ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Per la chiarezza di idee in tema di creazione giudiziale di diritto e ruolo della giurisprudenza nel tempo presente (Riflessioni al confine tra filosofia del diritto, diritto comparato e diritto processuale civile)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario: 1. Introduzione. Il ruolo crescente della giurisprudenza come “tendenza fondamentale del nostro tempo” – 2. Centralità del giudizio – 3. Lo sguardo giusrealista sul diritto (un punto in comune tra positivismo giuridico e neocostituzionalismo?) - 4. Qualche esercizio dell’ars distinguendi – 5. Creare o interpretare? (Creazione in senso forte e in senso debole) – 5.1. Sull’esistenza delle lacune nell’ordinamento - 5.2. (Segue) Il giudice di fronte al diritto ingiusto. Ingiustizia soggettiva… - 5.3. … E ingiustizia oggettiva. – 5.3.1. Due esempi processualcivilistici - 6. Creare o “inventare”? Il giudice come “bocca della legge” o come “oracolo del diritto” - 7. Creazione di diritto e giurisprudenza. Gli orientamenti consolidati come fonte del diritto – 8. Conclusioni (con una meditazione di Piero Calamandrei).
1. Introduzione. Il ruolo crescente della giurisprudenza come “tendenza fondamentale del nostro tempo”
Discorrere di creazione giudiziale di diritto e, più in generale, del ruolo crescente della giurisprudenza nell’epoca attuale significa porre il problema fondamentale del rapporto tra il giudice e la legge; un terreno sconfinato, oggetto di reazioni e valutazioni (normative, politico-ideologiche, a volte anche viziate da qualche pregiudizio) quanto più divergenti si possa immaginare.
Detrattori e fautori pari in autorevolezza si contendono l’insidioso campo con argomentazioni che, da entrambi i lati, hanno del buono. Per un verso, l’esigenza di garantire la piena effettività della tutela dei diritti, la quale, per definizione, non può non coinvolgere l’interprete a tutto tondo; per l’altro, quella di rispettare la separazione dei poteri, caposaldo della rule of law nelle democrazie liberali, e il principio di legalità, incarnato nella formula della “soggezione del giudice soltanto alla legge”, come afferma il nostro art. 101 della Costituzione. Da un lato, la necessità di giudicare, di ius dicere, in un mondo che è plurale e disomogeneo, il che richiede che si tenga conto delle infinite sfaccettature, dei connotati specifici, delle unicità irripetibili delle vicende concrete; dall’altro il bisogno di proteggere la certezza del diritto (composto da regole tendenzialmente universali, generali e astratte), di garantire il trattamento uguale di situazioni uguali e di allontanare, in definitiva, i pericoli di arbitrio[1].
Insomma, in gioco si agitano i principi cardine del nostro vivere giuridico, i quali - com’è d’altro canto nella natura stessa dei principi - si pongono spesso in contrasto, in conflitto, in opposizione tra di loro.
Innanzitutto, partiamo dalla realtà.
Oggi è sotto gli occhi di tutti che in quasi tutti i paesi del mondo il rapporto tra giudice e legge vede, in forma radicale, la preponderanza del primo rispetto alla seconda. Questo è innanzitutto un fatto sociale indiscusso, incontrovertibile, che non può essere negato. Il «formante giurisprudenziale» – per usare la fortunata categoria coniata da Rodolfo Sacco[2] – siede incontrastato sul trono, a tutto discapito sia del «formante legale», che versa oramai da tempo in una crisi profonda e pressoché irreversibile, sia, direi, anche del «formate dottrinale», sempre più remissivo, sempre più costretto a “inseguire” le più importanti decisioni delle corti[3]. Molto banalmente: non c’è settore dell’ordinamento che si possa dire di conoscere, nemmeno superficialmente, se non se ne conoscono anche le pronunce più significative che ne caratterizzano il divenire.
Si dice quindi che la preminenza spetta allo ius in fieri (ossia al diritto interpretato e applicato, nel divenire, nella sua puntualizzazione e concretizzazione materiale sempre differente) e non più allo ius positum (cioè al diritto nel suo aspetto di comando statico, astratto, cartaceo)[4]. Contrapposizione, peraltro, che se presa nel senso letterale, risulta fuorviante, dato che anche il diritto che promana dai giudici è pienamente diritto positivo, essendo pur sempre “posto” (o meglio, “fatto”) da chi è dotato di autorità per porlo. In ogni caso, questa dualità veicola bene l’idea per la quale tutto con-verge sull’attività dinamica degli interpreti, e specialmente degli interpreti per eccellenza, ossia le corti. È la “tendenza fondamentale” che caratterizza il nostro tempo.
2. Centralità del giudizio
Un grandissimo processualista, Nicola Picardi, ha parlato di «vocazione» del nostro tempo per la giurisdizione, a indicare che l’attività dei giudici si situa al centro della nostra esperienza[5]. E come non essere d’accordo. Il giudizio è chiamato costantemente a mediare tra termini di antinomie, di opposizioni: astratto e concreto, universale e particolare, giustizia e certezza, diritto e giustizia.
Nell’epoca attuale il giudice è al centro di un reticolo. La rete, d’altronde - secondo la fortunata immagine del filosofo del diritto belga François Ost - è la metafora più accreditata per descrivere ora l’attuale assetto delle fonti del diritto[6]. Non più un modello ordinato gerarchicamente, a gradini, ma una pluralità di nodi a intensità variabili. Eccone alcuni, in rassegna velocissima e insufficiente, che meriterebbero ciascuno un’ampia considerazione. In primo luogo i principi, quelli generali, quelli supremi, quelli impliciti o implicati, quelli non detti oppure positivizzati nelle carte sovranazionali e nella Costituzione, quelli da sempre immanenti nel sistema e quelli nuovi, in ogni caso «molteplici, confliggenti, incommensurabili, indeterminati»[7]. Poi il diritto internazionale, quello europeo, quello transnazionale, con le sue proprie categorie, le sue proprie nozioni, i suoi concetti indipendenti dalle secolari elaborazioni nazionali. Poi la legge, sempre più alluvionale e quindi incoerente, opaca, settoriale, temporanea, dettata dai momenti[8]. Poi le decisioni e la giurisprudenza delle Corti sovranazionali (in questa parte di mondo: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), quella della Corte costituzionale, gli orientamenti consolidati delle Corti supreme e persino quelli di certe corti di merito, tutte in “dialogo discorde” tra di loro[9]. Ancora, le prassi degli operatori economici, la lex mercatoria, le convenzioni e gli usi propri di certi settori. Infine le consolidazioni di soft law, i tentativi più o meno ufficiali di armonizzazione e di uniformizzazione delle regole di certi contesti. E non va dimenticato infine il peso della dottrina, il Juristenrecht, l’auctoritas dei professori di diritto, in grado – talvolta - di condizionare il dibattito su pronunce importantissime[10].
Il panorama è così complesso da far tremare i polsi. Davanti a un tale disordine è facile abbandonarsi allo smarrimento, e ci si domanda come sia ancora possibile giudicare.
A chi giudica si chiede – giustamente – di “tenere insieme” tutto. Ma in che modo orientarsi? Quale atteggiamento possibile?
Giuseppe Zaccaria ha utilizzato a questo proposito l’espressione « obbedienza pensante » (denkender Gehorsam) del giudice[11]. Questa, lungi dal rappresentare un ossimoro, indica in modo volutamente paradossale quella compenetrazione arricchente e reciproca influenza, bilanciata e ragionata, tra fedeltà alla legge e alle fonti (che non può certo essere cieca, testarda, ottusa, indifferente) e umana sensibilità per le conseguenze, desiderio di giustizia, attaccamento ai valori dell’ordinamento, coscienziosa ragionevolezza, partecipata consapevolezza delle ricadute pratiche delle decisioni. Vi è un mutuo potenziamento dei due termini, che solo così, in questa dialettica circolare, sono in grado di sprigionare la loro forza giuspoietica: l’obbedienza non può che essere pensante e il pensiero non può che essere obbediente.
3. Lo sguardo giusrealista sul diritto (un terreno in comune tra positivismo e neocostituzionalismo?)
In questa tendenza fondamentale di cui ho parlato si vedono chiarissimi alcuni tratti di quella che è stata chiamata la “postmodernità giuridica”[12].
Jean-François Lyotard, che ha introdotto il concetto di “postmoderno”, descriveva al termine degli anni Settanta la fine dei grands récits, delle grandi narrazioni sociali, quelle scritte con la lettera maiuscola: la Storia, il Progresso, la Verità[13]. Il Postmoderno indicava il brusco risveglio da una beata ingenuità, la fredda disillusione e presa di distacco da una realtà che pareva piena di certezze, e che invece non lo era (o comunque che non lo sarebbe più stata). Similmente, la postmodernità giuridica è quella condizione nella quale si sono dissolti i grandi miti del diritto, anch’essi scritti con la lettera maiuscola: l’Onnipotenza della Legge, (il “Legicentrismo”), la Statualità del diritto, la sacralità del Codice, la figura del Giudice-bouche-de-la-loi, il Sillogismo Giudiziale, l’Interpretazione come attività cognitiva, e via dicendo[14]. Sgretolati, o meglio, decostruiti (nel senso di smascherati, demistificati) i pilastri portanti di quel paradigma, non resterebbe ora che prenderne atto e “aggrapparsi” alla funzione ordinante, unificante del giudice e del giudizio. Sepolto il diritto come pura logica, non resta che guardare ad esso in termini di esperienza vissuta, con la sua inesauribile ricchezza allergica al formalismo. Nulla di nuovo, sembra: proprio questo era il messaggio dell’antico e attualissimo motto che ha letteralmente dato vita al movimento del Realismo Giuridico Americano: «the life of the law has not been logic: it has been experience»[15].
Ora, non c’è dubbio che il postmodernismo giuridico sia legato, di certo storicamente, al (neo)costituzionalismo[16]. A prescindere dai giudizi, la proliferazione dei principi etico-costituzionali e il loro ruolo pervasivo nei ragionamenti dei giudici, sia costituzionali sia comuni, ha fatto sì che le corti fossero chiamate a essere, o si percepissero come, le artefici della promozione e dell’avanzamento dei diritti.
