ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Focus sui programmi di scambio internazionale tra i magistrati - 4. Scambi EJTN di breve durata: una finestra sugli ordinamenti giuridici europei. Osservazioni a margine, in chiave comparativa, su quello olandese
di Sara Varazi
Da Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Agrigento ho avuto l’occasione di partecipare al programma EJTN nel giugno di quest’anno, con uno scambio di breve durata – pari a cinque giorni - con destinazione Olanda.
L’esperienza, seppur breve, è stata ricca di occasioni di confronto e ha fornito diversi spunti di riflessione, anche in chiave comparata, di particolare interesse.
Gli incontri frontali di gruppo, tenuti dai membri formatori della SSR - ossia l’ente responsabile della formazione permanente dei magistrati olandesi – sono stati finalizzati alla presentazione complessiva delle caratteristiche fondamentali del sistema giudiziario olandese, dalle modalità di accesso alla descrizione concreta dell’esercizio delle varie funzioni.
Questa parte del programma è stata gestita con eccezionale spirito pratico, fornendo gli elementi essenziali per poter impostare un proficuo confronto fra tutti i partecipanti, chiedendo a ciascuno di descrivere le principali differenze notate con i rispettivi sistemi giuridici di provenienza, invitando a una continua riflessione e permettendo di evidenziare, all’esito del dibattito continuo, eventuali criticità.
Ciò che più mi ha colpito di questa parte del programma, e che più mi ha fatto riflettere sull’importanza della partecipazione a programmi internazionali come l’EJTN, è stato notare come talvolta le considerazioni svolte da uno siano apparse agli occhi degli altri partecipanti quasi aliene. Ciò ha indotto ciascuno a riflettere sul come certe conclusioni e soluzioni percepite come ovvie, quasi naturali, agli occhi di altre culture giuridiche possano apparire assurde, del tutto inefficaci, o addirittura inspiegabili.
Siamo, per esempio, stati chiamati a confrontarci sull’assiomatica veridicità delle seguenti affermazioni: “un pubblico ministero o un giudice non dovrebbe mai rifiutarsi di seguire/decidere un procedimento in ragione del timore per la propria incolumità personale. Una persona non in grado di fare ciò non è qualificata all’esercizio della funzione”, ed ancora “l’integrità è il valore più importante in assoluto, anche più della sicurezza personale”, o “un pubblico ministero o un giudice non dovrebbero, in nessun caso, avere facoltà di utilizzare i social media (per ragioni di integrità, possibile apparenza di parzialità, sicurezza etc.)”.
Si tratta di temi particolarmente delicati, in relazione ai quali la cornice valoriale di riferimento - dettata anche da vicende extra o para giudiziarie e dal susseguirsi ed alternarsi di diversi momenti storici in ciascuno dei paesi di provenienza - ha condotto a risposte diverse, anche radicalmente opposte, eppure tutte ugualmente valide. L’evidente provocatorietà insita nel porre le affermazioni come categoriche, ha indotto un dibattito tutto fondato sulla valorizzazione ora di un aspetto, ora della sua antitesi, arrivando a considerazioni conclusive di sintesi il più possibile equilibrate, senza tuttavia poter colmare alcune di quelle distanze date dal confronto di persone provenienti da paesi con storie radicalmente diverse.
Di particolare interesse, poi, mi è sembrata la descrizione del processo di selezione dei nuovi magistrati olandesi che, per come ci è stato presentato, si basa prevalentemente sulla capacità dimostrata dal candidato di imparare, di applicarsi, di implementare le proprie conoscenze e abilità, più che sul bagaglio di conoscenza giuridica da questo già acquisito. Previa una necessaria e documentata esperienza lavorativa nel settore legale, il candidato, difatti, inizia un percorso di formazione – tanto più breve quanto più lunga è stata la pregressa esperienza sul campo - che pare assimilabile al nostro uditorato, all’esito del quale viene valutato come idoneo o meno. L’applicazione delle proprie conoscenze all’esercizio della funzione (o delle funzioni), dunque, precede e non segue la selezione dei magistrati.
Questo differente approccio ha indotto una riflessione sul delicato necessario equilibrio, nella selezione e formazione dei nuovi magistrati, fra l’acquisita conoscenza giuridica e la dimostrata capacità di farne un’applicazione ponderata ed efficiente, dimostrando flessibilità e capacità di mettersi in discussione.
Per quanto riguarda, poi, più da vicino la funzione del pubblico ministero, molteplici sono stati gli spunti di riflessione e confronto.
Una lezione, ad esempio, è stata dedicata alla riflessione sui valori nell’esercizio della funzione del Pubblico Ministero e sull’integrità dell’ufficio di Procura nell’esercizio del servizio. Esiste, in Olanda, un codice di condotta in cui sono statuiti cinque principi fondamentali: professionalità, diligenza, spirito di servizio pubblico, trasparenza e integrità (che potrebbe essere interessante confrontare con l’art. 13 del nostro Codice etico[1]).
Il gruppo è stato chiamato a riflettere, in relazione al concetto di integrità, sulle tensioni inevitabilmente esistenti fra i diversi livelli su cui il principio opera: quello più strettamente personale, quello professionale – inteso come esercizio della funzione individuale e all’interno delle dinamiche dell’ufficio nella sua dimensione gerarchica – e quello che attiene al rapporto fra l’esercizio della funzione e il rispetto della lettera della legge.
Per esempio, essere convinti ambientalisti può modificare il modo in cui si esercita la funzione? Incide su come interpretiamo la lettera della legge in tema di maltrattamenti di animali? Non dovrebbe? È inevitabile che lo faccia, anche inconsciamente? Come comportarsi se il Procuratore Capo caldeggia un’interpretazione diversa? Anche in questo caso il confronto fra le esperienze personali, inevitabilmente colorate dal contesto giuridico-culturale in cui si sono realizzate, è stato prezioso ed arricchente.
Ed ancora, a differenza dell’Italia l’Ufficio di Procura olandese è strettamente interconnesso con le forze di Polizia e il sindaco (che è nominato e non eletto, quasi più simile al nostro Prefetto per come ce ne sono state descritte le funzioni), in un sistema definito di “consultazione tripartita”, nell’ambito della quale vengono svolte riunioni di concertazione con regolarità, ad una delle quali ho avuto l’occasione di partecipare. Del tutto estranea alla mia, seppur breve, esperienza professionale è stata la prospettiva di vedere un Pubblico Ministero istituzionalmente chiamato a relazionarsi con gli altri enti responsabili dell’amministrazione e della sicurezza pubblica sui temi ritenuti congiuntamente come prioritari, confrontando numeri e statistiche alla ricerca di soluzioni condivise.
Ho trovato, inoltre, di particolare interesse l’occasione di confronto su di una sostanziale differenza fra il sistema giudiziario olandese e quello italiano, ossia la vigenza del principio di opportunità dell’azione penale. Come noto, in un siffatto sistema il pubblico ministero può decidere di non esercitare la potestà punitiva in considerazione di una serie di circostanze, legate alla personalità dell’agente o alla gravità dell’offesa, senza alcun vaglio giurisdizionale obbligatorio.
In Olanda, inoltre, il Pubblico Ministero ha anche facoltà di comminare autonomamente una sanzione pecuniaria, senza intervento del Giudice.
Sul punto vivo è stato il dibattito fra noi partecipanti, provenienti da sistemi eterogenei, tanto in relazione agli argomenti a sostegno e detrattivi dell’operatività del principio di opportunità o piuttosto di obbligatorietà dell’azione penale quanto, più in generale, in relazione alla necessarietà o meno del vaglio giurisdizionale sulle decisioni del pubblico ministero.
Del tutto estranea al nostro sistema giuridico, infine, è la possibilità per il Ministro della Giustizia olandese di dare indicazioni, cogenti, all’ufficio di Procura sulle determinazioni da adottare in casi specifici. In ogni evenienza l’indicazione deve essere motivata e formulata per iscritto. Nel caso in cui imponga all’ufficio di Procura di procedere, inoltre, deve essere posta al vaglio del Parlamento in seduta Pubblica. Un sistema, dunque, di c.d. “check and balance” radicalmente diverso, allo stato, dal nostro, anch’esso foriero di molteplici spunti di riflessione e confronto.
L’accoglienza nei singoli dipartimenti di un ufficio di Procura territoriale – da quelli di cooperazione internazionale a quelli di gestione dei c.d. affari semplici - e la partecipazione a diverse udienze, ci ha permesso di toccare con mano la quotidianità dell’esercizio della funzione, nonché di vedere applicate molte delle direttive di principio indicateci nei giorni precedenti.
Di massimo interesse, in particolare, è stato conoscere e vedere materialmente all’opera l’ufficio “ZSM”, ossia quello competente a seguire i processi cui si applica un nuovo rito, introdotto nel marzo del 2011, che ne garantisce la massima speditezza. Si tratta, chiaramente, di procedimenti aventi ad oggetto fattispecie di criminalità comune in cui sin dall’inizio (denuncia-querela, arresto o comunque apprensione della sussistenza di una notizia di reato) un pubblico ministero, le forze di polizia, un soggetto deputato a mantenere contatti con la vittima e a garantirne la massima tutela, e un soggetto competente ad accertare tempestivamente la situazione soggettiva del reo collaborano in modo strettissimo. Condividendo lo spazio dei medesimi uffici e sedendosi ogni mattina ad un tavolo per discutere i diversi casi occorsi – ciascuno sotto il profilo di propria competenza - si accordano, infine, in ordine alle determinazioni da assumere. Nel 41% dei casi la decisione viene presa nell’arco di un solo giorno e spesso i procedimenti di questo tipo si chiudono con soluzioni nella sostanza transattive, adottate anche autonomamente dal pubblico ministero.
Mi ha colpito la massima rilevanza che viene data, anche in questi procedimenti di pronta e rapida spedizione, alla ricerca sistematica ed efficiente della risposta sanzionatoria più confacente alla personalità del reo (verificandone i precedenti nonché effettuando un controllo sulla sua situazione personale e socioeconomica, evidenziandone eventuali problematiche note) e, contestualmente e pariteticamente, al miglior soddisfacimento dell’interesse della persona offesa.
In conclusione, ritengo che l’esperienza EJTN costituisca un’occasione eccezionale di confronto, che permette l’approfondimento di considerazioni su tematiche di vitale importanza nella riflessione sull’esercizio della funzione e sul sistema giudiziario generalmente inteso, muovendo da prospettive diverse, a volte radicalmente opposte a quelle proprie del contesto giuridico di provenienza, e dunque, costituisce un’unica occasione di crescita personale e professionale.
[1] Art. 13 - La condotta del pubblico ministero Il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo. Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell'indagato e non tace al giudice l'esistenza di fatti a vantaggio dell'indagato o dell'imputato.Evita di esprimere valutazioni sulle persone delle parti, dei testimoni e dei terzi, che non sia conferenti rispetto alla decisione del giudice, e si astiene da critiche o apprezzamenti sulla professionalità del giudice e dei difensori.Partecipa attivamente alle iniziative di coordinamento e ne cura opportunamente la promozione.Non chiede al giudice anticipazioni sulle sue decisioni, né gli comunica in via informale conoscenze sul processo in corso
Violenza di genere tra natura e cultura
di Gabriele Pinto, psicologo e psicoterapeuta, Associazione Senza Violenza
Ugo (nome fittizio) 45 anni, architetto, sposato nel 2017 dopo 8 anni di fidanzamento, ha usato violenza contra la moglie in tre occasioni, una nel 2018 e due nel 2019. Si rivolge al nostro Centro (Senza Violenza – http://www.senzaviolenza.it/) perché durante l’ultimo agito violento “non mi sento ascoltato… mi sento preso in giro”, si è reso conto “di aver stretto troppo” il collo della moglie e si è spaventato. “Ho delle esplosioni… Ho paura di perdere il controllo” – mi dice – e “ho bisogno di aiuto”.
Luca (idem) 67 anni, medico in pensione, sposato da più di 35 anni, due figli. Durante una discussione con la moglie le da uno “schiaffone” perché “quando mi ha detto così non ci ho visto più”. La moglie, con sua sorpresa, minaccia di andarsene, non si sente più sicura, ha paura di lui. La fiducia è infranta. Luca non vuole perdere la relazione con lei e decide di contattarci per iniziare un percorso.
Elio (idem) 26 anni, operaio, ha “sempre avuto relazioni difficili con le donne”. Durante una discussione con la sua ultima ragazza, oltre alle urla e alle offese, la spinge sul letto. “Voleva uscire, ma era tardi, allora l’ho bloccata prendendola per il collo”. Raccontando l’accaduto si giustifica… “non mi può prendere per il culo” e “quando fa così mi si chiude la vena”.
Alfredo (idem) 30 anni, impiegato, condannato per maltrattamenti, sceglie la sospensione condizionale della pena e ci contatta per iniziare un percorso. Mai agito violenza prima.
La ragazza con la quale aveva iniziato una relazione, in una situazione un po' ambigua, decide di interromperla. Lui l’aspetta nell’atrio del palazzo in cui abita e la sbatte contro il muro. Urlando la minaccia stringendole il viso con una mano… “non ti permettere di farlo mai più”.
Possiamo davvero ridurre i comportamenti violenti di questi diversi uomini a un unico e solo problema/disagio psicologico? A qualcosa che riguarda esclusivamente la loro biografia? La violenza che agiscono contro le partner può essere circoscritta unicamente alle esperienze di vita che li hanno condizionati nella costruzione della loro identità? Possiamo sostenere che esiste un divario irriducibile tra gli uomini che agiscono violenza e coloro che non la usano?
Affermare con certezza che i maschi che usano la violenza nelle relazioni intime appartengono a un mondo, concreto e simbolico, completamente altro da quello dei maschi che la usano?
Penso che qualsiasi riduzione della violenza maschile contro le donne ad un problema/disagio/patologia di ordine psichico è una ridefinizione ideologica e tradisce la verità che il sapere delle donne ha inconfutabilmente dimostrato, attraverso un immenso lavoro di analisi/ricerca/riflessione antropologica, sociale, politica e psicologica. Questo sapere, che ha il nome di femminismo, dimostra che la violenza maschile contro le donne è radicata profondamente nella cultura che chiama patriarcale.
Patriarcato è il potere dei padri: un sistema socio-familiare, ideologico, politico, in cui gli uomini – con la forza, con la pressione diretta, o attraverso riti, tradizioni, leggi, linguaggio, abitudini, etichetta, educazione e divisione del lavoro – determinano quale ruolo compete alle donne, in cui la femmina è ovunque sottoposta al maschio.
Adrienne Rich[1]
Il genere, come la sessualità, non è una proprietà dei corpi o qualcosa che esiste in origine negli esseri umani, bensì, “l’insieme degli effetti prodotti nei corpi, nei comportamenti e nelle relazioni sociali”, come dice Foucault, dallo spiegamento di “una complessa tecnologia politica”.
Teresa De Lauretis[2]
L’essere umano è un primate molto speciale. L’evoluzione ci ha portato a sviluppare una capacità cognitiva unica tra tutti gli altri animali, quella dell’autocoscienza che è la capacità di significare l’esperienza in modo simbolico e di comunicare le nostre rappresentazioni, i nostri vissuti, le nostre mappe del mondo ai nostri simili. Siamo la specie narrante. Il linguaggio, una nascita prematura e un tempo di crescita rallentato, una plasticità cerebrale unica e una capacità di apprendere eccezionale, sono i frutti straordinari della nostra biologia neotenica.
La nascita prematura e il rallentamento evolutivo ci rendono più esposti/e alle sollecitazioni ambientali, più aperti/e all’apprendimento e più dipendenti dalle cure parentali. Siamo animali biologicamente sociali e culturali[3]. Nasciamo e cresciamo in un mondo che qualcun altro/a ha già significato per noi e disciplinato in saperi e poteri che, uniti al bisogno di cure e di appartenenza, ci condizionano inevitabilmente nella costruzione della nostra identità sessuale e di genere. Saperi e poteri sono ancorati ad una rappresentazione simbolica del reale che chiamiamo cultura. A fondamento di tutte le culture c’è una interpretazione del Maschile e del Femminile come archetipo della differenza.
Si crede di stare continuamente seguendo la natura, e in realtà non si seguono che i contorni della forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio e questo sembrava ripetercela inesorabilmente.
Ludwig Wittgenstein[4]
Qual è l’immagine del Maschile e del Femminile e della loro relazione che sta a fondamento del nostro linguaggio e della nostra cultura? E solo della nostra?
Un paradigma simbolico che sancisce la superiorità, il dominio, il primato del genere maschile su quello femminile, come legittimi e naturali. Secondo questo paradigma il Femminile è subordinato al Maschile per valore e possibilità. Il Femminile è posto come naturalmente ancillare rispetto al Maschile mentre il valore del Maschile è costruito sulla svalutazione del Femminile. Una differenza originaria che viene normata e narrata come naturale (in alcune versioni anche soprannaturale: Deus vult) disparità e diseguaglianza tra i generi.
In questo quadro simbolico la violenza contro il femminile è stata stabilita, per millenni, come ordinatore legittimo delle relazioni tra i generi e garante della distribuzione asimmetrica dei poteri e delle funzioni, cioè di ruoli e compiti.
La costruzione sociale dei generi procede dall’attribuzione ideologica del potere al Maschile. Il potere così attribuito alimenta il sapere che lo giustifica e lo conferma.
La violenza è la risposta che il sistema patriarcale ha normato per ristabilire il giusto ordine naturale quando il Femminile lo trasgredisce. Quando osa narrare un’altra possibile interpretazione di sé e della realtà; quando osa creare un linguaggio che veicoli una nuova immagine del Maschile e Femminile e quindi un nuovo ordine possibile di saperi e poteri, identità e relazioni, ruoli e compiti. Alla secolare normalizzazione della violenza contro le donne corrisponde la secolare impunità e deresponsabilizzazione degli uomini.
La violenza contro le donne è la logica conseguenza di questo paradigma simbolico, la matrice patriarcale che informa da sempre ogni ambito del nostro vivere. La strategia del potere/sapere che considera le donne come le uniche colpevoli delle violenze che subiscono perché uniche e sole responsabili della violazione dell’ordine naturale delle cose. Le narrazioni di questo tipo sono molteplici, da quelle dei media e dei giornali a quelle ricorrenti nelle varie professioni. In ambito giuridico, oltre ai riferimenti contenuti nel documentato articolo di Sara Posa e Lucia Spirito[5], è interessante ed emblematica la recente relazione della Commissione Parlamentare di Inchiesta su Feminicidio e Violenza di genere 2022[6].
Tornando alla nostra biologia neotenica, la nascita prematura, un cervello straordinariamente plastico, che si sviluppa per 2/3 anni dopo la nascita, l’infanzia prolungata, sono caratteristiche che ci rendono soggetti estremamente condizionati dalle esperienze che viviamo nella costellazione di relazioni di chi si prende cura di noi – genitori, famiglia, comunità, società – laddove, come già si diceva, la significazione delle nostre esperienze infantili avviene all’interno di una matrice sociale e culturale costruita a priori.
I legami sociali sono “la matrice originaria in cui si formano il sé, il ‘carattere’, la struttura della personalità di colui o colei che un giorno si rapporterà in modo più o meno felice con ‘le difficoltà del vivere’”[7] .
Considerato che uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano quando nasce e cresce è quello di sentirsi riconosciuto e di appartenere, i messaggi e le narrazioni che lo nutrono, oltre al cibo, diventano la materia vivente che il/la bambino/a utilizza per costruire la propria identità. E l’identità è sempre sessuata, mai neutra, e sempre relazionata ad una “famiglia affettiva” che l’ha condizionata con aspettative, divieti, ricompense, punizioni, permessi, privilegi, discriminazioni, critiche, valorizzazioni e svalutazioni. L’angoscia più tremenda per un/una bambino/a – ma anche per un/una adulto/a – è il rifiuto, l’abbandono, la solitudine, l’esclusione[8]. Pur di evitare questa angoscia il/la bambino/a è disposto/a a sacrificare parti importanti di sé e a plasmarsi sui modelli attesi dalla famiglia, dalle comunità (scolastica, religiosa, sportiva, dei pari…) e dalla società.
È una lunga costruzione creativa in cui le prime rappresentazioni sono di tipo affettivo-motorio[9], completate successivamente da quelle di tipo cognitivo. I significati che il/la bambino/a attribuisce alle sue esperienze sono inscritti nella sua mente e nel suo corpo, e vanno a costituire la percezione che ha di sé, come maschio e come femmina, in relazione al mondo che lo/a circonda.
