ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Modelli di prova. Gravità degli indizi e giudizio cautelare
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. La concezione razionalista della prova - 2. La probabilità come provabilità e la dialettica confutativa - 3. Los estándares de prueba - 4. Il modello di prova per le misure cautelari personali - 4.1. Differenza fra gravi indizi e indizi gravi precisi e concordanti - 4.2. Gravità dell’indizio come resistenza alle obiezioni - 5. Valutazione degli indizi e manifeste illogicità - 5.1. Manifesta illogicità e irrilevanza degli elementi difensivi - 5.2. L’indebita generalizzazione - 5.3. La valutazione atomistica degli indizi - 5.4. La praesumptio de praesumpto.
1. La concezione razionalista della prova
Fra i molti temi trattati durante la recente Michele Taruffo Girona Evidence Week, svoltasi presso l’Università di Girona e a cui questa Rivista ha partecipato come istituzione associata, ha destato particolare interesse quello dei modelli di prova sviluppato in Prueba sine convicción, Estàndares de prueba y debido proceso (Madrid, Marcial Pons, 2021) dal filosofo del diritto Jordi Ferrer Beltrán.
La argomentazione relativa alla prova dei fatti è una attività complessa e il significato del termine «motivazione» usato per denominarla è ambiguo. Secondo l’accezione psicologistica indica l’espressione linguistica delle cause di una decisione. Invece, secondo l’accezione razionalista indica le ragioni che giustificano la decisione così la prova viene emancipata dalla persuasione meramente soggettiva del giudice e trova nella logica e nei criteri della epistemologia generale gli strumenti per rendere più probabile che la ricostruzione dei fatti sia logicamente corretta e, quindi, più vicina alla verità[1].
Aderendo alla concezione razionalistica della prova, Ferrer Beltrán ritiene che la ricostruzione dei fatti debba avvenire con il metodo della conferma e confutazione delle ipotesi tramite una rigorosa argomentazione retta dal principio del contraddittorio e con la possibilità di produrre prove contrarie[2].
In questa impostazione, il fatto che una ipotesi possa ritenersi provata è un esito totalmente indipendente dalle credenze del giudicante (in questo senso è «sine convicción»), che non solo può ma anche deve decidere prescindendo dalle sue credenze. Le credenze sono stati mentali personali utili a scopi euristici ma delle quali liberarsi se si rivelano controfattuali o intraducibili in precisi contenuti composti secondo chiari nessi logici. La forma mentis del giudicante tanto più si si evolve quanto più tende a consolidare le sue credenze solo a conclusione di un corretto ragionamento probatorio[3].
2. La probabilità come provabilità e la dialettica confutativa
2.1. L’uso di espressioni come «probabilità logica», «alta probabilità logica», «elevata credibilità razionale» è un espediente retorico, che allude a una quantificazione della probabilità o della credibilità razionale che però non si riesce a determinare, e sembra trascurare che il termine «probabilità» appartiene a un ambito tecnico le cui regole non possono essere ignorate se non debordando verso affermazioni generiche idonee solo a approntare a posteriori la parvenza di una giustificazione formale[4].
Allora, il ricorso alla probabilità oggettiva, intesa come frequenza statistica, sebbene possa certamente connotare la rilevanza indiziaria di un dato alla luce delle scienze empiriche, non può reggere un intero ragionamento probatorio neppure se indica una elevata probabilità, perché si occupa di frequenze e, quindi, ammette eccezioni, sicché non si adatta alla ricostruzione degli eventi singoli oggetto dei processi che non può accontentarsi della minimizzazione degli errori[5].
All’opposto, il metodo di Bayes che mira a rendere ripercorribile l’iter della decisione valutando l’incidenza di un dato probatorio sul grado personale di convincimento razionale di un giudicante circa una determinata ipotesi ricostruttiva trascura che il convincimento del giudice si forma non solipsisticamente ma attraverso la dialettica processuale[6].
La probabilità alla quale si mira nei processi è la provabilità dei fatti che sono oggetto del giudizio, che si persegue con il classico metodo della dialettica confutativa, che richiede posizioni argomentate e elimina quelle che risultano confutate.
2.2. Il modello di argomentazione tracciato per il ragionamento probatorio nel processo penale italiano si incentra sui concetti di ipotesi, indizi e prove, contraddittorio fra le parti (artt. 111, commi 2 e 6 Cost.), ragionevole dubbio, giustificazione razionale della decisione, metagiudizio nel processo di impugnazione, controllo sulla legalità e sull’assenza di illogicità manifeste nella decisione e si ispira, appunto, al metodo del razionalismo dialettico. Infatti, richiede che si dia conto «dei risultati acquisiti e dei criteri adottati» (art. 192, comma 1, cod. proc. pen.), che si enuncino le «ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (art. 546, comma 1 lett. e, cod. proc. pen.) e che le motivazioni siano esenti da «manifeste illogicità» (art. 606 lett. e, cod. proc. pen.).
I discorsi delle parti processuali sono un capitolo della ars opponendi et respondendi, propaggine della dialettica confutativa classica[7], dove il termine «contraddizione» ha origine nella prassi dialogica volta a contrastare il pensiero dell’avversario: «Artificis est invenire in actione adversarii quae inter semet ipsa pugnent aut pugnare videantur» [È proprio dell’esperto di retorica saper trovare nel discorso dell’avversario gli elementi che sono o sembrano contraddittori: Quintiliano, Institutio oratoria, V-13-29].
Per produrre conoscenza, la dialettica confutativa necessita di un insieme – magari disorganizzato ma delimitabile – di posizioni diverse e le parti offrono al giudice spunti e strumenti per porre o scartare le premesse, prendendo posizione intorno al problema: è questa la ragione profonda del principio et audietur altera pars, quale strumento per la imparzialità del giudizio.
Come è noto, le vie fondamentali della confutazione dialettica sono la dimostrazione per assurdo e la riduzione all’inammissibile che si reggono sulla dimostrazione che una ipotesi è autocontraddittoria o dalle conseguenze fra loro incompatibili oppure contrastante con una tesi assunta come indiscutibile (perché irrefutabilmente dimostrata o comunque postulata)[8].
La confutazione di una delle due ipotesi fra loro incompatibili ne dimostra la falsità, ma prova la validità dell’altra solo se questa è l’esatta contraddittoria della prima: la mancata conferma di una ipotesi non corrobora, di per sé, quella che le si oppone se le due ipotesi sono, come ordinariamente avviene, fra loro solo logicamente contrarie e non anche contrarie e contraddittorie, sicchè tertium datur. Né la verifica di una sua implicazione conferma definitivamente l’ipotesi perché questo esito potrebbe essere giustificato a partire da una diversa ipotesi: gli stessi dati sono spesso spiegabili sulla base di ipotesi diverse e, in questo caso, occorrerà collaudarle tutte verificando se qualche dato acquisito costituisce implicazione di una sola delle ipotesi in competizione.
Il passaggio dai primi dati acquisiti alla formulazione di ipotesi sugli eventi si situa nell’ambito della immaginazione logica che consente, per esempio, di configurare ipotesi fra loro incompatibili, o di ragionare in termini controfattuali, o di costruire un esperimento (anche solo mentale) falsificante la ricostruzione degli eventi che si è delineata. Il ragionamento probatorio si sviluppa di solito a catena (secondo l’incedere della deduzione naturale e non assiomatica), assumendo come vere le ipotesi che sono state accettate come provate. Al momento della valutazione dei dati acquisiti e delle argomentazioni sviluppate, il giudicante si trova in una posizione analoga a quella della comunità scientifica che valuta il grado di conferma di un’ipotesi alla luce delle teorie rivali considerate, dei dati disponibili, degli esperimenti realizzati, et cetera[9].
3. Los estándares de prueba
3.1. I canoni della dialettica confutativa sono applicabili in modi vari e con differenti gradi di rigore. Quando sono seguiti correttamente essi conferiscono il massimo grado di razionalità ai ragionamenti probatori, ma a costo di un impegno intellettuale e di un impiego di risorse organizzative e economiche che non può essere sopportato sempre e allo stesso modo per tutti i tipi di processo.
Determinare il contenuto di un modello (estándar, standard, paradigma) di prova significa anche fissare il livello di sufficienza probatoria che a quel modello è connesso. Ne deriva che la stessa ipotesi probatoria può ritenersi confermata oppure no secondo il modello di prova che è stato adottato: lo stesso fatto può risultare provato, secondo un certo modello, in un dato ambito (per esempio civilistico) ma non in un altro (per esempio penalistico).
La fissazione dei livelli di prova connessi a un certo modello probatorio svolge una funzione sia euristica che giustificativa e anche di garanzia per le parti (sia in relazione alle decisioni finali e intermedie del processo sia in relazione ai meccanismi di definizione anticipata eventualmente previsti dalle leggi processuali) perché indica loro come impostare e controllare le strategie probatorie circa la decisione sui fatti.
Inoltre, in una prospettiva che trascende le sorti del singolo procedimento, deve considerarsi che l’adozione di un paradigma di prova, invece di un altro, può incidere sulla distribuzione del rischio di errori giudiziari: per esempio, un paradigma di prova assai rigoroso riduce il rischio di erronee condanne ma aumenta il rischio di erronee assoluzioni. Il paradigma di prova deve riprodurre la ratio della distribuzione degli errori che si ritengono socialmente accettabili.
Tutto questo comporta − come evidenziato da Ferrer Beltràn – che la scelta di un modello di prova riguarda la politica giudiziaria e spetta al legislatore perché definisce i rapporti fra l’interesse all’accertamento della verità e altri interessi giuridicamente rilevanti che possono con lo stesso confliggere o anche tiene conto della esistenza di altre forme di responsabilità (civile, amministrativa, disciplinare..) a carico dell’autore delle condotte da provare abbinate a quella penale.
Per esigenze garantistiche, quanto più alta è la compressione dei diritti del soggetto eventualmente ritenuto responsabile di un fatto, tanto più elevato dovrebbe essere il livello di prova mirato. Tuttavia, non necessariamente questo implica che i più elevati livelli di prova debbano riguardare il processo penale perché non sempre le condanne con cui si può concludere si risolvono in gravi limitazioni della libertà personale, mentre può avvenire che notevole incidenza sulla sfera economica di persone fisiche o giuridiche siano l’esito di processi civili o amministrativi
3.2. Uno degli scopi mirati in Prueba sine convicción è quello di fornire strumenti per ridurre «la subjectividad y la imprecisión» nei ragionamenti probatori giuridici considerati come una specie del genere “ragionamento” che include sia il ragionamento scientifico che quello che si utilizza per decidere circa i fatti della vita ordinaria: l’epistemologia generale governa tutti questi tipi di ragionamento[10].
L’idea è che il metodo di eliminazione delle ipotesi fra loro concorrenti anche se non utilizza il calcolo matematico consente comunque di comparare il grado di conferma delle diverse ipotesi in conflitto così da ordinarle secondo gradi di probabilità.
Nell’ottica del razionalismo dialettico il grado di conferma di una ipotesi dipende non dalle credenze di chi assume la decisione ma dalle implicazioni vere che si possono formulare a partire dalla ipotesi e dalle difficoltà di dare conto delle stesse implicazioni sulla base delle ipotesi rivali. La probabilità di una ipotesi aumenta con il progredire del suo superamento delle controargomentazioni che le si oppongono. Quanti più controlli supera un’ipotesi e quante più sono le ipotesi in conflitto eliminate tanto maggiore è il suo grado di conferma.
In questa prospettiva, Ferrer Beltràn fornisce, senza pretesa di completezza, sette esempi di estándares (modelli) di prova ben formulati, ordinati in direzione discendente dal maggiore al minore grado di esigenza probatoria.
I primi tre per considerare provata una ipotesi circa i fatti richiedono che si realizzino congiuntamente due condizioni.
La prima condizione è comune: l’ipotesi deve potere spiegare i dati disponibili, integrandoli in forma coerente e le previsioni di nuovi dati che essa permette di formulare devono risultare confermate e portate come prove nel processo.