Ma il discorso che tento qui di fare è più ampio e - se vogliamo - meno preciso. Esso non vuole parteggiare con una dottrina, con una visione del diritto, ma si richiama a un atteggiamento più generale, una forma di concepire e di conoscere il diritto, un clima potremmo dire, che è condiviso e attuale nel nostro tempo. Ecco perché non credo di sbagliarmi se affermo, con la dovuta cautela e un briciolo di circospezione, che sia possibile scorgere un terreno in comune, un punto di convergenza tra il neocostituzionalismo e il positivismo giuridico (o meglio, certe sue correnti odierne)[17].
Non è questa la sede per entrare nell’acceso e polemico dibattito. Queste due visioni del mondo sono in effetti in disaccordo su moltissime questioni (una su tutte: il cognitivismo dei valori); ma credo che condividano, in generale, uno sguardo realista sul diritto. Con questa espressione intendo, in modo generico, l’assunto (ontologico) che il diritto è ciò che succede, innanzitutto nelle corti (ma non solo, anche nella università) e l’assunto (epistemologico) che conoscere il diritto significa conoscere il congiunto di significati che esso assume per opera di chi lo interpreta (e di nuovo, non solo i giudici, ma anche la dottrina)[18].
Entrambi gli schieramenti – almeno in certe loro versioni – attribuiscono infatti centralità allo studio e alla conoscenza del “diritto vivente”. L’espressione “diritto vivente” reca in sé, per contrapposizione, l’idea che vi sia quindi un diritto non vivo, inerte. Essa ha quindi una indubbia, anche se sottile, connotazione valoriale; una nascosta, ma pur sempre presente, valenza positiva: e cioè che la vita del diritto sta nel suo essere continuamente interpretato, creato, o trovato dai giudici certo, ma anche più in generale dalla comunità dei giuristi tutta insieme[19].
Questo lo sguardo: il diritto non è uno stato, ma un’opera in perenne formazione; è azione, è qualcosa di costruito man mano, è ogni giorno differente, si forma e si tras-forma continuamente. Questo perché prima delle regole ci sono i fatti della vita; e la parola (cioè il concetto che imprigiona, recinta, regola) è sempre un dopo, mai un prima. Di nuovo riecheggia un’altra celebre formula del Realismo Giuridico Americano: « Before rules, were facts; in the beginning was not a Word but a Doing »[20]. Sono gli eventi degli uomini che hanno la priorità, che producono il diritto, e di ciò è essenziale tenerne conto. In questo orizzonte condiviso il diritto è esso stesso un fatto (o meglio, un farsi); anzi è un arte-fatto, cioè non è né un dato né un dono – ed è solo in questo che si misura la vera differenza con il giusnaturalismo propriamente detto.
4. Qualche esercizio dell’ars distinguendi
Quali caratteri precisi abbia questa tendenza fondamentale non è sempre chiaro; e difatti fino ad ora ho usato volutamente le espressioni a-tecniche e generali di “accresciuto ruolo delle corti”, di “supremazia del formante giurisprudenziale”, “centralità del giudizio”, “importanza del diritto vivente” per raggruppare sotto un medesimo ombrello differenti manifestazioni che vedono tutte la primauté del momento applicativo del diritto su quello statico-letterale.
Poiché però il primo compito, l’unico imperativo categorico dello studioso è quello di provare a “verderci chiaro” sempre, sarà utile distinguere analiticamente differenti fenomenologie. L’analisi verrà quindi condotta considerando tre coppie di concetti in contiguità/opposizione tra di loro: (a) creazione e interpretazione (con i problemi collegati della costruzione delle lacune e l’atteggiamento di fronte al diritto ingiusto); (b) creazione e invenzione (e le due grandi immagini del giudice della Tradizione Giuridica Occidentale, contrapposte tra loro, come bouche de la loi o come oracle of the law); e (c) creazione e giurisprudenza come vera e propria fonte del diritto.
Due specificazioni: la prima è che tratterò del fenomeno con esclusivo riferimento ai giudici comuni. Mi sembra difatti essenziale distinguere tra l’attività creatrice delle corti costituzionali, o esercenti anche funzioni costituzionali (come nel caso della US Supreme Court) e quella dei giudici comuni, non solo appartenenti alle corti di vertice ma anche, con sempre maggior peso ed efficacia, a quelle di merito. Nonostante dal punto di vista strettamente concettuale le due attività di per sé non siano poi così diverse - l’interpretazione è un fenomeno che può e deve essere studiato nella sua unitarietà - lo sono dal punto di vista politico-istituzionale. Per le Corti costituzionali, infatti, creare di diritto appare, per così dire, più fisiologico e naturale, stante la loro particolarissima posizione all’interno dell’architettura, in delicato bilico tra diritto e politica. La Corte costituzionale non appartiene all’ordine giudiziario, né la sua attività è qualificabile come giurisdizionale. Per le corti comuni, invece, il rapporto con la legge si pone in termini radicalmente differenti.
La seconda è che le brevi considerazioni che seguono si riferiranno (quando non generali) al solo diritto civile, ben consapevole però che analoghe traiettorie si sono verificate anche nell’ambito della legalità penale, con effetti ancora più rivoluzionari[21].
5. Creare o interpretare? (Creazione in senso forte e in senso debole)
Nei dibattiti di teoria generale dell’interpretazione si afferma – rigorosamente - che il giudice crea diritto ogni qual volta il contenuto della norma (intesa quest’ultima, altrettanto rigorosamente, come il prodotto finale dell’interpretazione) che egli applica (a) non sia identico a quello di altra appartenente allo stesso ordinamento, (b) né ne sia conseguenza logica[22]. La norma insomma è nuova quando non riproduce il contenuto, né espresso né implicito, di nessun’altra. Il giudice – se vogliamo, con altro linguaggio – crea una “norma inespressa”, quando questa non è “ragionevolmente riconducibile” a nessun significato di un altro enunciato normativo[23].
Queste definizioni, che in fondo, coincidono, aprono una miriade di problemi definitori. Cosa debba intendersi per “conseguenza logica”, o quale possa essere il “contenuto implicito” di una norma, o quali siano i significati “ragionevolmente riconducibili” a un enunciato sono tutte questioni che è difficile riuscir a specificare ulteriormente.
In ogni caso, il giudice può creare una nuova norma attraverso due percorsi differenti. Può farlo direttamente, cioè introducendola ex novo, per es., in via analogica o ricavandola da uno o più princìpi (creazione in senso forte) oppure indirettamente, cioè interpretando - o potremmo dire estendendo o restringendo - così tanto (i significati di) una disposizione già esistente da rendere la norma finale diversa da quelle che il testo iniziale poteva esprimere[24]. Cioè interpretando troppo, il giudice finisce per creare (creazione in senso debole). In entrambi i casi diremo però che quella norma, prima dell’intervento del giudice, non c’era.
Molti filosofi del diritto in effetti distinguono tra creazione di nuovo diritto e mera interpretazione (o “estensione”) di concetti che sono già presenti in enunciati normativi: e sono perfettamente d’accordo che questo confine è importante che ci sia[25]. Ma dove si situa la linea di demarcazione? Dov’è che lo ius dicere diventa ius facere?[26] L’avvertenza è che il discrimine è assai sottile, e forse si tratta solo di una questione di grado.
Questa ambiguità succede per una ragione molto semplice e, se vogliamo, banale; e cioè che le parole del linguaggio giuridico sono connotate da vaghezza, nozione studiatissima tra i filosofi del diritto di indirizzo analitico, specialmente in area anglosassone[27]. Vaghezza significa, tecnicamente, che vi sono casi limite, borderline, cioè non si sa con precisione dove il concetto termina, finisce. E si badi bene che questa è una caratteristica del linguaggio naturale, del quale quello giuridico è nient’altro che una sottocategoria, e quindi intrinsecamente ineliminabile, anche qualora si volesse ridurre al minimo l’uso di clausole generali (ma ciò, probabilmente, aprirebbe altri problemi[28]).
Non riporto qui il già notissimo esempio di H.L.A. Hart, apparso per la prima volta nel suo saggio Positivism and the Separation of Law and Morals, circa il cartello recante il divieto di ingresso di “veicoli” nel parco[29]; e mi chiedo solo: se un giudice condannasse il guidatore di un’auto per essere entrato nel parco, nessuno dubiterebbe che egli, così facendo, non ha creato diritto. Ma che dire se egli condannasse chi è entrato con uno skateboard? Diremmo semplicemente che è stato esteso il concetto di “veicolo” o piuttosto che è stata creata (illegittimamente?) una nuova norma che prima non esisteva (e che vieta l’ingresso degli skateboard nel parco)?
5.1. (Segue). Sull’esistenza delle lacune nell’ordinamento
È appena il caso di notare che vi è almeno un caso in cui l’attività creatrice di nuovo diritto da parte del giudice non solo è del tutto legittima, ma anzi è logicamente e concettualmente necessaria, obbligata: ogniqualvolta la fattispecie concreta portata all’attenzione della corte non sia disciplinata da nessuna norma, e cioè in caso di lacuna (normativa)[30]. Siccome in tutti gli ordinamenti contemporanei vige il divieto di non liquet, cioè il dovere per il giudice di decidere, ecco che egli sarà obbligato a creare (o inventare che dir si voglia, v. infra) la regola iuris generale da applicare, seppur con efficacia circoscritta al caso di specie. Naturalmente – e va detto con forza - il giudice non è affatto libero nella creazione di questa norma. Egli non è mai libero (v. infra, par. seg.) e quindi non lo è nemmeno in questa ipotesi; dal punto di vista pragmatico, ogni ordinamento risolve questo problema nel modo che ritiene più opportuno[31].
Ma è così semplice affermare che un caso non è disciplinato da nessuna norma?
Kelsen, per es., negava che una simile ipotesi potesse darsi, affermando la esaustività dei sistemi normativi. Egli postulava l’esistenza di una norma generale esclusiva, di chiusura, un “principio generale di libertà” per il quale “tutto ciò che non è vietato è permesso”. Così facendo, nessun caso della vita sarebbe sfuggito alle maglie del diritto. Il sistema fornirebbe sempre (almeno) una risposta per ogni caso: se un fatto non è disciplinato, esso significa che è permesso: ed è appunto in questo che risiederebbe la sua disciplina, seppur soltanto in negativo[32].