Se dunque la matrice culturale allargata (società) e quella più ristretta (famiglia e comunità di appartenenza) ci hanno guidato nella costruzione della nostra identità – a volte implicitamente a volte esplicitamente – ad ancorare il nostro valore di maschi e di uomini ad un senso di superiorità/dominio rispetto al femminile, è più facile capire come Ugo, Luca, Elio, Alfredo, e la maggior parte degli uomini, possano sentirsi dolorosamente minacciati quando la loro partner li fronteggia affermando una soggettività libera di autodeterminarsi socialmente, economicamente e sessualmente. Quando il nostro valore, o il nostro rispetto, dipende da un elemento esterno a noi, siamo condannati a inseguirlo per riprenderlo continuamente, in un processo che avrà fine – forse – solo con la sua eliminazione; oppure in un percorso di ricostruzione della nostra identità maschile fondata su un’immagine del Maschile e del Femminile completamente altra da quella patriarcale, dove la differenza di genere non sia sinonimo di disparità e dove il nostro valore sia fondato su una nuova percezione di noi stessi e delle donne che ci stanno di fronte.
[1] Rich A., Nato di donna, Milano, Garzanti, 1976.
[2] De Lauretis T., Sui Generis. Scritti di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996.
[3] Gould S. J., Questa idea della vita, Torino, Codice edizioni, 2022.
[4] Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1953.
[5] https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/137-violenza-di-genere/2569-stereotipi-e-pregiudizi-di-genere-una-storia-ancora-attuale?hitcount=0
[6] https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/42711.htm
[7] Gualandi A., Psicoanalisi neotenia e comunicazione, in Cavazzini A. et al., L’eterocronia creatrice, Milano, Unicolpi, 2013.
[8] Helliger B. e Ten Hovel G., Riconoscere ciò che è, Milano, Feltrinelli, 2001.
[9] Downing G., Il corpo e la parola, Roma, Astrolabio, 1995.
Focus sui programmi di scambio internazionale tra i magistrati - 5. Anticorruzione, realtà aumentata applicata alle indagini e molto altro oltre la “cortina di ferro”: lo scambio specializzato di breve durata in Lituania
di Andrea Zoppi
Grazie alla mia esperienza nella Themis Competition nel 2017 e a quella fatta con lo scambio generico di breve durata dell'EJTN in Svezia nel 2019 avevo avuto modo di sperimentare tutte le potenzialità positive delle iniziative internazionali intraprese tramite la Rete Europea di Formazione Giudiziaria. Soprattutto dalla seconda delle due esperienze avevo tratto spunti estremamente utili grazie all’osservazione e all'approfondimento delle peculiarità dell'ordinamento giudiziario svedese.
Tutto ciò ha costituito la motivazione per aderire con entusiasmo anche al bando per gli scambi specializzati di breve durata, selezionando come meta la Lituania, data la particolare affinità dell’argomento che avrebbe costituito la tematica principale delle attività svolte durante lo scambio, ovvero l'anticorruzione, con il tipo di reati di cui mi occupo quotidianamente presso la Procura di Palermo.
Lo scambio ha avuto luogo dal 27 settembre al 1° ottobre 2021 e ha avuto come sede principale la Procura Distrettuale di Vilnius.
Per quella che è stata la mia esperienza tanto in questo scambio specializzato, quanto nel precedente, quello generico, ho potuto osservare che l'istituzione ospitante cerca sempre di strutturare le attività durante lo scambio in maniera tale da affiancare all'illustrazione in termini più o meno generali della struttura dell'ordinamento giudiziario nazionale anche un approfondimento mirato sulle migliori tecniche e prassi d’indagine riguardanti le più significative tipologie di reato investigate.
Nel caso dello scambio specializzato in Lituania i reati contro la pubblica amministrazione e, soprattutto, la lotta alla corruzione hanno costituito l'oggetto principale di questi approfondimenti mirati, senza trascurare tuttavia la dovuta attenzione ad altri temi, ad esempio agli sviluppi più interessanti della scienza forense, che suscitano sempre notevole interesse, anche se spesso sono applicabili a tutt’altra tipologia di reati.
Come già avvenuto nello scambio generico in Svezia, anche in Lituania il primo giorno è stato dedicato alla prima accoglienza dei colleghi interessati dallo scambio - oltre a me, altri due Sostituti Procuratori provenienti dall'Italia, una collega dall'Estonia e una collega dalla Croazia - dopo cui siamo stati ricevuti dal Procuratore Generale della Repubblica della Lituania che, conclusi i saluti di rito, ha approfondito il tema della cooperazione del suo Ufficio con le istituzioni europee (e non solo) nell'ambito delle indagini di respiro transnazionale.
Immediatamente dopo ci è stata offerta una panoramica completa di quelle che sarebbero state le attività svolte durante lo scambio e la giornata si è conclusa con una visita completa degli uffici della Procura Generale.
Il secondo giorno si è aperto con la conoscenza di Sostituti Procuratori appartenenti alle divisioni specializzate della Procura Ordinaria di Vilnius che ci hanno illustrato le prassi e le tecniche investigative impiegate nelle indagini dei tipi di reati la cui commissione è più ricorrente nell'area della capitale lituana, entrando maggiormente nel dettaglio per ciò che riguarda i reati cosiddetti di “fasce deboli” e i reati contro la pubblica amministrazione.
Poi, nel pomeriggio, il nostro referente per l'organizzazione dello scambio ha proposto di guidarci in un giro turistico della città di Vilnius.
Sia nel caso dello scambio specializzato, sia ancora prima nello scambio generico ho trovato quest’ultimo uno degli aspetti più lodevoli delle iniziative della Rete di Formazione Giudiziaria Europea, ovvero quello di utilizzare il veicolo della formazione professionale per creare contatti fra i colleghi di tutta
Europa attraverso non soltanto l'approfondimento di tematiche giuridiche, ma anche attraverso la condivisione di esperienze che possono far conoscere la cultura, la storia e il territorio dei paesi ospitanti. Nello stesso spirito il giorno dopo è stata organizzata una visita agli Uffici della Procura della seconda città più importante della Lituania, ovvero Kaunas, la prima storica capitale della Lituania dal momento in cui il paese è diventato formalmente indipendente e, attualmente, la sede di una delle università più prestigiose del paese. Infatti, anche in questo caso, dopo un incontro con il Procuratore e i Sostituti Procuratori - in cui si è discusso della fenomenologia criminale più ricorrente nel territorio di Kaunas e delle buone prassi d’indagine sviluppate da un Ufficio più piccolo di quello di Vilnius per far fronte alla quotidianità - ci è stata data la possibilità prima di visitare il Tribunale per assistere ad un'udienza e poi di proseguire con una visita della città, che è stata scelta per essere la capitale europea della cultura proprio in questo 2022.
Le attività di maggior interesse si sono concentrate nel quarto giorno quando, durante la mattinata, abbiamo inizialmente fatto visita al Centro per le Scienze Forensi della Lituania. Oltre a sezioni similari a quelle che ho avuto occasione di vedere all'opera anche in Italia presso gli uffici della Polizia Scientifica o dei RIS dei Carabinieri – balistica, analisi chimico-fisiche, analisi di contraffazione, ricostruzione cinematica di un incidente, etc – è stato di particolare interesse vedere come attraverso i visori 3D e un software deputato a mappare con l'ausilio di apparecchi a fotocellule gli ambienti e catalogare gli oggetti ivi rinvenuti, la Polizia Scientifica lituana utilizza la realtà aumentata per studiare nei dettagli le scene del crimine caratterizzate da maggior complessità.
Durante la visita pomeridiana ci siamo recati presso gli uffici dei Servizi Speciali Investigativi della Repubblica lituana (STT), ove si sono svolti gli approfondimenti più interessanti e proficui sullo specifico tema dell'anticorruzione, oggetto dello scambio specializzato. Come ho avuto modo di vedere anche in Svezia, è prassi in uso presso i paesi nordici quella di accentrare in uffici centralizzati come questo, frequentemente collocati nella capitale e anche nelle città più grandi, il personale amministrativo e, a volte, giudiziario incaricato di sviluppare le competenze per investigare quei reati che spesso richiedono un elevato grado di specializzazione (come i reati contro la pubblica amministrazione).
La peculiarità di questi enti è quella di agire alla stregua di quelle che in Italia sarebbero autorità amministrative indipendenti, senza essere necessariamente incardinati nell'ordinamento giudiziario (come in Lituania, ove la SST non ha fra le sue fila magistrati, ma solo investigatori specializzati), affiancando ai funzionari figure di elevata competenza (soprattutto commercialisti, consulenti finanziari, tecnici informatici etc) che in Italia verrebbero impiegati dagli Uffici di Procura in qualità di consulenti mentre, in questo diverso modello organizzativo, fanno parte di un ente che, nel caso di specie, risponde al Presidente della Repubblica e al Parlamento lituano e ha come precipuo obiettivo quello di sviluppare le misure di anticorruzione e implementarle in tutti i plessi dell'amministrazione pubblica.
Dopo averci illustrato i dati e i numeri sulle indagini e sui processi riguardanti reati contro la pubblica amministrazione, i funzionari che ci hanno accolto si sono dilungati nell'illustrare l'attività di intelligence che ha consentito ai Servizi Investigativi di proporre un nuovo disegno di legge sulla prevenzione della corruzione, oggetto di discussione presso il parlamento della Repubblica lituana, dopo aver attentamente studiato il fenomeno corruttivo nelle otto aree più significative della pubblica amministrazione: finanza pubblica, gestione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli enti locali, autogoverno, sanità, urbanistica ed edilizia, protezione dell'ambiente, comunicazioni e agricoltura.
C'è stato fornito il dato degli atti normativi, regolamentari e di soft law che hanno tratto ispirazione da questi studi, oltre al disegno di legge prima menzionato, di cui l'84% è stato redatto con il contributo dei Servizi Speciali Investigativi.
Da ultimo, è stato posto l'accento in particolare sul processo di crescita in punto di consapevolezza ed educazione all'anticorruzione che i Servizi Speciali Investigativi lituani promuovono attraverso un canale YouTube che divulga video di cui vengono monitorate le visualizzazioni, in costante crescita, attraverso una piattaforma web dedicata e addirittura attraverso un ente strumentale, denominato "I support Transparency", che finanzia attività come letture, seminari e incontri sempre più partecipati.
L'ultimo giorno è stato impiegato per discutere con il Procuratore Generale che ci aveva accolto il primo giorno delle attività appena concluse e del nostro grado di soddisfazione rispetto all’approfondimento dell’ordinamento giudiziario lituano, soprattutto in quei suoi plessi maggiormente impegnati nella lotta alla corruzione.
L'esperienza è stata senza ombra di dubbio di grande spessore, anche e soprattutto perché mi ha dato l'occasione di entrare in contatto con un ordinamento che - a dispetto dell'assenza di eclatanti casi giudiziari coinvolgenti o situazioni di corruzione endemica, oppure episodi di corruttele che, pur nella loro singolarità, spiccano in quanto a gravità - ha deciso di impegnarsi da subito con grande serietà nel monitoraggio di questo fenomeno criminoso e di investire prima di tutto nella prevenzione.
Ho visto impiegare tutti gli strumenti di rilevazione più moderni e un costante riferimento alle statistiche più aggiornate per studiare i modelli organizzativi maggiormente efficaci in tema di anticorruzione, promuovendo attività divulgative e formative che prima di tutto mirano a consolidare nei cittadini il senso civico e delle istituzioni.
Non mi stancherò mai di consigliare a tutti i colleghi con cui mi trovo a parlare dell’argomento questo genere di esperienze e, in generale, le iniziative della Rete Europea di Formazione Giudiziaria, che sono un impareggiabile strumento di crescita professionale e soprattutto, personale.
Riforma Cartabia. Le modifiche al primo grado del processo di cognizione ordinario
di Fabio Cossignani
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma del processo di primo grado.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
4. La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
5. Le nuove disposizioni in materia di processo del lavoro
6. Le nuove norme processuali in materia di persone, minorenni e famiglia (d.lgs. n. 149/2022)
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La modifica della fase introduttiva. Generalità. - 2.1 Chiarezza, specificità e sinteticità degli atti introduttivi. - 2.2. Ulteriori novità nel contenuto della citazione. - 2.3. I termini a comparire e i termini di costituzione delle parti. - 2.4. I controlli da parte del giudice. - 2.5. Le memorie integrative. - 3. L’udienza di prima comparizione e trattazione. - 4. La contumacia. - 5. Le ordinanze provvisorie. - 5.1. L’ordinanza di accoglimento della domanda. - 5.2. L’ordinanza di rigetto della domanda. - 6. Maggiore effettività del diritto alla prova (ispezione, esibizione e richiesta di informazione alla p.a.). - 7. La fase decisoria. - 7.1. Decisione collegiale. - 7.2. Decisione monocratica. - 8. La riduzione della competenza del collegio e i rapporti tra collegio e giudice monocratico.
1. Introduzione.
Sulla utilità e sull’inutilità delle riforme processuali è stato già detto molto dai più autorevoli autori. Ribadire le perplessità sul metodo scelto per combattere la lentezza dei processuali sarebbe a sua volta poco proficuo.
In vista della imminente applicabilità della riforma Cartabia (dal 28 febbraio 2023), appare più opportuno concentrarsi sul testo di legge.
Quelle che seguono sono riflessioni a prima lettura che, in quanto tali, non pretendono di essere complete, e forse neppure precise. Il processo è un mosaico delicato, in cui la variazione di una tessera rischia di modificare l’intero disegno. Spesso l’osservatore, anche quando ha davanti agli occhi la tessera sostituita, difficilmente è in grado di comprenderne ogni caratteristica e di apprezzarne da subito tutte le implicazioni.
L’obiettivo di queste pagine è dunque quello di non tacere nessuna delle considerazioni svolte durante la lettura delle nuove disposizioni, nella speranza che, quand’anche incomplete o imprecise, esse possano in ogni caso aiutare il lettore ad avvicinarsi alle questioni pratiche più importanti e, di lì, alle soluzioni interpretative più soddisfacenti.
2. La modifica della fase introduttiva. Generalità.
Con riferimento al primo grado del processo ordinario di cognizione, la principale novità introdotta dalla riforma Cartabia (d.lgs. 149/2022) è rappresentata dalla modifica della fase introduttiva.
L’obiettivo del legislatore delegante (l. 206/2021) era quello di spostare le preclusioni a carico delle parti, collocandole in un momento anteriore all’udienza, mediante una redistribuzione temporale della sequenza degli atti già previsti nel sistema precedente.
In questa maniera, la causa diviene astrattamente matura per la decisione già in prima udienza.
Infatti, nel precedente modello, la costante e quasi automatica richiesta di concessione dei termini ex art. 183, co. 6, c.p.c. conduceva inesorabilmente allo svolgimento di una seconda udienza, con l’effetto che la prima si rivelava nella maggior parte dei casi un’udienza volta sì ai controlli preliminari, ma di fatto ridotta a una tappa intermedia priva di sostanza dialettica.
Come si ha già modo di intuire da queste prime considerazioni, la riforma opera principalmente sul piano della scomposizione delle attività processuali per ricomporle secondo un diverso disegno. Il rischio è che, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambi in alcun modo ovvero non cambi di molto. Anzi, il rischio è che le nuove disposizioni portino con sé nuove questioni interpretative, che, a consuntivo, potrebbero pesare più dei benefici prodotti.
2.1. Chiarezza, specificità e sinteticità degli atti introduttivi.
L’atto introduttivo resta la citazione, ma, per effetto della novella, i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda devono essere «esposti in modo chiaro e specifico» (art. 164, n. 4). Analogamente, per la comparsa di risposta, si prescrive che il convenuto «proponga tutte le sue difese e prenda posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda in modo chiaro e specifico» (art. 167, co. 1).
Le due disposizioni vanno coordinate, in primo luogo, con la norma generale contenuta nel nuovo ultimo periodo del co. 1 dell’art. 121 c.p.c., a mente del quale «Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico». In secondo luogo, vanno coordinate col nuovo art. 46, co. 5, disp. att. c.p.c. in forza del quale, «Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto … i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti»[1].
Ne consegue che gli atti introduttivi dovranno essere sintetici, come tutti gli atti e i provvedimenti, ma anche chiari e specifici.
Il difetto di sinteticità, ai sensi del co. 6 dell’art. 46 disp. att. c.p.c., non determina la nullità dell’atto «ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo».
Si può ritenere che il giudice sia maggiormente legittimato a trarre conseguenze in punto di spese là dove l’atto si caratterizzi per un alto grado di pedanteria e, ancora di più, qualora la pedanteria tracimi, come talvolta accade nei testi prolissi, in argomentazioni inutilmente arzigogolate, se non addirittura contraddittorie, ovvero in narrazione di fatti irrilevanti. Viceversa, il semplice sviluppo di una pluralità di argomentazioni concorrenti e/o l’allegazione di una lunga serie di fatti secondari utili a rafforzare le proprie tesi rappresentano manifestazioni del legittimo esercizio del diritto di azione e difesa, salvo che l’uno e l’altra non siano espresse con palese spreco di energie narrative o argomentative. Dovendosi valutare caso per caso, lascia alquanto perplessi la delega al Ministro della Giustizia per la predeterminazione dei “limiti” dimensionali degli atti.
Quanto invece al difetto di chiarezza e specificità, questo non è espressamente sanzionato. Se la mancanza di chiarezza o di specificità si riferisce all’atto di citazione, traducendosi in una nullità dell’atto introduttivo, si applica la relativa disciplina dell’art. 164 c.p.c. e la vicenda potrebbe dar luogo a un’ordinanza di rigetto ai sensi del nuovo art. 183 quater c.p.c. (su cui infra).
Se invece il difetto di chiarezza e di specificità non si traduce in una nullità dell’atto di citazione o si riferisce alla comparsa di risposta (priva di domande riconvenzionali), il vizio incide solo sulla qualità del dibattito processuale. Chiarezza e specificità, in tale evenienza, assolvono dunque alla stessa funzione della sinteticità: data l’eadem ratio, anche atti oscuri e aspecifici dovrebbero legittimare il giudice a trarne conseguenze in punto di spese.
Sia consentita una riflessione di ordine generale sul tema: è singolare e significativo che il legislatore imponga testualmente sintesi, chiarezza e specificità. In un mondo ideale queste rappresentano naturali aspirazioni dei protagonisti del processo. Messi da parte i casi anomali in cui l’atto viene redatto in maniera oscura e non sintetica per precisa scelta strategica della parte, è evidente che il problema è dovuto in prevalenza all’involuzione del linguaggio scritto forense, patologia di cui andrebbero indagate le origini, verso cui il legislatore non prescrive alcuna cura effettiva, e di cui il legislatore rappresenta forse la più autorevole vittima, dato che negli ultimi decenni i testi normativi non brillano di certo per chiarezza e sinteticità.
I rimedi generali andrebbero praticati nella formazione degli avvocati, dei magistrati e degli studiosi del diritto e, ancor prima, nella promozione di una cultura giuridica di base.
Invece, per quanto riguarda i rimedi particolari e interni al processo, sarebbe opportuno standardizzare in parte la formulazione degli atti introduttivi. Potrebbe ad esempio sperimentarsi l’uso obbligatorio di moduli o formulari caratterizzati da campi fissi[2], separati e di dimensione limitata, idonei a favorire la sintesi e a permettere al giudice e alla controparte di individuare da subito e in tempi rapidi l’oggetto della domanda, lasciando poi a una seconda parte dell’atto, libera e discorsiva, lo sviluppo, sempre chiaramente articolato, delle argomentazioni in fatto e diritto. Mutatis mutandis, stesso discorso può estendersi alla comparsa di risposta e a tutti gli altri atti del processo. A ciò dovrebbe poi unirsi una effettiva (e non solo nominale) direzione del processo da parte del giudice.
2.2. Ulteriori novità nel contenuto della citazione.
Il contenuto dell’atto di citazione si arricchisce anche per l’effetto delle integrazioni operate ai nn. 3-bis e 7 dell’art. 163.
Con il nuovo n. 3-bis è richiesta «l’indicazione, nei casi in cui la domanda è soggetta a condizione di procedibilità, dell’assolvimento degli oneri previsti per il suo superamento».
È di certo interesse dello stesso attore dare subito chiara dimostrazione dell’assolvimento della condizione di procedibilità e, difatti, è quello che normalmente già accade nella prassi. Peraltro, il legislatore dimentica che l’aspetto più importante non è l’«indicazione» (ossia l’affermazione) dell’assolvimento della condizione, quanto piuttosto la «prova» di tale assolvimento.
