Sommario: 1. Il precedente del 2012 - 2. La rilevanza della questione - 3. I parametri costituzionali della quaestio - 4. La sostenibilità di una pronuncia di illegittimità - 5. Considerazioni conclusive.
Con l’ordinanza n. 23 del 12 gennaio 2023, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, nella persona di Fabio Gianfilippi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale, di seguito OP), “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli art. 2, 3, 13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117, comma 1 Cost., quest’ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”.
Il diritto alla sessualità dei detenuti giunge, così, nuovamente all’attenzione della Consulta, a distanza di oltre dieci anni dalla sentenza n. 301 del 19 dicembre 2012.
L’oggetto è presto detto: l’ordinamento penitenziario italiano, sia che si consideri “vuoto” di norme in materia, sia che lo si consideri “pieno” di un “operante dispositivo proibizionista”[1], non consente ai detenuti incontri riservati in carcere motivati da ragioni affettive (essendo anche i colloqui dei detenuti del circuito ordinario di media sicurezza, e non soggetti a controllo auditivo, comunque sottoposti ex art. 18 OP a controllo visivo da parte degli operatori di polizia), di fatto impedendo che le persone detenute possano vivere la dimensione della sessualità con il/la propria partner in visita e limitandola a eventuali illeciti penali (atti osceni in luogo pubblico, ex art. 527 cp) consumati più o meno volontariamente con compagne/i di detenzione o con altre persone autorizzate all’ingresso in istituto.
1. Il precedente del 2012
Molti sono gli elementi di novità rispetto alla precedente ordinanza di rimessione dell’Ufficio di Sorveglianza di Firenze del 23 aprile 2012 (meglio conosciuta come ordinanza Fiorillo, dal nome della Magistrata proponente) e alla successiva pronuncia costituzionale; fattori che potrebbero condurre, questa volta, ad un esito diverso e niente affatto scontato.
Con la pronuncia 301/2012 la Corte costituzionale, se da un lato aveva riconosciuto la questione proposta come “una esigenza reale e fortemente avvertita ... che merita ogni attenzione da parte del legislatore”, dall’altro l’aveva ritenuta inammissibile sotto un duplice motivo: uno attinente a un vizio insito nell’ordinanza stessa; l’altro per distinte considerazioni sugli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale.
Con riguardo al primo dei due aspetti, la Corte rilevava l’omissione della rilevanza della quaestio, nell’ambito del procedimento in corso, non essendo specificato nell’ordinanza del giudice fiorentino l’oggetto del reclamo e, quindi, l’inevitabilità della interrogazione della Corte – a parere del rimettente – per decidere il caso concreto.
Sotto il secondo profilo, a giudizio della Corte, un intervento meramente ablativo, volto all’eliminazione del controllo visivo dalla norma, avrebbe prodotto effetti generalizzati sulla platea dei soggetti ristretti, a prescindere dal loro regime detentivo e da specifiche esigenze di sicurezza, pure tutelate dall’ordinamento. Oltre ad avere un’efficacia molto più ampia del necessario, il dispositivo non sarebbe stato neppure sufficiente a garantire il diritto in questione, attesa la necessità di un intervento necessariamente additivo in grado di individuare presupposti, modalità, spazi, tempi, destinatari: disciplina ad hoc riservata alla sola discrezionalità del legislatore. Dunque, secondo il Giudice delle leggi: un diritto, quello alla sessualità, riconoscibile e compatibile con la realtà carceraria ma che, come spesso accade, necessitava di un mirato intervento legislativo per essere cristallizzato, attesa l’inadeguatezza allo scopo della semplice estensione in forma riservata dell’istituto del colloquio ordinario.
2. La rilevanza della questione
Il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, dopo aver richiamato entrambi i profili della precedente pronuncia di inammissibilità, ha opportunamente evidenziato le differenze rispetto alla questione prospettata.
In ordine alla rilevanza della quaestio, viene posto ben in evidenza sia l’oggetto del reclamo (l’impossibilità di godere di spazi di adeguata intimità con la propria compagna) che la posizione giuridica del condannato reclamante. A quest’ultimo è preclusa la possibilità di usufruire di permessi premio, sia per la mancanza di un programma di trattamento penitenziario che già li contempli, sia per le sanzioni disciplinari in cui è incorso che, pur non costituendo elementi sintomatici di particolare pericolosità, sarebbero di ostacolo alla concessione del permesso-premio.