Ma le cose – almeno nell’ambito civile - non stanno affatto così: nei fatti, la pressione delle istanze sociali costringe il giudice a dover esercitare la propria discrezionalità per dare giustizia attraverso il diritto, qualora il legislatore non abbia provveduto - per sprovvedutezza, incapacità, mancanza di volontà, o altro – a disciplinare una certa ipotesi che sia percepita come rilevante, cioè giuridicamente significativa. Si pensi, solo per fare un esempio conosciutissimo nel dibattito italiano, alla vicenda “Englaro” e in particolare alla decisione della Corte di Cassazione 21748 del 4 ottobre 2007 sui presupposti per la sospensione delle cure vitali, intervenuta in una situazione di silenzio legislativo sul delicato punto, e ritenuta «il paradigma di un modo di argomentare del giudice che guarda al diritto […] e che riempie le lacune attraverso la centralizzazione dei principi»[33].
In questi casi, il giudizio su cosa sia rilevante socialmente, e cosa no, e quindi cosa meriti di essere disciplinato con precisione da una norma astratta, è questione ulteriore sulla quale si esercita la discrezionalità del giudice, e la conclusione può ben essere controvertibile.
Ciò ci porta a capire come l’esistenza di una lacuna normativa è quasi sempre (non mi spingo a sostenere sempre) anche una questione valutativa, e non puramente descrittiva. Quello che voglio dire è che è assai raro che il giudice si trovi a prendere semplicemente atto di un vuoto normativo, e a riempirlo, ma sarà piuttosto egli stesso che, prima di tutto, lo costruisce, interpretando, valutando in una certa maniera le disposizioni che sarebbero applicabili. Il giudice raramente dirà che un caso manca obiettivamente di una soluzione astratta, ma bensì che il legislatore non ha tenuto conto di una distinzione che – se avesse invece considerato – lo avrebbe portato a legiferare diversamente[34]. Quello che manca, insomma, non è una norma, ma una norma giusta.
Intendiamoci; non immaginiamo che il giudice faccia questo per capriccio o arbitrio, o gratuito protagonismo, ma che la sua opzione valutativa sia fondata alla luce di considerazioni valoriali più generali. Ecco perché si dice, in questo caso, che la lacuna è assiologica, perché si fonda su opzioni di valore, comunque le si intenda[35].
Si pensi, solo per fare un esempio, alle varie, molteplici e proliferanti categorie di abuso del diritto (ora anche abuso del processo) che non trovano, o non trovavano, precisi corrispettivi legislativi. Esse si radicano in un’argomentazione di questa tipo: le norme che prevedono un dato comportamento come lecito “mancano” di regolarne l’abuso; poiché questo è percepito come giuridicamente rilevante perché assiologicamente negativo, il giudice deve integrarle; non può accettare passivamente che di un diritto si possa abusare[36].
Questo esercizio di creazione giudiziale è lungi dall’essere qualcosa di negativo, come pure sono portati a credere coloro che vedono in questa prassi una ferita al principio di legalità formalisticamente inteso. I valori, infatti, non possono esser considerati estranei all’attività giurisdizionale, né materia di esclusiva competenza del solo legislatore o della sola Corte costituzionale; essi informano l’intero ordinamento, e quindi anche l’operato del singolo giudice. Non vi è un monopolio di chi sia chiamato a prendersi cura dei valori, ma tutti gli attori devono partecipare alla loro concretizzazione, seppur in forme differenti.
5.2. (Segue). Il giudice di fronte al diritto ingiusto. Ingiustizia “soggettiva”…
Rimaniamo ancora per un attimo al piano delle valutazioni, al piano cioè non di ciò che è, ma a quello di ciò che è bene che sia, e chiediamoci: è sempre, oppure mai, legittima quest’ultima attività di creazione di una lacuna? Che cosa la muove? Abbiamo detto il pensiero, la credenza, che il diritto non sia soddisfacente o giusto nel caso di specie. Ma il giudice fino a che punto è autorizzato a porsi questa domanda?
Questo ultimo interrogativo ci porta a chiedere quale possa essere più in generale l’atteggiamento interpretativo del giudice (comune) di fronte al diritto ingiusto. Quesito tra i più filosoficamente ed eticamente problematici che nella sua essenza è di ordine valoriale e quindi, in ultima analisi, politico.
Bisogna ovviamente intendersi sull’aggettivo “ingiusto”. Anche qui distinguiamo.
Il quesito rimane interessantissimo anche nel caso in cui si intendesse ingiusto con “contrario alla propria coscienza” o “contrario al proprio senso di giustizia”: sarebbe troppo semplicistico predicarne l’assoluta irrilevanza. Possiamo affermare che in questo caso il giudice – finché rimane entro il recinto dell’attività interpretativa, senza sconfinare in una «violazione manifesta» del testo - potrebbe (legittimamente) interpretare la disposizione in maniera correttiva, di modo che la norma corrisponda, una volta applicata, al proprio desideratum, cioè al dettato della propria coscienza. Ma che dire se tale tipo di interpretazione non fosse possibile?
Guido Calabresi, giudice federale statunitense, nel suo libro sul Mestiere di giudice si chiede appunto come egli reagirebbe se fosse costretto dalla legge a condannare a morte un colpevole, e non ci fosse modo di evitarlo[37]. Si noti che la pena capitale è perfettamente costituzionale negli Stati Uniti; essa non si pone in contrasto con qualche principio supremo, espresso, inespresso o implicito che dir si voglia, e anzi è persino contemplata[38]; semplicemente è una pratica che non si allinea con la coscienza del giudice Calabresi, con la sua propria sensibilità morale personale. Questo è il punto drammatico di questa ipotesi: qui il richiamo ai “valori” dell’ordinamento, al “contenuto etico” della Costituzione, etc. non è di nessun aiuto. Mutatis mutandis, un problema simile si è posto anche in Italia, con riferimento alla possibilità per il giudice tutelare di negare l’autorizzazione all’aborto della minorenne, qualora non vi sia il consenso dei genitori; problema per il quale è seguito il rinvio alla Corte costituzionale circa la questione di costituzionalità della mancata previsione dell’obiezione di coscienza (poi dichiarata manifestamente inammissibile)[39]. Volgere lo sguardo alla Costituzione o ai valori immanenti non è di aiuto perché è la Costituzione, sono quei valori, che in ipotesi sono considerati ingiusti.
Innanzitutto Guido Calabresi prende atto – giusrealisticamente - della propria responsabilità personale come giudice e come persona. Non vale nascondersi dietro lo schermo del testo: è la sentenza che uccide, non la legge[40]. Risuonano le parole di Salvatore Satta, il processualista che ha pensato più a fondo il dramma del giudicare: «la legge è indubbiamente un dato che si impone al giudice, e del quale egli non può non tenere conto: ma non è più che un elemento […]. La realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo, ma il provvedimento giurisdizionale »[41]. E, altrove, aggiunge: « Oggi noi sappiamo che il giudice condanna ed assolve, non la legge »[42]. Se il giudice è potente, nel nostro mondo, e lo è, significa allora anche che è responsabile. Potenza e responsabilità non possono andar disgiunte. Guido Calabresi sembra lasciare la domanda aperta; egli valuta tutte le opzioni, compresa quella delle dimissioni, per poi però alla fine escluderle, dato che, se tutti facessero così, non rimarrebbe più nessuno “dentro al sistema” a sollevare voci critiche[43].
Più drastica sembra invece l’opzione del compianto filosofo del diritto di Oxford John Gardner. Egli – nel saggio The Virtue of Justice and the Character of the Law, contenuto in quel libro che è una miniera di intuizioni potentissime, Law as a Leap of Faith - afferma che nel caso in cui l’applicazione della legge risulti immorale («immoral») o ingiusta («unjust»), le corti in quanto organi di giustizia non possono arrendersi («surrender»). Esse devono o tentare di cambiare la norma, facendo quanto in loro potere (mediante le ben note tecniche del distinguishing o dell’overruling) o, ove ciò non fosse possibile, devono abbandonare questa via e decidere senza indugi per una conclusione che sia giusta per meriti suoi propri («just on its raw unruly merits»): o facendo ricorso all’Equity o, proprio al limite, anche alla disobbedienza civile[44]. Egli sembra quindi immaginarsi una attività che non sia né soffertamente “accettante” (qual è quella di prendere atto di ciò che la legge vuole, e sottomettervisi in nome del proprio compito) né puramente negativa (qual è quella delle dimissioni) ma bensì creativa, sostitutiva, reattiva. Con tutti i problemi, naturalmente, che possono sorgere. Egli infatti ammette che quest’ultima strada possa andare contro la «judicial obligation of fidelity to law», cioè all’obbligo di fedeltà al diritto; ma questo non deve stupire se si considera che, per John Gardner, compito del giudice è to dispense justice according to law, dove l’enfasi è messa sulla prima parte della frase (doing justice) più che sulla seconda (according to law)[45].
5.3. … e ingiustizia “oggettiva”
Se invece per “ingiusto” si intende “contrario ai principi etico-morali incorporati (positivizzati, quindi) a livello costituzionale o sovranazionale”, il problema appare meno drammatico. Il giudice - in Italia - deve per prima cosa chiedersi se quella disposizione può dar luogo a una, anche una sola, interpretazione giusta, nel senso di conforme al dettato costituzionale o sovranazionale. Egli ha in pratica un iniziale dovere di offrire una interpretazione “adeguatrice”, dovere a sua volta creato per via giurisprudenziale, cioè da orientamento consolidato della Corte costituzionale[46] (in deroga, o meglio, in aggiunta ai criteri interpretativi di cui all’art. 12 delle preleggi al c.c.). Non sono sconosciute, anzi, sentenze della Corte costituzionale che dichiarano inammissibile la questione di costituzionalità per “insufficiente sforzo interpretativo” del giudice a quo[47].
