto europeo, il giudice nazionale, pur se non di ultimo grado, avrebbe l’obbligo incondizionato di disporre il rinvio pregiudiziale.
Né appare convincente la seconda pretesa, di carattere sostanziale, che si rispecchia nella sentenza 269/2017: quella di modellare il contenuto dei diritti formulati dalla Carta secondo i canoni interpretativi e le esigenze proprie del proprio ordine costituzionale nazionale. Ciò, infatti, condizionerebbe in maniera impropria le politiche interpretative della Corte di giustizia. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la funzione del rinvio pregiudiziale è proprio quella di evitare il rischio di orientamenti interpretativi nazionali che frammenterebbe l’uniforme applicazione del diritto europeo. Una tale pretesa, se realizzata, avrebbe l’effetto di moltiplicare i conflitti fra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, per la quale sarebbe davvero inaccettabile una ricostruzione del contenuto dei diritti della Carta operata sistematicamente alla luce delle esigenze costituzionali di uno Stato membro. L’idea stessa di una armonizzazione europea dei diritti fondamentali e dei loro meccanismi di tutela verrebbe svuotata di ogni significato.
Né tale pretesa potrebbe costituire un contributo proveniente da una esperienza giuridica nazionale, a ricostruire il contenuto dei diritti fondamentali europei attraverso l’interpretazione delle disposizioni della Carta. Per assolvere a tale funzione, di carattere essenziale nelle dinamiche giurisprudenziali europee, occorrerebbe una disponibilità a mettere in gioco le proprie tradizioni giuridiche e accettare che esse vengano composte con quelle europee dall’unico organo abilitato a farlo, vale a dire la Corte di giustizia. Ma non è questo il motivo che ha ispirato la redazione del dictum della sentenza 269/2017. Al contrario, esso sembra proprio teso a rivendicare un monopolio interpretativo della Corte costituzionale nella ricostruzione dei diritti fondamentali europei in virtù della loro sovrapposizione con gli analoghi, ma non identici, diritti tutelati dalla Costituzione italiana.
Insomma, la soluzione adottata dalla sentenza 269/2017 non sembra coerente con l’esigenza di apertura dell’ordinamento costituzionale al processo di integrazione europea: una esigenza anch’essa tutelata dalla Costituzione e, addirittura, da uno dei suoi principi fondamentali, vale a dire l’art. 11 Cost. Sfortunatamente, tale norma sembra aver smarrito il proprio ruolo negli orientamenti interpretativi della Corte costituzionale negli ultimi anni (sia consentito rinviare, in proposito, al mio scritto I valori costituzionali oltre lo Stato, in Osservatorio delle fonti, 2018, n. 2).
3) Quando la Corte costituzionale afferma che occorre assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito (Corte cost.nn.269/2017, 20/2019, 112 e 117 del 2019) intende rivolgere tale indicazione metodologica anche al giudice comune nazionale e quali sono gli effetti derivanti dall’inosservanza di tale indicazione nel processo?
I richiami alla prassi interpretativa nazionale operati dalla Corte costituzionale al fine di ricostruire il contenuto dei diritti della Carta alla luce delle tradizioni costituzionali italiane sembrano proprio diretti ad imporre una interpretazione costituzionalmente orientata della della Carta da parte dei giudici nazionali.
L’idea che gli organi giudiziari nazionali possano contribuire alla ricostruzione del contenuto dei principi della Carta dei diritti fondamentali non appare né irragionevole né contraria al diritto europeo. Al contrario, tale contributo ben potrebbe aiutare a risolvere un evidente paradosso insito nel sistema europeo dei diritti fondamentali.
Tale paradosso deriva dalla difficile coesistenza di più sistemi concorrenti di diritti fondamentali, il cui concorso è disciplinato da una serie quanto mai incerta di criteri ordinatori. Il principale, ai fini del problema in esame, è quello relativo all’ambito di applicazione del diritto europeo. Come è noto, i diritti fondamentali europei operano solo nell’ambito di applicazione del diritto europeo, mentre i diritti nazionali, inclusi quelli di origine internazionale quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, operano in via residuale, vale a dire nell’ambito di situazioni puramente interne.
Tuttavia, questo criterio presenta lo svantaggio di provocare una sorta di discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali. Infatti, dato che la distinzione fra l’ambito delle situazioni regolate dal diritto europeo e quello relativo alle situazioni puramente nazionali ha carattere funzionale, ben può accadere che situazioni giuridiche materialmente identiche siano governate da diritti appartenenti a sistemi diversi. Né si tratta di una differenza puramente formale, dato che il contenuto dei diritti, come è noto, corrisponde, appunto, a prassi e a tradizioni interpretative proprie del sistema al quale appartengono.
Or bene, questa conseguenza potrebbe essere attenuata qualora il contenuto dei diritti provenienti dai vari sistemi concorrenti di tutela convergesse verso un contenuto più o meno uniforme. A tal fine occorrerebbe, evidentemente, che le prassi e tradizioni costituzionali proprie di ciascuno Stato membro, insieme al sottostante assetto di valori e interessi che le ispira, contribuissero alla definizione di uno standard uniforme di tutela dei diritti fondamentali, propri sia all’ordinamento europeo che a quelli dei suoi Stati membri. Si tratta, evidentemente di una prospettiva ben diversa rispetto alla astratta rivendicazione di un monopolio nella definizione dell’assetto assiologico del proprio ordinamento. Tale prospettiva comporta, infatti, un processo dinamico di definizione di tale standard uniforme, al quale sono chiamati a partecipare sia le Corti costituzionali nazionali, sia la Corte di giustizia, sia, infine, i giudici nazionali. Essi, infatti, costituiscono parte essenziale del complesso ordinamento giudiziario europeo e hanno la prerogativa di poter dialogare con la Corte di giustizia anche esprimendo posizioni difformi dalle rispettive Corti costituzionali.