Ad ogni buon conto, il nuovo requisito formale non comporta di fatto alcuna novità di rilievo. Prendendo ad esempio la mediazione obbligatoria, come in passato, l’improcedibilità per mancato esperimento del procedimento di mediazione deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio entro la prima udienza (v. nuovo art. 5, co. 2, d.lgs. 28/2010, non dissimile sul punto da quanto previsto dall’art. 5, co. 1, ante riforma). Poiché la prima udienza è differita rispetto all’attività di integrazione definitiva della domanda e delle difese delle parti, l’introduzione della mediazione verrà disposta in un momento in cui le parti hanno già compiuto diversi atti processuali, con notevole spreco di energie. Sarebbe stato dunque preferibile anticipare il controllo (cfr. art. 171 bis) e, soprattutto, l’adozione dei provvedimenti conseguenti.
Le altre novità riguardano il n. 7 dell’art. 163.
Innanzitutto, il convenuto deve essere invitato a costituirsi 70 giorni prima (non più 20 giorni prima) dell’udienza indicata nell’atto di citazione. Inoltre, scompare il riferimento alla costituzione almeno 10 giorni prima in caso di abbreviazione dei termini a comparire, in quanto è la stessa abbreviazione ad essere esclusa (il co. 2 dell’art. 163 bis viene infatti abrogato).
Vengono infine aggiunti altri due avvertimenti. Il primo è l’avvertimento che «la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria in tutti i giudizi davanti al tribunale, fatta eccezione per i casi previsti dall’articolo 86 o da leggi speciali». Il secondo è l’avvertimento «che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato».
I nuovi avvertimenti, seppur concettualmente distinti, vanno ad integrare l’avvertimento sulle decadenze (ex artt. 38 e 167) e, testualmente, compongono un tutt’uno con questo. Pertanto, dovrebbero soggiacere alla medesima disciplina già prevista per l’avvertimento sulle decadenze ai sensi dell’art. 164, co. 2 e 3.
Dunque, in caso di mancanza di uno dei nuovi avvertimenti e di mancata costituzione del convenuto, deve essere disposta la rinnovazione della citazione (art. 164, co. 2). Se invece il convenuto, costituitosi in giudizio, deduce la mancanza di uno degli avvertimenti, il giudice fissa una nuova udienza (art. 164, co. 3).
Il diritto al patrocinio a spese dello Stato e l’obbligo di difesa tecnica non rappresentano diritti od obblighi introdotti dalla riforma Cartabia. La sensazione, allora, è che la previsione dei nuovi avvertimenti assolva in primis una funzione promozionale e divulgativa.
Anzi, con riferimento al diritto al gratuito patrocinio, neppure può parlarsi di avvertimento in senso stretto. Si tratta piuttosto di una informazione circa i diritti che la parte convenuta può in astratto vantare verso lo Stato, la cui assenza non intacca in via diretta il diritto di difesa della parte nella causa incardinata. Indipendentemente dall’avvertimento relativo al gratuito patrocinio, il convenuto è in ogni caso sollecitato a una reazione. Consultato un avvocato, graverà su questo informare il cliente della possibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato (cfr. art. 21, co. 4, cod. deont. forense). Per giustificare l’applicazione dell’art. 164, co. 2, occorre ritenere – con presunzione iuris et de iure - che la mancata costituzione sia stata in qualche modo condizionata dall’ignoranza del convenuto sui presupposti per accedere al gratuito patrocinio. Ma si tratterebbe di un ragionamento apodittico, non di un ragionamento induttivo basato su una massima di esperienza. Esso poi si rivelerebbe del tutto erroneo se applicato per tutelare una parte che, in concreto, non ha diritto al patrocinio a spese dello Stato. Che l’omesso avvertimento possa dar luogo a conseguenze processuali sembra dunque poco razionale.
Queste considerazioni valgono a fortiori nell’ipotesi in cui, mancando l’avvertimento, il convenuto si sia comunque costituito senza previa ammissione al gratuito patrocinio, deducendo la mancanza dell’avvertimento e lucrando il differimento dell’udienza.
Il discorso si complica con riferimento all’avvertimento circa l’onere di difesa tecnica.
Qui uno scopo interno al processo può essere individuato, benché fino ad oggi non si sia avvertita l’esigenza di tale previsione. Lo scopo sembrerebbe quello di impedire alla parte di difendersi personalmente nelle ipotesi in cui la legge non lo consente. Se questo è lo scopo, la mancanza dell’avvertimento dovrebbe condurre alla rinnovazione degli atti introduttivi tutte le volte che la parte si sia costituita personalmente nelle ipotesi in cui tale difesa non è concessa[3]. Ma si può dire altrettanto là dove la parte non si sia costituita e la difesa tecnica sia parimenti obbligatoria? In fondo, si potrebbe ritenere che la parte che abbia deciso di non costituirsi, neppure personalmente, abbia di fatto dimostrato disinteresse per la causa, rendendo irrilevante l’assenza dell’avvertimento. Ancora una volta, per cercare di giustificare l’applicazione dell’art. 164, co. 2, occorre ritenere – con presunzione iuris et de iure – che la mancata costituzione sia stata in qualche modo condizionata dall’ignoranza del convenuto sulle modalità di difesa a sua disposizione e che quindi lo scopo dell’atto non sia stato raggiunto. Ma, come detto, si tratterebbe di un ragionamento la cui logicità è solo apparente. Nelle ipotesi in cui la parte si sia costituita correttamente (a mezzo di un avvocato o personalmente, secondo i casi), ammettere un rinvio, a mera richiesta del convenuto, e per il solo fatto che la citazione difetti dell’avvertimento, significa mettere a disposizione del convenuto uno strumento di dilazione piuttosto che un mezzo per ripristinare il pieno e paritario contraddittorio.
I dubbi peraltro aumentano ribaltando le ipotesi concrete. Sebbene la disposizione sembri rivolta a ricordare al convenuto l’obbligo di difesa tecnica, in verità, essa rappresenta, per effetto di una specie di eterogenesi dei fini, un promemoria del suo diritto di difendersi personalmente nei casi previsti dall’art. 86 e dalle leggi speciali. Dunque, se la parte non si costituisce in alcun modo nei casi in cui è ammessa la difesa personale, la mancanza dell’avvertimento comporta la nullità dell’atto, perché la parte potrebbe aver abdicato alla difesa ignorando la facoltà di difesa personale che la legge gli riserva[4]. Nel caso in cui si costituisca tempestivamente a mezzo di un avvocato quando avrebbe potuto costituirsi anche personalmente, il mancato avvertimento non incide in alcun modo sul pieno dispiegamento del diritto di difesa e quindi non ha alcuna rilevanza per il processo. Ne consegue che il rinvio dell’udienza a mera richiesta (a mera “deduzione”) è irragionevole. Se invece, nella stessa ipotesi, il convenuto si costituisce tardivamente e personalmente, non credo che si possa imputare questa tardività alla mancata conoscenza della facoltà di difendersi in proprio, salvo voler reiterare ancora una volta quel (illogico) ragionamento presuntivo già prospettato in precedenza.
La disamina appena compiuta offe spunti per delle considerazioni critiche. I nuovi avvertimenti previsti al n. 7, benché a prima vista appaiano ragionevoli e opportuni, perché volti a promuovere l’effettiva conoscenza dei diritti e dei doveri delle parti, si rivelano prescrizioni fuori contesto. La loro previsione male si concilia in un sistema in cui la forma/contenuto dell’atto è correlata col suo scopo (art. 156). Valgono quindi le obiezioni già rivolte ad altre analoghe disposizioni, tra cui l’avvertimento della facoltà di ricorrere alla procedura di sovraindebitamento che deve essere contenuto nel precetto (art. 480, co. 2, ult. periodo). Gli atti processuali non sono i mezzi adeguati a promuovere la conoscenza di diritti/doveri o la diffusione di un nuovo istituto tra i cittadini. Per questi scopi occorrono altri veicoli, esterni al processo, di cui è lo Stato che deve farsi carico, non l’attore del processo. D’altro canto: chi avverte l’attore dell’esistenza degli stessi diritti e doveri?
2.3. I termini a comparire e i termini di costituzione delle parti.
Come già anticipato, la fase introduttiva del giudizio viene rimodulata, per far sì che le allegazioni e le istanze istruttorie delle parti siano chiarite e completate prima dell’udienza.
Si possono individuare tre snodi anteriori all’udienza: un primo snodo corrisponde alla fase introduttiva del precedente modello, ossia alla citazione e alla comparsa di risposta; un secondo snodo è dato dalle verifiche preliminari di cui è incaricato il giudice (art. 171 bis); un terzo snodo consiste invece nell’attività di integrazione degli atti introduttivi (art. 171 ter).
Per far spazio (recte, per dar tempo) a tutte queste attività, i termini per comparire - ossia i termini devono intercorrere tra la data della notificazione della citazione e la data dell’udienza di comparizione indicata nello stesso atto – vengono ampliati e passano da 90 a 120 (art. 163 bis, co. 1).
Il secondo comma dell’art. 163 bis è abrogato, sicché i termini minimi non possono più essere abbreviati con decreto del Presidente, neppure ove la causa necessiti di pronta spedizione. Resta invece la possibilità di ridurre i termini eccedenti il minimo ai sensi dell’art. 163 bis, co. 3, con l’effetto che, in caso di riduzione, i termini a ritroso che decorrono dall’udienza, saranno computati dalla nuova udienza fissata dal Presidente (id est i termini per il deposito delle memorie integrative ex art. 171 ter) [5].
Poiché la citazione è a udienza fissa, stabilita dall’attore, resta possibile che nel giorno indicato il giudice istruttore designato non tenga udienza, con necessario differimento a un’udienza successiva. Tale differimento d’ufficio, come in passato (art. 168 bis, co. 4), non modifica i termini che decorrono a ritroso dall’udienza, i quali dunque continuano a computarsi dall’udienza indicata in citazione e non da quella effettiva e differita. In precedenza, uno slittamento dei termini si poteva verificare nell’ipotesi in cui il differimento dell’udienza fosse disposto ex art. 168 bis, co. 5, su iniziativa discrezionale del giudice istruttore, ma questa previsione è stata abrogata con la riforma, o meglio, come si vedrà, ha trovato una nuova collocazione (art. 171 bis, co. 3, su cui infra).
E veniamo così all’analisi del primo snodo della fase introduttiva.
Per quanto concerne la costituzione dell’attore e del convenuto le modifiche apportate agli artt. 165 e 166 non sono particolarmente significative se riferite alle modalità di costituzione in giudizio e al contenuto degli atti introduttivi (fatta eccezione per la chiarezza e specificità, di cui supra, § precedente), mentre assume senz’altro rilievo la modifica del termine di costituzione del convenuto.
Innanzitutto, non essendo possibile la riduzione dei termini minimi a comparire, scompare la corrispondente riduzione dei termini di costituzione delle parti.
Per l’attore, il termine di costituzione è dunque sempre di 10 giorni dalla notificazione della citazione, mentre per il convenuto, il termine di costituzione passa da 20 a 70 giorni prima dell’udienza indicata nella citazione e, al pari di quello concesso all’attore, non è suscettibile di riduzione.
Ne consegue che il termine entro cui il convenuto deve organizzare le proprie difese passa da un minimo di 70 giorni (90 meno 20) a un minimo di 50 giorni (120 meno 70). Decorso il termine di 70 giorni prima dall’udienza di comparizione, maturano le solite decadenze di cui agli artt. 38 e 167, co. 2 e 3: eccezione di incompetenza ex art. 38, eccezioni non rilevabili d’ufficio, domande riconvenzionali, dichiarazione della intenzione di chiamare in causa un terzo.
Il legislatore delegato non ha inteso anticipare ai primi atti delle parti la barriera preclusiva per le istanze istruttorie e per la produzione dei documenti (cfr. rito lavoro), nonostante la legge delega sembrasse lasciare uno spiraglio in tal senso. Questa barriera maturerà con la seconda memoria integrativa (infra), mentre in precedenza maturava in udienza o, in caso di appendice scritta, col secondo termine ex art. 183, co. 6.
2.4. I controlli da parte del giudice.
Sebbene l’udienza sia differita a un momento successivo, il legislatore avverte la necessità di un intervento anticipato da parte del giudice.
In primo luogo, in base al nuovo art. 171 bis, scaduto il termine di costituzione del convenuto (70 giorni prima dell’udienza), il giudice è chiamato a compiere i controlli preliminari e ad adottare fuori udienza, entro 15 giorni, i provvedimenti che in passato erano individuati dagli articoli 183, co. 1, 171, co. 3, e 269, co. 2, ossia:
- controllare la regolarità del contraddittorio e, in caso di mancata costituzione del convenuto e nullità della notificazione della citazione, ordinare la rinnovazione della citazione ex art. 291 c.p.c.;
- dichiarare la contumacia dell’attore o del convenuto ai sensi dell’art. 171, co. 3;
- ordinare che al contumace siano notificati gli atti e i provvedimenti indicati dall’art. 292[6];
- ordinare l’integrazione del litisconsorzio ai sensi dell’art. 102;
- ordinare la chiamata di un terzo iussu iudicis ex art. 107;
- emettere, ai sensi dell’art. 164, co. 2, 3, 5 e 6, i provvedimenti volti a sanare la nullità della citazione;
- fissare, ai sensi dell’art. 182, un termine per rimediare alla mancanza[7] o ai vizi della procura o per ovviare a un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione;
- disporre, ai sensi dell’art. 269, co. 2, lo spostamento dell’udienza per consentire la citazione del terzo richiesta dal convenuto;
- indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, anche con riguardo alle condizioni di procedibilità della domanda e la sussistenza dei presupposti per procedere col rito semplificato.
Emettendo uno dei provvedimenti di cui all’elenco, il giudice di regola fisserà una nuova udienza (art. 171 bis, co. 2) nel rispetto dei termini a comparire (120 giorni) e da tale nuova udienza si computeranno i termini a ritroso per le memorie integrative (su cui infra).
Di regola, inoltre, fissata una nuova udienza, il giudice sarà chiamato a svolgere di nuovo le verifiche preliminari: si pensi alla rinnovazione della citazione per vizio della vocatio in ius o per vizio della notificazione, che porta con sé tutta una serie di controlli sulla successiva costituzione del convenuto e sulla validità delle domande formulate; alla stessa maniera, lo spostamento per consentire la citazione del terzo imporrà di compiere nuove verifiche, quantomeno, sulla costituzione del terzo.
Quando non deve emettere nessuno dei provvedimenti sopra elencati ovvero quando, pur adottandone uno, non è necessaria la fissazione di una nuova udienza (ad esempio, in caso di dichiarazione immediata di contumacia del convenuto o dell’attore, ovvero in caso di mera indicazione di questioni rilevabili d’ufficio), il giudice può, alternativamente (art. 171 bis, co. 3):
- confermare l’udienza originariamente fissata dall’attore[8];
- differire la data della prima udienza fino a un massimo di 45 giorni, con conseguente slittamento dei termini per il deposito delle memorie integrative (viene così recuperato quel potere officioso in precedenza previsto dall’abrogato art. 168 bis, co. 5).
Sebbene la legge non richiami nel co. 3 il termine indicato nel co. 1, è essenziale che il giudice emetta anche questo provvedimento entro 15 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto. Anzi, se intende confermare l’udienza fissata dall’attore, sarebbe opportuna una più rapida adozione del provvedimento, per assicurare alle parti il maggior tempo possibile per redigere e depositare la prima memoria integrativa. Infatti, tra la scadenza del termine di 15 giorni assegnato al giudice e la scadenza del termine per il deposito della prima memoria integrativa (40 giorni prima dell’udienza) è garantito un termine minimo di soli 15 giorni (su cui anche infra, § successivo), che può dunque essere ampliato fino a 29 a seconda della solerzia del giudice nel compimento delle verifiche preliminari. Nel caso in cui giudice violi il termine di 15 giorni che la legge gli assegna, non potrà in nessun caso confermare la prima udienza, ma sarà costretto quantomeno a differire la prima udienza con slittamento dei termini per il deposito delle memorie, perché altrimenti verrebbe ingiustamente eroso il termine minimo di 15 giorni che la legge sembra garantire alla parte per il deposito della prima memoria. Ma non solo: sarebbe opportuno che il giudice differisse la prima udienza anche là dove, pur rispettando il termine di 15 giorni assegnatogli dalla legge, alle parti non riesca comunque ad essere garantito un termine minimo di 15 giorni per il deposito della prima memoria integrativa: ciò può accedere, ad esempio, quando il provvedimento del giudice sia adottato il 15° giorno e il termine per la prima memoria integrativa vada a scadere di domenica, con anticipazione al primo giorno feriale precedente (venerdì)[9].
L’ultimo comma dell’art. 171 bis stabilisce che «il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della cancelleria». La disposizione dovrebbe riferirsi al decreto con cui il giudice, non avendo ritenuto di emettere uno dei provvedimenti di cui al co. 1, si sia limitato a confermare o differire l’udienza ai sensi del co. 3. Viceversa, ove adotti uno dei provvedimenti previsti dal co. 1, il provvedimento assume la forma consona al suo contenuto: ad esempio, se deve (anche) pronunciare la contumacia di una parte, la forma è quella dell’ordinanza ex art. 171.
Comincia così a delinearsi il quadro della nuova fase introduttiva. Parte della vecchia prima udienza viene sostituita da controlli solipsistici del giudice, compiuti fuori udienza.
Al netto di quanto si dirà in seguito, la soluzione è assai discutibile per vari motivi.
Innanzitutto, le questioni che sono al fondo dei provvedimenti menzionati all’art. 171 bis, co. 1, rappresentano questioni di notevole importanza e non è detto che esse siano state precedentemente sollevate dalle parti. E se anche qualcuna di esse venisse sollevata da una parte (verosimilmente dal convenuto) e non dal giudice, l’idea che questo possa adottare i provvedimenti necessari alla loro soluzione senza instaurare il previo contraddittorio con tutte le parti del giudizio rappresenta un arretramento sul piano delle garanzie. È dunque possibile che i giudici più sensibili alla salvaguardia del contraddittorio optino per la concessione alle parti di un termine difensivo ad hoc per interloquire sulla questione, con un effetto moltiplicatore degli atti scritti e un necessario ulteriore rinvio della prima udienza.
Inoltre, la prassi dimostra che tali questioni emergono più spesso per iniziativa delle parti che non all’esito di un controllo spontaneo del giudice: ne consegue che, in assenza di un’udienza dedicata, le questioni rischieranno di restare sottotraccia per emergere forse in seguito, con l’effetto di rivelare l’inutilità dell’attività medio tempore compiuta[10].
D’altro canto, il giudice, nell’effettuare i controlli, non è invitato dal legislatore a chiedere immediatamente alle parti i chiarimenti necessari sulla base dei fatti allegati (art. 183, co. 4, vecchio testo; cfr. art. 183, co. 3, nuovo testo, in cui la richiesta di chiarimenti sembra collegata all’esperimento dell’interrogatorio libero durante la prima udienza, che è di là da venire rispetto alle verifiche preliminari).
Non si comprende perché il giudice, all’esito delle verifiche, sia sollecitato a indicare le questioni rilevabili d’ufficio e non invece a chiedere i chiarimenti, tenuto conto di quanto questi siano importanti per meglio indirizzare anche l’attività integrativa demandata alle successive memorie integrative. La separazione cronologica tra rilievo officioso e richiesta di chiarimenti è forse il frutto di una leggera svista, prodottasi nella (ri)composizione del nuovo puzzle processuale, ma ha anche il sapore di un lapsus freudiano.
Purtroppo, trova almeno parziale conferma un sospetto già maturato durante la lettura della legge delega[11]. Sembra infatti che il legislatore abbia abbandonato l’idea di un processo effettivamente diretto dal giudice (cfr. art. 175) ossia di un processo in cui il giudice si dedica, sin da principio – anzi, soprattutto in principio - a setacciare gli atti di parte per farne emergere le questioni centrali e per delimitare in maniera chiara la quaestio facti e la quaestio iuris, separandole dal materiale irrilevante. La stessa previsione di un’attività assertiva tutta rimessa alle parti in una fase anteriore all’udienza, con formazione di preclusioni non superabili dopo di essa, è (purtroppo) coerente con una visione rigida e poco moderna del processo[12].
