Granital reloaded o di una «precisazione» nel solco della continuità*
di Corrado Caruso
Sommario: 1. Granital: in memoriam? - 2. Dualismo e asimmetria ordinamentale: la conferma dei presupposti di Granital - 3. Il contesto (e la sfida) della «precisazione»: l’integrazione attraverso i conflitti - 4. Dopo la sentenza n. 269 del 2017: la vis espansiva della «precisazione»… - 5. ...e i nodi da sciogliere: ordine delle pregiudiziali e disapplicazione successiva al rigetto della questione di costituzionalità.
1. Granital: in memoriam?
Vi è un’osservazione ricorrente nel dibattito sulla ormai nota «precisazione» della sent. n. 269 del 2017: la pronuncia – la prima di una serie – avrebbe ormai superato la regola enunciata nella sent. 170 del 1984 (COSENTINO 2020, TEGA 2020, per restare ai contributi più recenti), inaugurando un nuovo criterio di composizione dei contrasti tra diritto europeo e diritto nazionale.
Come noto, in base all’assetto disegnato dalla sentenza Granital, a fronte di un’antinomia tra norma sovranazionale ad effetto diretto e norma interna, il giudice comune avrebbe dovuto dare prevalenza al precetto europeo, con conseguente disapplicazione (rectius: non applicazione, come poco dopo specificherà il Giudice delle leggi nella sent. 168 del 1991) del diritto interno con esso contrastante. Tale meccanismo, che è andato affinandosi nel successivo prosieguo giurisprudenziale, ha sancito una triplice riserva di controllo alla Corte costituzionale: nei casi (a) di contrasto della legge interna con una norma europea non self-executing; (b) di controversie in via principale tra Stato e Regioni (in ragione della specifica finalità del giudizio in via di azione, che risponde a una esigenza di coerenza dell’ordinamento complessivo e di certezza nelle relazioni territoriali, CARUSO 2020, pp. 129 e ss.); (c) di attivazione dei controlimiti da opporre all’ingresso del diritto comunitario.
La sentenza n. 269 del 2017 avrebbe dunque posto le basi per un complessivo ripensamento di questo meccanismo o, quanto meno, per una rilevante eccezione (COSENTINO 2020) alla regola Granital, delineando un criterio particolare di risoluzione delle antinomie normative che coinvolgono le disposizioni della CDFUE. In virtù del noto obiter, la Corte costituzionale è chiamata a comporre il contrasto tra i diritti fondamentali previsti dalla Carta di Nizza e la legislazione nazionale, per la «impronta tipicamente costituzionale [dei] principi e i diritti enunciati nella Carta», i quali «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione (…)». Per tale ragione, «le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes (…), anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» (sent n. 269 del 2017).
Non vi è dubbio che il menzionato obiter presenti carattere innovativo, tanto da disegnare un criterio generale di risoluzione dei conflitti da affiancare alle tecniche che tradizionalmente hanno accompagnato i rapporti tra ordinamento interno e diritto sovranazionale. Da simile innovazione, tuttavia, non è possibile rinvenire la causa del superamento di Granital, assecondando un approccio meramente esegetico alla giurisprudenza costituzionale. È necessario invece prendere atto del diverso contesto in cui le due pronunce si collocano per evidenziarne l’identità dei presupposti teorici, consistenti nella distinzione degli ordinamenti e nella natura derivata e tendenzialmente settoriale del sistema sovranazionale. La «precisazione» rappresenta l’effetto o (il «sintomo», secondo DANI 2020) dell’evoluzione dei rapporti tra diritto interno e ordinamento sovranazionale, situandosi in continuità con la sent. n. 170 del 1984. La Corte costituzionale recupera la matrice originaria per aggiornarne i contenuti, torna nel passato per cambiare il futuro o, quanto meno, per correggere le sorti del processo di integrazione. Granital reloaded, dunque, per parafrasare il titolo di una famosa pellicola: la «precisazione» riavvia il codice originale del sistema delle relazioni ordinamentali per evitarne l’implosione e riallacciare le fila del discorso sul federalizing process europeo (per questa metafora, riferita al metodo del diritto pubblico, CARUSO, CORTESE 2020, pp. 9 e ss., CARLONI 2020, pp. 214 e ss.).
Il sistema disegnato da Granital era piuttosto semplice o, quanto meno, sufficientemente stilizzato: l’egida dell’art. 11 Cost. consentiva, secondo la Corte, la delega di alcune competenze settoriali a un ordinamento «distint[o] ancorché coordinat[o]», volto alla creazione (prima) di una zona di libero scambio e (poi) di un mercato comune transnazionale; su tali competenze lo Stato avrebbe mantenuto la propria sovranità, trasferendo l’esercizio (sempre revocabile) di alcune funzioni e, di conseguenza, ammettendo l’ingresso degli atti comunitari secondo la forza e l’efficacia che l’ordinamento di origine attribuiva loro. Il rapporto di separazione ordinamentale era consentito (o meglio governato) dall’art. 11 Cost., principio fondamentale che, per un verso, imponeva alla legge nazionale di non interferire con la sfera occupata dall’atto comunitario e, per altro verso, richiedeva al giudice interno di non dare applicazione alla norma interna. Tale disapplicazione era pensabile per la particolare struttura formale della normativa sovranazionale, coincidente con i regolamenti comunitari, unica tipologia di atto abilitata, per esplicita dizione del trattato istitutivo (art. 189 TCEE), a produrre norme self-executing.
