Il mezzo e la rappresentazione. Brevi note a margine della sentenza della Corte di Cassazione n.11959/2020
di Stefano Civardi
Nell’era dell’ITC la Corte di Cassazione si misura con la configurabilità del reato di appropriazione indebita dei files, contribuendo alla definizione dell’elemento della fattispecie “cosa mobile”. Ancora da approfondire il rapporto fra l’informazione e il supporto che la rappresenta: quale “incorporazione” rende “cose” le “rappresentazioni” ? Sul punto un contrasto irrisolto di due differenti orientamenti della Cassazione penale.
Sommario: 1. Linguaggio volgare e linguaggio tecnico, 2. Il concetto di cosa nei reati contro il patrimonio, 3. Il concreto caso giudiziario, 4. Il file come cosa, 5. La cosa e il suo contenuto, 6. La sentenza “Matacena”, 7. La sentenza “Simone”, 8. Le sentenze “Capuzzimati” e “Tronchetti”, 9. Il contrasto irrisolto
1. Linguaggio volgare e linguaggio tecnico
Partiamo dalla nota opinabilità del diritto per proseguire con la riconosciuta capacità della giurisprudenza di creare proprie categorie differenti da quelle utilizzate nel linguaggio comune. Molto spesso il diritto mutua un significante dal linguaggio generico, e gli attribuisce un significato tecnico. Uno stesso significante assume in diritto, nel tempo, un diverso significato, a volte distanziandosi sensibilmente dal senso originale. Non è questa certo la sede né per addentrarsi nei labirinti della capacità nomopoietica della Corte di Cassazione, intelligentemente esercitata, in paradosso etimologico, proprio nello svolgimento della funzione nomofilattica, né per definire i confini del transito di un termine dal linguaggio comune al differente linguaggio tecnico giuridico.
2. Il concetto di cosa nei reati contro il patrimonio
Che cosa si intende per “cosa” nel titolo XIII del codice penale ? Gli artt. 624, 646, 648 del codice penale che menzionano nella fattispecie il medesimo lemma “cosa” rinviano ad un’accezione del tutto differente rispetto al linguaggio comune ? Fino ad ora la “res” nel diritto penale, per la fortuna di tutti i consociati, assumeva uno dei significati simili a quello normalmente utilizzato nel linguaggio comune: “oggetto” , passibile di detenzione, sottrazione, appropriazione, ricezione, occultamento.
3. Il concreto caso giudiziario
Con la sentenza n. 11959, depositata il 10.4.2020, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i "’dati informatici’ – per struttura fisica, misurabilità delle dimensioni e trasferibilità - sono qualificabili come cose mobili ai sensi della legge penale”. Il caso concreto da cui è stata tratta la massima riguardava la condotta di un dipendente di una società che, prima di dimettersi aveva restituito il notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, dopo aver proceduto alla formattazione del disco fisso, cancellando i dati informatici presenti, e “appropriandosi” dei dati originariamente esistenti, che in parte venivano ritrovati nella disponibilità dell'imputato su altri mezzi informatici da questi utilizzati. I “dati informatici” nell’interpretazione del giudice di legittimità diventano quindi “cose mobili altrui” suscettibili di integrare un elemento della fattispecie prevista dall’art. 646 c.p.
4. Il file come cosa
La sentenza non banalizza per nulla il passaggio, consapevole forse proprio dell’inevitabile maggior sforzo argomentativo necessario per una vera e propria creazione giuridica, e si confronta sia con la prevalente contraria dottrina, sia con la relazione al disegno di legge 2773 (che sarebbe sfociato nella legge 23 dicembre 1993, n. 547 introduttiva dei c.d. reati informatici nella compagine del nostro codice penale), laddove la Corte opportunamente ricorda come ivi apertis verbis si escludesse “che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni fosse applicabile l'art. 624 cod. pen. «pur nell'ampio concetto di «cosa mobile» da esso previsto», in quanto «la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una «presa di conoscenza» di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti»”. Il cuore tuttavia della motivazione verte sulla circostanza che il file, non sia per nulla immateriale, “bensì rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l'estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l'intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall'uomo.”