D’altro canto, il Magistrato di Sorveglianza, richiamando la qualificazione da parte della giurisprudenza costituzionale della sessualità come “indispensabile completamento e piena manifestazione” del diritto all’affettività e “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana”, e quindi idonea a essere ricompresa “tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” (Corte cost. 561/1987), sottolinea come - quand’anche al condannato fosse consentito di esercitare la propria sessualità con lo strumento dell’art. 30 ter OP – si assisterebbe ad un incongruo spostamento di un diritto fondamentale “verso l’orizzonte della premialità”. Viene così esclusa, anche in uno sguardo prospettico, tra i possibili presupposti della concessione della visita intima, la fuorviante logica premiale.
Circa la qualifica di “compagna” della partner, con cui il ricorrente richiede di poter svolgere colloqui riservati, viene sottolineato dal giudice rimettente come non vi sia alcun dubbio che la stessa rientri, a pieno titolo, nella platea dei soggetti legittimati in via regolamentare (art. 37, co. 1, dpr 230/2000) ai colloqui con i detenuti già da prima della equiparazione prevista dalla legge 76/2016 (art. 1, co. 38) e dalla più recente legge 70/2020 che, all’art. 2 quinquies, in materia di colloqui telefonici, equipara espressamente il coniuge con “l'altra parte dell'unione civile, con persona stabilmente convivente o legata all'internato da relazione stabilmente affettiva”.
Di fronte ad un diniego apparentemente legittimo da parte dell’amministrazione penitenziaria che, nel rispetto dell’impianto normativo vigente, è tenuta ad interdire i rapporti sessuali durante i colloqui, il Giudice rimettente ritiene che la Corte costituzionale nel caso di specie non potrà che concludere per la rilevanza della questione al suo vaglio.
3. I parametri costituzionali della quaestio
Sul piano dei parametri costituzionali violati nella forzata astinenza dai rapporti sessuali inframurari, oltre all’inviolabilità dei diritti umani (art. 2 C.), al rispetto dei trattati internazionali (art. 117 in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU), alla protezione della famiglia (art 29, 30 e 31 C.) e della salute (art. 32 C.), ai limiti e alla funzione risocializzante della pena (art. 27, 3 comma C) - già evocati dall’ordinanza Fiorillo, seppure con alcuni distinguo - il Magistrato di Spoleto richiama anche l’illegittima compressione della libertà personale e la natura vessatoria della sanzione inflitta. In particolare, viene evidenziato il contrasto con l’art. 13 della Costituzione, ai commi 1 e 4. Il divieto del diritto alla propria sessualità rappresenta, di fatto, una compressione della libertà personale non supportata da alcuna ragione di sicurezza quando il condannato, come nel caso del ricorrente, si trovi in regime di “media sicurezza”, senza alcun provvedimento di controllo della corrispondenza e delle conversazioni. Tale irragionevolezza finisce, inevitabilmente, per configurare una “forma di violenza fisica e morale …che, nella mancanza di una giustificazione sotto il profilo della sicurezza, si volge in mera vessazione, umiliante e degradante”.
Accanto alla sessualità entra in gioco anche il diritto alla genitorialità, intesa come possibilità di procreazione; di tale privazione è vittima anche il/la partner della persona ristretta. Si tratta di un rilievo molto opportuno anche per la sua funzione di ampliare lo sguardo verso gli affetti “non ristretti” e, tuttavia, parimenti vittime della dimensione “bilaterale” della pena[2].
Inoltre, il Magistrato di Sorveglianza, evidenziando il diritto a diventare genitore (sia del ristretto che del partner), ha inoltre implicitamente svelato i molteplici risvolti dell’imposizione del controllo visivo, che travalicano la sola sfera sessuale. A ben guardare, la conservazione delle relazioni affettive, tout court, presuppone il riconoscimento della libertà di comunicare riservatamente; solamente modalità di contatto che assicurino la riservatezza della comunicazione, possono consentire di sviluppare e mantenere legami affettivi “il più normali possibile”, come raccomandano le European Prisons rules[3].