Né valga obiettare, in senso contrario, che la soluzione individuata dal legislatore ha quantomeno il pregio del pragmatismo, a fronte di numerose prime udienze che fino a ieri si svolgevano senza che il giudice conoscesse nel dettaglio gli atti del fascicolo. Ammesso che sia questa la realtà dei fatti, in ogni caso sarebbe stato preferibile uno sforzo organizzativo volto a replicare ed imporre le prassi virtuose (o anche solo le prassi normali), piuttosto che l’istituzionalizzazione normativa di un malcostume.
2.5. Le memorie integrative.
Dopo i controlli preliminari del giudice, si colloca il terzo snodo della fase introduttiva, dedicato all’attività integrativa delle parti e regolato dall’art. 171 ter.
Lo schema è caratterizzato da tre memorie integrative - anch’esse anteriori alla prima di udienza di comparizione - che ricalcano in parte il modello dell’art. 183, co. 6[13].
Per l’esattezza, l’integrazione di cui all’art. 171 ter si estende a iniziative che, in precedenza, erano ammesse solo se svolte verbalmente all’udienza ex art. 183, co. 5, e che non erano invece richiamate tra le attività ammesse in sede di appendice scritta ex art. 183, co. 6.
Infatti, con la prima memoria, da depositarsi a pena di decadenza almeno 40 giorni prima dell’udienza, all’attore è concesso «proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto o dal terzo» e «chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta». Si tratta di attività che, in precedenza, erano previste solo dall’art. 183, co. 5. Inoltre, con la stessa memoria, entrambe le parti possono «precisare e modificare le domande, eccezioni e conclusioni già proposte» ossia l’attività di emendatio libelli che, in precedenza, era ammessa sia all’udienza ex art. 183, co. 5, sia con la prima memoria ex art. 183, co. 6.
In definitiva, con nella stessa prima memoria, si possono formulare vere e proprie domande nuove (specialmente, la reconventio reconventionis), ma si può anche compiere la mera emendatio delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già formulate, là dove nella prima memoria ex art. 183, co. 6, vecchio rito solo la seconda era concessa[14].
L’aver tradotto nella prima memoria scritta anche il potere di formulare domande nuove porta con sé il necessario ampliamento contenutistico delle memorie successive. Non a caso, nella seconda memoria, da depositarsi a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza, le parti possono – anzi, devono - compiere tutte le attività già previste dalla seconda memoria ex art. 183, co. 6, n. 2, tra cui, in particolare, indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali (barriera preclusiva istruttoria), ma il convenuto deve anche contraddire alle eventuali domande nuove formulate dall’attore con la prima memoria integrativa («proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande nuove formulate nella memoria di cui al n. 1»).
Analogamente, la terza memoria integrativa, da depositarsi almeno 10 giorni prima dell’udienza, non è riservata, come la terza memoria ex art. 183, co. 6, vecchio rito, alla sola prova contraria, ma è concesso alle parti veicolare, per il suo tramite, la replica alle eccezioni nuove formulate nella memoria precedente (e sembrerebbe trattarsi della replica alle eccezioni che il convenuto può aver sollevato nella seconda memoria per contraddire alla domanda nuova in senso stretto formulata dall’attore con la prima memoria).
Le memorie integrative devono poi essere utilizzate dalle parti per contraddire sulle questioni eventualmente rilevate d’ufficio dal giudice con le verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis, ivi comprese quelle riguardanti l’assolvimento delle condizioni di procedibilità o la sussistenza dei presupposti per procedere col rito semplificato ex art. 281 decies ss. La legge dispone che «tali questioni sono trattate dalle parti nelle memorie integrative di cui all’articolo 171 ter» (art. 171 bis, co. 1, ult. periodo), ma non specifica in quale di esse. La soluzione non è predeterminabile e dipende dal tipo di reazione cui la questione dà luogo. Ad esempio, se, per effetto della questione rilevata d’ufficio, l’attore maturi un interesse a modificare la domanda nei limiti dell’emendatio libelli ovvero il convenuto avverta l’esigenza di specificare meglio una sua eccezione, dovrà necessariamente compiere tale attività con la prima memoria. Viceversa, se la questione rilevata d’ufficio fa sorgere un mero interesse a contraddire in punto di diritto, le argomentazioni potranno essere svolte senz’altro con la prima memoria, probabilmente anche con la seconda, data la sua funzione di replica, e forse, mediante una lettura estensiva favorita dal testo di legge, anche con la terza memoria, dedicata come visto alla replica delle eccezioni nuove. D’altronde, se si tratta di pura argomentazione in diritto, la parte potrà prendere posizione sulla questione, anche per la prima volta, durante discussione finale o con gli scritti concessi alle parti nella fase decisionale. Se la questione ha ad oggetto l’assolvimento della condizione di procedibilità, ogni memoria appare utile per dimostrare che la condizione è stata assolta ovvero per argomentare sulle questioni giuridiche che la concernono. Se la questione ha ad oggetto la sussistenza dei presupposti per procedere col rito semplificato, verosimilmente sarà la terza memoria quella più adatta per argomentare compiutamente sul tema, atteso che solo dopo la precisazione definitiva delle domande e delle eccezioni e solo dopo la compiuta indicazione di tutte le prove è possibile verificare con cognizione di causa se la controversia rientri tra quelle indicate nell’art. 281 decies, co. 1.
La nuova strutturazione della sequenza degli atti integrativi suscita alcuni problemi.
In primo luogo, è evidente che i controlli preliminari svolti dal giudice non sono definitivi, perché dopo di essi possono sopravvenire nuove domande, che necessitano del medesimo vaglio preliminare già compiuto per quelle formulate in precedenza.
Inoltre, nell’ipotesi in cui sia richiesta la chiamata del terzo da parte dell’attore, l’eventuale autorizzazione giungerà solo alla prima udienza (art. 183, co. 2 nuovo testo), dopo che le memorie integrative sono state già depositate dalle parti. Vi sarà dunque la fissazione di una nuova udienza e tutto l’iter dovrà ripetersi, con nuove verifiche preliminari e con notevole moltiplicazione di atti scritti (v. art. 269, co. 5 riformato).
Infine, i termini per il deposito delle memorie sono da computare “a ritroso”, ossia dall’udienza indicata nell’atto di citazione (salvo eccezioni: rinvio all’esito dei controlli ex art. 171 bis, rinvio ex art. 171 ter, co. 1 o co. 3; rinvio per citare un terzo ecc.). La prima memoria deve essere depositata almeno 40 giorni prima dell’udienza. Considerando che il provvedimento del giudice sui controlli preliminari deve essere adottato entro 15 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto, ossia almeno 55 giorni prima dell’udienza, di fatto il termine minimo che la legge concede tra il provvedimento del giudice e la prima memoria integrativa è di (soli) 15 giorni[15].
Peraltro, i termini a ritroso che scadono il sabato o la domenica, per consolidata giurisprudenza della Cassazione[16], vengono anticipati al venerdì precedente. Si rischia quindi un’erosione dei termini a difesa. Se, ad esempio, il termine per la seconda memoria scade di giovedì e quello della terza scade la domenica della settimana successiva (ossia dopo 10 giorni), quest’ultimo scadrà in verità il venerdì precedente e quindi il termine per la terza memoria non sarà, come immaginato dal legislatore, di 10 giorni, ma solo di 8. La scelta dei termini a ritroso è quindi foriera di notevoli inconvenienti, inconvenienti che appaiono francamente anacronistici in un’epoca in cui la calendarizzazione potrebbe essere realizzata attraverso ausili elettronici, con maggiore certezza dei termini per tutti i soggetti del giudizio. Viene il sospetto che dietro i proclami sul processo telematico si nasconda una scarsa consapevolezza delle reali potenzialità dell’informatica applicata al processo.
Alla luce delle precedenti osservazioni, si può quantomeno dubitare che la nuova fase introduttiva sia più razionale della precedente. Sarebbe stato preferibile potenziare l’udienza in funzione maieutica, piuttosto che rinunciarvi definitivamente in favore di un confronto scritto che le parti svolgeranno, ieri come oggi, senza alcuna rassicurazione di un confronto attivo con il giudice e, quindi, con l’incentivo a dilungarsi in plurime e precauzionali argomentazioni all’interno di una pluralità di atti scritti, con buona pace del principio di sinteticità, chiarezza e specificità.
3. L’udienza di prima comparizione e trattazione.
L’udienza di prima comparizione delle parti di trattazione della causa (art. 183) non si svolgerà, come visto, prima di 120 giorni dalla notificazione della citazione e le parti vi si presenteranno dopo aver completato definitivamente le proprie allegazioni e istanze istruttorie.
La dilatazione dei tempi della prima udienza non preoccupa di per sé, neppure ove la parte abbia interesse ad anticiparla, ad esempio, per ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo opposto (art. 649) o la sospensione del provvedimento impugnato. In tal caso dovrebbe farsi ricorso alla fissazione di un’udienza ad hoc, data la natura cautelare diffusamente riconosciuta a questi provvedimenti (cfr. anche art. 5 d.lgs. 150/2011).
Si prescrive la necessaria comparizione personale delle parti (co. 1), il loro interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 185 (co. 3). Con l’occasione, sulla base dei fatti allegati, il giudice può chiedere alle parti i chiarimenti necessari (co. 3).
La mancata comparizione personale senza giustificati motivi – salva la facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale ai sensi dell’art. 185, co. 1 - è valutabile dal giudice come argomento di prova ex art. 116, co. 2 (co. 1).
Si passa così da un tentativo di conciliazione per richiesta congiunta ovvero per iniziativa non obbligatoria del giudice (art. 185, co. 1, vecchio testo) a un tentativo necessario di conciliazione analogo, anche nelle conseguenze, a quello già previsto dall’art. 420, co. 2, c.p.c. nel rito del lavoro.
Poiché l’art. 185 è rimasto sostanzialmente invariato, fatta eccezione per il suo coordinamento con il calendario del processo, un (ulteriore) tentativo di conciliazione per richiesta congiunta o per iniziativa del giudice ai sensi dell’art. 117 resta comunque possibile dopo la prima udienza, nel corso della fase istruttoria.
Inoltre, ai sensi del nuovo art. 185 bis, il giudice può formulare d’ufficio una proposta conciliativa «fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione» (in precedenza: «alla prima udienza, ovvero sino a quando non è esaurita l’istruzione»). Benché la legge si premuri di precisare che la proposta conciliativa non costituisce motivo di ricusazione, essa, se formulata in una fase avanzata del giudizio, rischia di trasformarsi in un mezzo di coartazione, in quanto la parte insoddisfatta dalla proposta viene di fatto stretta in una morsa: o accetta obtorto collo la proposta, oppure rischia un provvedimento negativo (o comunque non soddisfacente), cui verosimilmente si assocerà anche un provvedimento particolarmente severo in punto di spese. Si auspica che i giudici facciano un uso prudente di questo potere.
Sempre alla prima udienza, il giudice, se ritiene di autorizzare la chiamata del terzo a istanza dell’attore (art. 171 bis, co. 1), fissa una nuova udienza ai sensi dell’art. 269, co. 3 (art. 183, co. 2). L’art. 183, co. 2, prevede peraltro che la fissazione della nuova udienza sia disposta «salva l’applicazione dell’articolo 187» ossia salvo che la causa sia già matura per la decisione. Non è chiaro cosa intenda esprimere la clausola di salvezza. Probabilmente, si suggerisce al giudice di negare l’autorizzazione alla chiamata del terzo da parte dell’attore là dove, pur sussistendo i presupposti per la chiamata, ragioni di opportunità, nella specie la immediata decidibilità della causa nel merito, suggeriscano di velocizzare la definizione della controversia, anche se ciò significa negare l’ingresso alla domanda verso il terzo. Sembra quindi che venga esteso alla chiamata del terzo da parte dell’attore quel (discutibilissimo) potere discrezionale e insindacabile, basato su ragioni di opportunità ovvero sul principio di ragionevole durata del processo, che la Cassazione già riconosce al giudice in sede di autorizzazione della chiamata del terzo da parte del convenuto[17].
A mente dell’art. 183, ultimo comma, se non deve procedersi alla fissazione di una nuova udienza per la chiamata del terzo e se il tentativo di conciliazione non riesce, il giudice decide sulle istanze istruttorie e predispone il calendario delle successive udienze sino a quella di rimessione in decisione, specificando gli incombenti che verranno esplicati in ciascuna di esse.
Lo stesso comma precisa poi che, se l’ordinanza di ammissione dei mezzi istruttori avviene fuori udienza, essa deve comunque essere pronunciata entro 30 giorni. Inoltre, si impone la fissazione dell’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova entro 90 giorni (verosimilmente, in caso di ordinanza istruttoria fuori udienza, il termine decorrerà dal provvedimento). Si tratta all’evidenza di un termine ordinatorio, sicché risulta ozioso domandarsi se entro 90 giorni debbano svolgersi tutte le udienze istruttorie o solo la prima, qualora una soltanto non sia sufficiente.
Il calendario del processo, in verità, è stato introdotto all’art. 81-bis disp. att. c.p.c. dalla l. 69/2009 e non risulta che abbia sortito effetti miracolosi sui tempi del processo. D’altronde, l’organizzazione dell’ufficio non è qualcosa che può essere governato dalle norme processuali. Inoltre, la concentrazione del processo deve riguardare tutto il suo svolgimento. Diversamente, il giudice si trova costretto a ristudiare più volte la causa, con inevitabile spreco di energie. Pertanto, se è vero, come si suole dire, che il vero collo di bottiglia della giustizia è rappresentato dalla fase decisoria, è del tutto inutile fissare un termine per lo svolgimento dell’istruttoria se un analogo e concentrato termine non viene fissato per l’emissione della sentenza.
4. La contumacia.
Mutando la fase introduttiva, varia anche la disciplina della contumacia.
Viene in primo luogo modificato il co. 2 dell’art. 171 eliminando le parole «fino alla prima udienza»: per l’effetto, l’attore deve necessariamente costituirsi entro 10 giorni dalla notificazione della citazione e il convenuto deve costituirsi entro 70 giorni dall’udienza. Se una parte si è costituita nel termine assegnatole dalla legge, l’altra potrà costituirsi successivamente, salve le decadenze maturate. Se nessuna delle due parti si è costituita nei termini assegnati dalla legge, si applicano le disposizioni dei co. 1 e 2 dell’art. 307, a mente dell’art. 171, co. 1, rimasto invariato. Se invece alla scadenza del termine di 70 giorni prima dell’udienza (termine per la costituzione del convenuto ex art. 166) una parte risulta ritualmente costituita e l’altra no, quest’ultima, ai sensi del modificato co. 3 dell’art. 171, è dichiarata contumace, con provvedimento emesso all’esito dei controlli preliminari ex art. 171 bis, co. 1, che infatti richiama l’art. 171, co. 3, salvo che il giudice non rilevi un vizio della notificazione, nel qual caso verrà in prima battuta ordinata la rinnovazione della citazione ai sensi dell’art. 291, co. 1, con fissazione di una nuova udienza.
In verità, non si fa luogo alla dichiarazione della contumacia se la parte si costituisce dopo la scadenza del termine ex art. 166, ma comunque prima dell’emissione del provvedimento con cui dovrebbe essere dichiarata, ossia il provvedimento emesso all’esito delle verifiche preliminari ex art. 171 bis. Lo si evince dalla modifica del co. 2 dell’art. 291, che, in caso di rinnovazione della citazione per vizi della notificazione, dispone che la contumacia venga dichiarata se la parte non si costituisce prima della pronuncia del decreto ex art. 171 bis, co. 2 (id est, prima della conclusione delle seconde verifiche preliminari rese necessarie dalla rinnovazione della citazione).
5. Le ordinanze provvisorie.
Una delle novità più significative della riforma è senz’altro l’introduzione di due ordinanze, una di accoglimento (art. 183 ter) l’altra di rigetto (art. 183 quater), inidonee al giudicato e che aspirano, almeno in teoria, a fornire un’anticipazione di tutela e a favorire una definizione più rapida della controversia.
Tali ordinanze mirano a sostituirsi alla sentenza e a definire l’intero processo là dove la domanda appaia, rispettivamente, manifestamente fondata o manifestamente infondata.
A differenza di quanto era stato proposto dalla Commissione Luiso, la riforma non ha optato per un procedimento autonomo sulla scia del référé provision francese, ma ha inglobato l’istituto all’interno del normale giudizio di cognizione, quale esito alternativo alla sentenza. Tuttavia, la pronuncia di queste ordinanze è subordinata a presupposti che di fatto ne limitano l’applicazione, rendendole istituti di scarsa appetibilità e praticabilità.
5.1. L’ordinanza di accoglimento della domanda.
I presupposti per l’emissione dell’ordinanza di accoglimento sono: i) l’istanza di parte; ii) la competenza del tribunale (anche collegiale, mancando una specificazione in proposito); iii) la controversia su diritti indisponibili (il che limita l’applicazione nelle controversie di competenza collegiale); iv) il raggiungimento della prova dei fatti costitutivi della domanda; v) la manifesta infondatezza delle difese della controparte; vi) in caso di processo cumulato, che i precedenti requisiti siano comuni a tutte le cause.
Sebbene la disposizione sembri ammettere la pronuncia «nel corso del giudizio di primo grado», si può ritenere che l’ordinanza non possa essere adottata né prima della prima udienza, né dopo la rimessione della causa in decisione. “Non prima della prima udienza” perché, oltre alla collocazione numerica della disposizione (dopo l’art. 183), le parti devono necessariamente aver esaurito i poteri di allegazione e prova e, stando al tentativo di conciliazione obbligatorio in prima udienza (v. supra), la definizione bonaria resta la via privilegiata. E, d’altro canto, è senz’altro opportuno scongiurare provvedimenti di tale portata prima ancora che si sia svolta la prima udienza di comparizione delle parti, con l’effetto di ridurre l’intero processo di cognizione a un processo puramente cartolare. “Non oltre la rimessione in decisione” perché da lì in poi cessano gli effetti benefici della definizione anticipata del giudizio, mentre torna a prevalere l’utilità della definizione della controversia con sentenza.
L’ordinanza è provvisoriamente esecutiva, contiene la regolamentazione delle spese di lite, ma non è idonea ad acquistare efficacia di giudicato, né la sua efficacia può essere invocata in altri processi.
La forma dell’ordinanza presuppone poi la previa instaurazione del contraddittorio sull’istanza avanzata dalla parte.
Inoltre, essa è reclamabile ai sensi dell’art. 669 terdecies – mezzo di impugnazioni che si conferma versatile - e dal reclamo dipende anche la sorte del processo: a) se il reclamo è accolto, il giudizio prosegue dinanzi a un magistrato diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza; b) se il reclamo non è proposto o viene rigettato, l’ordinanza definisce il giudizio e non è altrimenti impugnabile, ma, difettando di efficacia di giudicato, la controparte potrà agire in accertamento negativo, anche in sede di opposizione all’esecuzione.
Benché la legge nulla dica al riguardo, ove il giudice non ritenga di accogliere l’istanza della parte, dovrebbe rigettarla con provvedimento avente ancora una volta la forma dell’ordinanza (stante il previo contraddittorio)[18], ma questa volta senza pronuncia sulle spese[19] e senza possibilità di reclamo. Infatti, l’ordinanza di rigetto dell’istanza – che non va confusa con l’ordinanza di rigetto ex art. 183 quater (infra, § successivo) - non costituisce accertamento negativo del diritto, dal momento che la non manifesta infondatezza delle difese del convenuto non equivale alla loro fondatezza[20]. In assenza di un mezzo di impugnazione, l’istanza sarà liberamente riproponibile, salvo il potere del giudice di tener conto della reiterazione in sede di regolazione finale delle spese.
Lo statuto giuridico dell’istituto limita o quantomeno scoraggia la sua applicabilità concreta.
In particolare:
- non è chiaro se l’istituto possa applicarsi nei riti speciali, ad esempio nel rito del lavoro, nel rito locatizio, nel procedimento semplificato di cognizione ecc.[21];
- la domanda deve essere accolta integralmente[22] altrimenti non si comprende come possano considerarsi manifestamente infondate le difese avversarie (ci si potrebbe interrogare se la parte possa richiedere un accoglimento parziale dell’originaria domanda e se tale istanza rischi di essere intesa come rinuncia parziale alla domanda nel caso la controversia non venga definita in via abbreviata; o se la parte possa chiedere l’accoglimento con ordinanza della sola domanda subordinata);
- se risultano provati tutti i fatti costitutivi e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate, allora l’anticipazione è tutto sommato relativa e anche alquanto inutile, perché la causa è già matura per la decisione e sarebbe preferibile la sua definizione con sentenza;
- se vi sono più cause cumulate dall’attore, i requisiti devono sussistere per tutte, il che appare statisticamente poco probabile, specie nelle fasi iniziali del procedimento;
- se il cumulo è effetto della proposizione di domande riconvenzionali, l’applicazione dell’istituto diviene difficile, perché, nel contempo, devono sussistere i presupposti per tutte le domande e l’istanza deve provenire da entrambe le parti contrapposte;
- potrebbe difettare l’interesse della parte, perché l’ordinanza non è titolo per iscrizione dell’ipoteca giudiziale o perché la parte ha l’esigenza di ottenere un provvedimento idoneo al giudicato, ad esempio ai fini della trascrizione del provvedimento[23].
