Pasolini e il diritto di scandalizzare l’uomo medio
di Maurizio Di Masi
Sommario: 1. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di rottura… - 2. e un bersaglio politico del suo tempo (il processo a “La ricotta”) - 3. Su diritto e violenza, oggi - 4. Approcciarsi al diritto oltre la prospettiva dell’uomo medio.
1. Pier Paolo Pasolini, un intellettuale di rottura…
Ringrazio la Redazione di Giustizia Insieme per l’opportunità di riprendere e sviluppare alcune riflessioni elaborate in occasione del Convegno svoltosi a Perugia dal 15 al 18 luglio 2015 “Visioni del giuridico. Rileggendo Pasolini: il diritto dopo la scomparsa delle lucciole”[1].
L’incipit del breve ragionamento che qui si intende fare è dato da un noto saggio di Stefano Rodotà “Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini”, ripubblicato in appendice a “La vita e le regole. Tra diritto e non diritto”, ove si ricorda magistralmente come, nella sua attività di scrittore e regista, Pier Paolo Pasolini abbia dovuto più volte confrontarsi con il sistema giudiziario italiano e sia stato chiamato a difendere in tribunale quasi tutta la propria produzione artistica, oltre che il proprio stile di vita[2]. Tanto che non si esagera se si afferma che Pasolini è stato l’intellettuale più processato di tutta l’Italia repubblicana: nonostante questo, egli in giudizio non si è mai comportato da vittima o da perseguitato, ma ha sempre rivendicato con orgoglio il diritto dell’artista a scandalizzare il proprio pubblico, facendo coincidere questo diritto con la funzione civile dell’intellettuale nelle società democratiche tardo-capitalistiche.
D’altra parte ciò che caratterizza Pasolini rispetto a tutti gli altri artisti e intellettuali del suo tempo, ciò che fa di lui un Autore di rottura con il paradigma di letteratura mainstream negli anni ’60 e ’70 del Novecento, è proprio il fatto che la sua opera è segnata da una radicale impurità estetica[3]. Impurità estetica che ben emerge nella commistione, in tutta la sua produzione artistica, fra vita privata e opera, tanto che l’intero lavoro intellettuale di Pasolini può essere considerato «come una grande performance, in cui l’oggetto estetico è meno importante della presenza o dell’azione dell’artista. Impossibile leggerla come un testo autosufficiente, senza un riferimento alla persona dell’autore»[4].
L’intellettuale, secondo Pasolini, deve dunque avere un ruolo (anche politico) attivo, performativo della realtà, e non cullarsi nella roccaforte della convenzionalità delle istituzioni e dell’industria culturale; l’artista, agendo in prima persona sul mondo reale, deve opporsi alle tendenze che Pasolini vedeva svilupparsi intorno a lui e che stavano portando allo svuotamento di potere degli schieramenti politico-ideologici classici dell’Italia del dopoguerra, con conseguente affermazione di un nuovo potere fascista in seno alle società neocapitalistiche[5].
La funzione civile dell’intellettuale viene ben tratteggiata dallo stesso Autore nel discorso scritto, e mai pronunciato a causa della morte, per il 36° Congresso del Partito Radicale del novembre 1975[6]. In questo testo infatti, Pasolini, dopo aver ritenuto «adorabili le persone che non sanno di avere dei diritti» e quelle che «pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano», e dopo aver definito, invece, «abbastanza simpatiche […] quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli)», riconosce espressamente il ruolo degli «intellettuali impegnati», i quali:
«considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati».
Accanto agli intellettuali impegnati, per aggiunta, Pasolini – in considerazione del contesto – plaude i più estremisti di questi intellettuali, coloro cioè che
«si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi (…)».
Tanto che l’invito per i Radicali è quello di
«continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare».
Ebbene, lo stretto legame fra opera e Autore, fra impegno intelletuale e politico[7], spiega il perché ad essere messi sotto processo sono stati, ogni volta, tanto la produzione artistica di Pasolini quanto la sua personalità scandalosa, il suo stile di vita, attraverso quello che è stato ben spiegato da Barbara Castaldo come «un singolare meccanismo di interscambiabilità che rivela uno dei punti chiave dei processi: laddove era imputata l’arte, veniva coinvolta la realtà privata dell’artista per fornire ulteriori prove d’appoggio all’accusa o alla difesa; quando invece era la vita privata a essere sotto indagine, inevitabilmente se ne cercavano indizi nella produzione artistica dell’autore»[8].