Solo in caso contrario egli deve sollevare la questione di costituzionalità davanti alla Corte costituzionale, quest’ultima sì dotata di un genuino e istituzionale potere di creare il diritto, al limite espellendo la disposizione di cui non è possibile fornire nemmeno una interpretazione costituzionale dall’ordinamento. Distruggere - a ben vedere – non è altro che un’altra forma del creare.
Ma il quesito essenziale (insolubile?) rimane e ritorna: fino a che punto una interpretazione costituzionalmente orientata del giudice comune può discostarsi dal significato convenzionale delle parole? Fino a dove deve spingersi questo “sforzo interpretativo”? Fino a che punto l’interpretazione del giudice deve, e quindi può, manipolare il testo?[48]
5.3.1. Due esempi processualcivilistici
I cultori del diritto processuale civile ricorderanno bene l’interpretazione eufemisticamente “costituzionalmente orientata”, ma di fatto contra legem, dell’art. 37 c.p.c. ad opera delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che ha limitato la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione al solo primo grado, con un elegante argomento, ma in evidente contrasto con il testo dell’articolo che afferma, senza ulteriori specificazioni, che detto difetto è rilevabile «in qualunque stato e grado del processo»[49]. Decisione che è poi divenuta orientamento[50], e che ha visto il legislatore conformarvisi, in sede di disciplina dell’analogo tema nel contesto del processo amministrativo (cfr. l’art. 9 D. Lgs. 104/2010) a conferma del potere “normativo” anche indiretto del formante giurisprudenziale[51].
O ancora, si ricorderà la rilettura, anch’essa abrogante, sempre da parte delle Sezioni Unite, dell’art. 269 c.p.c., laddove è stato stabilito che, se il convenuto chiede, pur nei termini, di chiamare in causa un terzo (che non sia litisconsorte necessario), la fissazione da parte del giudice dell’udienza per consentirne la costituzione è facoltativa, e non obbligatoria (anche qui nonostante il testo dica, perentoriamente, che il giudice istruttore “provvede […] a fissare la data”)[52]. Anche questa decisione è divenuta, poi, orientamento[53].
È indicativo il fatto che entrambe queste sentenze, due tra le più creative in assoluto nel contesto del diritto processuale civile, siano state motivate a partire dal principio “grimaldello”, dal principio passe-partout, del “giusto processo” e della sua “ragionevole durata”, ex art. 111 Cost[54]. Tanto grande è la forza di questo principio da poter limitare, anche contro le parole del testo, le regole[55].
Di nuovo, con insistenza: fino a che punto l’interpretazione “adeguatrice” rimane interpretazione e non sconfina in attività creatrice di nuovo diritto?
6. Creare o “inventare”? Il giudice come “bocca della legge” o come “oracolo del diritto”
Occorre ora precisare che l’attività creativa giudiziale è sui generis, nel senso che è del tutto differente dalla creazione del diritto del legislatore. Entrambi creano diritto, ma lo fanno in un modo, e con risultati, totalmente diversi.
Mentre infatti il legislatore è legittimato a valutare l’opportunità della disposizione che introduce da qualsiasi punto di vista (politico, morale, economico, etc.) e anzi, in caso limite, è persino libero di non valutare affatto, il giudice può creare norme solo e soltanto mediante ragionamenti giudiziali o tecniche interpretative, e cioè sempre e unicamente a partire da altro diritto. In astratto, il legislatore non deve motivare le proprie scelte, e quando le motiva, la motivazione non entra a far parte del testo della legge. La ragione della legge non ha essa stessa valore di legge. Il giudice, tutto al contrario, è sempre chiamato ad argomentare, a giustificare la propria decisione, a darle fondamento giuridico e solo e soltanto giuridico. La motivazione è parte essenziale della sentenza. Anzi, in questo tempo di preminenza del diritto giurisprudenziale, vediamo, almeno in Italia, il moltiplicarsi del numero di pagine dedicate, nelle motivazioni delle sentenze civili, ai ragionamenti in punto di diritto, specialmente nelle decisioni più risolutive della Corte di Cassazione, le quali assumono con sempre maggior frequenza le vesti quasi di un trattato, di un lungo saggio di dottrina, proprio a segnalare la loro ambizione a porsi come guida autorevole e convincente nel dire quale sia veramente il diritto. Qui possiamo davvero dire che non solo il “formante giurisprudenziale” ha scavalcato quello legislativo, ma anche quello dottrinale[56].
Se intendiamo quindi la parola “creare” come “creare ex nihilo”, dobbiamo concludere che il giudice non può mai creare diritto, mai, nemmeno negli ordinamenti di common law, dove il judge made law rappresenta il tratto distintivo. Anzi, là più che altrove si fa riferimento alla metafora, usata per es. da Ronald Dworkin, secondo la quale il diritto (e il diritto civile, segnatamente) è come un libro, scritto pagina dopo pagina da una molteplicità di autori differenti nello spazio e nel tempo, ma in continuità l’uno con l’altro[57]. Le pagine del libro, pur provenendo da diverse voci, devono parlare la stessa lingua, sviluppare la stessa storia, porsi in coerenza con il medesimo filo narrativo, essere in armonia con i principi che informano l’ordinamento; la pagina successiva deve continuare la pagina precedente, basarsi su di essa, fondarsi su essa. E così il diritto: una innovazione creatrice deve sempre riferirsi al percorso precedente, magari anche discostandosene, magari anche ponendosi in forte rottura con esso, ma sempre argomentando, ragionando con un vincolo verso il passato.
Il creare del giudice è quindi sempre – e non può non essere – anche un ricavare, e quindi un rinvenire, ed è precisamente l’enfasi su questa caratteristica che fa dire che il giudice non crea, bensì “inventa” il diritto, nel senso etimologico del verbo latino invenio, che significa “trovare” a partire da materiale dato[58].
Ma attenzione: la parola “inventare” (sempre nel senso di “trovare”) ha una forte connotazione non decisionistica e rischia di mettere in secondo piano, se non proprio di farci dimenticare del tutto, il ruolo, invero fortissimo, della volontà del giudice. Il vocabolo “trovare” pone fortemente l’accento su un qualcosa che era già lì, e bastava solo cercare meglio per vederlo, assente ogni coinvolgimento, ogni scelta del soggetto quanto a cosa trovare. Infatti, nel linguaggio corrente, trovare una bicicletta è diverso da creare una bicicletta. Le due azioni indicano cose ben distinte.
L’immagine del giudice che, cercando bene, trova il diritto, non è peraltro nuova; conobbe grande fortuna nel Settecento in Inghilterra e fu fatta propria da William Blackstone nei suoi Commentaries on the Laws of England per spiegare il funzionamento del common law[59]. È la declaratory theory of the Common law, la “teoria dichiarativa del common law” – questo il nome - secondo la quale il giudice non crea affatto il diritto, ma semplicemente egli va in cerca di un diritto che è a lui preesistente, è immemore, e lo dichiara. Dove egli avrebbe dovuto cercarlo è presto detto: scrutando la Ragione, attività che gli competeva, avendo lui solo le capacità e le competenze adatte per farlo, per poi tradurla e comunicarla al pubblico fatto di “non iniziati”.
Ecco perché il giudice, nella cultura anglosassone, non è mai stato tradizionalmente descritto, nemmeno dal punto di vista simbolico, come bocca della legge, seguendo Montesquieu, ma bensì come oracle of the law, oracolo del diritto, secondo l’immagine diametralmente opposta di Dawson; il giudice è un profeta in grado di dare le risposte leggendo là ove altri non possono attingere[60]. Ognuno vede la debolezza di questa teoria, seppur così grossolanamente qui descritta: essa non aveva altro scopo se non quello di legittimare politicamente il giudice. Il Realismo Giuridico ha poi sferrato a quella visione (che nessuno più né oltremanica né oltreoceano oggi sostiene seriamente) un colpo micidiale, da renderla un arnese del passato.
Mediando quindi tra le due parole, che portano con sé un diverso potere evocativo, potremo dire nella maniera seguente: così come bisogna tener presente che in ogni creazione del diritto vi è anche un trovare il diritto, allo stesso modo bisogna riconoscere che in ogni trovare, inventare, il diritto vi è un forte elemento di scelta, di decisione, di volontà soggettiva dell’interprete.
7. Creazione di diritto e giurisprudenza. Gli orientamenti consolidati come fonti del diritto
Se la creazione di diritto non si trasforma in prassi, in consuetudine, essa rimane istantanea, fulminea, ed esaurisce gli effetti nel caso di specie. Diritto è stato creato, eccome, perché la sentenza disciplinerà quel caso specifico; su di essa cadrà il giudicato e avrà la forza di regolare concretamente, effettivamente il rapporto dedotto. Può ben essere che il giudice non intendesse fare nulla di più; può essere che egli non aspirasse a che la sua creazione divenisse fonte, ma soltanto che risolvesse in maniera giusta il caso di specie che gli si è posto innanzi. Egli ha creato diritto non per contribuire allo sviluppo e all’evoluzione dell’ordinamento giuridico, ma mosso piuttosto da quella “preeminenza del caso”, dalle ragioni del concreto[61]. Il caso parla, e il giudice non può non rispondere. La creazione, diremo, è servita solo da giustificazione di una decisione particolare, fondata nell’esigenza di rendere giustizia nell’ipotesi davanti al magistrato.
Talvolta, invece, l’attività congiunta dei giudici rende una certe decisione (meramente interpretativa o genuinamente creativa che sia) una vera e propria fonte del diritto. Perché una sentenza possa qualificarsi tale è però necessario che venga stabilmente applicata, che venga costantemente seguita - non importa se per forza sua propria o per capacità persuasiva - nel tempo, da altri giudici. La sua deve essere una forza “aggregante”; deve universalizzarsi. In questo caso solo una lettura estremamente formalistica della realtà impedirebbe di affermare che quella certa interpretazione o creazione è divenuta parte stabile e “ufficiale” dell’ordinamento giuridico: si parlerà, in questo caso, di “diritto giurisprudenziale” in senso proprio[62].