Le parti e i loro avvocati avranno dunque più di qualche remora a formulare l’istanza[24].
A ciò si aggiunga anche la possibile resistenza da parte del giudice. In primo luogo, poiché l’ordinanza di rigetto non è reclamabile (v. supra), potrebbe esservi una inclinazione psicologica del giudice a prediligere tale esito, anche per sottrarre la decisione a un sindacato interno allo stesso ufficio. Inoltre, è verosimile attendersi ordinanze di rigetto succintamente motivate, di agevole scrittura, sia perché la laconicità maschera meglio il convincimento del giudice sul fondo della controversia, sia perché la non reclamabilità rende incensurabile il provvedimento anche sotto tale profilo.
L’istituto pone poi ulteriori questioni interpretative e operative.
Innanzitutto, la previsione del passaggio del fascicolo ad altro magistrato in caso di accoglimento del reclamo, oltre ad essere poco razionale per l’esagerato numero di magistrati che la vicenda può coinvolgere, è foriera di difficoltà organizzative negli uffici di piccole dimensioni.
Inoltre, come l’accoglimento deve essere integrale, anche il reclamo deve essere rigettato integralmente per poter dar luogo alla definizione del processo (salvo quando si dirà appresso per le spese). Pertanto, non vi è margine per un accoglimento parziale: anche là dove il giudice del reclamo dovesse dissentire solo parzialmente dalla decisione (ad esempio perché non ritiene provata una delle domande cumulate o dubita semplicemente del quantum liquidato), dovrà comunque accertare l’insussistenza dei presupposti per l’emissione dell’originaria ordinanza e accogliere così integralmente il reclamo, disponendo la prosecuzione davanti a un altro magistrato. Anche in tal caso si evidenzia uno spreco di energie da parte dell’ufficio.
In tema di spese, come visto, non vi è luogo per la loro regolamentazione in caso di rigetto dell’istanza. Neppure vi dovrebbe essere pronuncia sulle spese in caso di accoglimento del reclamo: con tale ordinanza, il collegio dovrebbe annullare l’intera ordinanza reclamata, rimettendo la statuizione sulle spese alla sentenza finale. Viceversa, in caso di rigetto del reclamo, il collegio si pronuncerà senz’altro sulle spese.
Muovendo dall’inidoneità al giudicato dell’ordinanza di accoglimento, anche ove confermata in sede di reclamo, si pone il problema della contestabilità dei capi sulle spese, dei quali si potrebbe in teoria predicare la stabilità e quindi l’impugnabilità con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.[25].
Innanzitutto, occorre precisare che il reclamo è idoneo a veicolare anche le doglianze circa le modalità con cui sono state liquidate le spese, e questa è forse l’unica ipotesi di possibile accoglimento parziale del reclamo.
I capi sulle spese per i quali si pone la questione della loro modalità di contestazione sono dunque:
a) il capo sulle spese contenuto nell’ordinanza di accoglimento non reclamata;
b) il capo sulle spese contenuto nell’ordinanza di accoglimento confermata in sede di reclamo;
c) il capo sulle spese pronunciato erroneamente con l’ordinanza di rigetto dell’istanza;
d) il capo sulle spese contenuto nell’ordinanza collegiale di rigetto del reclamo;
e) il capo sulle spese pronunciato erroneamente dal collegio in caso di accoglimento del reclamo.
Nel caso sub c, essendo l’ordinanza di rigetto dell’istanza non reclamabile, il giudice può revocarla re melius perpensa, eventualmente anche con la sentenza di merito.
In tutti i casi (compreso quello sub c, ove non sia stata disposta la revoca e non sia intervenuta la sentenza ad assorbire la statuizione), richiamando gli insegnamenti della Cassazione maturati in materia cautelare[26], il capo sulle spese avrà un’efficacia meramente esecutiva, ossia un’efficacia in tutto identica al capo di merito dell’ordinanza. Il capo condannatorio sarà dunque contestabile – anche di per sé solo[27] - in un autonomo giudizio ovvero in sede di opposizione all’esecuzione, escluso invece il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. Per ragioni di simmetria, anche la parte vincitrice nel merito dell’ordinanza dovrebbe aver diritto ad instaurare un autonomo giudizio per contestare la pronuncia di compensazione delle spese eventualmente pronunciata dal giudice di prima istanza e/o dal collegio, salvo che non sia praticabile la via della correzione dell’errore materiale[28].
5.2. L’ordinanza di rigetto della domanda.
L’art. 183 quater disciplina invece l’ordinanza di rigetto della domanda.
Alcuni presupposti sono comuni all’ordinanza di accoglimento, in particolare quelli enumerati supra sub i), ii), iii) e vi), ossia: i) l’istanza di parte; ii) la competenza del tribunale; iii) la controversia su diritti indisponibili; … iv) in caso di processo cumulato, che i precedenti requisiti siano comuni a tutte le cause.
Mutano invece gli altri presupposti, che possono ricorrere in via alternativa: a) domanda manifestamente infondata; b) nullità della citazione per omessa o incerta indicazione del petitum (n. 3 dell’art. 163), se «la nullità non è stata sanata»; c) nullità della citazione per mancanza dell’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda (art. 163, n. 4) se non sono state compiute la rinnovazione o l’integrazione della domanda ritualmente disposte dal giudice.
Al pari dell’ordinanza di accoglimento:
- non acquista efficacia di giudicato;
- con essa il giudice regola le spese di lite;
- è reclamabile ex art. 669 terdecies;
- se il reclamo non è proposto o è rigettato, l’ordinanza definisce il giudizio e non è ulteriormente impugnabile;
- se il reclamo è accolto il processo prosegue dinanzi a un diverso magistrato.
Mutatis mutandis, quanto alle fattispecie non espressamente regolate dalla legge, si possono richiamare le considerazioni svolte per l’ordinanza di accoglimento (instaurazione del contraddittorio, disciplina del rigetto dell’istanza, regime delle spese ecc.).
Anche questa ordinanza rischia di essere poco praticata.
Innanzitutto, se sono omessi o risultano assolutamente incerti il petitum (art. 163, comma 3, n. 3) o la causa petendi (art. 163, comma 3, n. 4), si configurano nullità che ostano alla decisione, se non sanate secondo l’iter previsto dall’art. 164, co. 5. Il co. 5 dell’art. 164, tuttavia, non sanziona espressamente con l’estinzione né la mancata rinnovazione della citazione (a differenza del co. 2, relativo alla mancata rinnovazione per vizi della vocatio in ius) né la mancata integrazione della stessa, rendendo apparentemente irrilevante l’avvenuta costituzione della parte. Il silenzio della legge ha dato luogo a diverse soluzioni interpretative: a) vi è chi ritiene che, sia in caso di mancata rinnovazione, sia in caso di mancata integrazione, si determini una fattispecie di estinzione ex art. 307 c.p.c.; b) chi invece ritiene che la fattispecie dia sempre luogo a un rigetto con sentenza in rito, attestante la mera nullità della citazione; c) chi infine distingue tra mancata rinnovazione, che darebbe luogo all’estinzione ex art. 307 (che infatti menziona la sola mancata integrazione), e mancata integrazione, che viceversa, non essendo contemplata come fattispecie estintiva né dall’art. 164 né dall’art. 307, darebbe luogo a una pronuncia con sentenza e alla conseguente regolamentazione delle spese, così compensando la difesa attiva svolta dal convenuto[29].
In questo quadro si colloca il nuovo art. 183 quater.
Dando per presupposto che il legislatore abbia voluto integrare razionalmente la nuova diposizione nel contesto del codice, dobbiamo ritenere che non abbia inteso porre in conflitto l’ordinanza di estinzione, pronunciabile d’ufficio, con l’ordinanza di rigetto ex art. 183 quater, pronunciabile a istanza di parte e pensata dalla riforma come decisione alternativa alla sentenza. Se così è, allora il legislatore ha preso implicitamente posizione a favore della soluzione interpretativa sub b)[30]. Infatti, là dove menziona la nullità genericamente «non … sanata» della citazione per omissione o incertezza del petitum e là dove fa riferimento sia alla mancata rinnovazione che alla mancata integrazione della citazione per omissione dei fatti costituenti la causa petendi, dà per assodato che, in queste ipotesi, la controversia dovrebbe, di regola, essere definita con sentenza, rispetto alla quale la nuova ordinanza ex art. 183 quater si pone in rapporto di alternatività.
Sotto questo profilo, quindi, la disposizione fornisce una sorta di indiretto chiarimento di ordine sistematico in merito alle conseguenze della nullità per vizi dell’editio actionis (petitum e causa petendi) non sanate.
Tuttavia, la nuova disposizione genera a sua volta qualche anomalia: ad esempio, se la nullità non è stata sanata perché non è stato rispettato l’ordine di rinnovazione, il quale presuppone la mancata costituzione della parte, non si comprende come possa esservi un’istanza di parte, dato che la parte non ha assunto un ruolo attivo nel processo[31]. La disposizione acquista un senso solo nella remota ipotesi in cui il convenuto si sia costituito spontaneamente dopo che il giudice ha già disposto la rinnovazione della citazione, chiedendo la pronuncia dell’ordinanza ex art. 183 quater per persistente nullità della citazione dovuta a mancato rispetto del termine fissato dal giudice.
Al di là delle elucubrazioni teoriche, occorre ammettere che, nella pratica, i vizi della citazione relativi al petitum e alla causa petendi sono molto rari e quelli non sanati lo sono ancora di più: dunque, la portata applicativa dell’ordinanza di rigetto basata su tali vizi è prossima allo zero.
Quanto invece all’ordinanza di rigetto per “manifesta infondatezza”, possono ripetersi le considerazioni già svolte per quella di accoglimento. Essa appare poco utile all’interno di un processo di cognizione in cui le parti hanno già redatto almeno 4 atti scritti ciascuna. Anche in tal caso, sarebbe più ragionevole favorire la rimessione immediata della causa in decisione secondo il modello della discussione orale con pronuncia di una sentenza di merito idonea al giudicato.
Circa il tempo della pronuncia dell’ordinanza di rigetto, la legge precisa – e allo stesso tempo confonde il lettore - stabilendo che l’ordinanza è emessa «nel corso del giudizio di primo, all’esito dell’udienza di cui all’articolo 183». A differenza di quella di accoglimento, qui si precisa a chiare lettere che non può essere pronunciata prima dell’udienza di prima comparizione e prima del tentativo di conciliazione. Tuttavia, sebbene la formula sia leggermente diversa, il precetto normativo appare identico.
6. Maggiore effettività del diritto alla prova (ispezione, esibizione e richiesta di informazione alla p.a.).
La riforma mira anche rafforzare il diritto alla prova. L’obiettivo viene perseguito accentuando l’effettività delle ordinanze di ispezione ex art 218, di esibizione ex art. 210 e di richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213.
In particolare, la parte che rifiuta senza giustificato motivo di eseguire l’ordine di ispezione (art. 118, co. 2) senza giustificato motivo è condannata a una pena pecuniaria da 500 a 3.000 euro, fermo in ogni caso il potere del giudice di trarre argomenti di prova dal rifiuto (art. 116, co. 2). Quando l’inadempimento dell’ordine di ispezione riguarda un terzo, il co. 3 dell’art. 118, continua a prevedere la condanna a una pena pecuniaria da 250 a 1.500 euro. Resta invece irrisolto il problema del rifiuto della parte in sede di ispezione corporale preventiva ex art. 696, in quanto nella disposizione appena menzionata il consenso della parte condiziona l’emissione del provvedimento di istruzione preventiva e non la fase di esecuzione: l’ostruzione della parte, impedendo l’emissione dell’ordine, non lascia margine per l’applicazione della pena pecuniaria e rende assai arduo per il giudice del merito desumere argomenti di prova da un dissenso che, seppur non giustificato, sembra comunque configurato nella disposizione come un agere licere[32].
La stessa condanna prevista per l’inadempimento dell’ordine di ispezione è poi estesa all’inadempimento dell’ordine di esibizione. In questa maniera la disciplina dei due istituti viene allineata: se è la parte a essere inadempiente, la pena pecuniaria è compresa tra 500 e 3.000 euro; se è il terzo ad essere inadempiente, la pena pecuniaria è compresa tra 250 e 1.500 euro. Resta fermo il potere del giudice di trarre argomenti di prova dal rifiuto della parte[33].
Queste modifiche, seppur migliorative, rivelano una scarsa efficacia coercitiva, specie se il valore della causa è alto o se il soggetto sanzionato dispone di un cospicuo patrimonio.
Quanto alla richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione viene aggiunto un secondo comma all’art. 213 c.p.c., col quale si fissa un termine di 60 alla p.a. per trasmettere le informazioni ovvero per comunicare le ragioni del diniego.
7. La fase decisoria.
Viene innovata anche la fase decisoria allineando in parte gli schemi procedimentali dinanzi al tribunale collegiale e monocratico, mediante la modifica o l’introduzione degli artt. 189, 275, 275 bis (per il rito collegiale), 281 quinquies e 281 sexies (per il rito monocratico) e l’abrogazione dell’art. 190.
Il punto comune e centrale è la scomparsa dell’udienza di precisazione delle conclusioni, che, peraltro, è una udienza di matrice pretoria, non essendo prevista dal codice come udienza autonoma all’interno dell’iter processuale.
Compare tuttavia l’«udienza di rimessione della causa al collegio» ovvero l’«udienza di rimessione in decisione» (monocratica), che, nel modello di decisione a seguito di trattazione scritta, risulta inutile tanto quanto la precedente udienza di precisazione delle conclusioni[34].
Ad ogni modo, nel nuovo rito, si prevede che, di regola, la precisazione delle conclusioni sia compiuta con il deposito di note scritte, limitate alla formulazione definitiva a puntale delle richieste rivolte al giudice (art. 189, co. 1, n. 1).
7.1. Decisione collegiale.
Nel rito collegiale, spetta innanzitutto al giudice istruttore la scelta dell’iter che segue al deposito delle note di precisazione delle conclusioni. In particolare, il g.i.:
- se ritiene che la causa possa essere decisa a seguito di discussione orale (rectius, trattazione mista) (art. 275 bis), fissa l’udienza di discussione orale dinanzi al collegio e assegna alle parti due termini anteriori all’udienza: uno non superiore a 30 giorni per il deposito delle sole note di precisazione delle conclusioni; uno non superiore a 15 giorni prima dell’udienza per il deposito delle sole comparse conclusionali. All’udienza di discussione, il g.i. fa la relazione della causa e il presidente ammette le parti alla discussione orale. La decisione può poi avvenire in due modi: o all’udienza mediante lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni della decisione, nel qual caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione del presidente; oppure mediante deposito nei successivi 60 giorni.
- se il g.i. non ritiene che la causa possa essere decisa con discussione orale, si applica l’art. 189. Quindi, fissa dinanzi a sé l’udienza di rimessione della causa al collegio e assegna 3 termini: il primo, non superiore a 60 giorni prima dell’udienza di rimessione al collegio, per il deposito delle note di sola precisazione delle conclusioni; il secondo, non superiore a 30 giorni prima dell’udienza, per il deposito delle comparse conclusionali; il terzo, non superiore a 15 giorni prima dell’udienza, per il deposito delle memorie di replica; la sentenza è poi depositata entro 60 giorni dall’udienza (art. 275, co. 1). Come anticipato, l’udienza di rimessione in decisione è, nell’ottica delle parti, del tutto inutile.
- la decisione a seguito di trattazione scritta di cui al punto precedente può tuttavia subire una deviazione per iniziativa anche di una sola parte (art. 275, co. 2 ss.). Con la nota di precisazione delle conclusioni, ciascuna parte può chiedere al presidente che la causa sia discussa oralmente. Resta fermo il termine per il deposito delle comparse conclusionali, mentre viene meno il termine per il deposito delle repliche, perché le argomentazioni a queste riservate potranno essere svolte oralmente in udienza. Dunque, il presidente - sembra in maniera necessitata - provvede alla revoca dell’udienza di rimessione al collegio e fissa l’udienza di discussione orale. Svolta la relazione del g.i. e la discussione orale, la sentenza è depositata entro 60 giorni, mentre non è testualmente prevista la possibilità della pronuncia in udienza mediante lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni della decisione.
Poiché il terzo iter non fa altro che consentire alla parte di ricondurre l’iter decisorio con trattazione scritta al modello misto già previsto dal primo modello (precisazione delle conclusioni, conclusionali e discussione orale), sarebbe stato più razionale riassumere le varianti a due soltanto (scritta e mista) imponendo alle parti di manifestare in anticipo (al più tardi entro la conclusione dell’istruzione) la loro (prevalente) volontà per il modello misto, così da prevenire l’improvviso cambio di binario.
L’art. 189, co. 1, nel regolare la rimessione in decisione a seguito di trattazione scritta (secondo iter sopra descritto) concede alle parti la facoltà di rinunciare ai termini per il deposito dei tre atti scritti (note di precisazione delle conclusioni[35], conclusionali e repliche). Non è chiara la logica di tale rinuncia, che si presuppone comune ad attore e convenuto, dal momento che la parte che non intende depositare il proprio atto è libera di farlo. L’unica spiegazione è che la rinuncia comporti necessariamente la fissazione dell’udienza di rimessione in un termine significativamente più breve di quanto l’iter normale comporterebbe. Tuttavia, le parti non sembrano avere alcuno strumento per imporre al giudice e più in generale all’ufficio questa riduzione di tempi, sicché vien da credere che la rinuncia non sarà frequente nella pratica, neppure quando in principio condivisa dalle parti.
7.2. Decisione monocratica.
La decisione nel rito monocratico è analoga a quella collegiale, salve alcune variazioni.
È il giudice che in primis indirizza la decisione o secondo il modello orale (art. 281 sexies) o secondo il modello scritto o misto (art. 281 quinquies).
Se opta per la decisione a seguito di discussione orale, l’iter è lo stesso del vecchio art. 281 sexies, con la sola differenza che il giudice può pronunciare la sentenza in udienza con la lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni della decisione ma, in alternativa, può, in virtù del nuovo co. 3, depositare la sentenza entro 30 giorni[36]. Dunque, a differenza di quanto previsto dall’art. 275 bis, davanti al giudice monocratico:
- sembrerebbe permanere la precisazione delle conclusioni in udienza (e, dunque, l’abituale udienza di precisazione delle conclusioni), in quanto il co. 1 dell’art. 281 quinquies continua ancora a prevedere che l’udienza di discussione sia fissata dal giudice «fatte precisare le conclusioni». Nulla però impedisce al giudice di fissare un termine per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni (cfr. art. 189 e 275 bis), così evitando lo svolgimento di un’udienza francamente evitabile;
- l’art. 281 sexies non menziona alcun atto scritto per le argomentazioni conclusive, neppure le memorie conclusionali, il cui deposito è viceversa previsto prima della discussione orale dinanzi al collegio (275 bis). Seguendo la prassi spesso praticata, il giudice resta libero di concedere alle parti un termine anteriore all’udienza per il deposito di brevi note conclusive.
Se invece non opta per la discussione orale, si segue il modello scritto o misto di cui all’art. 281 quinquies.
Il modello di decisione a seguito di trattazione scritta (co. 1) è identico a quello collegiale ex art. 189 (v. supra). E quindi: il giudice fissa l’udienza di rimessione in decisione; fissa un termine non superiore a 60 giorni prima dell’udienza per il deposito delle note di precisazione delle conclusioni; fissa un secondo termine non superiore a 30 prima dell’udienza per il deposito delle comparse conclusionali; fissa infine un terzo termine non superiore a 15 giorni prima dell’udienza per il deposito delle memorie di replica. Scompare quindi l’udienza per la precisazione delle conclusioni perché la relativa attività viene demandata alle note di cui al primo termine ex art. 171 ter, ma compare l’altrettanto inutile udienza di rimessione in decisione. Il termine per il deposito della sentenza è di 30 giorni dall’udienza.