La differenza sta nella seconda condizione, in relazione alla quale può osservarsi l’accrescersi dell’onere probatorio per la difesa e una correlativa diminuzione per l’accusa. Infatti: per il primo modello devono essere state refutate tutte le restanti ipotesi plausibili esplicative degli stessi dati che siano compatibili con la innocenza dell’accusato/imputato o per lui più favorevoli, escluse le mere ipotesi ad hoc[11]; per il secondo deve essere stata refutata l’ipotesi alternativa formulata dalla difesa della parte contraria, se plausibile, esplicativa degli stessi dati che siano compatibili con la tesi innocenza dell’accusato/imputato o per lui più favorevole, tranne che si tratti di una mera ipotesi ad hoc[12]; per il terzo deve essere stata refutata l’ipotesi alternativa formulata dalla difesa della parte contraria, se plausibile, esplicativa degli stessi dati che siano compatibili con la innocenza dell’accusato/imputato o per lui più favorevoli, sempre che sia stata apportata qualche prova che le conferisca un qualche grado di conferma.
I restanti modelli di prova presentati differiscono dai precedenti perché non esigono che le ipotesi alternative (tutte o alcune) siano state refutate o possano essere scartate alla luce dei dati acquisiti al processo.
I primi due presuppongono entrambi che il compendio probatorio sia completo (escluse le prove ridondanti) ma il secondo considera provata soltanto l’ipotesi più probabilmente veridica mentre il secondo ammette come provata l’ipotesi più probabilmente veridica della ipotesi della parte contraria, sempre alla luce degli elementi di giudizio esistenti nel procedimento.
Gli ultimi due neanche richiedono che il compendio probatorio sia completo: l’uno considera provata soltanto l’ipotesi che risulti più probabilmente veridica; l’altro si accontenta dell’ipotesi che risulti più probabilmente veridica di quella della parte contraria, sempre alla luce degli elementi di giudizio acquisiti.
4. Il modello di prova per le misure cautelari personali
Nel processo penale sono presenti diversi modelli di prova in relazione al tipo di decisione da assumere (misure cautelari, conclusione delle indagini preliminari, non luogo a procedere, rinvio a giudizio, giudizio) secondo soglie di sufficienza probatoria diverse per ciascuno stadio e progressive.
In particolare, nell’ambito delle misure cautelari personali l’effetto convergente dei limitato tempo per lo svolgersi delle procedure e dell’urgenza del provvedere comporta – anche quando le decisioni producono gravi limitazioni della libertà personale e possono incidere, per altro verso, sulla salvaguardia di rilevanti esigenze di sicurezza per le persone e la collettività – che non possa imporsi un modello ispirato al conseguimento della piena prova.
Nel codice di procedura penale italiano il modello di prova cautelare è fondato sulla necessità di «gravi indizi di colpevolezza» per l’applicazione di una misura cautelare e costituisce una specificazione del generale modello di prova ispirato al razionalismo dialettico [2.2.].
Infatti, l’art. 292, comma 2, lett. c), cod. proc. pen. richiede, «a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio» che nell’ordinanza cautelare siano esposti gli «indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza» e la lettera c-bis dello stesso comma richiede che siano esposti i «motivi per i quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa»[13].
La norma ripropone la previsione contenuta nell’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti connessi al particolare contenuto del provvedimento cautelare (non fondato su prove ma su gravi indizi e riguardante non la responsabilità ma una rilevante probabilità di colpevolezza).
4.1. Differenza fra gravi indizi e indizi gravi precisi e concordanti
In questo quadro la (complessa) questione del significato della espressione «gravi indizi» che l’art. 273 cod. proc. pen. usa per definire la prima fra le «condizioni generali di applicabilità delle misure» cautelati personali non riceve risposte univoche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione[14].
Sulla base di una interpretazione letterale e coordinata dei dati normativi, un primo indirizzo assume che per giustificare una misura cautelare personale basti qualunque elemento idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato per i reati addebitatigli. I «gravi indizi di colpevolezza» non corrispondono agli «indizi» intesi quale elemento di prova idoneo a fondare un giudizio finale di colpevolezza, sicché non andrebbero valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio di merito, dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. − che, oltre alla gravità, richiede la precisione e la concordanza degli indizi − perché il comma 1-bis dell'art. 273 cod. proc. pen. richiama espressamente i soli commi 3 e 4, ma non il comma 2 del suddetto art. 192 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. 4 , n. 16158 del 08/04/2021, Rv. 281019; Sez. 5, n. 55410 del 26/11/2018 Rv. 274690; Sez. 1, n. 43258 del 22/05/2018, Rv. 275805). Anzi, secondo una posizione, l'indizio può anche essere unico, considerando che l'uso del plurale in «gravi indizi» avrebbe scopo soltanto indeterminativo (Sez. 6, n. 3734 del 27/09/1994, Rv. 199472; Sez. 3, n. 1740 del 30/07/1993, Rv. 195212; Sez. 6, n. 3144 del 08/09/1992, Rv. 192822; Sez. 6, n. 2950 del 21/07/1992, Rv. 191942).
Della necessità di una più articolata strutturazione dei «gravi indizi», si cura, invece, l’indirizzo secondo cui per valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'applicabilità di misure cautelari personali è necessario utilizzare anche il canone posto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. che prevede che gli indizi, oltre che gravi, devono essere anche plurimi, precisi e concordanti. L’idea è che, in assenza della pluralità e concordanza degli indizi, la discrezionalità valutativa del giudice non potrebbe esercitarsi adeguatamente (ex plurimis: Sez. 5, n. 55410 del 26/11/2018, Rv. 274690; Sez. 4, n. 25239 del 05/04/2016, Rv. 267424; Sez. 4, n. 31448 del 18/07/2013, Rv. 257781)[15]. In qualche motivazione viene precisato che il mancato richiamo del secondo comma dell’art. 192 non rileva perché il codice nell'esigere la esistenza di «gravi indizi di colpevolezza» per l’adozione di una misura cautelare non può che presupporre tale disposizione che, oltre a codificare una regola di inutilizzabilità, costituisce un canone di prudenza nella valutazione della probabilità di colpevolezza necessaria per esercitare il potere cautelare)[16].
4.2. Gravità dell’indizio come resistenza alle obiezioni
Pare ottimistico attendersi che le formule legislative possano trattare compiutamente il problema della valutazione degli indizi e affidare alla loro esegesi la sua soluzione.
Quando si tratta di regolare le motivazioni dei provvedimenti, il legislatore può porre dei divieti di utilizzazione o anche stabilire delle presunzioni di vario grado, ma non può riuscire a regolare lo sviluppo delle operazioni intellettuali per la ricostruzione degli eventi singoli perché queste appartengono al genere dei giudizi riflettenti, che estraggono dal caso concreto le premesse che compongono per poi giungere alle loro conclusioni[17].
Rappresentate in forma discorsiva, sono argomentazioni, che occorre esporre al vaglio dialettico della confutazione: se le resistono sono convalidate, se non le resistono devono essere modificate o eliminate.
In realtà, la giurisprudenza della Corte di cassazione fornisce delle indicazioni che vanno oltre quella nozione di “gravità” dell’indizio che viene fondata cripticamente sulla enunciazione della “qualificata”, “ragionevole”, “elevata” probabilità del fatto fornita dall’indizio che spesso ricorre nelle sentenze[18] e la cui insoddisfacente genericità non è emendata neanche dall’indirizzo (formalmente più rigoroso) che richiede una pluralità di indizi fra loro concordanti.
Queste indicazioni riguardano la necessità, con il correlato onere argomentativo, di superare le ragioni di segno contrario in base alle quali, invece, viene esclusa la valenza dell’indizio.
Si osserva che per possedere la gravità richiesta per l’applicazione di una misura cautelare personale l’indizio deve possedere un elevato grado di capacità dimostrativa del fatto da provare che gli deriva dalla «resistenza alle obiezioni» (Sez. 6, n. 26115 del 11/06/2020, Rv. 279610) cioè alle «interpretazioni alternative» (Sez. 1, n. 1454 del 02/04/1992, Rv. 190119; Sez. 2, n. 394 del 28/01/1992, Rv. 18916; Sez. 1, n. 2989 del 26/09/1990, Rv. 185610).
Questo criterio di valutazione della gravità dell’indizio si collega alla concezione dialettica della prova e richiede al giudicante la esplicitazione delle sue argomentazioni da sottoporre al vaglio della dialettica confutativa. Tale obbligo non è adempiuto con una generica enunciazione delle fonti di prova, senza la individuazione degli specifici dati indizianti a sostegno del provvedimento e senza la giustificazione logica della decisione perché diversamente si comprometterebbe il diritto di difesa (Sez. 1, n. 4522 del 28/10/1993, Rv. 195616; Sez. 1, n. 1164 del 18/03/1993, Rv. 193952), fermo restando, in ogni caso, che fra più significati parimenti attribuibili all’indizio, deve privilegiarsi quello più favorevole all'indagato, che può essere accantonato solo qualora risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto (Sez. 3, n. 17527 del 11/01/2019, Rv. 275699; Sez. 1, n. 19759 del 17/05/2011, Rv. 250243).
La necessità di giustificare in modo logicamente corretto e, comunque, esente da manifeste illogicità il rigetto delle interpretazioni di segno contrario implicita anche una valutazione della precisione degli indizi e della concordanza fra loro (fra tutti o fra alcuni di quelli reperiti). In altri termini, fondare il giudizio di gravità degli indizi su una adeguata concretizzazione della concezione dialettica della prova assorbe e supera le esigenze evidenziate dalla giurisprudenza che ritiene necessario utilizzare anche per le misure cautelari personali il canone posto dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen.
5. Valutazione degli indizi e manifeste illogicità
5.1. Manifesta illogicità e irrilevanza degli elementi difensivi
L’esposizione delle ragioni che hanno condotto a ravvisare o a disconoscere gravi indizi di colpevolezza e a disattendere le prospettazioni di segno contrario costituisce il requisito strutturale minimo della decisione cautelare e la condivisione di tali ragioni da parte degli altri giudici di merito conduce alla conferma del provvedimento eventualmente impugnato.
Tuttavia, il provvedimento cautelare può anche avere confutato le posizioni di segno contrario rispetto a quella adottata circa i gravi indizi di colpevolezza ma non per questo soltanto essere indenne da vizi logici: la confutazione di una ipotesi contraria dimostra la posizione sostenuta soltanto se le due posizioni sono fra loro contrarie e contraddittorie ma non se, come per lo più avviene, fra loro soltanto contrarie.
Allora, per superare il controllo da parte della Corte di cassazione la motivazione deve comunque essere esente dai vizi indicati nell’art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen., ma tanto basta a salvaguardo dall’annullamento e a nulla vale che il ricorrente opponga che i dati si prestano a una diversa interpretazione (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Rv. 215828; Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Rv. 202903; Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Rv. 276976 Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Rv. 255460; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Rv. 237012; Corte cost. sent. n. 121/2009).
La manifesta illogicità di una decisione giudiziaria è una categoria inventata dal legislatore, non corrispondente a una nozione equivalente nella teoria logica. Questo conduce a una prassi (attuata secondo criteri convenzionali ma variabili) che può concorrere a trasformare il controllo della Corte di cassazione sulle argomentazioni relative alle ricostruzioni dei fatti in un ibrido terzo grado di giudizio non utile al funzionamento del sistema e concausa del proliferare dei ricorsi.
Esiste, comunque, un nucleo certo di illogicità evidenti: le violazioni dei principi della logica formale, la sconnessione fra premesse e conclusioni, le fallacie dei giudizi condizionali e altre specifiche delle inferenze induttive e della abduzione, la confusione fra generalizzazione e particolarizzazione nell’uso delle massime d’esperienza e la confusione fra logica delle asserzioni generali e logica delle asserzioni singolari nel ricorso alle leggi scientifiche[19].
La giurisprudenza della Corte di cassazione ne ha individuato alcune, concernenti le inferenze abduttive che reggono la valutazione di indizi, confermando che, come per gli altri tipi di inferenza, la tipologia delle illogicità è strettamente connessa alla struttura del ragionamento che esse viziano.