Ad avvalorare l’incapacità di “tenuta” dell’attuale impianto proibizionista sotto il profilo della ragionevolezza, sono le modifiche legislative introdotte dalla cd. riforma Orlando (d. lgs. 2 ottobre 2018, n. 123). Il riformato dispositivo dell’art. 18 OP, pur non modificando l’obbligo che i “colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista … del personale di custodia”, prescrive che i locali in cui si svolgono ne “favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata” e che gli stessi siano “collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto”. Imponendo alle Direzioni di favorire la “riservatezza” dei colloqui con i familiari, la norma sembra, così, suggerire un’indicazione di riforma e di prassi amministrativa virtuosa, per il potenziamento di momenti di incontro e di intimità[4]; tenuto conto che tali colloqui – secondo il testo riformato – dovrebbero avvenire in locali preferibilmente in prossimità dell’ingresso in istituto, all’evidente scopo di evitare, per quanto possibile, disagi e frustrazione da parte dei familiari[5].
Le modifiche più incisive in materia sono, tuttavia, quelle apportate nell’ordinamento penitenziario minorile, con l’introduzione dell’istituto delle cd. “visite prolungate”. Infatti, nel d.lgs. dedicato del 2 ottobre 2018, n. 121, varato in attuazione della stessa legge delega n. 103 del 2017, è stato introdotto l’istituto delle visite per le persone detenute minori di età. La norma, contenuta nell’art. 19 del decreto, statuisce che “al fine di favorire le relazioni affettive, il detenuto può usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore”. Nel contesto minorile, dunque, il legislatore è riuscito là dove, in quello adulto, ha sempre fallito, prospettando la possibilità di incontri riservati e disciplinando termini e modalità di esplicazione del diritto, come puntualmente suggerito dai giudici costituzionali con la sentenza 301/2012. Il legislatore, alquanto singolarmente, sembra aver traslato la proposta di introdurre l’istituto delle visite, accanto ai colloqui, dagli adulti ai minori autori di reato[6]: una norma disegnata per i primi e attuata per i secondi che conduce – secondo il giudice rimettente - ad un’irragionevole disparità di trattamento, evidentemente non giustificata dalla minore o giovane età degli ospiti degli istituti penali per minori.
Come già avvenuto con l’ordinanza Fiorillo e con la successiva sentenza costituzionale, nell’ottica di integrare le fonti normative interne con quelle sovranazionali, rispetto alla congruità delle scelte nel raggiungere un obiettivo di garanzia dell’ordine e della sicurezza pubblica, è stata opportunamente valorizzata la cornice sovranazionale, sia con riguardo alle carte internazionali che alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di colloqui intimi, fino a farne – in questa sede – ragione di uno specifico vulnus dell’articolo 117, co. 1, Cost., in rapporto agli artt. 3 (divieto di tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea dei diritti umani.
Sul punto è utile sottolineare come i giudici di Strasburgo - sebbene abbiano negato la formazione di un vero consensus europeo sulle family visits, apprestando una tutela alquanto marginale, in un primo momento, ed eccessivamente prudente, poi[7] - hanno posto, in capo agli Stati contraenti, delle “positive obligations”[8] derivanti proprio dal diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito all’art. 8 CEDU[9]. L’orientamento, piuttosto recente, prevede, che le autorità statali siano tenute a fornire ai soggetti ristretti - e, se del caso, ai membri delle loro famiglie - una realistica opportunità di esercizio effettivo del diritto alle visite familiari, inteso come assistenza dei detenuti nella creazione e nel mantenimento dei legami extra-murari.
Le recenti aperture della Corte EDU sul tema, unitamente agli altri parametri indicati dall’ordinanza, rappresentano elementi che i giudici costituzionali non potranno ignorare nella valutazione della compatibilità della normativa rispetto all’art. 117 C. Se si volge, poi, l’attenzione agli altri Stati, l’inerzia del legislatore italiano, sul tema della sessualità in carcere, sembra sia diventata oramai quasi un unicum anche nell’ambito dell’Unione europea; dato che rende il nostro Paese maggiormente inadempiente.