Il modello misto (co. 2), invece, si applica su richiesta di almeno una delle parti. Il giudice fissa solo i primi due termini di cui all’art. 189 (note di precisazione delle conclusioni e memorie conclusionali) e l’udienza di discussione orale. A differenza di quanto previsto nell’art. 275, qui la richiesta non deve essere fatta con le note di precisazione delle conclusioni. Anzi, poiché il giudice da subito dovrebbe incanalare la decisione secondo il modello di trattazione mista, la richiesta delle parti dovrebbe pervenire prima che il giudice fissi l’udienza di rimessione in decisione, di fatto impedendola in favore della fissazione dell’udienza di discussione. Poiché però oggi non c’è più la preliminare udienza di precisazione delle conclusioni, idonea in passato a veicolare una simile richiesta, occorre ammettere che la parte possa manifestare, in ogni momento, anche con largo anticipo (con gli atti introduttivi o comunque fino alla conclusione dell’istruzione) la volontà di procedere con decisione a seguito di trattazione mista. Non è chiaro invece se possa manifestare tale volontà anche dopo che il giudice abbia già fissato l’udienza di rimessione in decisione secondo il modello scritto, ad esempio servendosi delle note di precisazione delle conclusioni come peraltro previsto nel rito collegiale (cfr. art. 275, co. 2). Nulla vi osta. Peraltro, a differenza del rito collegiale, la deviazione dal binario della trattazione scritta sarebbe qui più modesta: il giudice, preso atto della volontà della parte, può limitarsi a revocare il termine per il deposito delle repliche e a trasformare l’udienza di rimessione in decisione in un’udienza di discussione orale[37].
8. La riduzione della competenza del collegio e i rapporti tra collegio e giudice monocratico.
Qualche novità è prevista anche per il processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione collegiale.
La legge delega consentiva di «ridurre» le controversie riservate al collegio, in ragione della loro oggettiva complessità giuridica e rilevanza economico-sociale (art. 1, comma 6, lett. a).
La delega è stata attuata abrogando i n. 5 e 6 del comma 1 dell’art. 50-bis, così sottraendo alla competenza del collegio le «cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché nelle cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori delle società, delle mutue assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in partecipazione e dei consorzi» e le «cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione della legittima».
Inoltre, è attribuita al giudice monocratico anche la competenza a decidere sulla querela di falso (v. artt. 225 e 226).
La riforma innova poi anche la disciplina delle conseguenze dell’errata rimessione della causa al collegio anziché al giudice monocratico e viceversa.
L’assetto normativo ante riforma imponeva una rinnovazione della fase conclusiva del processo in ossequio alle forme prescritte per il rito corretto. Infatti, il giudice monocratico, se la causa era stata erroneamente riservata per la decisione davanti a sé, doveva provvedere ai sensi degli art. 187, 188 e 189 c.p.c. (art. 281 octies, vecchio testo). Specularmente, il collegio, in caso di errore uguale e contrario, rimetteva la causa al giudice monocratico perché provvedesse ai sensi degli artt. 281 quater, 281 quinquies e 281 sexies (art. 281 septies, vecchio testo).
La riforma, invece, tende a eliminare la rinnovazione degli atti conclusivi delle parti, specialmente di quelli scritti.
In particolare, se è il collegio a rilevare l’errore, rimette la causa al giudice monocratico con ordinanza non impugnabile, affinché decida senza fissazione di ulteriori udienze (art. 281 septies). Il che è ragionevole: poiché nel giudizio collegiale la rimessione in decisione è avvenuta secondo il modello scritto o misto (artt. 189, 275 e 275 bis) – che sono sostanzialmente identici a quelli previsti anche per il rito monocratico (art. 281 quinquies) - non vi è ragione di rinnovare gli atti scritti già redatti e le udienze già svolte. La sentenza è depositata entro i successivi 30 giorni dall’ordinanza.
Se è il giudice monocratico a rilevare l’errore, rimette la causa al collegio con ordinanza comunicata alle parti. Il collegio decide direttamente la causa, salvo che entro dieci giorni dalla comunicazione almeno una delle parti non richieda la fissazione dell’udienza di discussione orale davanti al collegio, nel qual caso il giudice istruttore avvierà la causa secondo il modello di decisione a seguito di trattazione mista ex art. 275 bis (art. 281 octies). Una nuova trattazione mista è forse ragionevole nel caso in cui davanti al giudice monocratico si sia svolta una discussione puramente orale e, anzi, in tale evenienza, la trattazione scritta dovrebbe imporsi anche a prescindere dalla richiesta di una delle parti. La richiesta di parte produce viceversa una duplicazione di attività se davanti al giudice monocratico si è già svolta una rimessione in decisione nelle forme della trattazione mista o scritta. In tali casi, sarebbe stato più ragionevole consentire alla parte di chiedere esclusivamente la fissazione dell’udienza di discussione orale, senza ulteriori depositi di atti scritti.
Viene infine aggiunto un secondo comma all’art. 281 novies, che disciplina la connessione tra cause che devono essere decise dal tribunale in composizione monocratica e cause che devono essere decise dal tribunale in composizione collegiale. Dopo il primo comma, che sancisce la competenza del collegio a decidere le diverse cause cumulate, salva la separazione, si dispone che «Alle cause riunite si applica il rito previsto per la causa in cui il tribunale giudica in composizione collegiale e restano ferme le decadenze e le preclusioni già maturate in ciascun procedimento prima della riunione».
La disposizione sembra riferirsi a un’ipotesi di riunione successiva di cause (artt. 40 e 274), una (o alcune) di competenza monocratica e l’altra (o le altre) di competenza collegiale. In tal caso, si fa prevalere il rito previsto per la causa di competenza del collegio. Ovviamente, la norma presuppone che almeno una delle due cause sia stata trattata con un rito speciale (se fossero tutte trattate col rito ordinario, il problema sarebbe molto limitato, stanti le poche differenze tra il rito ordinario monocratico e il rito ordinario collegiale). La disposizione pone un importante limite: effettuata la riunione, se il rito applicato a una delle cause, in ragione della sua struttura (ad esempio rito camerale) o in ragione del suo stato di avanzamento (fase introduttiva), risulta al momento della riunione ancora “aperto” a nuove domande, a nuove allegazioni o a nuove istanze istruttorie o produzioni documentali, ciò non consente di usare tale apertura per superare le preclusioni già maturate secondo il rito praticato nell’altra causa oggetto di riunione.
La norma esprime un rigore e una geometria invidiabili. In via un poco provocatoria[38], ci si domanda, tuttavia, se sia poi una così grande eresia ammettere che delle preclusioni maturate possano essere superate, ad esempio per effetto di una riunione tra cause, specie ove non abusivamente architettata. Occorre tenere presente che le preclusioni non sono un dogma, ma un compromesso tra un processo a porte spalancate ma (presumibilmente) lento e un processo a cadenze rigide ma pieno di insidie per la stessa tutela del diritto che ne è oggetto. Poiché l’esperienza di 30 anni di processo ordinario caratterizzato da rigide preclusioni non ha dimostrato alcuna significativa accelerazione dei processi, la riforma avrebbe forse fatto meglio a rinegoziare quel compromesso piuttosto che a convalidarlo anche nelle sue più marginali rappresentazioni.
[1] Per riflessioni critiche sul testo dell’art. 46 disp. att. c.p.c., v. in particolare Scarselli, I punti salienti dell’attuazione della riforma del processo civile di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149, in questa Rivista e Id., Mala tempora currunt, in Judicium.
[2] Campi fissi diversi rispetto a quelli previsti dalla riforma, utili solo per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo (art. 1, comma 17, lett. d, della legge delega e art. 46, co. 5, disp. att.).
[3] Peraltro, si pone l’esigenza di coordinamento con il modificato art. 182 e con la giurisprudenza della Cassazione. Infatti, ammettendo che il nuovo art. 182 consenta la sanatoria ex tunc anche in caso inesistenza della procura, facendo rientrare nel suo ambito di applicazione anche l’ipotesi in cui la parte si è costituita personalmente al di fuori dei casi previsti dalla legge, basterebbe tale disposizione a tutelare la parte, indipendentemente dalla sussistenza dell’avvertimento. Nel caso invece si dia al nuovo art. 182 una lettura restrittiva alla luce delle considerazioni di Cass. SU 37343/2022 (v. infra nt. 7) oppure si ritenga che la sanatoria ex art 182 può essere applicata in caso di inesistenza della procura ma a condizione che il soggetto costituito sia comunque munito di ius postulandi (cfr. Cass. SU 27 aprile 2017, n. 10414), allora non sarebbe invocabile nella specie l’art. 181 e la sanatoria dell’erronea costituzione del convenuto potrebbe essere raggiunta solo in caso di mancanza dell’avvertimento. In tale evenienza, si evidenzierebbe anche una disparità di trattamento rispetto all’attore che abbia agito personalmente al di fuori delle previsioni di legge, non potendo questi né invocare l’art. 182 né la tutela riservata al convenuto dal nuovo avvertimento.
[4] Fattispecie assai singolare sarebbe quella della parte-avvocato che, potendo difendersi personalmente ai sensi dell’art. 86, non si costituisca e, per l’effetto della mancanza dell’avvertimento, benefici del rinvio di udienza presumendosi che egli – professionista forense - non sapesse della facoltà di difesa personale concessa dall’art. 86.
[5] Considerando il nuovo sistema di memorie integrative anteriori all’udienza, il convenuto che voglia ottenere l’anticipazione dell’udienza dovrà costituirsi molto prima della scadenza del termine che in astratto l’art. 163 bis gli concede per avanzare la richiesta, ossia il termine minimo a comparire. Infatti, in precedenza, ipotizzando un’udienza fissata a 180 giorni dalla notificazione della citazione (90 giorni oltre il termine minimo), il convenuto poteva chiedere l’anticipazione dell’udienza costituendosi comunque entro il termine minimo, ossia entro 90 giorni dalla notificazione, ed era tutto sommato possibile che, pur costituendosi il 90° giorno, il presidente anticipasse l’udienza, ad esempio, di almeno 50-60 giorni (ripristinando l’udienza a 120-130 giorni dalla citazione). Ipotizzando la stessa situazione oggi, ossia un’udienza fissata a 210 giorni dalla notificazione della citazione, il convenuto, per chiedere l’anticipazione, dovrebbe in teoria costituirsi entro 120 giorni dalla notificazione. Ma, se si costituisse il 120° giorno, non riuscirebbe ad ottenere materialmente l’anticipazione, perché la nuova data di udienza dovrebbe essere fissata in modo da consentire comunque al giudice di svolgere le verifiche preliminari ex art. 171 bis (e non sarebbe nemmeno facile stabilire il termine: 15 giorni dal decreto del Presidente?) e alle parti di beneficiare di un congruo termine per redigere e depositare la prima memoria integrativa, che ai sensi dell’art. 171 ter, deve essere depositata almeno 40 giorni prima dell’udienza. In questa prospettiva, è ipotizzabile un’anticipazione di 10-20 giorni al massimo, con effetto quasi impercettibile rispetto all’udienza fissata dall’attore a 210 giorni dalla notificazione. Ecco dunque confermato che l’attore, che voglia ottenere una sostanziale anticipazione dell’udienza, dovrà costituirsi con notevole anticipo rispetto alla scadenza del termine concesso dall’art. 163 bis.
[6] Ossia, ipotizzando la contumacia dell’attore o di uno dei più convenuti (o chiamati): la produzione di scrittura privata ex C. cost. 6 giugno 1989, n. 317 e le domande nuove eventualmente proposte dal convenuto.
[7] La riforma precisa che anche la mancanza di procura è sanabile ex tunc al pari della procura viziata: il nuovo art. 182, co. 2, primo periodo, recita infatti «Quando rileva la mancanza della procura al difensore oppure un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione che ne determina la nullità, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa». La novità sembrerebbe dunque superare l’orientamento restrittivo avallato anche dalle Sezioni Unite sul vecchio art. 182, secondo cui è esclusa la sanatoria ex tunc della procura inesistente (Cass. SU 21 dicembre 2022, 37434). Sennonché le stesse Sezioni Unite, confrontandosi obiter con il nuovo testo dell’art. 182 riformato, evidenziano che il nuovo termine «mancanza» possa intendersi, in maniera più aderente al contesto normativo (artt. 125, co. 2, 165,166 e 168 c.p.c. e art. 72 disp. att.), come mero «mancato inserimento fra le carte processuali della procura esistente» e non come espressione di una vera e propria inesistenza della procura. Pertanto, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite e nonostante una esplicita modifica dell’art. 182, è facile pronosticare che le vecchie questioni verranno a riproporsi in maniera pressoché identica. In rpecedenza si è peraltro evidenziato come sulla questione si rifletta anche la previsione del nuovo avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163 (v. supra nt. 3).
[8] Il che non significa che debba tenere udienza in quella data, ma semplicemente che quella data resterà ferma per il computo dei termini a ritroso.
[9] V. Cass. 26 novembre 2020, n. 26900; Cass. 14 settembre 2017, n. 21335.
[10] Cfr. anche Giordano, Più ombre che luci nel nuovo processo civile di primo grado, in Giustizia civile.com, 19 ottobre 2022.
[11] Si rinvia a F. Cossignani, Gli interventi sul processo di cognizione (di primo grado), in AA.VV. Il nuovo processo civile, Bari, 2023, 78 ss.
[12] Condivisibili sono dunque le considerazioni svolte da M. Gattuso, La riforma governativa del primo grado: le ragioni di un ragionevole scetticismo e alcune proposte organizzative ancora possibili, in Questione Giustizia, 2021, fasc. 3, 55 ss., spec.60 s.
[13] In base al testo della legge delega, in verità, ci si poteva attendere una diversa costruzione della fase integrativa (F. Cossignani, op. cit., 81 ss.), rispetto a quella poi delineata in concreto dal legislatore delegato. Infatti, dalla lettura della legge delega, sembrava che non vi dovesse essere più contestualità tra la memoria integrativa dell’attore e quella del convenuto, in quanto quella di quest’ultimo veniva legata a un «successivo termine». Quindi, un primo termine sembrava concesso al solo attore per il deposito della sua memoria integrativa; un secondo termine sembrava concesso al solo convenuto per il deposito della corrispettiva memoria integrativa; e un terzo termine sembrava infine concesso ad entrambi per «replicare alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e indicare la prova contraria». La legge delega, quindi, prospettava due memorie per ciascuna e non tre (v. infra nel testo).
[14] La giurisprudenza, pur avendo allargato la nozione di emendatio (cfr. Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310), ha sempre tenuto distinte le vere e proprie domande nuove, ammissibili nei limiti di legge solo se formulate all’udienza, dalla modifica delle domande già formulate, concessa anche nella prima memoria ex art. 183, co. 6: v. Cass., 26 novembre 2019, n. 30745, in Giur. it., 2020, 1106, con nota di C. Perrone. Il principio è pacifico e di recente è stato ribadito anche da Cass, 3 febbraio 2022, n. 3298.
[15] Come già osservato al § precedente, se il giudice viola il termine di 15 giorni per confermare l’udienza o se la sua osservanza non consente comunque di garantire alla parte un termine di 15 giorni per il deposito della prima memoria – per effetto della scadenza anticipata del termine a ritroso che scade il sabato o la domenica – il giudice dovrà necessariamente differire la prima udienza esercitando il potere concessogli dall’art. 171 bis, co. 3 (che diviene dunque un dovere). Il termine minimo di 15 giorni potrebbe poi dilatarsi fino a un massimo di 29 giorni nel caso il giudice emetta il provvedimento di conclusione delle verifiche già il giorno successivo alla scadenza del termine di costituzione del convenuto e, infine, potrebbe dilatarsi ulteriormente fino a un massimo di 74 giorni, ove, oltre alla massima solerzia del giudice in sede di verifica, sia disposto anche il rinvio dell’udienza di 45 giorni ai sensi del co. 3 dell’art. 171 bis.
[16] V. supra nt. 9.
[17] V. Cass. SU, 23 febbraio 2010, n. 4309, che argomenta in ragione della ragionevole durata del processo e, più di recente, Cass. 28 marzo 2014, n. 7406, Cass. 12 maggio 2015, n. 9570 e Cass. 13 febbraio 2020, n. 3692, le quali invocano generiche “ragioni di opportunità”. L’orientamento è discutibile perché la chiamata del terzo da parte del convenuto è uno strumento di difesa il cui esercizio non è sottoposto dalla legge ad alcun vaglio da parte del giudice (Chiarloni, Prima udienza di trattazione, in Le riforme del processo civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 1992, 189, parla di «manifestazione ‘originaria’ del suo diritto di difesa»), fatta eccezione per la sussistenza della connessione con la domanda attorea (comunanza di causa e rapporto di garanzia). Peraltro, risulta che i giudici di merito abbiano fatto applicazione del potere discrezionale riconosciuto dalla Cassazione anche in controversie che non erano mature per la decisione alla prima udienza o che comunque non si sono rivelate tali all’udienza di prima comparizione (ad esempio, Trib. Fermo, 29 aprile 2022, inedita), quindi intendendo le ragioni di opportunità e la ragionevole durata del processo in maniera piuttosto arbitraria. Si potrebbe dunque ritenere che la clausola di salvezza di cui al nuovo art. 183, co. 2, richiamando la causa matura per la decisione, da un lato implicitamente confermi il potere del giudice di escludere la chiamata del terzo, ma che, dall’altro, valga a limitarne la discrezionalità, pretendendo che la negazione della legittima facoltà attribuita alla parte sia ammissibile solo a condizione che la controversia possa essere subito avviata alla sua finale definizione.
[18] Si può però anche ipotizzare un rigetto de plano con decreto, senza previa instaurazione del contraddittorio.
[19] Il rigetto dell’istanza non porta con sé la pronuncia sulle spese, potendo queste essere regolate con la sentenza finale (cfr., in materia cautelare, l’art. 669 septies, co. 2)
[20] La scelta non pone alcun problema di uguaglianza ex art. 3 Cost. o di garanzia del diritto di azione e difesa ex art. 24 Cost.. Non si tratta di istanza cautelare (cfr. C. cost., 23 giugno 1994, n. 253 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 669 terdecies nella parte in cui, al tempo, non prevedeva il reclamo anche avverso l’ordinanza di rigetto). Inoltre, qui la concessione del reclamo si giustifica in virtù della idoneità dell’ordinanza a definire il giudizio, seppur senza efficacia di giudicato, solo nel caso di accoglimento dell’istanza, idoneità che manca in caso di suo rigetto (il che spiega anche la non impugnabilità anche delle ordinanze anticipatorie di condanna ex art. 183 bis, ter e quater).
[21] Cfr. Metafora, Le nuove ordinanze di manifesta fondatezza e infondatezza introdotte dalla Riforma del processo civile, in Giustizia civile.com, 13 gennaio 2023 e Pezzella, Riforma processo civile: le ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto della domanda, in ilprocessocivile.it, 15 novembre 2022. Si discute peraltro anche dell’applicabilità in caso di controversie di competenza collegiale, attesa la reclamabilità dinanzi al collegio: cfr. opp. ultt. citt.
[22] In senso contrario, Masoni, Le nuove ordinanze definitorie introdotte dalla Riforma del processo civile, Giustizia civile.com, 9 gennaio 2023.
[23] Sebbene le legge non limiti il campo di applicazione dell’ordinanza ai provvedimenti di condanna, è facile supporre che la parte che ha agito con domanda di mero accertamento o costitutiva di regola non avrà interesse a ottenere una definizione del giudizio con ordinanza priva di giudicato.
[24] Sospetto sollevato già da Scarselli, I punti salienti dell’attuazione della riforma, cit.
[25] Prima della riforma del 2009 (l. 69/2009) il provvedimento cautelare di rigetto ante causam – inidoneo al giudicato al pari dell’ordinanza ex art. 183 ter, seppur di diversa natura - era soggetto, quanto alle spese, all’opposizione ex art. 645 nel termine di 20 giorni dalla pronuncia o dalla comunicazione, presupponendone così la stabilità in caso di mancata opposizione. La l. 69/2009 ha abrogato il co. 3, lasciando impregiudicata la sorte del capo sulle spese (anche in caso di emissione di provvedimento cautelare di natura anticipatoria ex art. 669 octies, co. 7).
[26] In materia cautelare, v. Cass. 24 maggio 2011, n. 11370 e, più di recente, Cass. 1° marzo 2019, n. 6180; Cass. 15 febbraio 2022, n. 4748.