5.2. L’indebita generalizzazione
Al fondo delle inferenze abduttive traibili dagli indizi sta il ricorso alle massime di esperienza che comporta il rischio della fallacia della indebita generalizzazione consistente nell’attribuire carattere di generalità a quelle che potrebbero rivelarsi mere indebite generalizzazioni, tanto più se si considera che esse per lo più si formano secondo vie non vigilate dal rigore del metodo scientifico. Sarebbe improprio qualificare come manifestamente illogica la scelta di una massima di esperienza pertinente al caso, però manifestamente illogica può essere l’inferenza che raccorda la massima al caso singolo se la prospettazione di altre massime di esperienza di diverso contenuto, ma egualmente pertinenti al caso, palesa l’arbitrarietà della sua assolutizzazione. Allora, per seguire una massima d’esperienza, è necessario che si possa ragionevolmente escludere ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi che ne scaturisce: se viene richiesta una attività istruttoria allo scopo di mostrare che una certa massima di esperienza non è adeguata al caso concreto, la sua mancata effettuazione lascia meramente verosimile la conclusione suggerita dalla massima. Solo se resiste alla dialettica confutativa (con l’esclusione di una ipotesi contraria) la applicazione di una massima di esperienza giustifica l’attribuzione di valenza indiziaria al dato acquisito (Sez. 4, n. 22790 del 13/04/2018, Rv. 272995; Sez. 6, 42049 del 22/10/2014, Rv. 261220, Sez. 5905 del 29/11/2011, dep. 2012, Rv.252066). Ancora: se la situazione da ricostruire presenta connotati non riducibili all’ordinario, allora l’atteggiamento mentale che confida nelle massime di esperienza diventa del tutto fuorviante, manifestamente illogico.
5.3. La valutazione atomistica degli indizi
La valutazione atomistica degli indizi è fallace perché trascura che l’indizio – per sua costituzione – è un dato la cui ambiguità va emendata collegandolo a altri. Rifuggire da questa operazione significa accantonare indebitamente elementi di valutazione rilevanti che potrebbero rivelarsi, infine, persino decisivi e, quindi, fallare per difetto.
Risulta, in effetti, consolidato l’indirizzo secondo il quale nella valutazione degli elementi indiziari l’interpretazione del compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e, mentre non può prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni indizio nella sua valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, deve poi valorizzarlo, se ne ricorrono i presupposti, in una prospettiva complessiva e unitaria, considerando i collegamenti e la eventuale confluenza dei dati indizianti (per tutte: Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678).
In altri termini: ai fini della configurabilità dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'applicazione di misure cautelari personali, è illegittima una valutazione frazionata ed atomistica dei singoli dati acquisiti, dovendo invece seguire, alla verifica della gravità e precisione dei singoli elementi indiziari, il loro esame unitario, che ne chiarisca l'effettiva portata dimostrativa del fatto, la coesione e la congruenza rispetto al tema di indagine (ex multis: Sez. 1, n. 30415 del 25/09/2020, Rv. 279789; Sez. 1, n. 1790 del 30/11/2017, dep. 2018, n. 272056; Sez. I, n. 46566 del 21/02) 2017, n. 271228).
5.4. La praesumptio de praesumpto
Manifestamente fallace è ritenuta anche la praesumptio de praesumpto perché (l’argomento è forte ma non incontrovertibile) diluisce la valenza sintomatica di un indizio: il giudice, che ben può partire da un fatto noto (indizio) per risalire a uno ignoto, non può porre il fatto (originariamente) ignoto come fonte di una ulteriore presunzione perché la doppia presunzione contrasta con la regola della certezza dell’indizio, connessa al requisito della sua precisione, richiesto dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. (ex multis: Sez. 6, n. 37108 del 02/12/2020, Rv. 280195; Sez. 1, n. 18149 del 11/11/2015, dep. 2016, Rv. n. 266882; Sez. 1, n. 4434 del 6/11/ 2013, dep. 2014, Rv. 259138; Sez. 2, n. 5838 del 9/02/ 1995, Rv. 201517). A fortiori, è evidente (rientra nella sua stessa definizione) che il dato indiziante deve essere certo (Sez. 2, n. 2935 del 17/09/1992, Rv. 191072).
[1] Per tutti: J.H. Wigmore, The Science of Judicial Proof as given by Logic and General Esperience, an Illustrate in Judicial Trials, Boston, Brown & Co., 1937. M.Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, Laterza, 2009.
[2] La trilogia iniziata Ferrer Beltràn con Prueba y verdad en el derecho (Madrid, Marcial Pons,2002, Ed.it.: Prova e verità nel diritto, Bologna, il Mulino, 2004) e proseguita con La valoracion racional de la prueba (Marcial Pons, Madrid, Barcelona, Buenos Aires, 2007. Edizione Italiana di G.B. Ratti, con presentazione di R.Guastini, La valutazione razionale della prova, Milano, Giuffrè, 2012) viene completata dal citato Prueba sine convicción, del quale è prossima l’edizione italiana. Sulle posizioni di Ferrer Beltràn (e di altri): S. Novani, La teoria della colpevolezza nella filosofia processuale, in: Archivio della nuova procedura penale, 2013, I, p. 26ss, 27-29.
[3] Sul tema: A.Costanzo, Logica e psicologia nel ragionamento giudiziario, in: Cassazione penale, 6, 2017, pp. 2516-2534.
[4] Sul punto efficacemente: G. Boniolo-G.Gennari, Note su giurisprudenza e probabilità: fra leggi di natura e causalità, in: Sistema penale, 10, 2021, pp. 85- 104, 94, 103 ss. Evidenziano degenerazioni di tipo retorico anche: R. Blaiotta-G.Carlizzi, Libero convincimento, ragionevole dubbio e prova scientifica, in AA. VV., Prova scientifica e processo penale (a cura di G.Canzio-L. Luparia, Cedam Kluwer, Milano, 2017, p. 464. Sul tema: G. Carlizzi, Errore giudiziario e logica del giudice nel processo penale, in AA. VV, L’errore giudiziario (a cura di L. Luparia), Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2021, 93. In termini generali sulla questione: G. Boniolo-P.Vidali, Strumenti per ragionare. Le regole logiche, la pratica argomentativa, l’inferenza probabilistica, Pearson, Milano, 2017.
[5] Per un’analitica disamina del problema: F. Coniglione, Introduzione alla filosofia della scienza. Un approccio sotorico, Roma, Bonanno, 2004, pp. 291-313.
[6] Viene definito come «funzione logico-probabilistica che descrive la procedura corretta per revisionare la fiducia verso un’ipotesi alla luce di un insieme di prove» in: P. Cherubini, Fallacie nel ragionamento probatorio, in L. De Cataldo Neuburger (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova, 2007, p. 251.
[7] L. Pozzi, Le consequentiae nella logica medioevale, Padova, Liviana, 1978; L. Pozzi, La coerenza logica nella teoria medioevale delle obbligazioni,Parma, Zara,1990.
[8] Per una chiara esposizione della storia della dialettica confutativa: E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo, L’Epos, 1987, pp. 257-279. Per alcune applicazioni: V. Marinelli, Il dilemma. Contributo alla logica giuridica, Milano. Giuffrè, 2004; A. Costanzo, Logica giudiziaria, Roma, Aracne, 2012. Relativizzare i principi della logica classica depotenzia l’efficacia della dialettica confutativa: A. Costanzo, Difficoltà della reductio ad absurdum e apparenti deroghe alla logica classica nelle argomentazioni giudiziali, in: Rivista Internazionale di filosofia del diritto, 67, 1990, 576-617].
[9] Per alcuni aspetti: M. Pera, Scienza e retorica, Bari Laterza, 1991, pp. 1999-226. Sulla inferenza alla migliore spiegazione: V. Fano, Comprendere la scienza. Introduzione all’epistemologia delle scienze naturali, Bologna Liguori, 2005, pp. 114 sas, 158 ss.
[10] I primi tre livelli di prova si ispirano alla filosofia della scienza di Hempel e all’idea di probabilità sviluppata da Cohen: C.G. Hempel, Philosophy of Natural Science, Henglewood Cliffs, New Jersey; Prentice Hall, 1966; L.J. Choen, The Probable and the Probable, Oxford, Clarendon Press, 1977; L.J. Choen, Introduction to the Philosophy of Induction and Probability, Oxford, Oxford University Press, 1989.
[11] Ad hoc è l’ipotesi coerente con i dati conosciuti ma né confermabile né refutabile. Classico esempio ne è l’idea di un complotto accusatorio contro l’imputato.
[12] Sembrano adottare questo modello di prova le decisioni che, in relazione alle misure cautelari attribuiscono all’indagato l’onere di formulare una plausibile ipotesi alternativa a quella dell’accusa: Sez. 3 n. 209 del 17/09/2020, dep. 2021, Rv. 281047; Sez. 5., n. 2471 del 31/10/1995, Rv. 203391.
[13] Sull’applicazione di queste norme: Sez. 5, n. 4915 del 12/11/1996, dep. 19/02/1997, Rv. 207468; Sez. 6, n. 3109 del 19/09/1995, Rv. 202553; Sez. 6, n. 36874 del 13/06/2017, Rv. 270815; Sez. 1, n. 4777 del 15/11/2011, dep. 201, Rv. 51848; Sez. 2, n. 28662 del 27/05/2008, Rv. 240654; Sez. 1, n. 14374 del 09/01/2001, Rv.219093.
Alcune sentenze attribuiscono all’indagato l’onere di proporre ricostruzioni alternative a lui favorevoli per evitare che il giudice valuti gli indizi nella sola prospettiva dell'ipotesi formulata dall'accusa, si attribuisce all'indagato l'onere di proporre una plausibile ricostruzione alternativa a quella dell’accusa considerando che l'attendibilità degli indizi non può essere rapportata a tutte le conclusioni astrattamente compatibili con i fatti noti e, Sez. 3 n. 209 del 17/09/2020, dep. 2021, Rv. 281047; Sez. 5, n. 2471 del 31/10/1995, Rv. 203391).
[14] F. Falato, La Cassazione (ri)propone la improponibile endiadi tra indizio probatorio e indizio cautelare, in: La Giustizia Penale, 2013, 8-9, pp. 488-512; F.M. Grifantini, La nozione di indizio nel codice di procedura penale, in: Rivista di diritto processuale, 2013, 1, pp. 12-31; G. Poi, La valutazione degli indizi nella fase cautelare: una questione da risolvere alla luce della teoria generale della prova, in: Giurisprudenza italiana, 1, 2017, pp. 213-217.
[15] Anche se per la applicazione di una misura cautelare personale basta un probatio minor di quella richiesta per la condanna, occorre tuttavia, che l'identificazione dell’indagato sia certa (Sez. 3, n. 30056 del 25/02/2021, Rv. 282232; Sez. 5, n. 9192 del 07/02/2007, Rv. 236258). Questo comporta l’adozione del modello di prova che conduce “oltre il ragionevole dubbio”. Nella sentenza del 2007 si precisa che il principio vale «indipendentemente dalle scelte e strategie processuali o dalla linea difensiva prescelta dall’indagato».
[16] Secondo una posizione «i gravi indizi sono prove allo stato degli atti», cioè in assenza di ulteriori elementi di valutazione favorevoli all’indagato: F. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano Giuffrè, 2013. p. 641. Introduce nodi problematici forse legati alle peculiarità delle fattispecie la (opposta?) posizione secondo cui «gravi indizi di colpevolezza» ex art. 273 cod. proc. pen. sono quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che, contenendo in nuce elementi strutturali della corrispondente prova, non bastano a provare la responsabilità dell'indagato e, tuttavia, consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, per mezzo della futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrarla, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. 3, n. 17527 del 11/01/2019, Rv. 275699; Sez. 2, n. 28865 del 14/06/2013, Rv. 256657).
[17] I.Kant, Logik a cura di G. B.Jäsche, Königsberg, 1800. Trad. it. Logica, a cura di L. Amoroso, Bari, Laterza,1990 p. 125
[18] I gravi indizi di colpevolezza richiesti dall'art. 273 cod. proc. pen. per l'emissione dei provvedimenti dispositivi di misure cautelari non possono riferirsi al solo fatto materiale, ma devono riguardare l’intero reato e quindi anche l'elemento soggettivo (Sez. 6, n. 3131 del 03/09/1992, Rv. 191757).
[19] Sul tema sia consentito rinviare a: A. Costanzo, Anomia della illogicità manifesta, in: Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326.
Intervista a Emilia Conforti, candidata al CSM per le elezioni del 18 e 19 settembre 2022
di Beatrice Bernabei
Quali sono le tue pregresse esperienze lavorative, associative ed istituzionali?
Sono entrata in magistratura nel 2009 ed ho sempre svolto funzioni penali. Per nove anni e mezzo sono stata giudice del tribunale del riesame del Tribunale di Roma e per quattro anni ho svolto anche il ruolo di giudice delle misure di prevenzione sia personali che reali. Da circa tre anni sono giudice del dibattimento e mi occupo di reati contro la p.a.