La Corte costituzionale accoglieva così l’approccio della Corte di Giustizia in Simmenthal[1], riproponendolo in un’ottica dualista puntellata da una serie di dati positivi (art. 11 Cost. e trattati istitutivi). In tale prospettiva, l’effetto diretto era una qualità assegnata ad un determinato tipo di fonte, così come la disapplicazione un criterio formale per sciogliere una puntuale contraddizione tra regole nei settori devoluti all’ordinamento comunitario (A. BARBERA 2017).
Simile assetto viene progressivamente alterato dalla successiva evoluzione ordinamentale, scandita da molteplici passaggi che scardinano la logica degli ordinamenti «distinti ancorché coordinati». La delega di funzioni approda a lidi inesplorati, coinvolgendo persino la moneta e le sue politiche, considerate, sin dalla fondazione dello Stato moderno, riflesso della sovranità statuale. La creativa giurisprudenza della Corte di giustizia, recepita dalla stessa Corte costituzionale, allarga il novero degli atti capaci di produrre norme ad effetto diretto: trattati, direttive, decisioni quadro e, persino, le stesse sentenze dei giudici di Lussemburgo, cui le Corti riconoscono, attraverso un processo di astrazione generalizzatrice del principio di diritto ivi enunciato, effetti che superano il disposto del singolo caso, assurgendo al rango di fonte del diritto. Le istituzioni sovranazionali (e, in particolare, la Commissione, nel suo ruolo di “motore dell’integrazione”) modificano progressivamente le tecniche redazionali degli atti formalmente sprovvisti di efficacia diretta, non più volte all’indicazione di obiettivi ma dotate di prescrizioni minute e dettagliate; lo stesso effetto diretto va incontro a una metamorfosi funzionale, sino a divenire strumento di origine pretoria che, in assenza di stabili ed intellegibili test giudiziali (GALLO 2018, pp. 177 e ss., REPETTO 2019, p. 3), assicura il primato del diritto dell’Unione (BARTOLONI 2018) a prescindere dallo struttura normativa della disposizione (come emerge plasticamente dalla interpretazione dell’art. 325 TFUE offerta dalla prima decisione della Corte di Giustizia nel caso Taricco[2], DI FEDERICO 2018, pp. 3 e ss.).
Persino la Carta di Nizza conosce una paradossale eterogenesi dei fini: pensata, nell’ambito del processo di costituzionalizzazione dei trattati, quale codificazione dell’ordine valoriale europeo a garanzia degli individui nei confronti (anche e soprattutto) delle istituzioni europee (TRUCCO 2013, pp. 36 e ss.), la sua incorporazione nel TUE l’ha resa una leva archimedea nei confronti delle competenze degli Stati membri (M. BARBERA 2014, p. 387), trovando applicazione nei confronti del diritto nazionale entrato nella sfera di influenza o nel «cono d’ombra» (CARTABIA 2001, p. 389) dell’ordinamento sovranazionale. L’interpretazione estensiva dell’art. 51 CDFUE, frutto del fecondo dialogo tra Corte di giustizia e giudici comuni, ha generato una pressione sul principio di attribuzione, arrivando al limite di quanto consentito dalla lettera dei trattati (MORRONE, CARUSO 2017, p. 402). Rinvio pregiudiziale (interpretativo) e disapplicazione hanno consentito ai giudici comuni di muoversi quali agenti decentrati della Corte di giustizia (CONTI 2019 scrive di un progressivo «innamoramento» della coppia giudice comune-CGUE), organo che ha smesso i panni del custode delle competenze dell’Unione per assumere il ruolo di istituzione federatrice dell’ordinamento sovranazionale (si pensi non solo al noto caso Åkerberg Fransson[3], ma a tutte le pronunce che, tramite il richiamo alla CDFUE o ai suoi contenuti, hanno riconosciuto effetti orizzontali alle direttive come Mangold[4], pure precedente all’entrata in vigore della Carta, Kücükdeveci[5], Bauer[6], Max Planck[7], tutte analizzate da ROSSI 2019).
2. Dualismo e asimmetria ordinamentale: la conferma dei presupposti di Granital
L’evoluzione dell’integrazione ha portato quindi all’emersione di una duplice dinamica: a livello interno, si è assistito all’ampliamento del potere di disapplicazione del giudice comune, tendenza che ha indotto autorevole dottrina a proporre una innovativa classificazione del nostro sistema di giustizia costituzionale, non più misto (accentrato ad accesso diffuso) ma duale, contraddistinto cioè dalla simultanea convivenza del sistema accentrato accanto a un controllo diffuso di compatibilità sovranazionale rispetto al diritto self-executing (ROMBOLI 2014, p. 31).