2. e un bersaglio politico del suo tempo (il processo a “La ricotta”)
L’esperienza giudiziaria di Pasolini, in un’altra prospettiva, mostra in maniera nitida il dark side del diritto, dal momento che per oltre un trentennio, nei vari processi che lo hanno coinvolto più o meno direttamente, lo strumento processuale è stato usato come vera e propria arma politica per censurare e reprimere una voce dissenziente, per tentare di omologare una identità molesta e difforme da quanto il pensiero dominante a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del Novecento era disposto a tollerare. Siamo, d’altra parte, nella fase di quello che è stato definito il “disgelo costituzionale”, quando cioè i principi e i valori espressi nella Costituzione repubblicana comincino assai lentamente a diffondersi nella società civile[9].
Come ha scritto nitidamente Stefano Rodotà, le prese di posizione contro Pasolini rappresentavano indubbiamente uno degli strumenti di cui si sono serviti quanti cercavano e creavano pretesti, occasioni, simboli per contrastare le novità che stavano faticosamente emergendo nella società italiana. E le aggressioni all’intellettuale hanno seguito due strade:
«quella della violenza fisica, firmata in modo addirittura ostentato dai gruppi fascisti; e quella della violenza giudiziaria, che non a caso vede protagoniste le due istituzioni più rappresentative della faccia autoritaria dello Stato, la magistratura e la polizia. Pasolini si rileva, dunque, un bersaglio politico»[10].
Si consideri il processo al film “La ricotta”, sequestrato per vilipendio alla religione di Stato[11]. Il capo d’imputazione nei confronti di Pasolini, invero, era volto a imputargli il reato di cui all’art. 402 c.p. (reato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale solo nel 2000[12]):
«per avere, nella sua qualità di soggettista e regista dell’episodio “La ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”, pubblicamente vilipeso la religione dello stato, rappresentando con il pretesto di descrivere una ripresa cinematografica, alcune scene della Passione di Cristo, dileggiandone la figura e i valori con il commento musicale, la mimica, il dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica».
Più di altri, il processo a “La ricotta” è emblematico sia della concezione pasoliniana del ruolo dell’intellettuale nelle società democratiche e pluraliste, sia dei limiti del diritto positivo e della propria incapacità di “reggere” giuridicamente l’eccesso nell’uso della parola scritta (e dell’immagine filmica) all’interno di una griglia concettuale pensata per il “buon padre di famiglia” (locuzione tipica delle codificazioni moderne, traduzione giuridica dell’uomo medio). Nel processo di primo grado, non a caso, il Pubblico Ministero chiede espressamente ai giudici di scegliere fra sè, che rappresenta il comune sentimento (l’uomo medio, verrebbe da dire), e Pasolini, che rappresenta il nemico del senso comune.
Significativo quanto si legge nella sentenza di condanna di primo grado:
«[è] un fatto che il cinema è stato il mezzo scelto da Pasolini per manifestare il proprio pensiero, per diffondere le proprie istanze e tutti sanno che il cinema è un mezzo efficacissimo di comunicazione di massa.
Ora, con la sua opera, Pasolini non si rivolge soltanto ad una élite di intellettuali, perché, nella loro sufficienza, traggono da essa motivo per disquisire e sofisticare su cose e sentimenti sacri, di cui magari, nella loro evoluta incredulità, hanno maturato il superamento. E neppure l’opera di Pasolini è destinata soltanto alla meditazione di chi, con la propria cultura e la propria educazione religiosa, non si sente affatto scalfito nella sua fede ragionata, dalla grossolana aggressione ai propri sentimenti religiosi.
L’opera di Pasolini è destinata a tutti e cioè anche alla massa compatta del popolo italiano, ancora sana e gelosa del proprio patrimonio spirituale, ma appunto per questo meno difesa e più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura ed abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza.
Di qui la indiscussa idoneità della pellicola a offendere, mediante il vilipendio della religione, quel patrimonio».
Pasolini viene condannato a 4 mesi con condizionale, mentre la Corte d’Appello di Roma lo assolve perché il fatto non costituisce reato, dal momento che – aderendo alla difesa di Pasolini – il film riproduce le irriverenze e le sconcezze della troupe e costituisce perciò «una rappresentazione di vita contemporanea», che descriveva «la primitiva rozzezza e il grossolano umorismo della plebe»[13].