4. La sostenibilità di una pronuncia di illegittimità
Quanto, infine, al secondo motivo di inammissibilità della ordinanza Fiorillo (il pericolo di travalicare gli ambiti del potere giudiziario, sconfinando in quello legislativo), il giudice di prime cure osserva come sono trascorsi ormai dieci anni dal monito della Corte Costituzionale che - nel sottolineare la rilevanza della questione anche alla luce delle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali e dall’esperienza comparatistica - sollecitava il legislatore ad intervenire. Un “tempo specialmente lungo”, sottolinea il Magistrato di Spoleto, “senza che… si sia pervenuti ad una effettiva modifica della normativa sul punto qui rilevante”. La protratta inerzia legislativa rispetto alla pronuncia del 2012 rappresenta un “elemento di novità ulteriore”, da valorizzare.
L’ordinanza non si sottrae dal dare atto della tecnica dilatoria, più volta utilizzata dal Giudice delle Leggi, negli ultimi anni, di fronte a profili di discrezionalità legislativa così ampi da inibire un intervento risolutore della Corte. Anziché sostituirsi al legislatore, i giudici costituzionali hanno, di frequente[10], preferito “mettere in mora” il legislatore, concedendogli un termine entro il quale lo stesso è tenuto ad adeguare la normativa sulla scia dei principi enucleati dalla Corte stessa.[11]
È come se il timore degli effetti disarmonici di un intervento meramente demolitorio, sul complessivo equilibrio della disciplina, prevalesse sulla spinta nomofilattica spesso intrapresa dalla Corte in passato. Attenta dottrina[12] ha, tuttavia, sottolineato che, quando la traslazione in avanti della decisione per “esigenze di collaborazione istituzionale” si traduce in un prolungamento della carcerazione, tale tecnica decisoria risulta inadeguata sotto la lente dei diritti e delle libertà, in quanto la permanenza in carcere viene giustificata da una legge accertata incostituzionale, ma non dichiarata tale.
Egualmente, a parere del giudice rimettente, lo stato di particolare sofferenza in cui versa il sistema penitenziario e chi vi è ospitato non può tollerare nel caso di specie l’utilizzo di pronunce dilatorie. Ciò anche in considerazione del lungo lasso temporale di inerzia del legislatore rispetto al monito del 2012, nonostante le indicazioni della cd. Commissione Giostra, i principi della Legge delega n. 103/2017 e i numerosi progetti–pilota sperimentati in vari contesti detentivi[13].
D’altro canto, molto opportunamente il giudice rimettente sottolinea come la disciplina legislativa dei colloqui riservati in ambito minorile costituisce anche un parametro utile al Giudice delle leggi per evitare un intervento meramente ablativo e indicare le concrete modalità di accesso al diritto che sarebbe riconosciuto dall’accoglimento dell’istanza. Secondo l’articolo 19 del citato d. lgs. 121/2018, “le visite prolungate si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile un ambiente di tipo domestico” (comma 4); “il direttore dell’istituto verifica la sussistenza di eventuali divieti dell’autorità giudiziaria che impediscono i contatti con le persone indicate …” e “verifica la sussistenza del legame affettivo …” (comma 5), favorendo “le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio” (comma 6). Acquisito il colloquio riservato/visita prolungata come strumento di attuazione di un diritto fondamentale della persona non soggiacente alla prospettiva premiale della progressione trattamentale, l’ordinamento giuridico già offre parametri legislativi in ordine ai tempi, ai modi, ai soggetti autorizzabili e finanche all’ordine di precedenza nell’accesso all’istituto che con una pronuncia di incostituzionalità si verrebbe a configurare.
5. Considerazioni conclusive
In conclusione si può dire che la nuova questione di legittimità costituzionale proposta dal giudice di sorveglianza di Spoleto consente alla Corte costituzionale di tornare a confrontarsi con il tema e la norma impugnata dentro un quadro normativo e argomentativo mutato e arricchito rispetto a quello della sua precedente pronuncia.