5. La cosa e il suo contenuto
Ora non è certo in discussione che il dato informatico, come tutti i dati e le informazioni, non possa prescindere da un supporto che lo veicoli ai nostri sensi e al nostro intelletto (si sostanzi questo supporto in materia, onde elettromagnetiche o altra realtà percepibile). Il problema sul quale occorre più a lungo immorarsi è il rapporto fra la realtà che comunica una informazione e l’informazione stessa. Nessuno è interessato alla sequenza di bit per sé, ma al significato che tale sequenza evoca. Tuttavia il rapporto fra una informazione è la “materia “che “ospita” o “trasmette” una determinata “conoscenza” è stato oggetto di alcune contraddittorie pronunce del giudice di legittimità.
6. La sentenza “Matacena”
Secondo un orientamento, un tempo consolidato in materia di ricettazione, ben si distingueva fra il supporto contenente una notizia e la notizia stessa, così evitando la scorciatoia della reificazione dell’informazione per criminalizzare la ricezione del supporto che la veicola. Sul punto si ricorda la sentenza 34717/2008 (imp. Matacena): “In tema di rivelazione di segreti di ufficio, l'elemento materiale del reato consiste nella indebita cessione a terzi di conoscenze sottratte alla divulgazione, sicchè al percettore della rivelazione, che può eventualmente rispondere di concorso nel medesimo reato, non può addebitarsi il delitto di ricettazione, posto che esso si configura in ipotesi di illecita circolazione di un bene materiale e non di un'informazione. (Ha peraltro precisato la Corte che in tale senso non ha rilievo il supporto materiale - dvd, cd-rom, copia cartacea - su cui circola l'informazione, essendo esso meramente strumentale alla rivelazione del segreto).”. Nel corpo della motivazione della sentenza così massimata la Corte di Cassazione espressamente chiariva: “La combinazione degli elementi strutturali dei due reati in esame [648 c.p. e 326 c.p.], come finora illustrati, conduce a ritenere che l'oggetto del delitto presupposto (art. 326 c.p.) sia non già una cosa, ma un'informazione, con la conseguenza che il corpus materiale attraverso il quale si attua il trasferimento illecito dell'informazione è irrilevante (può essere una fotocopia, come un c.d. rom, come un flatus vocis); con l'ulteriore conseguenza che la ricezione di una cosa reale (ad es. fotocopia) contenente notizie di ufficio non è altro che la fase terminale della ricezione della notizia e non la ricezione di "altro da sé", che potrebbe costituire l'oggetto della ricettazione”. Con grande soddisfazione e complimenti da parte di tutta la libera stampa la Corte di Cassazione metteva un chiaro argine alla criminalizzazione dei giornalisti che ricevevano “materiale informativo” di evidente provenienza delittuosa, perché oggetto di rilevazione di segreto d’ufficio. Il Giudice di legittimità per altro si muoveva all’interno di un solco già tracciato dall’interprete nella precedente sentenza n. 308/2005 così massimata: “Non è configurabile il reato di ricettazione a carico di soggetto che si sia limitato a ricevere dati, informazioni e notizie tratti da materiale documentario che sia stato oggetto di furto, mancando, in siffatta ipotesi, l'esistenza di una "res" suscettibile di apprensione e possesso.”