Ma la sentenza d’appello viene impugnata dal procuratore generale Battiati, il quale torna a sostenere che lo scopo del film sia di vilipendere la religione cattolica: la sentenza del 24 febbraio 1967 la Cassazione ha accolto le ragioni del procuratore generale. La Terza sezione penale ha perciò annullato la sentenza d’assoluzione «per erronea applicazione della legge» e «per vizio di motivazione», ritenendo che «l’istanza sociale a carattere protestatario perseguita dal regista non esclude affatto il fine di vilipendere la religione».
Alla sentenza della Cassazione non è seguito, però, il rinvio alla Corte d’Appello, giacché nel frattempo è intervenuta l’amnistia, che ha estinto il reato[14].
Dagli atti di questo processo emerge in sintesi lo scenario di un Paese, l’Italia degli anni ‘60, che si declama con compiacimento democratico, ma che operativamente dimostra di affondare le proprie radici su di una cultura civile e giuridica ancora troppo legata a vecchi paradigmi conservatori – se non addirittura reazionari – e che soltanto a parole, per l’appunto, si è lasciata dietro la propria esperienza patriarcale e fascista.
3. Su diritto e violenza, oggi
In un bell’articolo scritto da Wu Ming 1[15] sono citate alcune interessanti dichiarazioni di Pasolini:
«Appena avrò un po’ di tempo pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…».
Che la forza dell’apparato statale si metta in moto per reprimere voci ritenute scomode, anormali o scandalose non è, invero, esperienza che l’ordinamento giuridico si è davvero lasciato alle spalle, se pensiamo – ad esempio – al violento dibattito pubblico e parlamentare che vi è stato attorno alla legge Cirinnà sulle Unioni civili omosessuali[16] o, per rimanere in tema di identità non eterosessuali, alle violenza istituzionale rispetto al dibattito – ancora una volta pubblico e parlamentare – sul più recente d.d.l. Zan e l’identità di genere[17]. Violenza simbolica, certo, ma che finisce per legittimare culturalmente e socialmente la violenza fattuale, agita, a cui diverse minoranze sono quotidianamente soggette.
Violenza che spesso diventa istituzionale e che, purtroppo, in alcuni interventi delle forze dell’ordine diventa ancor oggi difficilmente giustificabile in un contesto pluralistico e democratico[18].
Si pensi, ad esempio, alle stravaganti iniziative di alcune Questure italiane rispetto a pacifiche contromanifestazioni organizzate in tutta Italia da associazioni LGBTQIA+ italiane contro le c.d. “Sentinelle in piedi”, movimento mobilitatosi contro il d.d.l. Scalfarotto volto – come il d.d.l. Zan – ad estendere la legge Mancino-Reale sulle discriminazioni etniche, razziali e religiose anche ad atti motivati da omo-transfobia.
Emblematico, in particolare, quanto accaduto a Perugia, nel non troppo lontano 2014: un singolare episodio che ha visto coinvolti attivisti omosessuali, imputati ex artt. 110 e 659 c. p. (Disturbo alla quieta pubblica) per essersi, tra l’altro, baciati in pubblico fra le “Sentinelle in piedi”.
Lo “scandalo” procurato da tale gesto, innocuo ma nelle nostre strade ritenuto (ancora!?) non convenzionale[19], emerge chiaramente dal verbale della Questura, ove la Digos, descrivendo l’azione di uno degli imputati, esponente dell’associazione Omphalos LGBTI, così letteralmente scrive:
«[...] avvicinandosi ad altro individuo di sesso maschile si esibiva in un prolungato e concupiscente bacio sulla bocca con lo stesso nel bel mezzo di Corso Vannucci ed in presenza di numerose famiglie con bambini e ragazzi molti dei quali minorenni che in quel momento affollavano il centro cittadino lasciando i passanti disgustati da tale dimostrazione [...]».
Senza contare, poi, che altri contromanifestanti, appartenenti anche al collettivo “Bella Queer”, «si sono mascherati con dei “boa di struzzo”» viola e hanno disturbato la manifestazione con rumori consistenti nel gridare slogan e cori a suon di un tamburello di grosse dimensioni...
Al di là della facile ironia che il verbale della Questura perugina può (e dovrebbe!) suscitare a chi ha un minimo a cuore se non la libertà di manifestazione di pensiero almeno il buon senso, e che ci restituisce davvero, ad opera della Digos, l’idea di un “buon costume” degli anni ’40 del Novecento, mi preme qui sottolineare come il confine fra diritto e violenza si fa, tanto nei processi a Pasolini quanto nel caso considerato, assai labile, entra in una zona di indifferenza.