Dal 2019 sono formatore distrettuale per il settore penale della Scuola Superiore della Magistratura con delega alla magistratura onoraria ed ai magistrati ordinari in tirocinio, ruolo che mi ha permesso di apprezzare ulteriormente, sotto una diversa prospettiva, la delicatezza e l’importanza della formazione iniziale nella quale, negli anni, mi ero già cimentata sia in veste di magistrato coordinatore che di magistrato affidatario. Nel 2021 sono stata in applicazione extradistrettuale presso il Tribunale di Vibo Valentia ove ho svolto le funzioni di giudice del dibattimento, del riesame delle misure cautelari reali e di gip.
Fin dal mio ingresso in magistratura ho sempre guardato con curiosità alla dimensione associativa legata al nostro ruolo: fin da subito mi sono iscritta all’Anm, partecipando, anche attualmente, ai lavori di alcune delle commissioni di studio permanenti del CdC.
Negli anni mi sono avvicinata al gruppo di AreaDG, condividendone profondamente la connotazione valoriale, e nel 2016 ne sono stata referente per il Lazio.
Nel 2018 sono stata eletta nella Giunta distrettuale dell'Anm di Roma ricoprendo anche il ruolo di presidente della Ges.
Ho sempre creduto nell’importanza della partecipazione alla vita associativa perché, pur rimanendo un corollario dell’attività lavorativa, ritengo che la gestione degli uffici e la possibilità di esprimere una giurisdizione costituzionalmente orientata, capace di garantire e salvaguardare i diritti di cui siamo i custodi, nasca dal contributo di ciascuno.
A riguardo, anche a costo di risultare scontata o noiosa ritengo importante sottolineare di avere sempre inteso e vissuto l’impegno associativo come un onore per la fiducia ricevuta dai colleghi e come un servizio a beneficio della collettività dei magistrati ed in quanto tale mi auguro di averlo sempre interpretato.
Quali ragioni ti hanno spinto a candidarti al CSM e come pensi che le tue precedenti esperienze professionali possano costituire un apporto al buon funzionamento del Consiglio superiore della magistratura?
Ho accettato di candidarmi per mettere al servizio dell’Istituzione che, come magistrati, esprimiamo con il lavoro quotidiano, le mie energie, l’impegno e l’esperienza maturata negli uffici, per dar voce e restituire centralità agli uffici ed alle esigenze dei colleghi, animata dal desiderio di contribuire, qualora eletta, insieme agli altri colleghi, in questo delicato momento storico alla difesa ed alla promozione della giurisdizione secondo l’idea consegnataci dalla Costituzione, idea ed ideale di giustizia che, negli anni, hanno spinto tanti giovani a compiere questa scelta professionale e di vita.
Per quanto mi riguarda, quanto accaduto negli ultimi anni - mi riferisco alle gravi vicende dell’Hotel Champagne, alla emersione della degenerazione di prassi correntizie, alla pandemia che ha disvelato la inadeguatezza strutturale di molti uffici nonostante l’impegno profuso dai tanti colleghi ed anche alla recente riforma dell’ordinamento giudiziario - ci consegna l’idea di una elezione “inedita” a partire dalle aspettative dei colleghi.
Tutto ciò richiede, soprattutto in chi si accinge a ricoprire ruoli di rappresentanza, una seria assunzione di responsabilità, di onestà intellettuale propria del metro giudiziario, di generosità e buona volontà nell’impegno e di trasparenza nelle scelte sottese all’azione consiliare.
Ciò non solo al fine di salvaguardare esternamente la giurisdizione, rispetto agli altri soggetti istituzionali, ma anche di restituire e riaccreditare, mediante il recupero del dialogo, i rapporti fra i magistrati, quindi gli uffici, ed il Consiglio Superiore.
In questo senso, posso dire che l’attività lavorativa, anche mediante lo svolgimento di funzioni collegiali, e l’impegno associativo mi hanno trasmesso l’importanza del confronto, se necessario anche acceso ma franco e leale, del lavoro di squadra e del buonsenso nel portare avanti le proprie idee per il conseguimento di risultati efficaci ed utili per gli interessi collettivi di volta in volta in gioco.
Per esperienza, mi sento di aggiungere che, soprattutto in questo preciso momento storico e sociale, è indispensabile mantenere, e se del caso instaurare, da parte del Consiglio un contatto diretto e continuativo con gli uffici giudiziari, non solo attraverso un rafforzamento dei rapporti e delle comunicazioni con i consigli giudiziari, ma anche mediante la previsione di veri e propri momenti di confronto, sistematico e periodico, di interlocuzione dei consiglieri con i magistrati degli uffici dei distretti.
Non di meno importante ritengo sia l’introduzione di sistemi che facilitino l’accessibilità alle informazioni e contribuiscano a rendere trasparente l’azione consiliare.
Penso, certamente ma non solo, al riammodernamento del sito internet del Consiglio al fine di facilitare l’accesso alle informazioni utili per i magistrati, sia relative alle proprie pratiche che alla specifica posizione professionale, ed alla introduzione di un sistema generale di comunicazione dell’attività consiliare e delle motivazioni delle scelte del Consiglio.
In tal modo si eviterebbe il ricorso a forme di conoscenza personale, limitando il rischio di meccanismi di “gestione clientelare” dei rapporti con i colleghi.
Oggi il 65% dei vincitori del concorso in magistratura è donna, ma gli uffici direttivi e le cariche elettive continuano ad essere occupate prevalentemente da uomini. Cosa ne pensi della questione di genere? Cosa può fare in concreto il CSM per garantire la pari opportunità?
Bisogna colmare questo gap di rappresentanza nell’ottica di un approccio prima di tutto culturale: si tratta di un problema dell’organizzazione giudiziaria nel suo complesso non certo limitato alla componente femminile degli uffici ma al contributo di professionalità che le magistrate, così come oramai accade da tempo nella giurisdizione, possono apportare nella organizzazione e nella gestione di un ufficio.
Ritengo timido il segnale che proviene dalla riforma della legge elettorale mediante la previsione di una quota di chance a fronte di un impulso senz’altro più significativo che sarebbe potuto derivare dalla previsione di vere e proprie quote di risultato rispetto all’organizzazione ed alla funzionalità dei ruoli apicali e di rappresentatività.
Al fine di incoraggiare le magistrate ad avvicinarsi a ruoli apicali ed elettivi ritengo sia importante valorizzare in termini di comparazione rispetto ad altre esperienze quella giudiziaria vissuta negli uffici.
Occorre far sì che situazioni, quali la gravidanza, la maternità e la genitorialità, ma anche tutte quelle che vengono tutt’ora di norma assunte e fronteggiate dalle donne, penso alla malattia ed alla cura di parenti malati, vengano gestite negli uffici come situazioni strutturali fronteggiabili in maniera ordinaria, perdendo per l’ufficio quella impropria connotazione emergenziale.
In un’ottica di breve periodo il Consiglio, a legislazione invariata, dovrebbe promuovere meccanismi distrettuali attraverso cui fronteggiare le assenze temporanee dei magistrati e, al contempo, farsi portavoce con il Ministero della necessità di aumentare le piante organiche.
Recentemente è stata approvata la riforma ordinamentale con legge n. 71/22. Quali sono, a tuo avviso, gli aspetti critici? Come può il CSM garantirne la corretta attuazione? Pensi che tale riforma sia sufficiente per ristabilire la credibilità nella magistratura da parte dei cittadini e per arginare la deriva carrieristica e correntizia?
La domanda sottende aspetti complessi che in questa sede non credo possano essere adeguatamente scandagliati ed approfonditi.
Ritengo, tuttavia, che le degenerazioni correntizie e carrieristiche emerse negli ultimi anni, così come il recupero della credibilità della magistratura rispetto alla società, richiedano una operazione di senso da parte di tutti i magistrati e, in primo luogo, l’impegno da parte di noi tutti di riacquistare la consapevolezza che la funzione giurisdizionale, secondo il tracciato costituzionale, è un servizio svolto nell’interesse dei cittadini.
Pertanto, proprio perché quotidianamente la maggior parte dei magistrati, pur di portare avanti il proprio servizio si fa carico di molte ed inaddebitabili disfunzioni del sistema, ritengo che possa contribuire ad un concreto cambio di passo l’assunzione di una rinnovata consapevolezza tesa alla rivendicazione dell’orgoglio e della dignità del ruolo unita ad un più ampio senso di responsabilità collettivo.
Dico questo pensando anche ai magistrati di nuova nomina che, oggi più che mai, intraprendendo questo percorso, compiono una scelta coraggiosa del cui futuro non possono non farsi carico quanti di noi hanno maggiore esperienza.
Per tale motivo credo che tale assunzione debba essere compiuta fin da ora, da parte degli elettori nella scelta dei propri rappresentanti e da parte di noi candidati nel proporci alla loro analisi ed al loro giudizio, consapevoli della necessità di assumere un carico ulteriore rispetto alle consiliature precedenti.
Certamente il Consiglio che ci accingiamo ad eleggere, dopo la prima onda d’urto dei gravissimi fatti dell’Hotel Champagne e la successiva emersione di sacche di degenerazione correntizia, sarà quello chiamato a doversi confrontare con gli effetti di più lungo periodo rispetto a quanto accaduto e che, quindi, al di là delle immediate e comprensibili reazioni emotive, risultano ancora più subdoli perché rischiano di incidere più in profondità nella coscienza collettiva della categoria e di radicare sentimenti di disaffezione nei confronti degli organi rappresentativi.
Con l’inevitabile corollario di compromettere lo status professionale e con esso il senso più profondo del nostro lavoro di defibrillazione di conflitti sociali e, unitamente ad altri soggetti costituzionali, di garanzia dell’ordine democratico.
Ad ampliare questo rischio concorre senz’altro l’essere stati destinatari negli anni di riforme legislative frammentate che tradivano e tradiscono la mancanza di volontà politica di farsi realmente carico, in maniera coerente ed efficace, dei problemi e delle disfunzioni della giustizia che, inevitabilmente, si riverberano in maniera negativa sulla stragrande maggioranza dei magistrati che silenziosamente ed operosamente prestano il loro servizio.
In questo senso, quindi, la stessa riforma recentemente approvata, pur contenendo taluni punti positivi, quali il ritorno al concorso di primo grado e la calendarizzazione delle pratiche di nomina dei posti direttivi e semi direttivi, tradisce, a mio giudizio, nel suo complesso, una immeritata sfiducia nella funzione giurisdizionale approcciata in una ottica produttivistico/aziendalistica e sottoposta a pericolose forme di controllo.
Il mio è sul punto un giudizio sostanzialmente negativo, motivo per il quale ho aderito con convinzione allo sciopero indetto dall’Assemblea straordinaria generale dell’Anm.
In particolare, previsioni che attribuiscono un ruolo al Ministero della Giustizia sulla programmazione organizzativa degli uffici di procura, la partecipazione dei componenti laici dei consigli giudiziari alle discussioni in tema di professionalità; il giudizio sulle capacità organizzative del magistrato; l’accertamento di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento, costituiscono tutti aspetti che, letti in combinato disposto, incidono negativamente sulla autonomia e sull’indipendenza dei magistrati, deviando profondamente dal modello di magistrato delineato dalla Costituzione il quale, invece, come dimostra la storia e la coscienza collettiva del Paese, è soggetto attivo dello Stato di diritto che, con il proprio contributo interpretativo, contribuisce al progresso sociale rispondendo ad istanze di tutela talvolta inedite.
Dunque, abbandonando un approccio “burocratico”, per ciò stesso anacronistico, credo che un conto sia prevedere strumenti che permettano l’emersione di casi di inefficienza, altro è intervenire in maniera generalizzata contemplando forme di valutazione del lavoro dei magistrati basate sul rispetto dei numeri previsti o sulla tenuta del provvedimento adottato.
Sarà, pertanto, compito del Consiglio procedere ad una lettura costituzionalmente orientata della riforma.
La riforma Cartabia ha reintrodotto l’accesso diretto al concorso in magistratura ordinaria con la sola laurea in giurisprudenza. Questo vuol dire che, presto, ci saranno magistrati giovanissimi, di 26 o, finanche, di 25 anni, che, inevitabilmente, andranno a ricoprire le sedi di frontiera, spesso connotate da un elevato tasso di criminalità organizzata. Alla luce della tua esperienza presso il Tribunale di Vibo Valentina, come pensi il CSM possa supportare i giovani magistrati e contribuire a far sentire la presenza dello Stato anche in queste sedi periferiche?