[27] Va da sé che se la parte soccombente decidesse di agire in un autonomo giudizio (o in sede di opposizione all’esecuzione) per l’accertamento negativo del diritto soggettivo oggetto dall’ordinanza, con un’unica iniziativa potrà contestare anche la condanna alle spese, non solo per la sua dipendenza dal capo di merito, ma eventualmente anche per vizi suoi propri.
[28] Cfr. Cass. SU 21 giugno 2018, n. 16415.
[29] Per il dibattito, si rinvia a Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, I, Torino, 2022, 25 s., testo e note.
[30] Cfr. Costantino, Il processo di cognizione in primo grado, in Costantino (a cura di), La riforma della giustizia civile, Bari, 2021, 184.
[31] In virtù dell’anomalia riscontrata, dunque, si potrebbe ritenere che il legislatore abbia in realtà sposato soluzione sub c), così rendendo necessaria la sentenza di rigetto solo in caso di costituzione della parte, potendosi viceversa risolversi con l’estinzione il giudizio in cui la parte convenuta non si è costituita. Detto in altri termini: se la parte non è costituita, l’esito con ordinanza ex art. 183 quater è escluso così come è escluso l’esito con sentenza (soluzione sub c), cui l’ordinanza infatti è alternativa.
[32] Sulla genesi della disposizione, modificata al riguardo dal d.l. 35/2005 per recepire la declaratoria di incostituzionalità pronunciata da C. cost. 19 luglio 1996, n. 257, e sulle questioni interpretative cui dà luogo, sia concesso rinviare a Cossignani, I provvedimenti di istruzione preventiva, in Carratta (a cura di), I procedimenti cautelari, Bologna, 2013.
[33] L’art. 210 non menziona gli argomenti di prova, ma si applica per analogia l’art. 118 (Cass., 10 dicembre 2003, n. 18833).
[34] L’unica funzione dell’udienza di sola rimessione in decisione (e in precedenza di quella di precisazione delle conclusioni) è quella di consentire al giudice di gestire il proprio carico di lavoro, perché da questa udienza decorre il termine per il deposito della sentenza.
[35] In caso di mancato deposito delle note di precisazione delle conclusioni, si intenderanno richiamate le ultime conclusioni formulate (con l’atto introduttivo o con le memorie ex art. 171 ter).
[36] La novità, che si rinviene come visto anche nella decisione collegiale a seguito di trattazione mista, è dovuta al fatto che la discussione di cui all’art. 281-sexies con pronuncia della sentenza in udienza si era rivelata nella prassi una finzione piuttosto che l’esaltazione del principio di oralità. Infatti, il giudice giungeva all’udienza di discussione con la sentenza già scritta, con la conseguenza che le dichiarazioni orali delle parti difficilmente riuscivano a incidere sull’esito del processo. Ci si augura che la novità porti con sé il ripristino di vere e proficue discussioni.
[37] Nel rito collegiale, invece, la richiesta comporta anche la revoca dell’udienza di rimessione al collegio, che si svolge comunque davanti al g.i., perché essa va sostituita con un’udienza di discussione davanti al collegio.
[38] Il tema infatti è ben più complesso di quanto sia possibile evidenziare in questa sede, sia per l’ampiezza della nozione di continenza a scapito di quella di mera connessione, sia perché è innegabile che la proposizione di una seconda causa connessa alla prima possa costituire in astratto un veicolo per aggirare, tramite la riunione, le preclusioni maturate nella prima: sul tema, di recente, Cass. 2 luglio 2021, n. 18808.
“Nelle scienze sociali si usa pesare, contare e misurare, per non dover pensare”
Nicolàs Gòmez Davila, Escolios a un texto implicito, I, trad. it., pag. 88.
Sommario: 1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso” - 2. Bilanciamento dei diritti fondamentali? - 3. Una giurisprudenza strabica - 4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso”.
Non si dice nulla di nuovo affermando che la nostra sembra lasciarsi cogliere – oltre diversi paradigmi possibili - come l’epoca del compromesso, della mediazione e, in definitiva, della vocazione insopprimibile al bilanciamento degli interessi in gioco, esteso perfino ai principi fondamentali.
Basti por mente non solo alle vicende politiche, in realtà da sempre e per loro natura luogo di emergenza di tutti i compromessi possibili; ma anche, in sede giuridica, agli istituti della negoziazione assistita o della mediazione, intesa quale specifico assetto giuridico processualcivilistico oggi capillarmente diffuso e il cui mancato esperimento conduce addirittura all’improcedibilità dell’azione; o, ancora, alla giustizia riparativa, come si va diffondendo nell’esperienza e nella riflessione penalistica degli ultimi anni, quale alternativa alla prospettiva tradizionalmente retributiva.
Ma il settore ove la prospettiva che potrei definire - con un termine aulico ma di indubbia efficacia - di autentica mesiteiafilia[1] (letteralmente, “passione per il compromesso”, perchè mesiteia in greco antico vale “mediazione”, “compromesso”) risulta particolarmente presente, soprattutto negli ultimi anni, è di certo quello dell’esperienza giurisdizionale riferita ai giudizi di legittimità sulle leggi.
In questa prospettiva, territorio particolarmente fertile per far attecchire questo paradigma interpretativo è stato poi il fiorire e l’intensificarsi delle decisioni di “incostituzionalità differita”: sono i casi, ben noti, in cui la Consulta – quasi fosse una terza Camera[2] - si è arrogata il potere – sprovvisto invero di qualsivoglia fondamento normativo – di “bilanciare” gli effetti di una immediata pronuncia caducatrice con quelli derivanti dal mantenimento in vita della norma, benché dichiarata illegittima, dando la preferenza ai secondi, attraverso un differimento ad tempus della abrogazione della norma e subordinandola ad un intervento del legislatore che si muova nel solco indicato dalla Consulta stessa.
Chiunque abbia a che fare con l’esperienza giuridica sa bene insomma come e quanto la Corte Costituzionale, seguita poi a ruota dalla Cassazione e infine dai giudici di merito, abbia avuto cura, da parecchi anni a questa parte, di leggere i principi consacrati nella Carta in modo da combinarne gli effetti operando un ormai noto “bilanciamento” fra quelli che sembravano porsi in una sorta di reciproca contraddizione.
Gli esempi sono talmente numerosi e noti che mi considero qui esentato dal compito di riproporli sia pure in parte.
Ebbene, se il bilanciamento – termine invero poco felice visto che evoca per assonanza la pesatura di formaggi e salami o, nella migliore delle ipotesi, quella messa in opera dall’orefice ( perché invece non parlare di “armonizzazione” ?) – non sembra porre particolari problemi, allorché ad esso si voglia ricorrere quando i “beni della vita” da bilanciare appartengano al regno del disponibile, al contrario, esso solleva molti e gravi interrogativi quando lo si voglia applicare alle dimensioni caratterizzate da una piena indisponibilità.
Quanto appena osservato gode già di buone ragioni quando si tratti in sede giuridica di “principi”, dal momento che il “principio” – ogni “principio” – come già notava Aristotele nella Metafisica[3], è ciò che dà forma all’essere, è ciò da cui scaturisce l’essere delle cose e del mondo e non si vede proprio come si possa bilanciare ciò che non appartiene a questo mondo, perché viene prima e abita altrove - perché delle cose del mondo è la scaturigine - con altro elemento identico quanto alla propria sostanza: sarebbe come pretendere l’assurdo, una cosa oggettivamente non fattibile e illusoria, al modo di chi volesse bagnare l’acqua: certo, costui potrà effondere acqua sull’acqua di un recipiente, ma di certo non potrà mai bagnarla, perché pensare di poterlo fare sarebbe ridicolo.
E dunque come l’acqua è già bagnata di suo perché la sua essenza consiste proprio nell’esserlo, senza che possa bagnarsi “di nuovo”, ogni “principio” è tale di suo, senza che possa mescolarsi con altri “principi” né per nutrirsene né per bilanciarsi con qualcuno di essi.
Insomma - e chiedendo venia per l’insistito paragone - così come l’acqua non può esser bagnata perché è essa stessa a bagnare le cose del mondo, allo stesso modo il principio non può esser bilanciato perché è esso stesso a bilanciare i beni della vita.
Ciò accade propriamente perché ogni principio si lascia cogliere come un “assoluto”, vale a dire – è cosa ben nota - come una dimensione sciolta da qualunque condizionamento, del tutto priva di vincoli di sorta, pena un destino di dissoluzione.
Orbene, i nostri testi di legge, le disposizioni costituzionali e anche quelle dei trattati internazionali adoperano in realtà un lessico diverso, in quanto l’aggettivo in uso è quello di “fondamentale”, declinato di solito al plurale allorché si chiamano in causa i “diritti fondamentali”.
Tuttavia, pare di tutta evidenza che con tale locuzione si voglia fare riferimento proprio alla “assolutezza” di tali diritti, al fatto che essi, in quanto svincolati da qualunque sorta di condizionamento e di compromissione possibile, sono posti a “fondamento” di tutti gli altri e dell’intero sistema dello Stato di diritto.
Prova ne sia che i diritti umani – l’affermazione indiscussa dei quali in tutte le sedi nazionali e internazionali può considerarsi il tratto caratterizzante dell’epoca contemporanea a partire dal secondo dopoguerra – vengono abitualmente qualificati come “fondamentali”, proprio allo scopo dichiarato di sottrarli ad ogni possibile compromissione, decretandone una inviolabilità di sapore addirittura sacrale[4].
Eppure, ciononostante, sbarazzandosi in modo tutto sommato abbastanza disinvolto di una pur necessaria cautela teoretica e giuridica, la giurisprudenza costituzionale, quella di legittimità e quella di merito da circa un ventennio hanno individuato, utilizzandolo come criterio ermeneutico privilegiato, l’ormai celeberrimo “bilanciamento dei diritti fondamentali”.
Ma questa opzione interpretativa così spesso e così spregiudicatamente messa in opera è giuridicamente ammissibile? In che senso i diritti fondamentali si possono impunemente bilanciare?
2. Bilanciamento dei diritti fondamentali?
Non essendo certamente questa le sede per censire le varie posizioni che si sono evidenziate nella nutrita riflessione che nel tempo si è affaticata nel tentativo di rispondere a questi interrogativi[5], mi limito ad osservare come meritevole di particolare attenzione sia la conclusione offerta per un verso da Luigi Ferrajoli[6] e per altro verso da Riccardo Guastini, il quale giunge, non senza ragione, ad affermare che il termine “bilanciamento” sarebbe soltanto un sinonimo di “soppressione”, in quanto produrrebbe semplicemente, in relazione al caso concreto, la scomparsa di un diritto (fondamentale) a vantaggio di un altro ( parimenti fondamentale).[7]
Entrambi questi studiosi, sia pure attraverso un diverso itinerario logico-giuridico, mettono dunque radicalmente in dubbio che fra diritti fondamentali possano esistere autentici conflitti da sciogliere attraverso un appropriato bilanciamento.
E in effetti, il punto da problematizzare pare proprio questo, dal momento che ogni bilanciamento suppone logicamente un conflitto fra diritti fondamentali e, implicitamente, la possibilità di individuare una sorta di gerarchia mobile – in quanto da adattare di volta in volta alle esigenze del caso concreto – capace di risolvere ogni contrapposizione.
Alla domanda se perciò possa ipotizzarsi un simile conflitto, mi pare tuttavia si debba rispondere in modo risolutivamente negativo: no, fra diritti fondamentali non è possibile ipotizzare alcuna forma di conflitto né, di conseguenza, rapporti di gerarchia che facciano prevalere l’uno a scapito dell’altro (neppure parzialmente), quale esito di un possibile bilanciamento.
Si tratta ovviamente di spiegare perché.
Il conflitto – ogni conflitto – suppone infatti che gli elementi che confliggono siano fra di loro separati in punto di fatto o almeno separabili concettualmente, in modo tale da contrapporli l’uno all’altro in chiave antagonista, delegando poi alla capacità di chi ne operi il bilanciamento il potere di sancire la priorità del primo o del secondo.
Nulla di più accattivante per la mentalità – anche giuridica – contemporanea, avvezza ormai da tempo ad assumere quale paradigma epistemologico tendenzialmente esclusivo quello proprio della conoscenza scientifica, a scapito di una prospettiva genuinamente filosofica, abbandonata e stigmatizzata, anche dai giuristi, quale inutile relitto metafisico di un passato ormai superato.
Infatti, dal momento che la scienza, per conoscere, seziona e suddivide l’oggetto della propria indagine – ed è bene che così faccia (si pensi all’anatomia o alla biologia) – anche i giuristi, sulla scorta di tale insegnamento e forse mossi dal desiderio di reperire una irraggiungibile certezza del diritto attraverso il paradigma scientifico, si sono avviati sullo stesso sentiero in tema di diritti fondamentali (e non solo).
Per questa ragione, li hanno considerati – seguendo il solco tracciato dalla Corte Costituzionale – come monadi isolate e irrelate, l’una all’altra contrapposta o comunque contrapponibile, in modo che la prima si possa espandere a patto soltanto di comprimere la seconda e viceversa: si pensi per esempio al diritto di riunione contrapposto al diritto alla sicurezza pubblica; oppure, per citare un caso a noi ancora molto vicino, al diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà contrapposto al diritto alla salute della collettività.
In simili casi, i giuristi hanno messo in opera un “bilanciamento” fra i contrapposti diritti fondamentali, finendo naturalmente col farsi orientare vistosamente dalle emergenze politiche del contesto sociale nel cui ambito si evidenziasse il problema da risolvere.
Così, dopo l’attacco terroristico alle “torri gemelle”, seguito da altri attentati a Londra e a Madrid, per un certo tempo il diritto alla sicurezza pubblica ebbe la meglio – negli Stati Uniti - su quello di riunione, che subì per questo una notevole compressione[8].
Allo stesso modo, a causa del diffondersi del virus, l’emergenza pandemica ha indotto il legislatore italiano e spesso anche i giudici di merito a far “pesare” il diritto alla salute della collettività assai di più del diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà, sancendo addirittura un obbligo vaccinale esteso indiscriminatamente a tutti, senza distinzione alcuna e assistito da apposite forme sanzionatorie[9].
Tutto ciò è stato possibile proprio in quanto i diritti fondamentali sopra menzionati sono divenuti oggetto di un “bilanciamento” - che in definitiva ne elude la fondamentalità – il quale si basa sulla loro contrapposizione, sulla irreale separatezza di ciascuno di essi rispetto a tutti gli altri: qui potenziarne uno significa comprimerne un altro e viceversa.
Ma davvero i diritti fondamentali sono correttamente pensabili in questa prospettiva di irrelata solitudine? Davvero il giurista può seriamente maneggiarli come fossero tessere di un domino che assegni la vittoria e la sconfitta a seconda di quella che di volta in volta venga deposta sul tavolo da gioco?
3. Una giurisprudenza strabica.
Nutro molti dubbi in proposito.
A ben guardare, infatti, i diritti fondamentali non possono in alcun modo essere considerati quali autosufficienti e separati ciascuno dall’altro, se non a patto di operare un pericoloso riduzionismo che, non rendendo affatto ragione della loro reale sostanza umana e giuridica, apre la strada a gravi equivoci esiziali per la tutela dei diritti delle persone.
Errore, questo, in cui purtroppo ormai cade spesso la giurisprudenza non solo ordinaria ma anche amministrativa.
Si veda per tutte quelle della giurisdizione amministrativa (ex uno disce omnes) la recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. III, 28/2/2022, n. 1381), secondo la quale (pag. 8 della sentenza) “In disparte quanto già osservato sul tema della sicurezza dei vaccini, dette censure si svolgono su una linea di ragionamento che manca di considerare la peculiare posizione dei sanitari e, quindi, la specifica ratio dell'obbligo vaccinale loro imposto, la quale a sua volta rende ragione del punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nel bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione del singolo e le esigenze di interesse pubblico e tra queste, in primis, quelle concernenti la "tenuta" dei presìdi ospedalieri e la garanzia, per chi necessita di cura ed assistenza, di poterle ricevere in condizioni di massima sicurezza e di minor rischio di contagio possibile (v. par. 31.2 -31.9 della sentenza n. 7045/2021)”.
Ora, tacendo l’uso sgangherato – ma evidentemente frutto di un subdolo refuso - della locuzione avverbiale “in disparte”[10], foriero di un possibile equivoco semantico, siamo in presenza del paradigma qui criticato, in forza del quale si tenta ( senza riuscirvi) di legittimare un bilanciamento fra libertà di autodeterminazione terapeutica del singolo, da un lato – destinata a cedere - e interesse pubblico a ricevere le cure necessarie in condizioni di sicurezza e di ridotto rischio di contagio, dall’altro – destinato a prevalere.
Nulla di più errato, in quanto, così opinando, ci si basa su di una visione astratta delle cose, frutto compiuto ma irrisolto di un intellettualismo post-illuminista tanto autoreferenziale, quanto distante dalla realtà e perciò privo di ragione: eppure, è proprio questo che Tribunali e Corti hanno spesso fatto nel caso in esame, qui assunto come paradigma ermeneutico di riferimento.
Pochi giorni fa è incorsa nel medesimo errore la Consulta, la quale in due recentissime sentenze circa la legittimità dell’obbligo vaccinale, afferma:
“È costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione della centralità di tale principio ( quello del bilanciamento: n.d.r.), soprattutto in ambito sanitario, in considerazione del «rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» (sentenza n. 307 del 1990): «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno può essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico» (ancora sentenza n. 307 del 1990, richiamata anche dalla sentenza n. 107 del 2012)” (sentenza n. 14 del 2023).
E ancora:
“Il bilanciamento dei principi sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., realizzato dal legislatore nella individuazione dei tempi e dei modi della vaccinazione, risulta perciò esercitato negli artt. 4, comma 7, e 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in modo non irragionevole” ( sentenza n. 15 del 2023).
In sostanza, sia il Consiglio di Stato che la Corte Costituzionale hanno adottato una prospettiva strabica che si è conformata al modello epistemologico della scienza, la quale, per conoscere – come ho già notato – ha bisogno di segmentare le cose del mondo, di parcellizzarle allo scopo di analizzarle una per una, mentre poi soltanto raramente e con fatica esse saranno riunificate in una visione d’insieme, che tuttavia sarà compito di un'altra scienza o di una sensibilità genuinamente filosofica e insieme giuridica inaugurare[11].
L’errore epistemico di quella giurisprudenza appare in tutta la sua evidenza sol che si ponga mente ad una celeberrima riflessione di Hegel, qui assunta non quale riferimento filosofico universale, ma come semplice paradigma conoscitivo di carattere non strettamente scientifico.
Ebbene, il pensatore di Stoccarda, in una pagina assai nota, scrive: “Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello viene confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intero”[12].
Sicché Hegel può concludere che “Il vero è l’intero”[13].
Cosa vuole dirci con queste dense considerazioni il filosofo tedesco?
Egli intende rimarcare evidentemente come ogni verità umanamente rilevante ( e quella del diritto lo è per definizione ) non possa che lasciarsi cogliere nella necessaria dialettica di tutti gli elementi che contribuiscono a costituirla, perché, mancandone uno soltanto, essa si dissolve in una astratta parcellizzazione che, della verità, non è che la sterile controfigura, il controcanto stonato e nullificante.
Ne viene che, nell’esempio qui adottato, ritenere che l’interesse della collettività alla tutela della pubblica salute, da un lato, sia cosa diversa del diritto della singola persona a non ricevere trattamenti sanitari contrari alla sua volontà, dall’altro, al punto da ipotizzare un conflitto fra le due dimensioni, risolvibile soltanto tramite l’espediente tecnico del bilanciamento, significa oltrepassare la soglia del reale, per perdersi nelle nebbie dell’indeterminato, del non rappresentabile[14].
Infatti, come senza il fiore non ci potrà mai essere il frutto, allo stesso modo, senza la tutela reale e specifica della salute del singolo (anche nella forma indiretta del diritto a non subire trattamenti obbligatori) non ci potrà mai essere quella della collettività; e come il fiore è contenuto nel frutto, allo stesso modo, la salute del singolo è insita in quella della collettività.
Operare come se così non fosse, simulando una opposizione fra le due dimensioni da risolvere tramite un ipotetico bilanciamento, significa ripudiare la verità dei rapporti umani e giuridici per seguire il loro fantasma[15], al modo di chi si ostinasse ingenuamente ad affermare – contro ogni evidenza della realtà – che la verità della pianta risieda tutta e soltanto nel frutto, mentre il fiore le sarebbe del tutto estraneo ed anzi sarebbe da contrapporre al frutto: conclusione, questa, tanto irreale quanto botanicamente insostenibile.