A livello esterno, l’integrazione trough law, funzionale all’unificazione e alla regolazione unitaria del mercato perfettamente sovrapponibile alla logica del «distinti ancorché coordinati» di Granital, è stata progressivamente affiancata dalla «integrazione attraverso i diritti», che vede nei diritti fondamentali i vettori di una rinnovata supremazia del diritto sovranazionale sugli ordinamenti interni.
La sentenza n. 269 del 2017 interviene, dunque, su simili dinamiche: agisce sul potere di disapplicazione dei giudici, relegandolo «al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale», ove «la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità» sia, «per altri profili, (…) contraria al diritto dell’Unione»; incide, a livello esterno, sull’ordine delle pregiudizialità, arrestando, quanto meno indirettamente, il processo di attrazione dei diritti fondamentali nell’orbita interpretativa della Corte di giustizia. I giudici di Lussemburgo, pertanto, sono chiamati in causa dal giudice comune solo ove, all’esito del giudizio di costituzionalità, la norma interna non sia stata eliminata dall’ordinamento con effetti erga omnes. Peraltro, come dimostra la prassi successiva alla sent. n. 269 del 2017[8], alla resecazione del ruolo del giudice comune corrisponde una rinnovata dimestichezza del Giudice delle leggi nel servirsi del rinvio pregiudiziale (AMALFITANO 2020, p. 278). La Corte costituzionale tende a farsi interlocutore privilegiato della Corte di giustizia affermando una rinnovata centralità nelle questioni che definiscono l’«identità costituzionale» dell’ordinamento interno[9] senza cadere in quel «monismo costituzionale rovesciato», pure paventato in dottrina (REPETTO 2017, p. 2960). In effetti, la rentreé della Corte costituzionale contribuisce a rendere i diritti fondamentali «norm[e] di equilibrio», capaci «di segnare i limiti (…) dell’azione, normativa e giurisdizionale, delle istituzioni [sovranazionali] senza minare l’impianto costituzionale dell’ordinamento Ue», evitando altresì «indebit[e] attivazioni[i] dei controlimiti» (così, sulla clausola dell’identità nazionale, DI FEDERICO 2018, p. 334). In effetti, il più ampio coinvolgimento della Corte costituzionale nel dialogo con la Corte di giustizia (non solo attraverso rinvii interpretativi ma anche tramite pregiudiziali di validità[10]) comporta una proiezione della Costituzione nello spazio giuridico europeo, contaminato dalle pratiche interpretative e dall’inveramento istituzionale dei diritti a livello interno. Il processo di colonizzazione sovranazionale (CARTABIA 2007, pp. 57 e ss.) condotto dalla Corte di giustizia viene frenato attraverso una strategia promozionale altamente cooperativa, capace di disinnescare la logica difensiva dei controlimiti, evocabili solo a fronte di una situazione eccezionale di tensione per i valori fondamentali dell’ordine interno. Viene così scongiurato il pericolo legato a un ricorso disinvolto a tale categoria che, se elevato a sistema, sarebbe esiziale per il progetto europeo, traducendosi potenzialmente in una serie di riserve di origine pretoria apposte sulla legge di esecuzione dei trattati.
Si spiega così il riferimento, contenuto nella «precisazione», alle tradizioni costituzionali comuni, quale complesso dei fini e dei valori che contraddistinguono le diverse comunità politiche nazionali in una prospettiva evolutiva: «[i]l diritto come tradizione indica un corpo normativo, che come ogni organismo vivente cresce e si trasforma, mantenendo la propria identità, mentre le singole parti di cui è composto sono soggette a un incessante processo di trasformazione e di cambiamento, di decadenza e di rinnovamento» (CARTABIA 2017, p. 16). In questa prospettiva evolutiva gioca un ruolo fondamentale anche il diritto sovranazionale, che influenza i singoli ordinamenti nazionali nel nome di un comune acquis di valori e principi. In tal senso, è senz’altro condivisibile l’idea secondo cui «[n]essuna Corte costituzionale può (…) riservarsi il potere di interpretare la Carta unilateralmente, in armonia con le proprie tradizioni costituzionali, perché è solo nel dialogo con la Corte di Giustizia che i valori di una Costituzione possono assurgere a tradizioni costituzionali comuni» (ROSSI 2018, p. 6). É necessario però evitare uno slittamento monistico del diritto sovranazionale, assecondando il potere della Corte di giustizia nella selezione unilaterale di valori e principi meritevoli di entrare nel patrimonio costituzionale condiviso. L’identità nazionale, che l’Unione europea si impegna a rispettare ai sensi dell’art. 4.2 TUE, riconosce alle istituzioni interne, e, in particolare, alle corti di ultima istanza (obbligate, non a caso, al rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE), il compito di individuare ed esternare, nel confronto con i giudici di Lussemburgo, il codice genetico del proprio ordinamento, condizione necessaria (ma non sufficiente) a determinare le comuni tradizioni costituzionali.