Come ho già detto questo è senz’altro un profilo molto positivo della riforma, la cui reintroduzione era stata richiesta ed auspicata in diverse occasioni dalla magistratura, anche associata.
É altrettanto chiaro, tuttavia, che non può esaurire la misura degli interventi necessari soprattutto in sedi periferiche caratterizzate da un elevato tasso di mobilità dei magistrati e spesso da elevata densità criminale.
È, quindi, chiaro che il problema deve essere visto ed affrontato anche dal punto di vista dei capi degli uffici: risulta importante per i dirigenti di quelle sedi disporre di un organico stabile ed adeguato per far fronte alla domanda di giustizia senza che ciò mortifichi o frusti le legittime e naturali aspirazioni personali e familiari dei magistrati più giovani a cui sono naturalmente destinate sedi più disagiate.
In tal senso, allora, in una prospettiva di più lungo termine e considerando i tempi tecnici di espletamento delle procedure concorsuali e del tirocinio, ritengo che misure necessarie di cui il Consiglio deve farsi portavoce siano quelle dell’aumento degli organici, della redistribuzione della geografia giudiziaria e di una maggiore valorizzazione e formazione del personale di supporto dell’ufficio del magistrato.
Nell’immediato ed a legislazione invariata, ritengo che tale risultato possa conseguirsi mediante la introduzione di meccanismi che già in passato hanno sortito effetti positivi a fronte della permanenza dei magistrati in tali sedi per un determinato periodo di tempo.
Penso, in particolare, alla introduzione di incentivi economici e di punteggio, analogamente al trattamento già previsto e vigente per la gestione delle sedi disagiate.
Paolo Spaziani, I processualisti dell’“età aurea”. Romantici, martiri ed eroi della procedura civile
Recensione a cura di Irene Ambrosi*
Ciò che avevamo augurato si è avverato e Paolo Spaziani torna con un nuovo studio al racconto delle vite dei protagonisti della procedura civile italiana ripercorrendo un vasto orizzonte temporale che si snoda tra diciannovesimo e ventesimo secolo[1].
Lo stesso titolo ci ammonisce sulla complessità della ricerca compiuta volta a restituirci il senso di un tempo aureo, sfolgorante, popolato da giuristi romantici, addirittura eroi e martiri, tempo non irrimediabilmente perduto e che, schietto, rivive nelle belle pagine dell’Autore attraverso le idee e le opere di uomini che hanno cambiato il corso dell’esperienza giuridica e gettato le fondamenta per la costruzione dell’ordinamento processuale.
Il modello che ispira il saggio evoca l’approccio crociano alle biografie, richiama alla memoria l’emblematico libro del filosofo abruzzese Vite di avventure, di fede e di passione basato sulla «scrupolosa acribia nella documentazione e ricostruzione biografica» ma anche rivolto all’appagamento «in certa misura» della «fantasia mercé la particolarità dei fatti e la vivezza del racconto»[2].
Fantasia e vivezza del racconto costituiscono le lenti attraverso cui l’Autore tratteggia e riesce a far rivivere il carattere, il temperamento e le idee dei grandi Maestri della procedura civile.
Il volume si apre con la descrizione del primato scientifico di Lodovico Mortara che dalla cattedra volle farsi giudice «con un’autorità e coraggio» che a Salvatore Satta parvero «mitici» e dominò la scena degli studi giuridici per oltre un sessantennio, interpretando lo strumento del processo come «mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia».
Mentre Mortara «ascendeva al primato», Carlo Lessona e Giuseppe Chiovenda, «due giovani studiosi piemontesi», facevano il loro ingresso nel mondo della procedura civile.
Nel disvelarne le diverse personalità, le opere e i riconoscimenti accademici, l’Autore li descrive come appartenenti a due scuole contrapposte, il primo riconducibile a quella di Lodovico Mortara, costituendo Lessona «il valoroso scrittore» cui si riferiva la recensione anonima apparsa sulla Giurisprudenza Italiana nel 1894 (facilmente riconducibile al suo Direttore, appunto Mortara), il secondo a quella di Vittorio Scialoja, con cui si laureò nel 1893, esponente di spicco della scuola roman-germanistica, potentissimo preside della facoltà giuridica romana.
Da un lato, quindi, Mortara portatore di una concezione progressista volta a rafforzare la funzione del processo come strumento di giustizia sociale, dall’altro lato, Scialoja, difensore di una concezione liberale post-unitaria volta alla riaffermazione della perdurante attualità del diritto romano e per la costruzione di un nuovo sistema giuridico ispirato dalla scienza giuridica tedesca.
Azzardando qualche ipotesi classificatoria, Lessona può essere annoverato nella schiera dei giuristi Romantici, mentre Chiovenda a quella dei giuristi Eroi.
Le loro stesse teorizzazioni impersonarono le contrapposizioni ideologiche e metodologiche tra le due diverse sopra ricordate concezioni accademiche.
Con vivezza, Paolo Spaziani ci descrive i trionfi accademici di Chiovenda, dalla sua celeberrima prolusione a Bologna su L’azione nel sistema dei diritti, ricordata dalla dottrina come il «manifesto» della nuova scienza del diritto processuale civile tanto che il giorno in cui essa fu tenuta - il 3 febbraio 1903 - è considerato il giorno della sua «fondazione» sino alla sua chiamata all’Università di Roma nel 1906 «per chiara fama».
Con delicata umanità, ci descrive le sventure, non solo accademiche, di Lessona, dalla sconfitta derivatagli nel concorso di assegnazione della cattedra della facoltà giuridica di Napoli, per la quale gli venne preferito Chiovenda, alla grave malattia che ne seguì, sino alla sua prematura scomparsa, che «chiuse tristemente gli anni dieci del novecento».
All’indomani della scomparsa di Lessona, nel capitolo in cui è raccontato il tramonto della parabola professionale di Mortara e il levarsi di quella di Chiovenda, l’Autore ne tratteggia i rispettivi caratteri, temperamenti ed interessi personali e professionali, con calzante metafora descrivendoli come «l’anziano leone e la giovane aquila», portando alla luce i sentimenti di stima e ammirazione reciproca, rinsaldati da un’affettuosa frequentazione resa possibile dall’amicizia stretta tra le rispettive figliole, studentesse universitarie, a sfatare il luogo comune della storia della scienza processuale che li ricorda come «avversari» nell’agone giuridico.
L’intero capitolo dedicato all’arco temporale della successione del primato da Mortara a Chiovenda ruota attorno ad un anno fondamentale per la storia della scienza processuale civile italiana: il 1923.
A marzo del 1923 si realizza l’unificazione, da tempo auspicata, delle cinque Corti di cassazione accentrate in quella di Roma, cui seguirà nel maggio successivo la destituzione del suo Primo Presidente, Mortara, per volere del Governo Mussolini, il mese dopo, viene pubblicata la “Quinta puntata” dell’opera dei Principii di Chiovenda che completa lo sviluppo del suo pensiero e, nell’agosto, la sua nota sulla perpetuatio iurisdictionis (in merito al notissimo caso di Beatrice Cenci Bolognetti, “principessa” per Chiovenda, “signorina” per Mortara) con cui dalle colonne del Foro italiano, Chiovenda demolisce l’orientamento espresso da una decisione della cassazione, di ben due anni prima, di cui era stato relatore il Primo Presidente, Mortara; nel settembre dello stesso anno, giunge a casa Chiovenda, la lettera inviata da Venezia, con cui Carnelutti, riconoscendo in Chiovenda il Vivante della procedura civile, propone allo studioso di Premosello di fondare una Rivista a modello di quella del diritto commerciale. Anno che si conclude con il duplice contrattacco sferrato da Mortara il quale, fiero e combattivo come era, nel frattempo, spogliato dalla toga di primo magistrato d’Italia, aveva indossato quella di avvocato, continuando “a dar lezioni di diritto” in quelle stesse aule dalle quali, sino a ieri, aveva reso “esemplare” omaggio alla “santità della funzione giudiziaria”; nel novembre di quell’anno cruciale, esce la nuova edizione del suo monumentale Commentario e viene pubblicato il suo poderoso progetto di nuovo processo civile di cognizione in polemica contrapposizione con quello elaborato in seno alla Commissione per il dopo guerra da Chiovenda, proprio qualche settimana prima dell’entrata in vigore della legge di delega per dare al Paese un nuovo codice di procedura civile.
La ricerca di Paolo Spaziani prosegue nel racconto delle vicende professionali e personali di altre due figure emblematiche del diritto processuale, Piero Calamandrei e Francesco Carnelutti, per un trentennio, inseparabili «fratelli d’armi» nella condivisa direzione della Rivista del diritto processuale.
Vengono rievocati con profonda devozione e compassione i tratti magistrali con cui Carnelutti descrisse -appresa la notizia della morte «fulminea e tremenda» di Calamandrei- la «faticata» amicizia che li accomunava, richiamando non soltanto la contrapposizione, talora quasi violenta, che aveva contraddistinto i loro reciproci rapporti, i «combattimenti» che avevano avuto nella vita professionale, l’opposta filosofia di vita, ma anche la delicatezza dei sentimenti, sottolineando che, pur quando si scrive su una rivista scientifica, «non si può fare un taglio netto tra la testa e il cuore».
In quel toccante ricordo, Carnelutti così descrive Calamandrei: «Lui, fermo sulle posizioni del Chiovenda, guardingo, classico» e così descrive sé stesso: «Io, impetuoso, (…) romantico, in una parola».
Calamandrei viene ricondotto anche alla schiera dei giuristi Martiri e, proprio a lui, «uomo di studio, ma anche di azione» come lo definì Salvatore Satta, si deve la ricomposizione del contrasto tra le concezioni ideologiche e metodologiche di Lessona, indimenticato suo Maestro del passato e quelle di Chiovenda, suo Maestro dell’avvenire.
L’occasione gli fu data dalla ripubblicazione negli anni 1922-1924 del Trattato delle prove di Lessona, la cui Prefazione, anche attraverso i suoi buoni auspicii, venne affidata a Chiovenda. Ma questi nello stilarla, contrariamente al vero, affermò che Lessona, se in pubblico era accaduto che lo avesse avversato, in privato gli avrebbe confidato di essere un seguace delle sue idee.
Calamandrei reagì a difesa del suo primo Maestro stilando una «misteriosa» Recensione alla Prefazione con cui abilmente riuscì a ringraziare personalmente Chiovenda per aver riportato Lessona nel posto che gli spettava incarnando «il vanto più alto e il più fecondo fermento della scuola giuridica italiana» e, allo stesso tempo, farlo diretto bersaglio dell’attacco rivolto «contro la balorda indifferenza ostentata verso l’opera sua da qualche inacidito rimasticatore di rimasugli tedeschi».
Ma la pacificazione definitiva Calamandrei la attuò attraverso l’uso della celeberrima lettera del 16 settembre 1926 che Mortara gli indirizzò in occasione delle celebrazioni per il giubileo dell’insegnamento di Chiovenda che pubblicò a guisa di Prefazione agli Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel cinquantesimo anno del suo insegnamento editi nel 1927.
Calamandrei pose quella lettera a fondamento del suo manifesto metodologico, proclamò la successione tra le due scuole e ravvisò nei «due nomi esemplari, Mortara e Chiovenda, il ciclo compiuto della scienza giuridica italiana in quest’ultimo cinquantennio» tanto da ritenere compiuto quell’«eterno fluire della collaborazione» quella «gara di opere nella quale tocca per breve ora ai più degni l’onere di essere in prima fila».
Le pagine dedicate alle schermaglie teorico-scientifiche sul concetto di “lite” tra Carnelutti e Calamandrei e quelle dedicate all’ascesa definitiva di Chiovenda al primato della scienza processuale, culminata -quale sua acme- con la pubblicazione dei Saggi nel 1930-1931, tratteggiano con grande cura la rilevanza del dialogo ininterrotto tra i tre studiosi.
La presenza di questi uomini si avverte viva nell’ultimo interessantissimo capitolo dedicato Alle origini del nuovo codice, ove entra in scena la figura di Enrico Redenti, allora cinquantenne, professore a Bologna, scelto sul finire del 1932 dal ministro guardasigilli de Francisci con l’incarico di riformare il codice di procedura civile.