La violenza istituzionale, non senza scomode contraddizioni, era come noto emersa altresì nel processo a Pino Pelosi per l’omicidio Pasolini[20], che in certo qual modo ci racconda di una Magistratura che aveva ricostruito (e liquidato) l’accaduto con gli occhi del buon padre di famiglia, dell’uomo medio che considerava normali omosessuali uccisi e ragazzi di borgata assassini[21].
D’altra parte la differenza fra diritto e violenza, ricordando Eligio Resta, è anche il loro confine, a volte certo, altre volte sfumato[22]. Ciò che caratterizza il diritto – che è pur esso forza e violenza, sia pure “regolata, statuita, limitata” – è precisamente la sua differenza dalla violenza che esso intende regolare, scongiurare e mettere al bando: una differenza che lo stesso diritto – performativamente – istituisce, ma che rimane esposta al rischio della sua negazione, cioè dell’in-differenziazione rispetto alla stessa violenza illegittima. E ciò perchè tale differenza non si dà mai una volta per tutte e non ha nulla di essenziale, ma muta nel tempo con la società e richiede alla scienza giuridica e agli operatori del diritto di mantenere un carattere omeostatico rispetto ai mutamenti socio-culturali.
Quanto, invece, alla differenza fra ieri e oggi, mi pare importante sottolineare come essa sia data da un approccio (se non sempre meno personalistico almeno) più democratico della Magistratura[23], oggi maggiormente disposta a tutelare il cittadino valorizzandone le diversità e i diritti fondamentali, sinanche dall’inopportuno esercizio della violenza che talvolta viene ancor fatto dalle forze dell’ordine, o – e sempre più spesso – dall’inattività del Parlamento.
Sebbene possa sembrare superfluo raccontarlo, la storia giudiziaria ha un lieto fine: gli attivisti e le attiviste LGBTIAQ+ di Perugia sono stati assolti, chi in primo grado (come l’attivista di Omphalos del bacio “concupiscente”, perché il fatto non sussiste) chi in secondo grado[24], con costi emotivi inestimabili e un processo che avrebbe potuto non ingolfare la già farraginosa macchina della giustizia italiana…
4. Approcciarsi al diritto oltre la prospettiva dell’uomo medio
Come ci ricorda sempre Stefano Rodotà, spetta a Pier Paolo Pasolini il merito di aver costretto i giudici a spostare ogni volta più in là le frontiere del “buon costume”, che rispecchiava il pudore del “buon padre di famiglia”, in maniera maggiormente rispettosa delle ansie e delle istanze di libertà dell’Italia degli anni ’70[25].
Discostandosi dal senso comune costruito dall’ideologia borghese liberale, accogliendo la lezione gramsciana[26], Pasolini va anche oltre la ricerca del buon senso per disfare le posizioni conformiste. Scandalizzare, per il poeta di Casarsa, è un modo efficace per opporsi alla “mutazione antropologica”[27], per mettere in discussione la realtà conformata dall’uomo medio, dietro cui si nasconde – per usare le celebri parole di Orson Welles nel film “La ricotta” – «un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista».
Attraverso le sue opere Pasolini sembra profanare[28] lo status quo edificato dal fascismo, prima, e dalla Democrazia cristiana e dal consumismo, poi, per restituire a ciascuno una umanità e una dignità che non si prestano (o, meglio, non dovrebbero prestarsi) ad essere ingabbiate, da un sistema fondato sul consumismo, in schemi convenzionali, in rigide regole predefinite e omologanti.
Monito attuale ancora oggi per chi si approccia allo studio del diritto, dispositivo omologante per antonomasia, che, se non usato cum grano salis, rischia – come visto – di non essere troppo differente dalla stessa violenza che esso pretende di regolare[29]. Tanto che, in questa prospettiva, si è anche paragonato metaforicamente il diritto al φάρμακον: il farmaco, invero, è al tempo stesso veleno e antidoto, malattia e cura, idoneo a funzionare come rimedio proprio in virtù della sua natura duttile rispetto al male da curare[30].
L’invito per il giurista e gli operatori del diritto e delle forze dell’ordine, che la Magistratura di oggi ha certo fatto proprio, è quello ad adottare un approccio critico e rispettoso delle singole dignità personali, al di là del senso comune e dei pregiudizi. Ciò per garantire quello sviluppo della persona (Artt. 2 e 3² Cost.) che costituisce la cifra di un sistema giuridico realmente democratico e pluralista.