La sentenza n. 269 del 2017 prova a interrompere l’usucapione (GUAZZAROTTI 2018, pp. 194 e ss.) dei diritti fondamentali da parte di un ordinamento derivato che, proprio tramite la valorizzazione di norme ad alta vocazione assiologica, tenta di legittimare sé stesso attribuendosi una competenza generale alternativa o, meglio, sostituiva di quella degli Stati membri.
Simile strategia non si pone al di fuori di Granital, ma anzi ne riafferma, aggiornandolo, il presupposto ordinamentale, e cioè l’assetto duale e asimmetrico di ordinamenti distinti collocati su posizioni diverse ancorché reciprocamente connesse: da un lato, l’ordinamento nazionale titolare del potere di decidere sulla estensione delle competenze attribuite di un sistema di indole settoriale, derivato e deterritorializzato (SCACCIA 2017, pp. 53 e ss.); dall’altro, il diritto sovranazionale che influenza e contamina l’ordinamento generale spazialmente situato, prescrivendo comportamenti e orientando, nei settori che intersecano l’ordinamento generale, scelte e preferenze di attori istituzionali e corpo sociale.
La prospettiva duale e asimmetrica è in fondo l’unica coerente con l’art. 11 Cost., che ammette limitazioni e non «cessioni» della sovranità posta dalla Costituzione (BIN 2019, p. 770). Tale disposizione «fissa condizioni precise perché si possa decidere di limitare la sovranità, imponendo «alle nostre istituzioni costituzionali di mantenere il controllo sul modo in cui funzionano (la parità) e operano (i fini) le istituzioni europee» (BIN, ibidem). Non è dunque assimilabile la dinamica dell’integrazione sovranazionale – il processo di integrazione – alla nascita di un ordinamento unitario, al prodotto di un’azione unificante –, quasi sia possibile isolare una «entità unitaria eterarchica» emersa dal federalizing process europeo (così invece MORRONE 2018, p. 4). Trarre dai rapporti inter-ordinamentali una sintesi della «produzione di norme derivanti dai fatti fondamentali» (MORRONE, ibidem) eleverebbe i mutamenti costituzionali – pure intervenuti a seguito dell’appartenenza all’Unione – a elementi fondativi di un nuovo ordinamento al di fuori della Costituzione repubblicana.
3. Il contesto (e la sfida) della «precisazione»: l’integrazione attraverso i conflitti
In un quadro di relazioni intrattenute da soggetti distinti ma altamente integrati, che perseguono fini diversi ma che pure inevitabilmente si intersecano, la prospettiva non è data dall’unità, e quindi dalla nascita e dal mantenimento di un soggetto politico unitario ma è, invece, quella del sistema a rete che si sviluppa attraverso conflitti di sistemi istituzionali portatori di specifiche identità. Poiché anche l’ordinamento sovranazionale si è dotato di una Carta dei diritti e, più in generale, di un lessico costituzionale, in un contesto duale e adespota che non conosce la decisione fondamentale sull’unità politica, le divergenze interpretative e i conflitti giurisdizionali diventano la regola delle relazioni tra ordinamenti (MARTINICO 2020). Simile evoluzione richiede di aggiornare gli strumenti per interpretare il processo di integrazione europea: la metafora del dialogo tra le corti o della tutela multilivello dei diritti cede il passo alla iconografia del conflitto, «categoria operativa, non materialmente neutra» (MEDICO 2020) che rimanda a una relazione mutualmente costitutiva tra ordinamenti. É in questo quadro che deve essere declinato il principio di leale collaborazione, evocato dalla «precisazione» della Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia nelle sentenze Melki e Abdeli[11] e A contro B e altri[12]: per evitare, infatti, che il principio di lealtà si traduca in un concetto vuoto che nasconde la pretesa egemonica di una giurisdizione (e di un ordinamento) sull’altra, è necessario un atteggiamento di judicial modesty, una generale consapevolezza circa l’estensione dei propri poteri, le finalità dei rispettivi ordinamenti, l’ineluttabilità delle reciproche interferenze.
La logica dei diritti fondamentali, infatti, «non è univoca ma risente delle diverse ragioni ordinamentali in cui si colloca», subendo «una torsione in relazione al contesto in cui si inserisce» (MEDICO, ibidem). Nell’ordinamento sovranazionale, ad esempio, i diritti non sono ciò che vale in sé, non incarnano valori-fine ma valori-mezzo: la loro tutela è strumentale a garantire e ad estendere (magari surrettiziamente) le funzioni attribuite al sistema sovranazionale, in costante dialettica con gli ordinamenti nazionali. Non a caso, come insegna la giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure di austerity, di fronte alla rigida separazione tra governo della moneta e coordinamento delle politiche economiche, quando cioè le competenze sovranazionali si appannano ed emergono strumenti irriducibili agli ordinari meccanismi di produzione normativa, la Carta dei diritti si ritrae, lasciando alle Corti costituzionali (e agli ordinamenti nazionali) la tutela del contenuto essenziale delle situazioni individuali (CASOLARI 2020, CARUSO 2018, pp. 111 e ss.).