Una velata ironia colora le pagine in cui si indaga sul significato da attribuire al silenzio serbato dagli altri grandi protagonisti della scienza processuale alla notizia di quella scelta, silenzio cui seguì la comprensibile violenta reazione dell’impetuoso Carnelutti il quale «nell’apprendere dell’incarico a Redenti, dovette perdere definitivamente la speranza di vedere approvato il suo poderoso progetto» redatto in seno alla Sottocommissione C, presieduta da Mortara, consegnato nel 1926 all’allora guardasigilli Rocco, da ritenerlo ormai per sempre sepolto «nel buio di un cassetto ministeriale».
Carnelutti reagì dando alle stampe nel 1933 l’ennesimo saggio sul capo della sentenza, polemicamente alludendo alla vicenda e, allo stesso tempo, negli anni successivi, serbando una eloquente indifferenza verso quel progetto dalle colonne della Processuale.
Redenti portò a termine il progetto nel 1934, ma il ministro De Francisci fu sostituito da Solmi, il quale a sua volta nominò una Commissione con il compito di redigere un nuovo progetto, pubblicando allo stesso tempo, con ampio risalto, l’articolato redatto da Redenti.
Il progetto preliminare Solmi venne pubblicato nel 1937, anno luttuoso per la scienza processuale, essendo venuti a mancare, nel gennaio, Mortara e, nel novembre, Chiovenda.
Le critiche al progetto preliminare non mancarono e viene ricordata, in particolare, quella arguta e ponderata di Calamandrei che indusse il ministro a ritirarlo, per poi presentarne un altro definitivo nel 1939; l’«arguto fiorentino» rilevò in proposito che una concezione pubblicistica del processo, unita ad un’incauta restaurazione del principio di autorità, sarebbe valsa ad «aprire un varco a quella malsana tendenza seguita da qualche legge straniera» (eloquentemente richiamando il processo civile della Russia sovietica) che riducendo le leggi processuali a pochi principi direttivi, avrebbe di fatto abbandonato le parti all’arbitrio del giudice.
Ma anche Solmi fu sostituito nell’estate del 1939 e divenne ministro Grandi, il cui spessore politico, molto più saldo di quello del suo predecessore, consentì di raggiungere l’obiettivo della pubblicazione del nuovo codice nell’ottobre del 1940, questa volta redatto con la partecipazione dei tre grandi processualisti del tempo: Carnelutti, Calamandrei e Redenti, riuniti in un Comitato ristretto.
Le ultimissime pagine del saggio, nell’evocare le interessanti dispute mai sopite circa la paternità del codice di rito, divengono toccanti quando descrivono la profondità morale mostrata da Calamandrei che, pur fieramente lontano dalla ideologia illiberale dalla quale prese vita il codice, prestò collaborazione decisiva ai lavori di preparazione, risolvendo favorevolmente l’interrogativo etico sul se prestare o meno la consulenza richiestagli dal governo, se essa poteva servire a dare un codice migliore ai suoi concittadini.
È naturale leggendo le pagine di questo studio avere l’impressione che esse disvelino l’umana esperienza e la sensibilità del narratore che, ora come giudice di legittimità e, prima ancora, come giudice di merito, mostra una sensibilità fuori dal comune quasi che mediante la ricerca intorno alle idee e alle vite di questi protagonisti della scienza giuridica ne condivida il sentire e finanche il patire, conscio sino in fondo che i loro scritti, come affermò lo stesso Calamandrei «non temono gli anni» ed ai quali «si ama consacrare l’angolo più vicino e più caro della biblioteca» così da avvertire nella loro lettura e rilettura «la presenza di uomini, il ricordo dei quali quando lo troviamo ad accoglierci come un tesoro nel raccoglimento della biblioteca, basta a dare senso, incitamento e direzione esemplare alla nostra vita».
*Recensione già pubblicata su Giudice donna on line n.1/2022.
[1] Cfr. recensione al Volume di P. Spaziani, La procedura civile in Italia nei primi anni del XX secolo Lessona, Chiovenda e Calamandrei nel tempo del primato di Mortara, Roma, 2019, su questa Rivista.
[2] B. CROCE, Vite di avventure, di fede e di passione, Bibliopolis, 2022. Citazione in esergo tratta da M. Ciliberto, Vite che ha senso raccontare, Sole 24 ore, 2022.
Sicurezza e sfruttamento sul lavoro. Come spezzare la catena
Presentazione di Tiziana Orrù
Con la fine della XVIII legislatura della Repubblica Italiana si concludono anticipatamente i lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, costituita presso il Senato e presieduta dal senatore Gianclaudio Bressa.
La Commissione, oltre alle tradizionali audizioni di associazioni, sindacati ed esperti nelle sedi parlamentari, è uscita all’esterno del ‘Palazzo’, con sopralluoghi e visite ispettive in tutto il territorio nazionale per acquisire “sul campo” elementi utili ai compiti istituzionali.
Sicurezza e sfruttamento costituiscono due costanti insopprimibili del mondo del lavoro: la Commissione parlamentare ha provato a spezzare questo dualismo evidenziando da un lato che infortunarsi sul lavoro, spesso con esiti mortali, non ha solo un costo di dolore per il lavoratore e la sua famiglia, ma costituisce un danno per la stessa azienda e per l’intera società. Stimare gli impatti economici e sociali di sfruttamento e mancata tutela di salute e sicurezza sul lavoro non è semplice, ma secondo la Commissione occorre al più presto trovare un sistema di misurazione condiviso, un indicatore economico che consenta di valutare i danni dell’inosservanza delle norme e al tempo stesso i benefici che derivano dall'applicazione delle normative in materia di sicurezza e di regolarità del rapporto di lavoro, considerando anche il return on prevention per l’Italia. Questo nuovo indicatore può essere realmente l’unico vero indice di legalità e di illegalità del lavoro nel nostro Paese.
Da un altro lato la Commissione ha denunciato il lato oscuro del mercato del lavoro in evoluzione con la transizione digitale. L’utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie ha fatto emergere il fenomeno del “caporalato digitale” dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli. Non è più soltanto il furgone a caricare al mattino i lavoratori in attesa della chiamata, ma è l’uso degli algoritmi che costituisce il fulcro per lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco, allora, che il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale possano diventare strumenti senza controllo.
Il nuovo “caporalato” nei magazzini della logistica non risulta ancora documentato in modo rigoroso, ma è del tutto simile a quanto avviene in agricoltura. Nel comparto la Commissione ha registrato fenomeni di severo sfruttamento lavorativo, con controlli e ritmi serrati che ricalcano le condizioni di lavoro nelle catene di montaggio degli anni Sessanta. Non a caso le vittime degli incidenti sul lavoro sono, la maggior parte delle volte, gli anelli deboli della catena lavorativa. Se a subire quasi sempre gli eventi lesivi sono gli operatori della fascia più bassa, evidentemente vi è un sistema dell’impresa che spesso, soprattutto in alcune aziende medie o piccole, non presta la dovuta attenzione agli obblighi della sicurezza e scarica sui lavoratori i deficit dell’ambiente di lavoro.
Non si muore, dunque, soltanto di cadute dall’alto o per schiacciamento, ma anche di cattiva organizzazione.
Il 25 maggio 2022 in un convegno alla presenza, in qualità di relatori, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, della Presidente della Commissione lavoro del Senato e del Direttore Capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro è stata presentata la relazione intermedia dei lavori della Commissione d’inchiesta nonché un importante disegno di Legge (in allegato) “Disposizioni volte a tutelare il lavoro nei casi di utilizzo di piattaforme digitali e a contrastare i fenomeni di sfruttamento lavorativo”.
In qualità di consulente esterno della Commissione d’inchiesta per la novità dei temi trattati ritengo utile condividere con i lettori di questa rivista, sempre particolarmente attenta ai temi di attualità sociale oltre che giuridica, il testo della relazione dell’onorevole Bressa e del disegno di legge n° 2628/2022.
Intervento per il Convegno “Salute e sicurezza dei lavoratori in un mondo del lavoro in continua evoluzione” - 25 maggio 2022
di Gianclaudio Bressa
La Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, si è costituita il 12 maggio del 2021.
Subito c'è stata in tutti noi la consapevolezza della delicatezza del compito che avevamo: morire di lavoro è una tragedia umana e morale inaccettabile.
Ma proprio per questo diventava necessario comprendere ed elaborare i dati tremendi con cui ci dovevamo confrontare e per dirla con Aldous Huxley, grande scrittore della narrativa distopica, che descrive un mondo indesiderabile e spaventoso, dovevamo evitare che la verità dei fatti e degli avvenimenti tragici finisse affogata in un mare di irrilevanza.
Avendo ben chiare due cose:
la prima, il lavoro è cambiato, profondamente cambiato, tanto è vero che si parla di New Work;
la seconda, l'endiadi ambiente di vita e di lavoro, diventa linguaggio della legge.
E questo significa essenzialmente due cose:
la prima, che la vicenda ordinamentale ha saldato, progressivamente nel tempo, tutele nei rapporti tra privati e tutele assolute, affidate alla garanzia dello Stato, evidenziando una trasformazione dell'originaria obbligazione datoriale di sicurezza, un dovere per il datore di lavoro, in un diritto individuale assoluto del lavoratore e in un interesse della collettività;
la seconda che si può parlare di lavoro buono - per dirla con il Centro di ricerca sulle scienze sociali di Berlino - quando sono disponibili risorse sufficienti e possibilità di sviluppo per i dipendenti, un reddito adeguato, la sicurezza sul posto di lavoro e i diritti di codecisione.
Nonostante l’insediamento della Commissione sia avvenuto in una fase ormai inoltrata della Legislatura, la Commissione ha immediatamente iniziato la propria attività, con l’avvio di una serie di audizioni per acquisire immediatamente una serie di elementi informativi su un tema così attuale e delicato quale quello della sicurezza sui luoghi di lavoro e delle diverse forme di sfruttamento dei lavoratori.
Accanto al tradizionale strumento delle audizioni, la Commissione ha ritenuto di acquisire «sul campo» una serie di ulteriori elementi attraverso diversi sopralluoghi nell’ambito dei quali, in alcuni casi, sono stati utilizzati tutti i poteri d’inchiesta attribuiti dalla Costituzione, dalla delibera istitutiva e dal regolamento interno.
In particolare la Commissione ha svolto una serie di sopralluoghi focalizzando la propria attenzione sul tema dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura, con particolare riguardo al fenomeno del caporalato.
Il raggio di azione si è presto allargato per approfondire fenomeni di sfruttamento presenti non solo nel settore agricolo, ma anche nel comparto tessile (significativa tra tutte, la missione svolta nella realtà del distretto tessile di Prato) e, più in generale, in alcune realtà industriali a volte insospettabili.
Ne è emerso un quadro di come il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori, da parte di caporali senza scrupoli, si sia evoluto significativamente nel corso degli ultimi anni.
Si è passati, infatti, in un breve arco temporale, dai casi di un forte coinvolgimento della malavita organizzata locale a situazioni di sfruttamento di lavoratori indifesi, quasi sempre stranieri, da parte di loro connazionali che organizzano il loro trasferimento dal Paese d’origine fino al luogo di lavoro, nel quale quotidianamente vengono negati i loro diritti di persone, prima ancora che di lavoratori.
La Commissione, inoltre, ha voluto dedicare un focus specifico anche alle ulteriori nuove forme di sfruttamento che si affiancano, purtroppo, ai casi di sfruttamento più tradizionali.
Da questo punto di vista le missioni della Commissione hanno consentito di acquisire utili elementi informativi, con un rilievo particolare per il settore della logistica.
Ma veniamo, in sintesi, ai primi risultati del lavoro della Commissione d'inchiesta, che hanno scoperchiato un pericoloso vaso di Pandora, fatto di sfruttamento e mancato rispetto delle norme di sicurezza: dal 3 al 6 percento del PIL divorato dagli infortuni sul lavoro; l’emergere del “caporalato digitale”, che arruola non più braccianti, ma lavoratori della gig economy; cooperative “spurie”, che impongono un nuovo "caporalato urbano" e dettano le regole dell'illegalità nei magazzini.