7. La sentenza “Simone”
Rispetto a questi principi fissati in sincera sintonia con il sentire comune, l’avverso e più recente orientamento giurisprudenziale - che propugna l’immedesimazione della “informazione” nella “res”, così rendendo applicabile l’intero armamentario codicistico dei reati contro il patrimonio -, indica come punto di svolta la sentenza n. 33839 del 2011 (imp. Simone). In realtà detta sentenza esclude espressamente che un diritto di credito possa essere oggetto di appropriazione indebita, se non nel caso specifico della “incorporazione” in un titolo di credito. E’ per altro noto che il titolo di credito abbia una disciplina legale del tutto particolare. Fuori dai casi normativamente e convenzionalmente previsti un “pezzo di carta” non incorpora il diritto ivi rappresentato, né il diritto è “sottratto”, “ricevuto”, “occultato” inscindibilmente dalla materia che lo cartolarizza. La massima della sentenza n. 33839 “Non commette il delitto di appropriazione indebita l'agente assicurativo che non versi alla Società di assicurazioni, per conto della quale operi, la somma di denaro corrispondente ai premi assicurativi riscossi dai subagenti ma a lui non versati, dato che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale come i crediti di cui si abbia disponibilità per conto d'altri, a meno che non siano equiparabili alle cose mobili perché "incorporati" in un documento.” deve essere letta nel contesto della motivazione nella quale si afferma chiaramente quali siano i documenti che “incorporano” il diritto: “poiché la fattispecie di cui all'art. 646 c.p. presuppone - quale elemento minino essenziale della condotta incriminatrice - l'atto materiale dell'appropriazione, l'oggetto dell'azione delittuosa deve essere costituito necessariamente da un bene mobile suscettibile di essere fisicamente appreso. Tali non si rivelano i diritti di credito, a meno che non siano "incorporati" in un documento (come nel caso dei titoli di credito).”
8. Le sentenze “Capuzzimati” e “Tronchetti”
Il vero revirement rispetto all’orientamento espresso nella sentenza “Matacena” è operato solo dalla sentenza n. 47105 del 2014 (imp. Capuzzimati): “Commette il delitto di appropriazione indebita colui che, accedendo abusivamente in un sistema informatico, si procura i dati bancari di una società riproducendoli su un supporto cartaceo, in quanto, se "il dato bancario" costituisce bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, l'entità materiale su cui tali dati sono trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di "home banking" acquisisce il valore di questi, assumendo la natura di documento originale e non di mera copia.” Pur essendo del tutto consapevoli che nel XXI secolo i valori più ambiti siano le informazioni e che la tutela penale della proprietà delle informazioni sia del tutto inadeguata, tanto da spingere l’interprete su nuovi percorsi, con la sentenza Capuzzimati assistiamo per la prima volta alla reificazione dell’informazione con la totale confusione del valore di un dato rispetto al pezzo di carta sul quale è stampato. Segue quindi lo stesso orientamento la più nota pronuncia della Cassazione n. 21596 del 2016 (imp. Tronchetti Provera). Invero quest’ultima sentenza, pur problematizzando inizialmente la nozione penalmente rilevante di “cosa” e pur contemplando che non rientrino nella nozione di “cose” “i beni immateriali (come la proprietà intellettuale), i diritti, le pretese, le aspettative”, conclude tuttavia che gli stessi beni immateriali, laddove “incorporati” in beni materiali che li rappresentano e li documentano, diventano oggetto di ricettazione, furto, appropriazione indebita. Acutamente l’interprete non dice che i beni immateriali diventano materiali, ma tuttavia ne applica lo statuto, omettendo di ricordare che per loro natura i beni immateriali possono del tutto prescindere dal contingente mezzo che li veicola, mantenendo inalterato il proprio valore e le proprie caratteristiche, a differenza delle cose mobili propriamente dette.
9. Il contrasto irrisolto
E’ questo il punto irrisolto anche dalla sentenza oggi in commento, che ripropone la confusione fra l’informazione rappresentata da un certo numero di Bytes organizzati in un determinato modo, con i Bytes stessi. Come in un raffinato sofisma di ignoratio elenchi, la Corte discute dei Bytes, ma non dell’immateriale organizzazione dei Bytes, che a questi conferisce senso e valore, e che potrebbe addirittura prescindere dai Bytes stessi, una volta “esportata” su un supporto analogico (un foglio sul quale il contenuto del file è stampato o un nastro magnetico che registra la lettura del contenuto del file). Riducendo ad assurdo il percorso logico dell’autore della sentenza, si potrebbe dire che una notizia scritta a matita su un pezzo di carta è materiale perché cancellabile con la gomma, stracciabile con le mani, bruciabile con l’accendino. Evidentemente tutte espressioni predicabili per la carta e per la traccia di grafite, certo non per l’informazione.
Il contrasto irriducibile fra i due diversi orientamenti espressi dalle differenti sentenze succedutisi nel tempo merita, piuttosto che un oblio del più risalente, un consapevole componimento da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.