L’identità dell’oggetto di tutela della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali (VIGANÒ 2019, p. 493) non implica una automatica coincidenza dei fini delle garanzie predisposte dai rispettivi ordinamenti. Nel sistema sovranazionale, l’individuo emerge tradizionalmente come fattore di produzione (in primo luogo, con le quattro libertà fondamentali), funzionalizzato agli obiettivi mercantilistici della costruzione europea. Nonostante talune situazioni soggettive abbiano progressivamente svolto, in alcuni ambiti, una funzione promozionale (si pensi, ad esempio, ai diritti antidiscriminatori nei rapporti di lavoro o alle prerogative connesse alla cittadinanza europea, M. BARBERA 2014, p. 391) i diritti dell’individuo sono fortemente embricati con la vis espansiva del diritto UE. In un simile contesto, l’Unione europea, che agisce essenzialmente come soggetto regolatore (MAJONE 1994), riversa sugli Stati membri il compito di correggere le esternalità negative che derivano dal mercato comune, richiedendo la correzione delle politiche sociali o la parità di trattamento sul mercato del lavoro a prescindere dalle peculiarità delle singole realtà nazionali.
Nell’ordinamento interno, invece, ad essere tutelato è l’homo politicus nel senso etimologico del termine, la persona nei rapporti concreti e nelle sue diverse proiezioni sociali (il cittadino; il lavoratore; la donna lavoratrice; la madre; il figlio; lo studente, etc.). Proprio la contestualizzazione della persona nella vita comunitaria richiede l’adempimento di specifici doveri di solidarietà o la concretizzazione di interessi pubblici da positivizzare attraverso la mediazione democratica del legislatore. I diritti garantiti dalle Costituzioni nazionali non implicano, dunque, un automatico inveramento o una meccanica applicazione, perché la loro realizzazione è aperta a plurime possibilità di bilanciamento reciproco e di ponderazione con altri interessi, in coerenza con l’indeterminatezza dei fini che caratterizza la politicità dello Stato costituzionale. Per tali ragioni il sistema costituzionale interno richiede di riportare il controllo di costituzionalità al centro della garanzia dei diritti, limitando gli elementi di diffusione amplificati dal diritto europeo. È, infatti, la particolare essenza dei diritti costituzionali che contribuisce a conferire al sindacato accentrato il rango di principio organizzativo fondamentale (principio supremo, nelle parole di CARDONE 2020, pp. 34 e ss): la tutela delle situazioni soggettive non può essere ridotta al frammento di valore sprigionato dal caso concreto – magari in funzione dell’egemonia dell’ordinamento sovranazionale sul diritto interno – ma è il risultato, storicamente situato, di un processo di unificazione politica legittimato dalla Costituzione (BABRERA 2017, p. 19). In tale dinamica, un ruolo fondamentale viene svolto dalle istituzioni democraticamente legittimate, chiamate a mediare tra le plurime istanze di riconoscimento emergenti nella società. La legge rappresenta la codificazione normativa di una sistemazione di interessi (soggettivi ed oggettivi, privati ma anche pubblici), ed è sulla pretesa incostituzionalità di tale assetto – anche alla luce del diritto europeo – che è chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale.
Per tali ragioni, il concetto del massimo standard di tutela desumibile dall’artt. 53 CDFUE, a tenore del quale «[n]essuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, […] e dalle costituzioni degli Stati membri» non coincide con il concetto di «massima espansione delle garanzie» enucleato dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. n. 309 del 2011, che «richiede il più ampio livello di tutela riferito (…) non già al singolo diritto, interesse o principio costituzionale singolarmente individuato, bensì all’insieme delle garanzie, derivante da una lettura sistematica, non frammentata di tutti i beni costituzionalmente rilevanti» (CARTABIA 2017, p. 14). La «massima espansione delle garanzie» rimanda perciò al ragionevole equilibrio del sistema normativo nel suo complesso (CARUSO 2018b, p. 1999), nel cui ambito trovano adeguata composizione le pretese uti singulus del cittadino e gli altri interessi che consentono l’esistenza stessa di una comunità politica edificata attorno e in vista della realizzazione dei valori costituzionali. Nell’ordinamento costituzionale i diritti sono a «somma zero», nel senso che «ogni progresso nella tutela di un diritto trova un suo contrappeso, provoca cioè la regressione della tutela di un altro diritto o di un altro interesse» (BIN 2018, p. 172). Tale assunto viene smentito nello spazio sovranazionale, ove l’esito del conflitto è tendenzialmente predeterminato e a “somma positiva”, favorevole al diritto fondamentale tutte le volte in cui sia necessario ribadire le finalità settoriali dell’ordine giuridico europeo o le sue tendenze espansive di fronte agli ordinamenti nazionali.