Infortunarsi sul lavoro, spesso con esiti mortali, non ha solo un costo di dolore per il lavoratore e la sua famiglia, (una conseguenza di un infortunio potrebbe comportare, ad esempio, l'incapacità dei figli del lavoratore infortunato di proseguire gli studi per la diminuzione del reddito familiare) ma anche per la stessa azienda e per l’intera società. In Italia, secondo stime dell’Inail, il danno economico causato da infortuni e malattie professionali è risultato, nel 2007, pari a quasi 48 miliardi di euro, ovvero più del 3% del Pil, ma gli studi internazionali, riportati nella “Relazione intermedia sull’attività svolta” della Commissione, indicano che l’incidenza stimata dei costi totali sul PIL è significativamente superiore anche ai dati europei finora conosciuti, e vede la percentuale più alta per la Polonia (10,2%), mentre per l’Italia raggiunge il 6,3% del Pil.
Stimare gli impatti economici e sociali di sfruttamento e mancata tutela di salute e sicurezza sul lavoro non è semplice, ma secondo la Commissione occorre al più presto trovare un sistema di misurazione condiviso, un indicatore economico che consenta di valutare i danni dell’inosservanza delle norme e al tempo stesso i benefici che derivano dall'applicazione delle normative in materia di sicurezza e di regolarità del rapporto di lavoro, considerando anche il ritorno in prevenzione per l’Italia (in vari paesi del mondo si attesta su 2,2, cioè per ogni euro speso vi è un ritorno positivo che va oltre il doppio). Questo nuovo indicatore può essere realmente un autentico e attendibile indice di legalità e di illegalità del lavoro nel nostro Paese.
Quel che è certo è che l’enorme dispendio di ricchezza, di benessere e di salute tocca tutta Italia, perché l’altro aspetto che delinea la Relazione, è un’economia nazionale dove, da nord a sud, da est a ovest, si registra il dato tragico delle morti e degli incidenti gravi o gravissimi per cause di lavoro. Nessuna regione risulta esente da questa piaga indegna per un paese civile.
Se il lavoro è cambiato e si sta evolvendo, se oggi parliamo di transizione digitale in atto, non dobbiamo pensare che il lato oscuro del mercato del lavoro non evolva.
L’utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie ha fatto emergere il fenomeno del “caporalato digitale” dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli. Non è più soltanto il furgone a caricare al mattino i lavoratori in attesa della chiamata, ma è l’uso degli algoritmi che costituisce il fulcro per lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco, allora, che il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale, possano diventare strumenti senza controllo.
La spasmodica ricerca di risparmio dei costi è spesso attuata a svantaggio della sicurezza sul lavoro e il mezzo per realizzare tali risparmi sono le cooperative “spurie”, che nascono e muoiono giusto il tempo della durata di un appalto o di un subappalto. La logistica e l'edilizia sono i settori che più soffrono per situazioni borderline con soggetti che utilizzano manodopera irregolare o applicano ai dipendenti contratti collettivi con meno diritti e meno tutele di quelli previsti dai rispettivi contratti nazionali di categoria. Oltretutto creando di fatto una concorrenza sleale rispetto a chi li rispetta e li applica. Negli ultimi anni i cicli di lotte dei facchini (costituiti maggiormente da forza lavoro migrante), in particolare nei distretti logistici e magazzini del Nord-est, dell’Emilia-Romagna e della Lombardia, hanno fatto emergere l’opacità della catena degli appalti, dovuta alla presenza di cooperative spurie ed anche irregolarità ed abusi subiti dai lavoratori.
Il nuovo “caporalato” nei magazzini, non risulta ancora documentato in modo rigoroso, ma è del tutto simile a quanto avviene in agricoltura. Nel comparto, la Commissione ha registrato fenomeni di severo sfruttamento lavorativo, con controlli e ritmi serrati che ricalcano le condizioni di lavoro nelle catene di montaggio degli anni Sessanta. Non a caso le vittime degli incidenti sul lavoro sono, la maggior parte delle volte, gli anelli deboli della catena lavorativa.
Se a subire quasi sempre gli eventi lesivi sono gli operatori della fascia più bassa, evidentemente vi è un sistema dell’impresa che spesso, soprattutto in alcune imprese medie o piccole, non presta la dovuta attenzione agli obblighi della sicurezza e scarica sui lavoratori i deficit dell’ambiente di lavoro. Non si muore, dunque, soltanto di cadute dall’alto o per schiacciamento, ma anche per la cattiva organizzazione.
Sicurezza e sfruttamento, insomma, sembrano essere due costanti insopprimibili del mondo del lavoro: la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia ha provato a spezzare questo dualismo.
A tale proposito la Commissione ha predisposto un disegno di legge che propone una attuazione concreta delle proposte elaborate nel corso di questi mesi.
L’articolo 1 reca alcune disposizioni volte a tutelare il lavoro nei casi di utilizzo di piattaforme digitali.
Negli ultimi anni, infatti, si è assistito alla nascita di nuovi fenomeni di sfruttamento del lavoro quali, ad esempio, il caporalato digitale dove i lavoratori della gig economy si affiancano ai lavoratori già protagonisti di fenomeni di sfruttamento fino ad ora conosciuti (tipico il caso dei braccianti agricoli).
Il luogo e l’orario di lavoro sono oggi concetti fluidi, regolati da una nozione normativa classica che necessita di una disciplina specifica e maggiormente al passo con i tempi, in grado di tutelare le nuove esigenze di sicurezza.
Le moderne tecnologie, infatti, stanno modificando radicalmente la dimensione spazio-temporale dei luoghi di lavoro.
Vi è inoltre un pericolo più profondo e cioè che l'utilizzo dell’algoritmo artificiale possa diventare uno strumento prescrittivo senza controllo.
Gli algoritmi funzionano principalmente come sistemi atti a produrre canoni da considerare come standard al quale adeguarsi per massimizzare la performance dei lavoratori.
Questi congegni vengono oggi utilizzati per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori.
A tale riguardo si ritiene necessario introdurre una serie di disposizioni che stabiliscano dei livelli minimi di tutela per tutti i lavoratori della gig economy.
Per questo l’articolo 1 individua una serie di casi precisi in cui, qualora la prestazione avvenga tramite piattaforme digitali, si considera lavoratore subordinato chiunque si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, anche se la prestazione sia svolta in tutto in parte con strumenti che siano nella disponibilità del prestatore.
Le precise condizioni individuate dall’articolo 1 per attribuire la qualifica di lavoratore subordinato traggono spunto dai diversi casi giurisprudenziali già affrontati su queste tematiche.
L’articolo 2 reca alcune misure ulteriori di protezione dei dati personali dei lavoratori nel caso in cui il committente utilizzi delle piattaforme digitali. In particolare si prevede che le piattaforme non possano raccogliere dati personali quando il lavoratore delle piattaforme digitali non sta svolgendo un lavoro richiesto dal sistema automatizzato.
L’articolo 3 introduce dei nuovi obblighi a carico del committente che utilizzi delle piattaforme digitali.
Nello specifico il committente dovrà monitorare e valutare periodicamente l’impatto sulle condizioni di lavoro delle decisioni prese dai sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati nonché valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori delle piattaforme digitali, in particolare per quanto riguarda i possibili rischi di infortunio sul lavoro nonché i rischi psico-sociali ed ergonomici.
L’articolo 4 affronta un tema particolarmente delicato quale quello delle tutele dei lavoratori dipendenti di ditte subappaltatrici.
A tale riguardo, anche sulla base di quanto emerso dall’attività della Commissione parlamentare di inchiesta, si stabilisce che il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto, nonché riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e giuridico non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l’applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro.
L’articolo 5 prevede una specifica fattispecie penale al fine di contrastare i fenomeni di somministrazione fraudolenta di lavoro.
Si tratta, in sostanza, di contrastare il fenomeno delle cosiddette cooperative spurie. A tale riguardo viene punita la condotta di chi, al fine di eludere delle norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore, anche se socio lavoratore di cooperativa, assicura della somministrazione di lavoro in modo fraudolento violando i diritti del lavoratore stesso.
L’articolo 6 introduce delle disposizioni volte a contrastare l’organizzazione dell’attività lavorativa mediante violenza o minaccia attraverso l’introduzione, all’interno del codice penale (art. 603 bis C.P.), di un’autonoma e specifica fattispecie di reato, tesa a sanzionare la condotta di chiunque, con violenza o minaccia, costringa il lavoratore ad accettare la corresponsione di trattamenti remunerativi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collettivi, ovvero a rinunciare a diritti spettanti in relazione al rapporto di lavoro procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto.
L’articolo 7 è volto a colmare una lacuna normativa in materia di responsabilità dell’ente, estendendo la responsabilità, nell’ambito di gruppi di imprese, all’ente controllante che, giuridicamente o di fatto, svolge un controllo su altre imprese collettive nei casi in cui si verifichino delle condizioni di sfruttamento lavorativo.
Da ultimo l’articolo 8 riproduce alcune disposizioni aggravanti nel caso di reato di estorsione, qualora si sia in presenza di sfruttamento di prestazioni svolte da un numero di lavoratori superiori a tre, o qualora uno o più dei lavoratori sfruttati siano stranieri irregolarmente presenti nel territorio italiano o minori in età non lavorativa.
Si segnala, da ultimo, che per quanto attiene ad eventuali ipotesi di intervento normativo per assicurare adeguata tutela ai lavoratori che denunciano situazioni di sfruttamento, si è ritenuto di non inserire delle apposite previsioni nel presente disegno di legge, essendo attualmente all’attenzione del Parlamento un provvedimento specifico, di iniziativa parlamentare (dei senatori Nannicini e Ruotolo), che affronta in maniera organica tale questione.
Così come anche per la previsione di una Procura nazionale del lavoro, in quanto già in discussione al Senato un disegno di legge a prima firma del senatore Iunio Valerio Romano che introduce tale organismo.
Una riflessione conclusiva.
Ho detto all'inizio di questo intervento che occorre una rivoluzione culturale. Il nostro compito è agevolato dalle previsioni della nostra Costituzione agli artt. 1-2-3-32 e 41 nella nuova formulazione. Ma mi piacerebbe che per noi New Work fosse quello pensato da Frithiof Bergmann, un filosofo sociale nato in Austria e vissuto negli USA.
Bergmann con la sua nozione di New Work intendeva creare un'utopia: una società del lavoro migliore, dove l'uomo non esiste per lavorare, ma il lavoro esiste per l’uomo.
Il Senato della Repubblica, approvando le proposte di modifica legislativa che la Commissione propone, ha l'occasione per avviare questo processo di profonda rivoluzione culturale e di importante riforma politica. Non sprechiamola.
Ricordo di Mimmo Carcano
di Gaetano De Amicis
La scomparsa di Mimmo Carcano, fine giurista e civil servant, personalità di multiforme ingegno e rara sensibilità, lascia un vuoto incolmabile nei tanti amici e colleghi che in lui hanno avuto un costante punto di riferimento nell’esercizio delle attività giudiziarie.
Sempre misurato nei toni e garbato nelle forme, il suo tratto gentile e felpato disvelava un profondo senso di umanità, accompagnato sempre da un lieve sorriso, il cui ricordo restituisce alla memoria personale e collettiva l’immagine indelebile di un giudice colto ed impegnato, che non ha mai fatto inutile esibizione delle sue capacità professionali ed organizzative.
Estremamente ricco e di enorme spessore è stato il suo percorso professionale, istituzionale e scientifico.
Numerose, e tutte di alto profilo, sono state le funzioni da lui svolte lungo un cammino segnato da una costante combinazione di “saperi” acquisiti nell’esercizio di attività giudiziarie, istituzionali e scientifiche, con il conseguente travaso di specifiche competenze in ciascuno dei settori ove egli ha prestato il suo servizio.
Ho avuto modo di conoscerlo e di ammirarne le capacità sin dal 1998, quando fui collocato fuori ruolo presso la Direzione generale degli affari penali, ove egli svolgeva le funzioni di Direttore generale vicario e seguiva, con grande abilità diplomatica, i negoziati in corso a Bruxelles presso i numerosi tavoli di lavoro ove si discutevano i progetti relativi all’elaborazione di fondamentali strumenti normativi e programmatici dell’Unione europea (come i Piani di contrasto e prevenzione della criminalità organizzata, la Convenzione del 29 maggio 2000 sull’assistenza giudiziaria penale, Eurojust, il mandato di arresto europeo ecc.), la cui adozione ha profondamente segnato nel corso del successivo decennio l’evoluzione della cooperazione giudiziaria penale, dando seguito alle raccomandazioni formulate dal Consiglio europeo di Tampere del 15 ottobre 1999.