Nei sistemi di common law la differenza appena accennata è pensata in forma più precisa. John Gardner, lucidamente, ricollega questa opposizione a due tipologie diverse di diritto che tendono spesso a essere confuse: da un lato il case law e dall’altro il common law propriamente detto. Il case law è quel diritto che i giudici creano senza che vi sia una convergenza nel comportamento ufficiale degli operatori («no convergence of official behaviour»), e quindi senza che ciò si traduca nell’essere parte del diritto. Il common law invece è tale perché su di esso si è formata una consuetudine giudiziaria («judicial customary law») a partire da singole decisioni che sono state recepite e utilizzate nel tempo («reception and use of case law»)[63]. Dove termina uno e inizia l’altro? Ancora una volta è una questione di grado.
Con qualche adattamento, questa contrapposizione può funzionare anche per descrivere la realtà dei nostri sistemi, e di quello italiano in particolare, a riprova del fatto che la differenza quanto all’efficacia del precedente nel diritto comparato è più sfumata di quello che si pensi: nel common law il precedente è meno vincolante di quanto si voglia credere, mentre qui lo è di più[64].
Gli orientamenti consolidati, stabili e seguiti nel tempo, sono quindi fonti del diritto (e perché mai non dovrebbe essere così?). Si pensi ai grandi leading case, ai grand arrêt in materia di responsabilità civile in Italia: dalla risarcibilità delle posizioni giuridiche relative (il “caso Meroni”[65]) alla risarcibilità degli interessi legittimi[66], dall’ampliamento dei confini della risarcibilità del danno biologico[67], alla recente ufficializzazione delle cd. Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione dei danni non patrimoniali, per garantire uniformità su tutto il territorio nazionale[68], e via dicendo. La storia del diritto della responsabilità civile - in Italia, e in moltissimi altri Paesi - è, nella sua essenza, storia di sentenze[69].
Anzi, le parole “giurisprudenza” e “orientamento” sono orami da tempo categorie fatte proprie dal legislatore processuale italiano. Quando l’art. 360 bis del Codice di procedura civile stabilisce che il ricorso per cassazione è inammissibile (rectius: infondato) oltre che nelle consuete ipotesi, anche «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa», esso non fa che recepire ufficialmente - forse fino al punto massimo in cui poteva farlo - la nozione di giurisprudenza come fonte del diritto. Questo articolo ci dice infatti che, a meno che non vi siano delle ottime ragioni per mutare orientamento (o – con una frase sibillina – anche per confermarlo, nel senso di offrire ai giudici supremi una nuova, inesplorata occasione per rinforzarlo argomentativamente), esso è qualcosa di molto simile al diritto. L’orientamento è vigente (perché sarà verosimilmente applicato di fatto nei casi futuri dalle corti) ed efficace (perché i consociati ne terranno conto nell’indirizzare le proprie condotte), ma non è obbligatorio, nel senso che i giudici non sono giuridicamente obbligati ad applicarlo. O quasi. Dico “quasi” perché si è giunti, in tempi recentissimo, fino al punto di discorrere di responsabilità civile del giudice per l’inosservanza di un orientamento consolidato della giurisprudenza, comunque esclusa in ogni caso poi da una importante decisione delle Sezioni Unite[70].
È – per così dire – qualcosa di meno del diritto, un “diritto minore”, un “diritto temporaneo”; è in attesa che qualcuno presenti buone argomentazioni per cambiarlo; è aperto alla critica, insomma, ma, fino a quel momento, sicuramente per le parti e i loro avvocati è qualcosa di molto simile a diritto[71].
8. Conclusioni (con una meditazione di Piero Calamandrei)
Vi sarebbe da toccare, ancora, il maggiore problema pratico che la qualifica degli orientamenti giurisprudenziali come fonte del diritto inevitabilmente porta con sé: ossia la tutela dell’affidamento in caso di loro mutamento[72]. E infine vi sarebbe da ragionare sulla questione (politica, più ampia) del ruolo nomofilattico delle Corti di vertice e - prima ancora – chiedersi se la nomofilachia, nel senso originale, “calamandreiano” del termine, sia anzi possibile nell’epoca attuale, o non vada piuttosto intesa soltanto in senso dinamico e tendenziale[73]. Aspetti certo cruciali per un discorso completo, ma che ci porterebbero forse troppo lontano dal nocciolo di queste brevi riflessioni, rappresentato dal ruolo creativo del giudice.
A conclusione vorrei riportare, a mo’ di riassunto, alcune parole di Piero Calamandrei, tanto profonde quanto attuali, sui “valori umani” del giudizio, rimedio a una cieca obbedienza al principio di legalità formalisticamente inteso e alla dittatura della logica del sillogismo: temi ricorrenti nelle meditazioni dello studioso fiorentino, e che sento a me molto cari.
Egli, dopo aver accuratamente descritto un caso di ingiustizia dovuta a un’applicazione formale della legge, così argomenta:
«La logica giuridica, quando sia adoprata con discrezione, è uno strumento prezioso per vedere gli aspetti giuridici della realtà sociale; assomiglia a quello strumento […] con cui gli antichi ritrattisti […] si aiutavano per essere più fedeli al modello: una intelaiatura di legno, sulla quale era fissata una rete di fili di seta incrociati ad angolo retto […]. A questo serve il sillogizzare dei giuristi: ma guai se si aumentano oltre misura i fili della rete, restringendo sempre di più le dimensioni delle aperture attraverso le quali si dovrebbe vedere la giustizia! A un certo momento, quando la rete è diventata troppo fitta, la giustizia, sotto l’intrico della giurisprudenza, non si riesce a vederla più.
Eppure, anche nel sistema della legalità, la stessa legge offre al giudice i mezzi per non perderla mai di vista, per mantenersi sempre in contatto con essa […]: l’interpretazione evolutiva, l’analogia, i principi generali, finestre aperte sul mondo, delle quali, se il giudice sa affacciarsi a tempo, può entrare l’aria ossigenata della società che si rinnova»[74].
La metafora dell’apertura sul mondo, della finestra che getta luce su una stanza chiusa mi sembra la più appropriata per evocare il senso, il fondamento, e al tempo stesso anche la “funzione sociale” del potere creativo del giudice (che è d’altronde, la stessa bella immagine impiegata anche da Paolo Grossi riferendosi, in un saggio recente, all’opera di Santi Romano: «è il pullulare che nel 1909, centodieci anni fa […] Santi Romano osservava dalle finestre del suo studio ben aperte sulla vivace quotidianità cittadina. Osservava e registrava, attentissimo al contesto sociale e nemico di mitizzazioni formalismi dogmatismi; e identificava in esso con ammirevole lucidità la causa prima del palese declino del borghese Stato di diritto, delle sue chiusure e sordità sociali, dei suoi forzosi riduzionismi»[75]).
La finestra aperta come guida, come monito perenne che c’è sempre un al di là della legge.
[1] Per uno sguardo d’insieme su questo dibattito cfr. il numero monografico della rivista Questione giustizia, 4/2016, intitolato Il giudice e la legge (e, per gli argomenti in senso contrario, essenzialmente L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, ivi, 13 e seg.).
[2] R. Sacco, voce “Formante”, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1992, vol. VIII, 439.
[3] Sulla queste caratteristiche della dottrina in Italia, assai criticamente R. Pardolesi, Dottrina e giurisprudenza: conflitti, dialoghi, monologhi, in Diritto & questioni pubbliche, giugno 2019, 53 e seg., http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2019_n19-1/04_mono_03_Pardolesi.pdf
[4] N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2015, 1133 e seg.
[5] N. Picardi, La vocazione per il nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2004, 41 e seg. e anche in Studi in onore di G. Tarzia, Milano, 2005, Vol. I, 179 e seg.; egli contrapponeva questa tendenza alla “vocazione per il nostro tempo per la legislazione e la scienza giuridica” di Von Savigny.
[6] F. Ost, M. Van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2010 (in italiano, F. Ost, Dalla piramide alla rete: un nuovo modello per la scienza giuridica?, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino, Giappichelli, 2008, 29 e seg.).
[7] Così B. Celano, Principi, regole, autorità, in Europa e diritto privato, 2006, 1081 e seg.
[8] Avevo tratteggiato brevemente il carattere sempre più effimero della legge in C.V. Giabardo, Tempo e diritto: alcune considerazioni a proposito della tutela civile dei diritti nell’epoca della globalizzazione, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2014, 219 e seg. (ma spec. 227 e seg., par. intitolato La norma mercificata).
[9] R. G. Conti, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in Questione Giustizia, 4/2016, cit., 89 e seg.
[10] Di questo tema si sono occupati con particolare profondità due grandi Maestri torinesi: S. Chiarloni, La dottrina; fonte del diritto? in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1993, 439 e seg. e R. Sacco, La dottrina, fonte del diritto, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, Vol. II, Milano, 1990, 456 e seg.
[11] G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Roma-Bari, 2012, 159 (richiamandosi a Philipp Heck, esponente della Interessenjurisprudenz).
[12] P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo postmoderno, Napoli, 2011.
[13] J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, 1979.
[14] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001; Id., A proposito de ‘il diritto giurisprudenziale’, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2020, 1 e seg.
[15] È la celebre frase con la quale si apre il libro di O. W. Holmes, The Common Law, Boston, 1881, 1.
[16] Per questo legame, G. Zaccaria, La giurisprudenza come fonte del diritto. Un'evoluzione storica e teorica, Napoli, 2007; M. Troper, Il concetto di costituzionalismo e la moderna teoria del diritto, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1, 1988, 61.
[17] Mi riferisco, naturalmente, a quelle versioni del positivismo giuridico contemporaneo (come quello della “Scuola genovese”) che sono anche realiste (ossia non normativiste, né imperativistiche, né etico-ideologiche, etc.), i due elementi non essendo niente affatto in contrasto, come taluno, talvolta, crede. Sul punto, cfr. R. Guastini, Sulla validità della costituzione dal punto di vista del positivismo giuridico, in Riv. Int. Fil. Dir., 1989, 424 e seg.
[18] Per considerazioni più ampie, R. Guastini, Il realismo giuridico ridefinito, in Revus (online), 2013, 97 e seg.
[19] N. Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2016, 1153 e seg.
[20] K. Llewellyn, Some Realism About Realism. Responding to Dean Pound, in 44, Harvard Law Review, 1931, 1222.