4. Dopo la sentenza n. 269 del 2017: la vis espansiva della «precisazione»…
Con la «precisazione», la Corte costituzionale ha abbandonato un criterio meramente formale di risoluzione delle antinomie, fondato sulla struttura normativa del precetto europeo, per accogliere un criterio sostanziale di compatibilità assiologica (RUGGERI 2017, p. 5). Non deve sorprendere, allora, il passo ulteriore compiuto dalla sentenza n. 20 del 2019, che ha ritenuto illegittimo l’obbligo di pubblicazione, gravante sul dirigente pubblico, dei dati reddituali del coniuge e dei parenti (entro il secondo grado) per violazione del principio di eguaglianza/ragionevolezza e di proporzionalità, riletti alla luce della protezione sovranazionale accordata al diritto alla privacy. In questo caso, venivano in considerazione gli articoli della CDFUE «in singolare connessione» con la normativa derivata (la direttiva 95/46/CE e il regolamento (UE) 2016/679, entrato in vigore in un momento successivo ai fatti di causa ma pure evocato dal rimettente). Tale pronuncia approfondisce le conseguenze della «precisazione» e ne affina i presupposti: l’attrazione al giudizio costituzionale non dipende dal rango formale della fonte, o dalla struttura della disposizione sovranazionale, ma dal contenuto materiale del parametro e dal tono costituzionale della questione. La normativa europea amplifica la forza gravitazionale dei principi e dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, generando una «gerarchia di contenuti» (SCACCIA 2020 sulla scorta dell’antico adagio di CRISAFULLI 1965, pp. 204 e ss.) che guida l’interprete nella risoluzione delle antinomie normative a prescindere dal tipo di atto sovranazionale in questione (per una diversa lettura della sent. n. 20 del 2019, GUASTAFERRO 2020).
La cognizione della Corte costituzionale entra in gioco, dunque, tutte le volte in cui vi sia un diritto fondamentale «a doppia tutela» (LEONE 2020), garantito dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti o da altra disposizione dell’Unione europea dall’analogo contenuto. La sentenza n. 19 del 2020 ha posto un ulteriore tassello in questo mosaico, confermando il radicamento del giudizio di costituzionalità in un caso coinvolgente la libertà di impresa ex art. 16 CDFUE e, soprattutto, la libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE, annoverata, per granitica giurisprudenza della Corte di giustizia, tra le norme ad effetto diretto. Ad avviso del Giudice delle leggi, «qualora sia lo stesso giudice comune, nell’ambito di un incidente di costituzionalità, a richiamare, come norme interposte, disposizioni dell’Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni», è necessario «fornire una risposta a tale questione con gli strumenti» propri del giudizio di costituzionalità, «tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione»[13].
Le pronunce appena citate aggiornano il breviario del giudice comune nella sua opera di risoluzione delle antinomie tra normativa europea e disciplina interna. Egli, infatti, dovrà rivolgersi alla Corte costituzionale qualora il precetto interno contrasti con una norma europea (a) non direttamente efficace o (b) self-executing ma relativa a diritti fondamentali «a doppia tutela». Infine, e in estrema ipotesi (c), la questione sarà attratta alla giurisdizione costituzionale qualora la legge di esecuzione dei trattatati consenta l’ingresso di una normativa sovranazionale lesiva dei controlimiti, e cioè dei principi fondamentali che conferiscono identità all’ordinamento costituzionale.
5. ...e i nodi da sciogliere: ordine delle pregiudiziali e disapplicazione successiva al rigetto della questione di costituzionalità
Rimangono, rispetto alla novità sub b), alcuni punti da chiarire, concernenti l’ordine delle questioni pregiudiziali (costituzionale e sovranazionale) e i margini di azione del giudice a quo nell’ipotesi di un rigetto della questione.
Quanto al primo profilo, il modello prefigurato dalla sent. n. 269 del 2017 ha assegnato la priorità al giudizio costituzionale. I contorni di simile precedenza sono stati però sfumati dapprima dal riferimento, contenuto nella sentenza n. 20 del 2019, alla «“prima parola” che [la] Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare» (corsivo aggiunto), poi dal richiamo, nelle successive decisioni, al «potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale» (sent. n. 63 del 2019, ma nello stesso senso ord. n. 117 del 2019).