Da allora i nostri percorsi professionali si sono più volte incrociati, dapprima nell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, ove egli svolgeva le funzioni di Vice Direttore, quindi, all’atto del suo rientro in ruolo dopo aver assunto le funzioni di Capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, presso la Sesta Sezione penale della Corte, cui Mimmo venne riassegnato come Consigliere, per ricoprirvi in seguito le funzioni di Presidente non titolare.
Quando, nel 2018, fu nominato Primo Presidente aggiunto della Corte, ho avuto l’onore di collaborare nuovamente con lui, nei collegi delle Sezioni Unite penali che egli ha presieduto con grande capacità dialogica e garbata autorevolezza.
E’ stato per me un amico e collega prodigo di consigli e suggerimenti, guida costante e fonte di continuo insegnamento nella conoscenza dei complessi meccanismi di funzionamento della giurisdizione penale di legittimità.
Non sono certo il solo, del resto, poiché tutti coloro che hanno avuto il privilegio di frequentarlo o di collaborare con lui ne hanno potuto subito riconoscere le impareggiabili doti di umanità, specchio profondo di una personalità naturalmente “dialogante”, mai impositiva, e sempre disposta alla considerazione e all’ascolto dei suoi interlocutori.
Entrato in Magistratura nel 1980, egli ha svolto sino al 1989 le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica, dapprima presso il Tribunale di Treviso, quindi presso il Tribunale di Trani, per poi essere collocato fuori dal ruolo organico della Magistratura e destinato prima alla Segreteria, quindi all'Ufficio Studi del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nel luglio del 1996 venne riconfermato fuori ruolo e destinato al Ministero della Giustizia con funzioni di Capo della Segreteria e di Direttore Generale vicario della Direzione generale degli affari penali, ove assunse, in seguito, anche le funzioni di Direttore dell'Ufficio II, organo ministeriale di competenza strategica nella gestione delle procedure di estradizione e delle rogatorie internazionali.
Nell’esercizio di tali incarichi egli si occupò della redazione di testi legislativi di particolare rilevanza, come quelli che hanno riguardato la istituzione del giudice monocratico di primo grado, la disciplina relativa alla responsabilità degli enti collettivi e la modifica dell’art. 111 della Costituzione, con l’introduzione delle correlative norme processuali per l’attuazione del principio della formazione della prova nel contraddittorio delle parti.
Nel 2001 tornò in ruolo per essere destinato con funzioni di applicato di appello all'Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, svolgendovi poi, dall’aprile del 2005, le funzioni di Consigliere presso la Sesta Sezione penale.
Fu successivamente nominato, nel 2006, Vice Direttore dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo per il settore penale, dando un rilevante impulso alla riorganizzazione delle complesse attività di selezione delle sentenze da massimare, alla individuazione dei contrasti giurisprudenziali, all’esame delle novità legislative, alla elaborazione delle rassegne annuali di giurisprudenza e, soprattutto, alla predisposizione delle relazioni sui ricorsi trattati dalle Sezioni Unite penali.
Nell’esercizio delle funzioni di Vice Direttore del Massimario, all’epoca guidato con la lungimirante visione del Presidente Giovanni Canzio, egli mise in mostra un impegno organizzativo di fondamentale importanza per il miglioramento della funzione nomofilattica della Corte, sviluppando un modulo volto a privilegiare la più ampia collegialità allo scopo di ottenere i migliori risultati nella selezione delle sentenze dalle quali estrarre i principi di diritto rilevanti al fine di assicurare l’uniformità delle pronunce, con la pronta segnalazione dei contrasti giurisprudenziali in modo da consentire alle Sezioni della Corte di valutare le modalità attraverso le quali ricomporre i diversi orientamenti e, se del caso, rimettere la questione controversa alle Sezioni Unite.
Contemporaneamente alla sua attività di coordinatore e responsabile dei servizi penali dell’Ufficio del Massimario, Mimmo ebbe modo di mostrare la sua straordinaria versatilità anche nello svolgimento, dal novembre 2001 al gennaio 2005, delle funzioni di assistente di studio a tempo parziale del Prof. Piero Alberto Capotosti, Giudice della Corte costituzionale, approfondendo la conoscenza di tematiche, a lui care, come quelle relative all’assetto e al funzionamento dell’Ordinamento Giudiziario, oltre ai profili problematici attinenti all’ambito di applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione in tema di conflitti fra Stato e Regioni.
Nel 2013 fu nominato Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, rinnovando, in collaborazione con più Ministri, il suo impegno istituzionale nelle attività di esame ed elaborazione di testi legislativi di grande rilevanza sia nel settore civile che in quello penale ed internazionale.
Al riguardo basti solo menzionare, quanto alla materia civile, l’ampio ventaglio delle misure processuali oggetto del decreto legislativo 19 febbraio 2014, n. 14, recante “Disposizioni integrative, correttive e di coordinamento delle disposizioni di riforma della geografia giudiziaria” di cui ai decreti legislativi nn. 155 e 156 del 2012, ovvero il decreto legge 12 settembre 2014 n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 12 novembre 2014 n. 162, recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile”, con l’introduzione di misure volte a regolare la translatio in sede arbitrale di procedimenti civili pendenti in primo e secondo grado di merito, la procedura di negoziazione assistita dagli avvocati, anche in materia di separazione e divorzio, la migliore funzionalità del processo civile di cognizione (in particolare con la compensazione delle spese e il passaggio dal rito ordinario al rito sommario), la tutela del credito e l’accelerazione del processo di esecuzione forzata e delle procedure concorsuali (con l’introduzione della nota di iscrizione a ruolo con modalità telematiche e del monitoraggio delle procedure esecutive individuali e concorsuali).
Quanto al settore penale, può rammentarsi la serie dei provvedimenti relativi alla attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67, di delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio penale, con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, in materia di abrogazione dei reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, in materia di depenalizzazione, e, soprattutto, il d.lgs. 15 marzo 2015, n. 28, in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, con l’introduzione del nuovo istituto disciplinato dall’art. 131-bis cod. pen.
Altro profilo problematico di grande rilevanza, e di delicata gestione anche sul piano mediatico, fu quello che vide il suo impegno nella introduzione di rimedi risarcitori nel sistema della legge penitenziaria del 1975, con la entrata in vigore del decreto legge n. 92 del 2014, convertito nella legge n.117 del 2014, in modo da rispettare gli effetti della pronuncia della Corte EDU nel caso ”Torreggiani” del 9 gennaio 2013.
Di fondamentale importanza si è rivelato il suo contributo alla ridefinizione degli assetti organizzativi interni della Corte di Cassazione e alla evoluzione della giurisprudenza di legittimità, sia come Presidente non titolare della Sesta Sezione penale - peraltro in coassegnazione alla Terza Sezione Penale e, in seguito, alla Prima Sezione penale, ad ulteriore riprova della sua generosità e dello spirito di dedizione mostrato nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali – sia, dal 2018 e sino al giugno 2020, nell’esercizio delle funzioni apicali di Primo Presidente aggiunto della Corte di Cassazione.
Un filo conduttore è sempre rinvenibile nella motivazione delle pronunce di cui è stato relatore ed estensore, ovvero in quelle emesse dai collegi da lui presieduti: l’attenzione per il rispetto e la fedele attuazione delle garanzie sostanziali e processuali ai fini della migliore tutela e della progressiva espansione dei diritti fondamentali e la valorizzazione del principio di tassatività della legge penale, nel quadro di un’interpretazione costantemente “in ascolto” delle parti, sensibile al portato delle riflessioni dottrinali ed orientata alla condivisa ricerca del migliore punto di equilibrio del caso, ma sempre fortemente ancorata ai limiti segnati dall’alveo semantico delle disposizioni normative.
Continuità con il passato e, al contempo, grande apertura culturale alle problematiche derivanti dalla progressiva emersione di nuove istanze di tutela, con particolare riguardo alla dimensione europea ed internazionale della produzione normativa e alla crescente rilevanza della elaborazione giurisprudenziale sedimentatasi nell’attività delle Corti europee, mantenendo inalterati il prestigio istituzionale e il proprium della funzione nomofilattica di una Suprema Corte nazionale in costante raccordo con il quadro evolutivo, sempre più complesso e articolato, delle esigenze di garanzia dei diritti fondamentali: questa la cifra profonda, e ultima, del sostrato valoriale che ha connotato il dispiegarsi dell’attività svolta dalla Corte di legittimità sotto la presidenza di Mimmo Carcano.
Numerose le decisioni di rilievo assunte dalle Sezioni Unite della Corte nel corso del suo mandato presidenziale.
Solo a titolo esemplificativo, ed in estrema sintesi, possiamo ricordarne alcune:
a) la decisione relativa al divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate, ritenuto non operante con riferimento agli esiti relativi ai soli reati connessi, ex art. 12 cod. proc. pen., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata "ab origine" disposta, sempreché rientranti nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 cod. proc. pen. (n. 51 del 28/11/2019, Cavallo);
b) la decisione (n. 8544 del 24/10/2019, Genco) sull’ambito di applicazione dei principi enunciati nella sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 (caso Contrada contro Italia), ritenuti non estensibili nei confronti di coloro che, pur trovandosi nella medesima posizione del diretto interessato, non abbiano proposto ricorso in sede europea;
c) la pronuncia (n. 41736 del 30/05/2019, Bajrami) sulla portata del principio di immutabilità del giudice e sui limiti della rinnovazione del dibattimento per suo mutamento, con la precisazione della non necessarietà del consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile;
d) quella (n. 13178 del 28/11/2019, Guadagni) sulla delimitazione della tutela penale della concorrenza in relazione alla configurabilità del reato di cui all'art. 513–bis cod. pen., ove si è ritenuto necessario il compimento di atti di concorrenza non solo posti in essere nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, ma connotati dall’esercizio di violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell'impresa concorrente, con la sottolineatura della centralità, ai fini dell'ermeneusi della norma, del principio di libera concorrenza come discendente, oltre che dall'art. 41, comma 1, Cost., dalla normativa di riferimento, sia interna che euro-unitaria);
e) la sentenza in tema di dichiarazione di assenza dell’imputato, ai cui fini non può considerarsi quale presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, dovendo il giudice verificare, in ogni caso, che vi sia stata l'effettiva instaurazione di un rapporto professionale con il legale domiciliatario, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa (n. 23948 del 28/11/2019, Ismail).
Analoghe connotazioni di svolgimento e indirizzo delle sue capacità argomentative erano emerse nei decisivi contributi offerti, nell’esercizio delle funzioni di Consigliere, allo sviluppo della giurisprudenza di legittimità in materia di reati di corruzione e concussione (all’indomani della riforma legislativa del 2012 e della fondamentale decisione adottata dalle Sezioni Unite Maldera nel 2013), come pure nella originale individuazione di soluzioni ermeneutiche volte a garantire, a fronte di, apparentemente insormontabili, anomie del sistema, il rispetto delle garanzie del contraddittorio processuale nella esecuzione delle sentenze della Corte EDU (caso “Drassich”).
È difficile, se non impossibile, dar conto in questa sede della importanza dell’attività da lui svolta ai fini della promozione del dibattito scientifico all’interno della comunità dei giuristi sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità nel corso della sua pluriennale codirezione di una rivista prestigiosa come Cassazione penale, come pure della sua vasta e rilevante produzione scientifica, la cui fondamentale caratteristica, pienamente in linea con la molteplicità degli interessi coltivati, è stata quella di spaziare, con acutezza di ragionamento e nitore argomentativo, sulle più disparate tematiche di attualità non solo del diritto e della procedura penale, ma anche dell’ordinamento giudiziario, della cui analisi ricostruttiva è stato, nel corso degli anni, uno dei più autorevoli ed apprezzati interpreti.
Mimmo non è stato solo un giudice di eccezionale preparazione giuridica, ma un uomo delle istituzioni a tutto tondo, capace di offrire in più occasioni, con sapienza, prudenza e tatto diplomatico, le sue straordinarie competenze tecniche e professionali al loro esclusivo servizio, mantenendo sempre inalterato il suo personale profilo di indipendenza ed autonomia di Magistrato.
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