In questa prospettiva concettuale, che sembra descrivere l’attuale sistema dei rapporti fra Costituzioni nazionali e Carta dei diritti fondamentali, la pretesa di una Corte costituzionale di dettare ai giudici comuni una linea di condotta orientata univocamente alla salvaguardia delle prassi e tradizioni interpretative nazionali appare irragionevole se non anche antistorica. La logica del rinvio pregiudiziale è proprio quella di consentire a qualsiasi giudice nazionale di prospettare alla Corte di giustizia gli elementi per la ricostruzione dei diritti fondamentali e, più in generale, del diritto europeo. Si tratta di un compito affidato ai giudici dai Trattati istitutivi, in particolare dall’art. 267 del TFUE. Un tale compito non viene meno rispetto all’inquadramento formale di tali giudici nell’ambito di un ordinamento nazionale, a meno di non alterare l’assetto dei principi strutturali sui quali si fonda l’ordinamento europeo.
4) L’uso che il giudice nazionale fa della Carta UE può considerarsi, a suo avviso, appagante? I sistemi di raccordo fra Carta UE e CEDU introdotti all’interno della Carta stessa consentono di individuare delle linee guida per il giudice nazionale chiamato a fare applicazione di un diritto contemplato dalla Carta che riproduce il contenuto di una disposizione della CEDU?
Sfortunatamente quando si passa dal piano dei ragionamenti per principi e si scende nell’analisi tecnica, ci si avvede della precarietà logica delle soluzioni adottate dalla Carta in tema di rapporti con le altre fonti dei diritti fondamentali, in particolare con la Convenzione europea. I rapporti fra gli standards di tutela derivanti dalla Carta e quelli derivanti dalla Convenzione europea sono, come è noto, regolati dal criterio della protezione più estesa. Sia la Carta che la convenzione prevedono, ambedue all’art. 53, che l’adozione di uno standard di tutela abbia un contenuto minimo e non pregiudica l’applicazione dello standard di tutela dei diritti fondamentali più alto assicurato dall’altro strumento di tutela.
Purtroppo, è più facile enunciare il criterio della protezione più estesa che applicarlo in pratica. A ciò concorrono due motivi. Il primo è di carattere sistematico; il secondo è piuttosto relativo alle caratteristiche diverse dei due cataloghi di diritti.
Il motivo di carattere sistematico, molto noto, è dato dalla circostanza che il contenuto e l’intensità della tutela di un diritto fondamentale sono necessariamente fondati su un bilanciamento fra le esigenze sottese a tale diritto e quelle relative ad altri diritti o interessi, di carattere individuale e collettivo. Ne consegue una evidente difficoltà di determinare lo standard di tutela più alto i diritti individuali, dato che l’innalzamento del livello di tutela di un diritto fondamentale potrebbe comportare una corrispondente riduzione di tutela per altri, soventi altrettanto fondamentali.
Vi è, però, un altro motivo, riconnesso alla profonda eterogeneità nella natura e nella funzione della Carta rispetto a alla Convenzione. Con stretto riferimento alla domanda posta, è sufficiente ricordare che la Carta intende armonizzare i diritti fondamentali operanti nell’ordinamento europeo al fine di evitare che una frammentazione su base nazionale dello standard di tutela possa pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto europeo. Or bene, ciò è quel che potrebbe accadere se si applicasse, nei rapporti fra Carta e Convenzione, il principio della protezione più estesa. In forza di tale principio, infatti, un giudice nazionale, tenuto ad applicare lo standard di tutela di un diritto - in ipotesi più elevato - assicurato dalla Convenzione, sarebbe legittimato a disapplicare una norma europea incompatibile con tale livello di tutela ma compatibile con il livello di tutela, in ipotesi meno elevato, assicurato dalla Carta.
Questo esempio chiarisce, a mio avviso, le grandi difficoltà tecniche nel delineare un equilibrato rapporto fra gli strumenti di tutela apprestati rispettivamente, dalla Carta, dalla Convenzione europea e dalle Costituzioni nazionali.
La mia opinione è che tali difficoltà, difficilmente superabili sul piano tecnico, potrebbero ridursi grandemente attraverso il circolo virtuoso che ho delineato nella risposta alla precedente questione. Tale circolo è composto, idealmente, da due fasi. La prima è la fase nella quale gli organi giudiziari determinano il livello di tutela di un diritto fondamentale attraverso un processo di bilanciamento degli interessi e valori confliggenti, sulla base delle prassi e tradizioni interpretative di ciascuno dei sistemi concorrenti: la Carta, la Convenzione, gli ordinamenti nazionali. La seconda fase è quella nella quale gli attori percepiscono, anche attraverso conflitti laceranti, l’esigenza di armonizzazione del contenuto e dell’intensità della tutela dei diritti fondamentali come un valore prevalente rispetto all’esigenza di realizzare integralmente le esigenze del proprio sistema di tutela. La determinazione di tale standard uniforme consegue, quindi, alla rinuncia di ciascuno degli attori in gioco a risolvere i conflitti sulla base di criteri formali, quale l’ordine gerarchico di un giudice, ovvero la sua pretesa di esprimere l’identità nazionale o addirittura la sovranità assiologica del proprio ordinamento di appartenenza.