Taluni indici positivi rinvenibili nell’ordinamento aiutano tuttavia a sistematizzare queste oscillazioni pretorie: l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 imposta la rimessione della questione di costituzionalità nei termini di un obbligo giuridico gravante sul giudice comune («l’autorità giurisdizionale (…) emette ordinanza (…)»); l’art. 267 TFUE prefigura, di contro, la pregiudizialità sovranazionale quale facoltà del giudice nazionale («l’organo giurisdizionale può (…) domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione»). Il rinvio pregiudiziale ha però natura ancipite, tramutandosi in obbligo nel caso in cui provenga dall’autorità giurisdizionale «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno». Sembra prefigurarsi dunque una diversa relazione di precedenza a seconda che la pregiudizialità si presenti davanti alle corti inferiori o al giudice di ultima istanza. Le prime sono tenute a dare priorità alla pregiudiziale costituzionale: nel caso ciò non avvenga, e qualora dall’inversione dell’ordine delle pregiudiziali derivino conseguenze giuridicamente rilevanti per la controversia principale, il provvedimento che chiude il giudizio potrebbe risultare affetto da un vizio in procedendo sindacabile in sede di legittimità[14].
Il giudice di ultima istanza è invece soggetto a un duplice obbligo, derivante dal combinato disposto dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 e dall’art. 267 TFUE. In queste ipotesi, può prospettarsi un triplice scenario: rinvio alla Corte di giustizia e, solo a seguito della sua risposta, eventuale rimessione alla Corte costituzionale; simultanea prospettazione della questione di legittimità costituzionale e della pregiudiziale sovranazionale; rimessione prioritaria della questione di costituzionalità, subordinando il rinvio ai giudici di Lussemburgo all’esito della questione di costituzionalità.
Di fronte al giudice di ultima istanza, dunque, pare prospettarsi un concorso “libero” di questioni pregiudiziali, consentendo, almeno in astratto, all’autorità giurisdizionale di scegliere la via da percorrere sulla base delle policies di volta in volta seguite dal collegio. A uno sguardo più attento, tuttavia, il concorso libero di pregiudiziali è più apparente che reale: e questo non tanto per il preteso carattere vincolante dell’obiter dictum (pur problematicamente, MASSA 2019, p. 20) – al quale non potrebbe essere riconosciuta alcuna doverosità formale, stante la diversità dei circuiti in cui Corte costituzionale e giudici comuni si trovano ad operare – quanto per un generale criterio di opportunità istituzionale desumibile dalle profonde ragioni ordinamentali che assistono la «precisazione».
In primo luogo, non è auspicabile che i giudici di ultima di istanza si affidino a una pregiudizialità “contestuale”: simile soluzione ingenererebbe incertezza negli operatori e nelle stesse Corti destinatarie del rinvio, portate a pronunciarsi senza conoscere le reciproche posizioni. Verrebbe così pregiudicata la possibilità stessa del dialogo giurisdizionale e, dunque quel «quadro di costruttiva e leale cooperazione» (sent. n. 269 del 2017) che caratterizza i due sistemi – distinti ma altamente integrati – di garanzia dei diritti fondamentali. D’altronde, la precedenza alla pregiudiziale europea sarebbe in fondo contraddittoria rispetto alle premesse monistiche che la giustificano, poiché ometterebbe di considerare la particolare forza della pronuncia di incostituzionalità: solo quest’ultima, infatti, rimuove, con effetti erga omnes, la diposizione legislativa, garantendo al massimo grado sia la tutela dei diritti fondamentali sia la primazia del diritto sovranazionale (VIGANÒ 2019, p. 488). Peraltro, come sostenuto supra, la rimessione prioritaria della questione di legittimità costituzionale eviterebbe il ricorso ai controlimiti nel caso di divergenze interpretative sul contenuto dei principi fondamentali, immettendo i contenuti della tradizione costituzionale interna nel confronto con i giudici di Lussemburgo.
La priorità della questione di costituzionalità, ancorché non possa dirsi imposta dall’ordinamento, deve dunque essere assicurata in virtù di un criterio di preferenza funzionale, che conduce l’interprete ad optare per la soluzione che, in coerenza con i presupposti ordinamentali della sent. n. 269 del 2017, consenta di massimizzare gli effetti del principio di diritto ivi enunciato.
Sono poi tutti da esplorare i margini che residuano al giudice comune nel caso in cui la Corte costituzionale rigetti la questione di costituzionalità, non rilevando alcun contrasto con l’ordinamento sovranazionale. È un’ipotesi che fino ad adesso non si è mai avuta perché, ad oggi, la Corte costituzionale ha optato ora per l’illegittimità della norma (sentt. n. 20 e 63 del 2019), ora per una resecazione interpretativa della disposizione censurata, sterilizzandone il contrasto con il diritto UE (sent. n. 19 del 2020).