[21] V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. Pen., 2018, 2222 e seg.; L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giurisprudenziale. Una proposta di revisione dell’approccio ermeneutico alla legalità penale, in Ars Interpretandi, 2016, 23 e seg.
[22] Questa definizione si deve al gran teorico argentino del diritto, Eugenio Bulygin, Sentencia judicial y creación del derecho, in C. Alchourron - C. E. Bulygin, Análisis lógico y Derecho, Madrid, 1991, 355 e seg. (e in italiano con il titolo Sentenza giudiziaria e creazione di diritto, ora in Id., Norme, validità, sistemi normativi, Torino, 1995). Evidentemente qui viene rifiutata tanto la terminologia quanto l’impianto kelseniano, per il quale la decisione giudiziale è sempre creativa nel senso che crea la “norma specifica” che risolve la controversia. Cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1959 (ed. or., 1945), parte I, 135: « Una decisione giudiziaria, ad esempio, è un atto mediante cui è applicata una norma generale, una legge formale, ma è al tempo stesso creata come norma individuale che obbliga una o entrambe le parti della controversia ».
[23] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, 155.
[24] Per approfondimenti, V. Velluzzi, La distinzione tra analogia giuridica ed interpretazione estensiva, in M. Manzin, P. Sommaggio (a cura di), Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, Milano, 2006, 133 e seg.
[25] Ad es., D. Canale, In difesa della distinzione tra interpretazione e creazione giuridica, in P. Chiassoni, P. Comanducci, G. B. Ratti, L'arte della distinzione: scritti per Riccardo Guastini. Vol. II, Parte II, Marcial Pons, 2019.
[26] Criticamente, C. Castronovo, L’aporia tra ius dicere e ius facere, in Eur. e Dir. Priv., 2016, 981.
[27] Ex multis, T. Endicott, Vagueness in Law, Oxford, 2000; Id., The Value of Vagueness, in A. Marmor, S. Soames (a cura di), Philosophical Foundations of Language in the Law, Oxford, 2011; A. Marmor, Varieties of Vagueness in the Law, in Id., The Language of Law, Oxford, 2014, Cap. IV. In Italia, si veda l’eccellente analisi di C. Luzzati, La vaghezza delle norme, Milano, 1990; più di recente, per la distinzione attenta tra vaghezza e genericità, Id., Prìncipi e princìpi. La genericità nel diritto, Milano, 2012.
[28] Da ultimo, v. i saggi di E. Scoditti, Ripensare la fattispecie nel tempo delle clausole generali e di L. Nivarra, Fattispecie e clausola generale: alternativa o binomio? Entrambi in Questione Giustizia, 1/2020, fasc. intitolato Eguaglianza e diritto civile, 60 e seg., e anche online, rispettivamente in https://www.questionegiustizia.it/articolo/ripensare-la-fattispecie-nel-tempo-delle-clausole-generali_04-12-2019.php e in https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/815/qg_2020-1_nivarra.pdf
[29] H.L.A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals, in 71 Harvard Law Review, 1958, 593, spec. 606; poi anche Id., The Concept of Law, Oxford, 1961, 125.
[30] Si suppone che il caso, di cui si professa la mancanza di disciplina debba essere in qualche modo “giuridicamente rilevante”. È questo un gran problema, che coinvolge la discrezionalità del giudice sotto il profilo della decisione sulla rilevanza, nel quale in questa sede non è possibile in alcun modo addentrarci (oltre al breve cenno infra nel testo). Sul punto, approfonditamente, G. B. Ratti, Sulle lacune nel diritto (Il dilemma di Atria), in Id., Norme, principi e logica, Roma, 2009, 21 e seg.
[31] Per es., l’ordinamento italiano come noto (art. 12 preleggi c.c.) stabilisce che « se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico ». È evidente che in questo caso i principi devono guidare il giudice nella costruzione della norma nuova: essi quindi sono regole che servono per costruire altre regole.
[32] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Torino, 2000 (ed. or. 1934, riveduta e ampliata, 1960); un comportamento è regolata “in negativo” quando « quella condotta non è proibita dall’ordinamento e non è positivamente permessa da una norma» (trad. it. dal testo spagnolo, Teoria pura del derecho, México, 1979, 29). Sul tema, recentemente, è tornato P. Navarro, Exclusividad y exhaustividad del derecho. Algunas reflexiones sobre la naturaleza abierta de los sistemas jurídicos (inedito, ma consultato per gentile concessione dell’Autore), 2020.
[33] Così R.G. Conti, Il ruolo del giudice visto dalla dottrina con un occhio alla giurisprudenza (Cap. I), Scelte di vita o di morte? Il giudice è garante della dignità umana?, Roma, 2009, 23.
[34] C. E. Alchourrón, E. Bulygin, Introducción a la metodología de las ciencias jurídicas y sociales, Buenos Aires, 1974, 158 e seg. (trad. it. Sistemi normativi, a cura di P. Chiassoni, G. B. Ratti, Torino, 2006)
[35] Per tutti, R. Guastini, Il diritto come linguaggio. Lezioni, 2001, 163.
[36] G. Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2004, 25 e seg.; N. Lipari, L’abuso del diritto e la creatività della giurisprudenza, in Id., Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 193.
[37] G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2014 (spec. la terza lezione, Il giudice e la giustizia: di fronte alla pena di morte).
[38] Il Quinto Emendamento della Costituzione Americana (introdotto nel 1791) dice che «no person […] shall be deprived of life, liberty, or property, without due process of law», assumendo quindi esplicitamente che si possa venir privati della vita dopo un giusto processo.
[39] V. Corte cost., ord. 3 dicembre 1987, n. 445, in Giur. cost., 1987, 2987 e seg., con nota di J. Luther, L’aborto: tema con variazioni per legislatori, giudici e custodi della Costituzione, e Corte cost., 25 maggio 1987, n. 196, in Foro It., 1988, I, p. 758 e seg., con nota di E. Rossi, L’obiezione di coscienza del giudice.
[40] Dico “giusrealisticamente” perché il fatto che il giudice sia (i.e., debba essere) responsabile del risultato delle sue proprie decisioni è una affermazione che si ritrova in certi esponenti del Realismo Giuridico Americano e, in particolare, in Charles Edward Clark (1889 – 1963), giudice e il principale redattore delle Federal Rules of Civil Procedure (sul pensiero del quale mi permetto di rimandare a C.V. Giabardo, American Legal Realism in Dispute Resolution, in Iuris Dictio, 2020, 63 e seg.; anche online, in https://revistas.usfq.edu.ec/index.php/iurisdictio/article/view/1634).
[41] S. Satta, Il mistero del processo (1949), in Il mistero del processo, Milano, 1994, 17. Ho avuto recentemente l’occasione di approfondire parte di questa visione sattiana; si vis, cfr. C.V. Giabardo, Brevi riflessioni sul giudizio (variazioni sul tema a partire da Il mistero del processo di Salvatore Satta e oltre), in Narrazioni del diritto, a cura di P. Chiarella, Napoli, 2020, 149.
[42] S. Satta, La tutela del diritto nel processo, in Il mistero del processo, cit., 69.
[43] Su questo immenso problema, e anche sul dilemma posto da Guido Calabresi, cfr. l’intervista a cura di Roberto Giovanni Conti a Gaetano Silvestri, Vincenzo Militello e Davide Galliani dal titolo Il giudice disobbediente nel terzo millennio, in Giustizia Insieme (online), 2019, in https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/669-il-giudice-disobbediente-nel-terzo-millennio, anche in R. G. Conti (a cura di), Il mestiere di giudice, Milano, 2020, 193 e seg.
[44] J. Gardner, The Virtue of Justice and the Character of Law, in Id., Law as a Leap of Faith, Oxford, 212, 258.
[45] J. Gardner, ult. loc. cit., nota 28.
[46] A partire da Corte costituzionale 22 ottobre 1996, n. 356: «In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». Su questa evoluzione, da ultimo, V. Marcenò, Quando il giudice deve (o doveva?) “fare da sé”. Interpretazione adeguatrice, interpretazione conforme, disapplicazione della norma di legge.
[47] Ancora V. Marcenò, Le ordinanze di manifesta inammissibilità per «insufficiente sforzo interpretativo»: una tecnica che può coesistere con le decisioni manipolative (di norme) e con la dottrina del diritto vivente?, in Giur. Cost., 2005, 785.
[48] Non a caso Federico Carpi parla di “sentenze additive” non della Corte costituzionale (species del genus delle sentenze manipolative), come è normale, ma della Corte di cassazione; cfr. F. Carpi, Osservazioni sulle sentenze “additive” delle sezioni unite della Corte di cassazione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2010, 587.
[49] Cfr. Cass. Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883 (sulla base della formazione di un giudicato implicito sulla questione di giurisdizione ogniqualvolta il giudice di primo grado abbia semplicemente deciso nel merito). I processualisti reagirono assai criticamente: v. E. Ricci, Le sezioni unite cancellano l’art. 37 c.p.c. nelle fasi di gravame, in Riv. Dir. Proc., 2009, 1085 e seg.; V. Colesanti, Giurisprudenza «creativa» in tema di difetto di giurisdizione, ivi, 2009, 1125; C. Consolo, Travagli «costituzionalmente orientati» delle sezioni unite sull’art. 37 c.p.c., ordine delle questioni, giudicato di rito implicito, ricorso incidentale condizionato (su questioni di rito o, diversamente operante, su questioni di merito), ivi, 2009, 1141.
[50] Cfr., ad es., Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2008, n. 26019.
[51] S. Menchini, Eccezione di giurisdizione, regolamento preventivo e translatio: il codice di rito e il nuovo codice della giustizia amministrativa, in Giur. It., 2011, 217 e seg. Nella giurisprudenza successiva, cfr. Cons. Stato 7 febbraio 2012, n. 656 (in Giur. It., 2012, 510).
[52] Cass. Sez. Un. 23 febbraio 2010, n. 4309. Anche in questo caso i commenti furono molto duri: cfr., a commento, E.F. Ricci, Nooo! (La tristissima sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Cassazione: da garanzia bisognosa di attuazione a killer di garanzie), in Riv. Dir. Proc., 2010, 976 e seg.; R. Caponi, D. Dalfino, A. Proto Pisani e G. Scarselli, In difesa delle norme processuali, in Foro It., 2010, I, 1794.