Come abbiamo scritto, mutato è il quadro normativo entro cui si inserisce l’articolo 18 della legge 354/1975 sotto due profili. Innanzitutto, nella misura in cui la riservatezza dei colloqui delle persone detenute con i familiari ha assunto rilevanza di principio guida dell’azione amministrativa per effetto della riformulazione del suo comma 3 con la novella del 2018. In secondo luogo, la nuova disciplina delle “visite prolungate” nel nuovo ordinamento penitenziario minorile, nello stesso tempo in cui fa emergere la irragionevole disparità di trattamento tra adulti e minori sollevata dal giudice rimettente, fornisce anche una soluzione legislativa alla mancata disciplina di analoghe visite prolungate agli adulti lamentata dal giudice delle leggi nel 2013 nel caso di un proprio mero intervento censorio.
Sul versante argomentativo, invece, al di là dei nuovi profili di illegittimità evidenziati, il giudice rimettente fa buon uso della giurisprudenza umanitaria della stessa Corte costituzionale[14], secondo cui la natura penale della privazione della libertà per motivi di giustizia si manifesta nella mera privazione della libertà di movimento[15], dovendosi puntualmente giustificare ogni altra limitazione accessoria[16], non in base a generici motivi di ordine e sicurezza, ma a specifiche e contingenti situazioni di prevenzione speciale sotto duplice riserva di legge e giurisdizione. Al di fuori di simili, legittime eccezioni, riconosciute legislativamente nella selezione delle persone autorizzate ai colloqui con i detenuti e nella limitazione o nella possibile censura della corrispondenza in fase cautelare o per particolari categorie di detenuti, un diritto fondamentale della persona detenuta come quello all’esercizio di una sessualità libera e consapevole, strumentale tanto alla tutela della propria salute psico-fisica quanto alla pienezza della propria soggettività umana, non può essere compresso né come effetto implicito dell’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale di privazione della libertà, né tantomeno come conseguenza di difficoltà organizzative dell’amministrazione pubblica o di resistenze culturali dei suoi operatori.
Siamo dunque, forse, a un punto di svolta. Con la nuova pronuncia della Corte sapremo se il diritto alla sessualità delle persone detenute non ha potuto fin qui essere garantito per un vuoto normativo di responsabilità del legislatore, come la Corte costituzionale ha affermato con la sentenza del 2013, o per il pieno di un dispositivo proibizionista operante in materia sessuale come parte della capitis deminutio che antiche concezioni retributive della pena portavano con sé.
In questa epoca di passioni tristi, che alimenta usi populistici del diritto e della giustizia penale, spetta ancora una volta alla giurisdizione sciogliere nodi che l’evoluzione della sensibilità civile porta in evidenza. Speriamo che la Corte costituzionale riesca a farsene interprete.
*Ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia. Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Lazio.
**Avvocata. Phd. Docente di Esecuzione penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale.
[1] Così A. PUGIOTTO, Della castrazione di un diritto. La proibiizone della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale”, in Giurisprudenza penale, n. 2-bis/2019, pp. 5-14.
[2] In proposito, si veda originariamente J. MATTHEWS, Forgotten Victims. How prison affect the family, London 1983, e nel dibattito italiano sul diritto all’affettività/sessualità dei detenuti e dei loro congiunti, S. TALINI, Diritto inviolabile o interesse cedevole? Affettività e sessualità dietro le sbarre (secondo la sentenza n. 301 del 2012), in Studium Iuris, 2013, pp. 1089 e ss.., A. PUGIOTTO, op. cit., pp. 21-22, e, sull’ordinanza che si commenta, ancora S. TALINI, Un passo decisivo verso la garanzia della sessualità intramuraria?, in Sistema penale, 2023, p. 5.
[3] Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, adottata l’11.01.2006 e rinnovata nel 2020, https: //rm.coe.int. Le EPR sottolineano anche il dovere delle autorità di facilitare “i contatti con il mondo esterno” e di “permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”, “fornendo loro l’assistenza sociale appropriata allo scopo” e consentendo di beneficiare di “visite familiari intime per un periodo prolungato”, pari ad esempio a 72 ore (Regola 24-4/5 e Commentario alle EPR).
[4] M. BORTOLATO, Luci ed ombre di una riforma a metà: i decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018, in Questione Giustizia, 9, 2018. L’autore afferma che “La norma va salutata con estremo favore in quanto apre in qualche modo ad una maggiore considerazione dell’esercizio, tutto “privato”, del diritto all’affettività in ambito carcerario ed apre scenari imprevedibili implicando una possibile sottrazione, seppur limitata, al controllo permanentemente visivo dei colloqui familiari”.