Eppure, è proprio questo che è accaduto, come in modo esauriente dimostrano non solo la sentenza del Consiglio di Stato e quelle della Consulta sopra richiamate ma anche numerose altre, sia della giurisdizione amministrativa che di quella ordinaria, che si pongono sulla stessa linea e che qui si danno per conosciute.
In altri termini, tali decisioni hanno uniformemente affermato, sia pure con qualche lieve distinzione, che il diritto fondamentale del singolo deve cedere – in sede di bilanciamento – rispetto a quello della collettività, perché questo va riconosciuto essere, per varie ragioni, “più fondamentale” di quello ( il che induce al sorriso).
Ora, pure a prescindere dalle suggestioni che in via sub-liminale può aver prodotto La fattoria degli animali di Orwell - nella quale, come è noto, alcuni animali sono “più eguali” degli altri[16]- solo immaginare possibile una gerarchia fra diritti fondamentali da individuare e far valere in sede giuridica, tramite il meccanismo del bilanciamento, stupisce per la fragilità teoretica che vi è sottesa[17].
E ciò perché, come sopra si è argomentato, i diritti fondamentali sono consustanziali l’uno all’altro, al punto che chi ne nomina uno li contempla indistintamente tutti: libertà in tutte le sue declinazioni ( di pensiero, di culto, di espressione, di movimento ecc.), eguaglianza, lavoro, salute ecc. simul stabunt, simul cadent.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che tutti i diritti fondamentali, senza eccezione alcuna, trovano la loro scaturigine, e ne sono ciascuno la compiuta espressione, nella dignità della persona umana. Ciascuno di essi, in modo diverso, dice totalmente quella dignità: per questa ragione - e non per altra – si appellano come fondamentali, che vale assoluti, cioè insopprimibili, incomprimibili, non negoziabili e perciò non gerarchizzabili[18].
Non essendo qui possibile scandagliare il tema abissale della dignità personale quale origine dei diritti fondamentali, basterà limitarsi ad alcune considerazioni critiche.
Innanzitutto, è indubbio che la nostra Costituzione si radichi sul principio personalista come origine e fonte indiscussa dei diritti fondamentali in essa consacrati, principio disseminato in molte previsioni normative della Carta tanto numerose quanto conosciute.
Ciò si traduce nella necessità di considerare la singola persona umana – e non una sua astratta ipostasi – come fine ultimo e sovrano della organizzazione statuale in tutte le sue articolazioni.
In altre parole, nell’ambito della cornice dello Stato di diritto costituzionale, lo Stato è in funzione della persona e non la persona in funzione dello Stato.
Naturalmente, queste sono ovvietà consacrate da molto tempo in dottrina e in giurisprudenza, ma occorre ribadirle senza infingimenti perché a volte sono proprio le porte dell’ovvio che vanno tenute ben aperte, per evitare di intraprendere sentieri che – al modo degli Holzwege di Heidegger – non conducono da nessuna parte.
4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
Se dunque è sempre lo Stato che deve porsi l’obiettivo di tutelare la persona umana, in quanto questa è naturalmente connotata da una intangibile dignità, principio e origine di tutti i diritti fondamentali della persona, conviene mettere brevemente in chiaro, di questa, le caratteristiche essenziali.
Sia che si voglia considerare la dignità come il portato della comune creaturalità, propria di tutti gli esseri umani, in quanto ciascuno di noi è imago Dei[19], sia che la si voglia vedere come il proprium dell’uomo in quanto ente morale[20], essa è infatti connotata da precise caratteristiche che qui mi limito ad accennare.
La dignità umana si lascia cogliere quale originaria, indisponibile, irrinunciabile, inviolabile, imperdibile.
Originaria, perché connota, fin dalla sua origine, ogni essere umano in quanto tale.
Indisponibile, perché nessuno può disporne, neppure il suo portatore, sia pure per fini eticamente o socialmente rilevanti.
Irrinunciabile, perché chi ne sia il portatore non può in alcun modo dismetterla.
Inviolabile, perché nessuno e per nessuna ragione, pur offendendola, può eliminarla.
Imperdibile, perché nessuna evenienza, di nessun tipo e di nessuna gravità, può cagionarne la perdita[21].
Quanto precede basta a comprendere come la dignità umana si lasci cogliere quale un assoluto e come di questa assolutezza partecipino in modo pieno e completo tutti i diritti fondamentali che ne siano espressione, al punto che, come già accennato, chi ne nomini uno li contempla tutti[22], in quanto tutti e ciascuno sono appunto elementi costitutivi di quella medesima dignità.
Prova ne sia che Kant – per ribadire tale assolutezza – annotava che ciò che ha un prezzo non ha dignità, mentre ciò che ha dignità non ha prezzo[23].
Ne viene che, in questa prospettiva, soltanto immaginare un bilanciamento fra tali diritti si presenta come operazione oggettivamente impossibile e destinata al fallimento ancor prima di aver inizio[24].
Ecco perché pensare si possa ampliare la sfera di uno dei quei diritti comprimendone un altro in misura corrispondente – che in sostanza è ciò che la dottrina e la giurisprudenza qui criticate hanno fatto e continuano a fare – manifesta soltanto un disagio del pensiero.
Per meglio intendere un tale disagio, rendendolo immediatamente comprensibile, possiamo fare riferimento alle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – come predicate dalla tradizione teologica patristica a partire da San Paolo[25].
Ebbene, seguendo la teoria del possibile bilanciamento dei diritti fondamentali, qualcuno ( sprovveduto) potrebbe affermare in sede teologica – per similitudine argomentativa – che ampliando e fortificando la dimensione della Fede, quella della Speranza e quella della Carità ne verrebbero ridimensionate e viceversa.
Ovviamente, nulla di più falso e grottesco: il vero è invece che a misura che si fortifica la Fede, si alimentano Speranza e Carità e viceversa.
Infatti, la Fede alimenta la Speranza e la Carità; la Speranza sostiene la Fede e la Carità; la Carità conferma la Fede e la Speranza: il crescere di ciascuna propizia e implica immancabilmente lo sviluppo delle altre due e giammai un loro grottesco e irreale depotenziamento[26].
E ciò perché le tre virtù teologali – in quanto elargite da Dio - sono dimensioni assolute, sottratte alla disponibilità di chicchessia, così come assoluti, pro modo suo, sono i diritti fondamentali costitutivi della dignità di ogni essere umano, che ne rappresentano l’originaria e inscindibile unitarietà: l’assoluto non tollera alcun tipo di bilanciamento.
Sicché occorre concludere – oltre ogni forma di sofisma argomentativo in cui certa giurisprudenza eccelle - che vista la impossibilità radicale di ogni bilanciamento giuridicamente fondato per le ragioni sopra esposte, sia pure in modo rapido e a volte approssimativo, una tale operazione non fa altro che propiziare la nascita di una sorta di alibi interpretativo, utile a far valere un diritto fondamentale – quello che la casualità dell’emergenza politica mette in luce di volta in volta come più bisognoso di tutela – a scapito di un altro, che al primo viene più o meno arbitrariamente sacrificato, ma senza apertamente ammetterlo (neanche a se stessi).
In questo modo, al pari del medico che, soddisfatto dell’intervento operatorio, perfettamente riuscito, deve però constatare il decesso del paziente, il giurista, soddisfatto della decisione sul bilanciamento, politicamente funzionale, deve constatare l’estinzione dello Stato di diritto, piegato alla ragion politica ( in attesa della successiva, forse urgente ma giuridicamente esiziale, emergenza collettiva)[27] e, con esso, della persona umana, anche in tal modo avviata verso il trans-umanesimo[28], cioè verso il suo definitivo tramonto.
Il fatto è che entrambi hanno visto una parte, ma hanno tragicamente trascurato l’insieme: persuasi di attingere il tutto, son naufragati nel nulla. E, quel ch’é peggio, noi con loro.
[1] Cfr. J. Urbanik, Compromesso o processo? Alternativa risoluzione dei conflitti e tutela dei diritti nella prassi della tarda antichità, in E. Cantarella - J. Mélèze Modrzejewski - G. Thur, Symposion 2005. Vortrage zur griechischen und ellenistischen Rechtsgeschichte , Wien, 2007, pp. 377-400.
[2] E per di più “Alta” o “Altissima” rispetto alle altre due, in quanto queste vengono vincolate a seguire le indicazioni di quella, sotto pena della caducazione di una norma già dichiarata illegittima, ma che, assurdamente lasciata in vita anche per uno o due anni, circola liberamente nell’Ordinamento in qualità di Zombie giuridico, cioè quale entità insieme morta ( perché incostituzionale) e viva ( perché lasciata sopravvivere). A questo orizzonte spettrale siamo ormai giunti, nel silenzio quasi unanime dei giuristi, avvezzi senza rimedio al progressivo smantellamento dello Stato di diritto. Sulla rischiosa espansività della funzione normogenetica della Consulta, mi permetto di rinviare ad un mio studio certo datato, ma ancora significativo, anche perché allora ampiamente discusso con Vezio Crisafulli e pubblicato sulla rivista da lui diretta: Natura e legittimità del giuramento nel processo penale, in “Giur. Costituzionale”, 1981, pp. 2123 – 2161.
[3] IV, 16-19.
[4] Cfr. V. Mathieu, Valori fondamentali del diritto tra protezione e promozione, in Luci ed ombre del giusnaturalismo, Torino, Giappichelli, 1989, pag. 95 ss..
[5] Per una esauriente panoramica sul punto, rinvio a G. Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in “Etica & politica / Ethics & Politcs”, 2006, 1, pp. 1-57.
[6] Cfr. I fondamenti dei diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 277-369.
[7] Cfr. L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, pag. 219.
[8] Cfr. C. Bassu, La legislazione antiterrorismo e la limitazione della libertà personale in Canada e negli Stati Uniti, in Democrazia e terrorismo. Diritti fondamentali e sicurezza dopo l’11 settembre 2001, a cura di Tania Groppi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.
[9] Cfr. Aldo Rocco Vitale, All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia, Il Cerchio, Rimini, 2022, soprattutto i capitoli VI e XI.
[10] Il refuso – probabilmente dovuto ad un correttore automatico - è davvero maligno perché propone questa locuzione avverbiale (come sono per esempio: “in ritardo”, “da sempre” ecc.), che significa “isolatamente”, “in modo isolato”, come fosse una preposizione destinata ad introdurre i termini successivi (“…quanto già osservato…” ), cosa che grammaticalmente non è e non può essere. Probabilmente, si intendeva scrivere “A parte quanto già osservato…”. Ne viene che il correttore automatico – come spesso accade - è incorso non in un uso linguistico innovativo, ma in un solenne strafalcione. Sulla nefanda pervasività degli errori, amo ricordare un delizioso aforisma di Goethe, per il quale “Chi sbaglia la prima asola, non si corregge abbottonandosi”.
[11] Per meglio spiegare quanto affermo, si pensi per esempio al caso delle specializzazioni del sapere medico contemporaneo, nel cui ambito l’una ignora tendenzialmente le emergenze dell’altra, sicché, per armonizzarne gli esiti in chiave terapeutica, occorre l’intervento di un sapere di rango superiore destinato a fare ciò che esse non sono in grado di fare: cfr. sul punto le illuminanti pagine di H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, tr. It., Milano, 1994, soprattutto il saggio dal titolo Apologia dell’arte medica (anche perché, detto per inciso, la medicina ha dimenticato come suo compito specifico sia curare il malato e non debellare la malattia).
[12] Fenomenologia dello Spirito, tr. It., Firenze, 1988, vol. I, pag. 2.
[13] Op. cit., pag. 15.
[14] Non è da escludere che proprio a questa indeterminatezza, a questa non rappresentabilità siano da ascrivere le molte polemiche nate in epoca pandemica fra diversi schieramenti dell’opinione pubblica, l’uno favorevole ad una vaccinazione di massa ed obbligatoria, l’altro nettamente contrario.
[15] Intendo dire che qualsivoglia sia la determinazione che si voglia dare al diritto a non ricevere trattamenti sanitari non voluti, a seconda del punto di vista da cui lo si osservi – diritto di libertà, diritto alla salute o altro – il succo del discorso non cambia: la tutela del diritto fondamentale della singola persona umana era e rimane il luogo archimedeo dal quale prendere le mosse per giungere, alla fine del percorso, alla tutela della collettività. Invece, le norme varate e le sentenze che le hanno avallate, tramite il ricorso al bilanciamento, hanno seguito il percorso inverso, dimenticando – ed ecco la pura e perniciosa astrazione – che senza le persone la collettività non esiste, perché questa è composta da quelle e non viceversa.
[16] Il che condurrà poi, alla conclusione del racconto – pour cause - alla completa indifferenziazione fra uomini e animali.
[17] Coglie la seria problematicità della questione, ma senza individuarne in pieno la matrice teoretica, F. Rescigno, La gestione del coronavirus e l’impianto costituzionale. Il fine non giustifica ogni mezzo, in “Osservatorio costituzionale”, 2020, n. 3, pag. 1 ss..
[18] Prevengo una scontata obiezione. Si potrebbe infatti ritenere che spesso, contrariamente a quanto affermato nel testo, i diritti di libertà, pur essendo fondamentali, vengono compressi o limitati da norme di legge perfettamente legittime. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso assai frequente in cui il diritto alla manifestazione del pensiero venga limitato dalle norme che puniscono la diffamazione a mezzo stampa. In casi del genere, a ben guardare e per quanto essi siano socialmente frequenti, nessun diritto fondamentale viene tuttavia limitato o compresso. Infatti, prevedere la punizione della diffamazione non significa in alcun modo comprimere la libertà di manifestazione del pensiero, dal momento che diffamare altri non esprime alcun pensiero autentico e degno di questo nome: esprime, al contrario, il nulla del pensiero e perciò non residua alcunché di fondamentale da limitare o da comprimere. Anzi, può dirsi di più. E cioè che i limiti che l’Ordinamento giuridico pone, non essendo destinati alla manifestazione del pensiero, ma al suo contrario – vale a dire al tralignare in altro da se, appunto in diffamazione – risultano assai utili allo scopo di individuare con maggiore chiarezza come e quanto il vero pensiero sia intangibile da chicchessia: essi perimetrano il pensiero autentico versus quello fasullo, difendendo il primo con l’arginare il secondo.
Quanto qui precisato ovviamente vale, mutatis mutandis, per ogni altro diritto fondamentale.
[19] Si tratta della prospettiva teologicamente tralatizia e sviluppata, fra gli altri, da Wilfried Harle, Dignità. Pensare in grande dell’essere umano, trad. it., Brescia, 2013.
[20] Dotato cioè di libertà e responsabilità. Cfr. qui la la nota interpretazione di F. Schiller, nel delizioso saggio - che va ben oltre un confronto con Kant - dal titolo Grazia e dignità, trad. it, 2010, Milano, pag. 59, per il quale “ Dominio degli istinti attraverso la forza morale è libertà dello spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno” ( corsivi non miei).
[21] Seguo la linea interpretativa di R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, trad. it., Torino, 2011. In esito a queste caratteristiche, va notato come sia ingenuo predicare – come oggi si suol fare con una disinvoltura pari all’insipienza - l’estinzione della dignità in capo a chi sia rimasto disoccupato, a chi si trovi in situazione di precarietà sociale o economica, a chi abbia subito violenza morale o materiale: tutti costoro conservano infatti indistintamente la pienezza della dignità umana loro consustanziale, mentre invece eventualmente a causare un vulnus alla propria dignità saranno stati i comportamenti – appunto indegni - di coloro che siano responsabili di quelle situazioni di particolare fragilità umana e sociale. La vittima non perde mai la propria dignità: indegni sono invece gli atti del suo carnefice (e non il carnefice).
[22] Cfr. V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo. Una teoria della persona, Torino, 2004, pag. 103 e ss..
[23] Nella Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, 2005.
[24] Ancor più della riflessione filosofico giuridica, come spesso accade, è la pagina della grande letteratura a dischiuderci in modo inequivocabile la percezione certa della inconsistenza teoretica, morale e giuridica di ogni possibile bilanciamento fra i diritti di un solo essere umano, da un lato, e quelli dell’umanità intera, dall’altro. Cfr. F Dostojevskij, I fratelli Karamazov, tr. It., vol. I, Milano, 1964, pag. 314:
“Disse Ivan…:
- Supponi che fossi tu stesso a innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura, per esempio proprio quella bambinetta che si batteva col piccolo pugno sul petto, e sulle sue invendicate povere lacrime fondare questo edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire.
- No, non consentirei, disse piano Alioscia”.
Con il che abbiamo posto una pietra tombale su ogni possibile bilanciamento. Tuttavia, si lasci ovviamente alla bravura dei nostri architetti del diritto la soluzione del dilemma del bilanciamento dei diritti fondamentali di un solo essere umano, da un lato, e della umanità intera, dall’altro, dal momento che – posti sui piatti di una bilancia – i primi pesano ben più dei secondi: almeno, nello Stato di diritto. Negli Stati totalitari, no. E comunque costoro dovranno prima vedersela non certo con me, ma con… Dostojevskij ( cosa, questa, teoreticamente abbastanza complicata).
[25] Corinzi, I.
[26] Cfr. D. Mongillo, voce Virtù teologali, in “Nuovo Dizionario di Teologia Morale”, Cinisello Balsamo, 1990, pag. 1474 ss..
[27] A null’altro che alla estinzione dello Stato di diritto conducono le recenti sentenze della Consulta citate nel testo in tema di obbligo vaccinale, semplicemente perché adottano il principio che le narrazioni evangeliche riconducono a Caifa: “ E’ meglio che muoia un uomo solo, anziché perisca tutto il popolo” ( Gv., 11, 45-56); mentre il principio assoluto che regge l’intera impalcatura dello Stato di diritto è proprio l’opposto, come sopra letterariamente rappresentato dal grande scrittore russo : “mai è lecito sacrificare o mettere a rischio un solo essere umano, sia pure allo scopo di salvare l’intera umanità”. E ciò perché dentro ogni essere umano, nessuno escluso, viene custodito l’infinito e a nessuno, per nessuna ragione, è lecito disconoscerlo o vulnerarlo. Aggiungo che la Consulta sembra aver pericolosamente dimenticato l’insegnamento che essa stessa aveva impartito con diverse sentenze degli ultimi decenni e soprattutto con la sentenza 19 Aprile 1996, n. 118, secondo la quale “nessuno può essere chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”. In altre sentenze – la n. 218 del 1994 e la n. 5 del 2018 - la Corte Costituzionale, in applicazione del principio di precauzione, afferma che il necessario rispetto dovuto alla persona umana non identifica un valore da bilanciare con altro valore, ma un criterio che presiede al bilanciamento tra l’interesse collettivo alla salute e il diritto personale alla stessa, segnando il limite oltre il quale il legislatore non può comprimere la libertà individuale, fosse anche in funzione dell’interesse collettivo. Oggi purtroppo dobbiamo contemplare una Consulta immemore di se medesima, al punto da smentire le proprie sentenze. Ne viene che per agire in conformità ai precedenti insegnamenti della Corte, l’opera di vaccinazione avrebbe dovuto essere affidata ai medici di base, i soli a poter discernere in scienza e coscienza, tenendo conto della storia clinica di ciascuno, quali soggetti vaccinare e quali no. In tal modo, sarebbe stata assicurata la salute delle persone in prima battuta e, alla fine e concretamente, della collettività intera. Invece, si è fatto il contrario, vaccinando decine di migliaia di persone al giorno, condotte presso gli hub vaccinali, come greggi al pascolo: una massa informe di soggetti – senza nome e senza volto – vaccinati da medici che, al riparo di un apposito scudo penale, nulla sapevano di loro. In tal modo, non solo si è rinnegata la scienza – inorridita da tale procedimento antiscientifico - ma si pretendeva, illudendosi, di giungere alle persone, muovendo dalle masse. In realtà, per ragioni ideologiche, spezzando l’originaria unità fra persone e legame sociale, si è spregiata la dignità umana, per privilegiare l’anonimia astratta delle masse. Un effetto inumano, oggi antigiuridicamente benedetto dalla Consulta, che, lo si sappia o no, ci avvia verso il trans-umanesimo, cioè verso la progressiva irrilevanza, fino alla scomparsa, della persona umana, come già preconizzato nelle pagine di Camus, di Chesterton, di Heidegger, di Anders e di molti altri pensatori contemporanei. Inascoltati.
[28] Vedi nota precedente.
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