[53] Trib. Bari, 21 luglio 2010, in Giur. It., 2010, 2381 (con nota critica di V. Amendolagine, La chiamata in causa del terzo formulata dal convenuto ai sensi dell’art. 269, comma 2, c.p.c.: il giudice può rigettarla nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo?).
[54] G. Verde, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. Dir. Proc., 2011, 505 e seg.
[55] Così, sempre criticamente, R. Caponi, Quando un principio limita una regola (Ragionevole durata del processo e rilevabilità del difetto di giurisdizione), in Corr. Giuridico, 2009, 372.
[56] Si veda, tra le tante di questo genere, Cass. Sez. Un. 12 dicembre 2014, n. 26242, sul problema della rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale, che conta più di ottanta pagine di dialogo serrato con la dottrina più autorevole. Sul fenomeno della “dottrina delle corti”, in generale, G. M. Berruti, La dottrina delle corti, in Foro It., V, 2013, 181 ss.; R. Pardolesi – B. Sassani, Motivazione, autorevolezza interpretativa e «trattato giudiziario», in Foro It. 2016, V, 299 ss.
[57] R. Dworkin, Law as Interpretation, in 60, Texas Law Journal, 1982, 527.
[58] P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari–Roma, 2017; Id., La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 869; Id., Ritorno al diritto, Bari-Roma, 2015: « Nessuna potestà al mondo è in grado di creare il diritto […]. Il diritto va – questo sì – inventato, nel senso del latino, invenire, ossia trovare; va cercato e trovato nelle trame dell’esperienza, sia quando la regola manca, sia quando la regola troppo vecchia o troppo generica non si presta a ordinare i fatti […]. Rechtsfindung insegnava una risalente dottrina tedesca […] ». Sul binomio, cfr. anche E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/scoprire-o-creare-il-diritto_a-proposito-di-un-recente-libro_07-11-2017.php
[59] Sir W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, Oxford, (1765 – 1790).
[60] J. P. Dawson, The Oracles of the Law, Ann Arbor, 1968.
[61] G. Zaccaria, Crisi della fattispecie, crucialità del caso, concetto di legalità, in Ars Interpretandi, 2019, 7 e seg., in continuità con il dibattito aperto da N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Proc., 2014, 41 e seg.
[62] Così S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza e attività creative di nuovo diritto, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2002, 5; R. Pardolesi – G. Pino, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività del legislatore, in Foro It., 2017, V, 113 distinguono, a proposito di quanto detto nel testo, tra “creatività in senso semantico” o “interpretativo” (cioè istantanea) e “in senso pragmatico” (come fonte del diritto).
[63] J. Gardner, Some Types of Law, in Id., Law as a Leap of Faith, cit., 74.
[64] S. Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giudiziale, in Riv. Dir. Proc., 2001, 614 e seg.
[65] Cass. Sez. Un., 26 gennaio 1971, n. 174.
[66] Cass. Sez. Un, 22 luglio 1999 n° 500.
[67] Cass., 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827.
[68] Cass. 7 giugno 2011, n. 12408.
[69] Ed è questa constatazione che mi porta a dire che il giudice è bene che abbia occasioni di pronunciarsi, e che quindi le tendenze contemporanee verso la “privatizzazione” della giustizia civile rappresentino qualcosa di assai problematico; sul punto mi permetto di rinviare a C.V. Giabardo, Private Law in the Age of the Vanishing Trial, in K. Barker, K. Fairweather, R. Gratham, Private Law in the 21st Century, Oxford (Hart), 2017, 547 e seg.; più di recente, Id., Private Justice: The Privatisation of Dispute Resolution and the Crisis of Law, in Wolverhampton Law Journal, 2020, 14 e seg.
[70] Cass. Sez. Un. 6 maggio 2019, n. 11747; v. E. Scoditti, Responsabilità civile del magistrato per inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato?, in Questione Giustizia, 2018, https://www.questionegiustizia.it/articolo/responsabilita-civile-del-magistrato-per-inosservanza-di-orientamento-giurisprudenziale-consolidato-_10-12-2018.php
[71] C. Consolo, Dal filtro in Cassazione ad un temperato «stare decisis»: la prima ordinanza sull’art. 360-bis, in Corr. giuridico, 2010, 1045.
[72] Si vedano, per tutti, le considerazioni di G. Verde, Mutamento di giurisprudenza e affidamento incolpevole (considerazioni sul difficile rapporto fra giudice e legge), in Riv. Dir. Proc., 2009, 6 e seg.
[73] V. le considerazioni, anche sulle diverse ideologie che ispirano (fisiologicamente?) la magistratura e l’avvocatura, di S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza, cit., spec. 8 e seg.
[74] P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, già in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1955, 252 e seg., ora ristampato in Id., Opere giuridiche, Vol. I, Problemi generali del diritto e del processo, Roma Tre, 2019, 598, 610.
[75] P. Grossi, A proposito de ‘il diritto giurisprudenziale’, cit., 4.
Il referendum sulla riduzione dei parlamentari*
Tre ragioni per il SÌ e tre per il NO.
Forum dei costituzionalisti Valerio Onida, Ida Nicotra, Alessandro Morelli e Lara Trucco
*In calce, il forum in formato pdf
Va ormai entrando nel vivo la discussione sul Referendum popolare confermativo relativo all'approvazione del testo della legge costituzionale recante «modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari».
Giustizia Insieme ha chiesto a quattro costituzionalisti di chiara fama di esprimere la loro opinione, in una prospettiva che non intende in alcun modo orientare le coscienze dei lettori, prediligendo una chiave di lettura del tema di natura composita - informativa, divulgativa e riflessiva - che, secondo le consuete linee editoriali, possa favorire una presa di coscienza piena delle questioni sul tappeto, delle ricadute che l’una soluzione o l’altra possono produrre sull’architettura costituzionale ma anche sulle persone che popolano il nostro Paese, fra le quali vi sono anche gli operatori del diritto, giudici, avvocati e docenti universitari.
Le risposte alla domanda che abbiamo posto nel titolo del forum – tre ragioni per il SI e tre per il NO- a Valerio Onida, Ida Nicotra, Alessandro Morelli e Lara Trucco consentono di ritenere pienamente raggiunto l’obiettivo perseguito e per questo va un grazie sincero a chi ha accolto con interesse questa iniziativa “di servizio”.
Tre ragioni per il NO
di Alessandro Morelli
1. Rivolgo un sentito ringraziamento alla Redazione della rivista Giustizia insieme per l’invito al presente forum. Trovo, innanzitutto, necessario fare una premessa all’esposizione dei principali motivi su cui si basa il mio giudizio negativo sul testo di legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, in merito al quale il 20 e il 21 settembre saremo chiamati a pronunciarci.
Il testo in questione è stato approvato da un’ampia maggioranza soltanto nell’ultima deliberazione, ma non nella precedente, nella quale non aveva raggiunto i due terzi dei consensi. Il referendum – che dunque si potrà svolgere per il fatto di non essersi verificata la condizione in presenza della quale l’art. 138 Cost. lo esclude – è stato chiesto da 71 senatori, appartenenti a quasi tutti i gruppi parlamentari e partiti politici. La richiesta, avanzata dagli stessi parlamentari che hanno approvato il testo, tende a conferire alla consultazione tratti plebiscitari, che, tuttavia, non fanno venir meno, a mio avviso, quella che rimane la prima e ineliminabile funzione dello stesso strumento referendario: quella oppositiva.
L’ampia maggioranza raggiunta (per ragioni politiche del tutto contingenti), peraltro, non esime affatto i fautori del “sì” dall’onere di argomentare a favore della riforma.
L’idea che una cattiva riforma sia comunque meglio di nessuna riforma è discutibile già quando si parla di progetti di legge ordinaria, per i quali quella che, nell’analisi d’impatto della regolamentazione è chiamata l’“opzione zero” – ossia la scelta di non intervenire –, potrebbe essere superata (almeno in teoria, la pratica è un’altra cosa…) sulla base di motivi seri. Tale indirizzo è poi del tutto inaccettabile in materia costituzionale. Quando, infatti, si decide d’intervenire sulla legge fondamentale dello Stato, la cautela non è mai troppa.
Se guardiamo alle esperienze passate, del resto, troviamo diversi riscontri: le riforme costituzionali approvate negli ultimi decenni e quelle progettate e naufragate per un voto referendario contrario appaiono espressione per lo più di una tendenza, purtroppo ormai radicata, a porre la Costituzione al centro della contesa politica. Da decenni, ciascuna maggioranza tende a lasciare il proprio “segno politico” ai piani più alti dell’assetto normativo, quello costituzionale, senza il coinvolgimento delle opposizioni, salvo poi cercare una legittimazione plebiscitaria successiva attraverso l’uso, in senso confermativo, del referendum costituzionale.
Si dirà che, in questo caso, le cose non stanno così, visto che tutti i partiti hanno raggiunto, seppur soltanto alla fine, l’accordo sul testo approvato in via definitiva dalle Camere. In realtà, le dinamiche che hanno caratterizzato il passaggio dal Governo Conte I al Governo Conte II rafforzano il convincimento che la Costituzione abbia finito con l’essere ancora una volta – seppure in una versione inedita nelle modalità – oggetto di scambio politico.
Non appare accettabile, pertanto, l’idea per cui l’ampio consenso ottenuto dal testo di revisione (peraltro, ribadisco, soltanto nell’ultima votazione) sarebbe già una ragione sufficiente per sostenere la riforma. Al contrario, la peculiare vicenda politica che ha condotto all’approvazione della legge costituzionale dovrebbe indurre a valutare con maggiore attenzione il senso e il potenziale impatto della riforma. In sostanza, non occorrono buone ragioni per votare “no”, ma servono ottime ragioni per votare “sì”.
Sulla base di questa premessa, passo a esporre i tre motivi principali del mio “no”, precisando che diverse altre critiche, pur di minor peso, potrebbero essere mosse alla revisione in esame.
2. Una prima ragione è che quello prefigurato è un taglio dalle dimensioni sproporzionate e irragionevoli, che determina una drastica riduzione della rappresentatività delle Camere e può creare seri problemi al funzionamento delle stesse.