Detto altrimenti, è l’utilizzo che vien fatto del diritto che può portare a storture ed aberrazioni, per evitare le quali occorre pensare un altro modo di approcciarsi al, di “fare” diritto, proprio come Pasolini, rompendo paradigmi ben consolidati, ha consacrato la sua vita ad un altro modo di “fare” arte.
Rivendicando, sino alla fine, il diritto dell’intellettuale di scandalizzare il conformista, l’uomo medio, il moralista[31].
[1] In parte confluite in F. Bettini, M. Di Masi, Pier Paolo Pasolini, i processi e l’orgoglio dello scandalo, in E. Contu, A. Guerrieri, G. Romano, Rileggendo Pasolini. Il diritto dopo la scomparsa delle lucciole. Atti di Convegno, Perugia, 15-18 luglio 2015, vol. II, Aracne, Roma,2016, p. 23 ss.
[2] S. Rodotà, Il processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, oggi in Id., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 267 ss.
[3] C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 14. L’Autrice sottolinea come Pasolini abbia sempre avuto presente l’idea di poesia come azione: in particolare si veda p. 139 ss.
[4] Ivi, p. 15.
[5] Sul punto si rinvia a A. Manna, Pier Paolo Pasolini. Il Re è altrove: dal “fascismo archeologico” al “nuovo fascismo”, in Aa. Vv., L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, Edizioni Action30, Bari, 2009, p. 99 ss. Come viene qui osservato: il «nuovo fascismo di cui parla Pasolini non ha nulla in comune né con la violenza del regime mussoliniano, né con la falsa democrazia democristiana. Al contrario, esso emerge con la nascita di un tipo di società, la società del consumo di massa. Una delle caratteristiche salienti di questo nuovo tipo di potere è la sua capacità di omologare i rapporti tra gli individui» p. 108.
[6] P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, p. 189 ss., ma il testo è reperibile anche on-line: Lo scandalo Radicale: la lettera che Pier Paolo Pasolini non lesse mai al Congresso, in MessinaOra.it, 1 novembre 2015.
[7] Per quanto va precisato che la militanza politica di Pasolini non lo ha mai spinto a rivendicare, in prima persona, diritti civili. Pasolini guardava con sospetto al diritto, come parte del femminismo italiano di quei tempi (cfr. M. R. Marella, Le donne, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, p. 341 ss., in particolare p. 358 ss.), considerandolo strumento di una malevola tolleranza del tardo capitalismo: si veda N. Mirenzi, Pasolini contro Pasolini, Edizioni Lindau, Torino, 2016.
[8] B. Castaldo, Quando i personaggi querelano l’autore, ovvero come prendere le distanze dal realismo di Pier Paolo Pasolini, in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini. Il diritto dopo la scomparsa delle lucciole. Atti di Convegno, Perugia, 15-18 luglio 2015, vol. I, Aracne, Roma, 2016, p. 213.
[9] S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’unità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2011, in particolare p. 98 ss.; vedi altresì C. Salvi, Capitalismo e diritto civile. Itinerari giuridici dal Code civil ai Trattati europei, il Mulino, Bologna, 2015, specialmente p. 81 ss.
[10] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 270.
[11] Diffusamente cfr. F. Treggiari, Il processo a La ricotta (l’Inquisizione all’epoca del “boom”), in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini, vol. I, cit., p. 261 ss.; sul ruolo della Magistratura in questo processo, poi, cfr. S. Rodotà, Il processo, cit.
[12] Corte cost., 20-11-2000, n. 508, in Giur. it., 2001, p. 2228 ss., con nota di Albo. La sentenza, redatta da Gustavo Zagrebelsky, precisa che è costituzionalmente illegittimo l’art. 402 c.p. per contrasto con gli artt. 3, primo comma e 8, primo comma, della Costituzione: la tutela penale privilegiata accordata alla religione cattolica in quanto già “religione dello Stato” o in quanto religione professata dalla maggioranza degli italiani costituisce un anacronismo e viola il principio supremo di laicità dello Stato, il quale importa non indifferenza, ma equidistanza ed imparzialità dello Stato rispetto a tutte le confessioni religiose.
[13] Cfr. F. Treggiari, Il processo a La ricotta, cit., p. 268, il quale sottolinea come l’assoluzione possa essere letta alla luce dei cambiamenti di quegli anni: papa Giovanni XXIII era morto nel giugno dell’anno prima ed era appena nato il primo centro-sinistra guidato da Aldo Moro.
[14] Gli atti processuali e le sentenze sono raccolti in A. Guadagni (a cura di), Processo Pasolini, L’Unità, Roma, 1994, supplemento al n. 115 dell’Unità del 18 maggio 1994, n. 4 della collana I grandi processi.