[5] L. AMERIO, V. MANCA, Forma attiva e passiva del verbo amare: riflessioni a margine delle prime applicazioni del D.lgs. n. 123/2018 in materia di affettività e sessualità, in Giurisprudenza penale, 2 settembre 2019.
[6] Nei lavori del Tavolo 5 degli Stati Generali dell’esecuzione penale promossi dal Ministro Orlando in vista dell’adozione del disegno di legge delega, tavolo dedicato ai “Minorenni autori di reato”, non vi è infatti alcun cenno alla visita prolungata.
[7] Per un’analisi approfondita delle pronunce CEDU, cfr. M. E. SALERNO, Affettività in carcere e diritto alle visite familiari. A Strasburgo, tra affermazioni di principio e tutela effettiva, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis; L. RE, S. CIOFFOLETTI, La pena rimossa. Detenzione e diniego della sessualità nelle carceri italiane, in C. BOTRUGNO e G. CAPUTO, Vulnerabilità, carcere e nuove tecnologie Prospettive di ricerca sul diritto alla salute, Phasar Edizioni, 2020, p. 78. Con riferimento all’ordinanza che si commenta, si veda anche F. MARTIN, Carcere e sessualità: nuovi spiragli costituzionali, in Giurisprudenza penale, 1/2023, pp. 2-6.
[8] Corte EDU, 30 giugno 2015, Khoroshenko c. Russia, ric. n. 41418/04; Corte EDU, Grande Camera, 4 aprile 2018, Correira De Matos c. Portogallo, ric. 56402/12.
[9] Cfr. S. GRIECO, Il diritto all’affettività delle persone recluse, Editoriale scientifica, Napoli, 2022, pagg.9-13.
[10] Cfr. ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018, cd. Caso Cappato, in tema di agevolazione al suicidio e ordinanza n.132 del 26 giugno 2020 sulla diffamazione a mezzo stampa, https://www.cortecostituzionale.it/.
[11] Cfr. da ultimo ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021 e ordinanza n.122 del 13 maggio 2022 in materia di ergastolo ostativo, https://www.cortecostituzionale.it/.
[12] Cfr. ex plurimis A. PUGIOTTO, L’ergastolo ostativo al capolinea? Una mappa per orientarsi, in attesa della sentenza costituzionale, in Studium Iuris, Cedam, fasc. 2/2021, pag.143; M. PASSIONE, Il muro torto. Barlumi di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in Diritto di Difesa, Giuffré editore, 27 maggio 2021.
[13] In Italia le stanze dell’affettività esistono solamente in via sperimentale nella Casa di Reclusione di Milano Opera ma vi sono moduli architettonici realizzati da un gruppo di professori di architettura, coadiuvati dal Prof. Renzo Piano, per dar vita ai progetti G124-2019, prime unità abitative per favorire l’incontro con i familiari, per la Casa di Reclusione di Rebibbia, e, all'esterno, per Milano, Padova e Siracusa. In particolare, presso la struttura di Rebibbia femminile è sorto il M.A.MA. (acronimo di Modulo per l'Affettività e la Maternità).
[14] Una nuova giurisprudenza umanitaria delle corti costituzionali, supreme e internazionali, orientata a individuare in concreto il limite legittimo del diritto di punire, oltrepassato il quale il suo esercizio entra in rotta di collisione con i suoi presupposti giustificativi, si è andata affermando dalla fine del secolo scorso in Italia e altri Paesi occidentali. Sulle sue manifestazioni, sulla sua natura e sull’ambivalente rapporto che essa intrattiene nel nostro ordinamento con la tradizionale giurisprudenza rieducativa, si rinvia a S. ANASTASIA, Le pene e il carcere, Milano, Mondadori, 2022, pp. 83 e ss..
[15] Cfr. M. RUOTOLO, La libertà della persona in stato di detenzione, in Osservatorio AIC-Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 6/2021, p. 254.
[16] In virtù di tale argomento A. PUGIOTTO, op. cit., pp. 14-15, sostiene la sussistenza di un ulteriore parametro di illegittimità costituzionale, configurandosi l’applicazione della pena accessoria della mutilazione della sessualità in una violazione del principio di legalità delle pene ex art. 25, co. 2, Cost..