Non può escludersi, tuttavia, l’eventualità di un rigetto possa concretizzarsi nel prossimo futuro. La sentenza n. 269 del 2017 ha riconosciuto il potere al giudice comune di «disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione». Il riferimento agli ulteriori profili di contrasto che legittimerebbero, secondo la «precisazione», la paralisi di efficacia della norma interna è stato rinnegato dalle pronunce successive, ove la disapplicazione ha assunto i crismi della doverosità: è stato infatti ribadito il «dovere (…) di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta» (ord. n. 117 del 2019). Tale rimeditazione riallinea l’orientamento della Corte costituzionale alle note pronunce della Corte di Giustizia Melki e Abdeli e A contro B e altri, le quali, pure ammettendo la precedenza della questione di costituzionalità (salvo il necessario coinvolgimento dei Giudici di Lussemburgo, anche al termine del procedimento incidentale), hanno sempre ribadito l’esigenza di consentire la disapplicazione, al termine del giudizio di costituzionalità, della norma interna contrastante con il diritto dell’Unione.
Nonostante la riaffermazione del principio, è però difficile immaginare che il giudice comune possa, magari contando sulla sponda della Corte di giustizia, disapplicare la norma interna per gli identici profili esaminati dalla Corte costituzionale, allontanandosi dal principio di diritto ivi enunciato (e, forse, ponendosi in conflitto con il giudicato costituzionale). Il giudice comune dovrebbe concepire la disapplicazione quale extrema ratio, ricorrendovi (laddove non abbia già provveduto in questo senso il Giudice delle leggi) solo a seguito del coinvolgimento della Corte di giustizia e, tentando, per quanto possibile, di evidenziare profili di contrasto diversi o quanto meno non limitati alla presunta incompatibilità con la Carta dei diritti. In fondo, come affermato dagli stessi Giudici di Lussemburgo in Melki e A e B, se il valore da tutelare attraverso la verifica di compatibilità sovranazionale è la primazia del diritto dell’Unione, gli strumenti ermeneutici per raggiungere tale obiettivo sono molteplici, e non necessariamente risiedono nelle virtualità espansive dei diritti riconosciuti nella Carta di Nizza.
*Il presente scritto è in corso di pubblicazione in C. Caruso, F. Medico, A. Morrone (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
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[1] Corte giust., C-106/77, Simmenthal, 9 marzo 1978.
[2] Corte giust., C-105/14, Taricco, 8 settembre 2015.
[3] Corte giust., C-144/04, Mangold, 22 novembre 2005.
[4] Corte giust., C-617/10, Hans Åkerberg Fransson, 7 maggio 2013.
[5] Corte giust., C-555/07, Kücükdeveci, 19 gennaio 2010.
[6] Corte giust., C-569/16, Bauer, 6 novembre 2018.
[7] Corte giust., C-684/16, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV, 6 novembre 2018.
[8] Così espressamente, l’ord. n. 117 del 2019. Per un recente caso di rinvio pregiudiziale interpretativo, cfr. anche ord. n. 182 del 2020.
[9] Così l’ord. n. n. 117 del 2019, ove gli artt. 47-48 CDFUE, evocati a mo’ di parametro, coincidono con il diritto al silenzio «appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana che caratterizzano l’identità costituzionale italiana».
[10] Emblematica l’ord. n. 117 del 2019, ove per la prima volta nella sua storia, la Corte costituzionale rimette alla Corte di giustizia questione di validità delle norme sovranazionali che sanzionano il diritto al silenzio nei procedimenti CONSOB che portano a sanzioni sostanzialmente punitive.
[11] Corte giust., C-188 e 189/10, Melki e Abdeli, 22 giugno 2010.
[12] Corte giust., C-112/13, A c. B e altri, 11 settembre 2014.
[13] PADULA 2020, pp. 605 e ss. ascrive a questo filone anche la sentenza n. 44 del 2020, che ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., una legge veneta che prevedeva, come condizione di accesso all’edilizia residenziale pubblica, la residenza ultraquinquennale sul territorio regionale. Nonostante il rimettente avesse evocato anche la violazione dell’art. 11, par. 1, lett. f) della direttiva 2003/109/CE (che riconosce il diritto del soggiornante di lungo periodo alla parità di trattamento nelle procedure di assegnazione degli alloggi), la Corte costituzionale ha ritenuto assorbita la censura relativa al parametro sovranazionale. In assenza di una esplicita presa di posizione del Giudice delle leggi sul punto, pare però difficile inserire la pronuncia nel solco tracciato dalle sent. n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019.
[14] Non sono perciò condivisibili le scelte compiute dal Tribunale di Milano e dalla Corte di appello di Napoli, che si sono rivolte prioritariamente alla Corte di giustizia in relazione alla disciplina, recata dal Jobs act, dei licenziamenti collettivi illegittimi (la Corte partenopea ha addirittura sollevato contestualmente promosso questione di legittimità costituzionale e rinvio pregiudiziale). Peraltro, la Corte di giustizia (C-32/20) si è detta manifestamente incompetente a conoscere della questione sottopostale, ritenendo che i diritti CDFUE richiamati nel caso di specie si ponessero al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, non avendo alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale. In tal senso, l’evocazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, non è stata ritenuta sufficiente a fondare una competenza dell’Unione europea in materia.