[15] Wu Ming 1, La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia, in Internazionale, 29 ottobre 2015, on-line. Qui ci si chiedere, fra l’altro, da dove derivi e perché tanto accanimento contro Pasolini: «Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia».
[16] Cfr. per tutti M. R. Marella, Qualche notazione sui possibili effetti simbolici e redistributivi del d.d.l. Cirinnà, in AboutGender. Rivista internazionale di studi di genere, Vol. 5, n. 9, 2016, p. 151 ss.
[17] A. Schillaci, Riconoscere pari dignità promuovendo coesione: per una difesa del d.d.l. Zan, in questa Rivista; F. Zappino, Se la destra strumentalizza il pensiero queer, in DinamoPress, 11 maggio 2021; Y. De Guerre, DDL Zan, un dibattito pubblico cinico e disonesto, in ValigiaBlu, 7 luglio 2021.
[18] Emblematici i noti fatti della scuola Diaz in occasione del G8 del 2001 a Genova: sull’esito in termini di violazione dei diritti umani cfr. F. Buffa, La Cedu e la Diaz 2.0, in Questione Giustizia, on-line, 28 giugno 2017.
[19] Peraltro gli attivisti perugini sono stati persino rinviati a giudizio: vedi Perugia, bacio gay tra le Sentinelle in Piedi: si va a processo, in Gay.it, 7 febbraio 2018; M. R. Marella, Di calze, violenza e dissenso. Su Perugia, in EuroNomade.info, 12 dicembre 2018.
[20] Cfr. G. Landi, Pier Paolo Pasolini. Assassinio di un intellettuale scomodo, Corriere della Sera (RCS Media Group), Milano, Collana “Grandi delitti nella storia”, n. 10, 2020.
[21] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 276 e ss., ove vien dato merito ai soli giudici Salmè e Moro, del Tribunale dei Minorenni di Roma di aver provato a mettere in dubbio la frettolosa e negligente indagine condotta sul caso Pasolini, ipotizzando un “concorso con ignoti”.
[22] E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, Roma-Bari, 1992.
[23] Cfr. L. Ferrajoli, Magistratura e democrazia, in Questione Giustizia, on-line, 28 luglio 2021.
[24] Poiché ad alcune attiviste erano stati imputati anche altri reati.
[25] S. Rodotà, Il processo, cit., p. 272.
[26] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano, 2009; sull’influenza di Gramsci in Pasolini cfr. L. Peloso, Pasolini in dialogo con Gramsci, giugno 2012; P. Voza, Il Gramsci di Pasolini, in La Sguardo. Rivista di filosofia, 19, 2015, p. 243 ss. Nei Quaderni dal carcere Gramsci fa più volte riferimento al buon senso, identificato con la razionalità, e il senso comune, che spesso indica una opinione volgare diffusa (vedi, ad esempio, Quaderno 11 (XVIII) §56). Sulle ricadute nel diritto del pensiero di Gramsci cfr. G. Marini, L’Italian style fra centro e periferia ovvero Gramsci, Gorla e la posta in gioco nel diritto privato, in Riv. it. sci. giur., 2016, p. 95 ss.; J. Esquirol, Le strategie intellettuali dell’analisi critica, in Riv. crit. dir. priv., n. 2/2021, p. 187 ss.
[27] Su cui cfr. A. Tricomi, Anatomia di un’opera tarda, in G. Capuzzo, D. David, S. Felicioni, Rileggendo Pasolini, cit., p. 245 ss.; e ivi, M. Balestrieri, Legge e Apocalisse. Note critiche intorno a La rabbia di Pier Paolo Pasolini, p. 41ss.
[28] Nel senso di G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005, secondo cui «Profanare significa: aprire la possibilità di una forma speciale di negligenza» (p. 110), forma che ignora la separazione fra sacro e profano o, rectius, che ne fa un uso differente, libero dalle norme prestabilite dalla religio e dal loro significato.
[29] Cfr. ancora E. Resta, La certezza e la speranza, cit., ove si afferma chiaramente che il diritto «sarà differente dalla violenza se lo sarà; sarà soltanto un’altra violenza se finirà per assomigliare troppo all’oggetto che dice di regolare» p. XI.
[30] Ivi, p. 31 ss.
[31] «Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista»: così rispose Pasolini nella sua ultima intervista, nel 1975 poco prima del suo omicidio, a Philippe Bouvard di “Dix de Der”.