Non discuto l’argomento del taglio dei costi della politica che la revisione dovrebbe produrre, data la sua evidente debolezza (e, infatti, al di là della propaganda politica, è pressoché assente nel dibattito pubblico). Mi limito soltanto a rilevare che, a prescindere dall’entità irrisoria della riduzione di spesa che il taglio provocherebbe (si parla di una cifra pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica), le istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa non possono essere depotenziate per mere esigenze di risparmio.
Per quanto riguarda, invece, il merito della riforma, diversi sostenitori del “sì” affermano che la revisione si porrebbe in linea con i vari progetti di ridefinizione del bicameralismo proposti in passato e che, ridimensionando un Parlamento pletorico, essa avrebbe l’effetto di allineare il nostro Paese alle altre democrazie europee.
Per quanto riguarda il primo argomento, si può rilevare che, nelle proposte finora avanzate, la riduzione del numero dei parlamentari eletti a suffragio universale era una conseguenza di un progetto di riorganizzazione complessiva dell’istituzione parlamentare, che, peraltro, in qualche caso avrebbe trovato compensazione nell’introduzione di un Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali (così, ad esempio, nel progetto Renzi-Boschi, che pur presentava notevoli difetti). Questa volta, invece, la riduzione dei parlamentari è la riforma stessa.
Quanto, poi, alla comparazione con altri Stati, se non si vuole cadere in un uso retorico-persuasivo dello stesso argomento comparativo, occorre tenere conto, per un verso, dell’entità della popolazione dei singoli Paesi presi in considerazione e, quindi, del reale rapporto eletti/elettori in questi riscontrabile e, per altro verso, dei caratteri peculiari che, nei medesimi ordinamenti, contraddistinguono la forma di governo e il tipo di Stato. E, quindi, occorre distinguere almeno le repubbliche parlamentari da quelle presidenziali e semipresidenziali, così come gli Stati federali da quelli caratterizzati da un minore decentramento. In ciascun ordinamento, infatti, esistono varie forme di espressione della rappresentanza politica e il Parlamento si colloca in una propria e peculiare trama di rapporti con gli altri organi ed enti.
Il punto centrale è allora un altro: se certamente il numero dei parlamentari non può essere considerato come un dato intoccabile, occorre, tuttavia, verificare la sostenibilità della riduzione prodotta.
Tutti siamo d’accordo sul fatto che la diminuzione di poche unità sarebbe irrilevante e quindi innocua, così come tutti potremmo facilmente convenire sull’idea che un’ipotetica riduzione dei parlamentari a tre componenti per ciascuna Camera (sulla base dell’antico brocardo tres faciunt collegium…) integrerebbe gli estremi di un attentato alla Costituzione. Esclusi questi casi estremi, il problema è allora trovare un criterio per misurare la sostenibilità del taglio, uno strumento concettuale utile a capire quando la riduzione del numero dei parlamentari si fa irragionevole.
Sullo sfondo della questione sta la teoria della rappresentanza politica. Il problema non si pone, infatti, se si sostiene che la rappresentatività delle Camere non è funzione del numero dei loro componenti. Una tesi, quest’ultima, che sembra essere accolta da chi afferma che anche un taglio drastico come quello prefigurato dalla riforma (di ben un terzo dei parlamentari!) non inciderebbe negativamente sulla rappresentatività delle Assemblee legislative se i componenti di queste ultime, anche attraverso l’uso dei moderni mezzi telematici di comunicazione, riuscissero a mantenersi sufficientemente informati, vicini ai propri elettori e capaci d’interpretarne esigenze e interessi, dando loro risposte adeguate. E la stessa visione sembra stare sullo sfondo delle affermazioni di quanti reputano fungibile la rappresentanza delle Camere con quella di altri organi elettivi, come i Consigli regionali, i quali, tuttavia, come ha affermato anche la Corte costituzionale, non sono luoghi di espressione della rappresentanza politica nazionale, che solo nel Parlamento trova la propria sede istituzionale (sent. n. 106/2002).
Più in generale, una concezione della rappresentanza che trascuri la questione dell’effettiva capacità d’incidenza dei rappresentati nella scelta dei rappresentanti o che addirittura arrivi a postulare l’assoluta irrilevanza del rapporto tra elettori ed eletti non trova riscontri normativi nella nostra Costituzione. Essa, peraltro, rivela stretti legami con la visione “esistenziale” di Carl Schmitt e di Gerhard Leibholz della rappresentanza, intesa come rappresentazione simbolico-identitaria e fideistica del popolo, nella quale, come ha scritto Gianni Ferrara, si produce il “declassamento del rappresentato” per effetto della sussunzione di quest’ultimo nel rappresentante.
Se, invece, s’intende kelsenianamente la rappresentanza politica come una finzione giuridica necessaria al funzionamento della democrazia e si traduce la rappresentatività non come rappresentazione ma, con Temistocle Martines, come la consonanza tra l’attività dei rappresentanti e i valori e gli interessi della collettività rappresentata, non v’è dubbio che la stessa rappresentatività sia anche funzione del numero dei rappresentanti. Essendo, infatti, complessa e plurale la società da rappresentare, non può negarsi che vi sia un rapporto tra il numero dei parlamentari e la possibilità di dare espressione, all’interno delle Camere, alla pluralità e alla varietà degli interessi sociali.
Ciò posto, qual è il livello al di sotto del quale sarebbe irragionevole portare il numero dei componenti del Parlamento?
Si è riposto – ed è una conclusione condivisibile – che tale livello-limite coinciderebbe con quello al di sotto del quale si determinerebbero squilibri nella composizione degli organi di garanzia e nei meccanismi di funzionamento delle stesse istituzioni rappresentative (Pasquale Costanzo).
Se così è, per quanto rileva ai nostri fini, un indice dell’irragionevolezza del taglio prodotto dalla riforma di cui ci occupiamo è dato dal fatto che anche i promotori della stessa ammettono la necessità di una serie d’interventi sia sui regolamenti parlamentari, sia in materia elettorale, per far fronte alle disfunzioni che il taglio comporterebbe nei lavori parlamentari e alla stessa perdita di rappresentatività che la riforma produrrebbe. Tra i suddetti interventi si prospetta come indispensabile perfino un’ulteriore revisione costituzionale!
Nella proposta di legge costituzionale C. 2238 (Fornaro e altri), si propongono, infatti – cito testualmente dalla relazione di accompagnamento –, “alcune importanti modifiche che risultano oggi indispensabili in vista della prossima possibile promulgazione della legge costituzionale recante ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’”, la quale “pone il problema della rappresentatività delle assemblee legislative nazionali nei confronti del pluralismo degli interessi territoriali, politici e sociali espressi dal corpo elettorale, come anche la questione della funzionalità delle nuove Camere”. Nel testo, si prevede, in particolare, la sostituzione del principio di elezione a base regionale dei senatori con quello a base circoscrizionale e la riduzione di un terzo del numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica.
Quest’ultima modifica, peraltro, eliminando l’elezione a base regionale, determinerebbe un ulteriore allineamento del Senato alla Camera e un’accentuazione del bicameralismo perfetto, in senso difforme da quanto sostenuto da chi ritiene che il taglio del numero dei parlamentari agevolerebbe un ripensamento complessivo dell’organizzazione parlamentare, orientato verso una differenziazione del ruolo e delle funzioni delle Camere.
In conclusione, il taglio previsto produrrebbe un’irragionevole riduzione della rappresentatività delle Camere (con particolare riguardo alle minoranze politiche) e di alcuni territori regionali, che verrebbero penalizzati nella composizione del Senato.
Quanto, poi, agli effetti negativi che la riforma produrrebbe sul funzionamento degli organi interni alle Assemblee legislative (in primo luogo, le commissioni), si dovrebbe rimediare tempestivamente (cosa tutt’altro che agevole) con adeguate modifiche dei regolamenti parlamentari. Si tratta, è vero, d’interventi che non costituiscono oggetto della revisione costituzionale ma non può che suscitare preoccupazione – soprattutto per le esigenze di rappresentanza delle minoranze – l’incertezza sul modo in cui si provvederà.
3. Passando a una seconda ragione della mia contrarietà alla riforma, mi sembra consistente il rischio che il taglio produca effetti opposti a quelli che i suoi promotori vorrebbero perseguire, determinando non già un ridimensionamento del peso dei partiti bensì un rafforzamento del legame tra questi e i parlamentari di riferimento.
La revisione costituzionale è presentata soprattutto come un attacco alle caste politiche ma, al contrario, proprio il ridotto numero di rappresentanti favorirebbe un maggiore controllo degli stessi da parte dei rispettivi partiti, sia nella fase della selezione dei candidati (che presumibilmente sarebbero scelti sempre più tra i “fedelissimi”) sia in quella successiva dell’esercizio del mandato. Insomma, sembra corrispondere a una sorta di petizione di principio l’idea per cui riducendo il numero dei parlamentari si innescherebbe un processo virtuoso che indurrebbe i partiti a mandare in Parlamento i “migliori”.
Occorrerebbe semmai porre al centro del discorso sulle riforme il tema della democraticità interna dei partiti, condizione che sola consentirebbe di salvaguardare la partecipazione democratica di tutti i cittadini a fronte di interventi, come quello in discussione e altri progettati, diretti a ridimensionare ruolo e funzioni del Parlamento o il principio del divieto di mandato imperativo.
4. Una terza ragione attiene, infine, allo spirito antiparlamentare che anima la riforma sulla riduzione del numero dei componenti di Camera e Senato. Un taglio così consistente, propagandato come un intervento punitivo nei confronti della casta politica e promosso senza cura alcuna per i tanti effetti collaterali dannosi che esso provocherebbe, ha infatti il chiaro intento di svilire il ruolo del Parlamento, secondo un progetto che trova espressione anche in altre revisioni programmate, alcune delle quali hanno già iniziato il proprio iter di esame e d’approvazione.
Il punto merita un breve approfondimento.
È vero che quella di cui stiamo parlando è una revisione puntuale che, sotto questo aspetto, non suscita i problemi sollevati da una riforma ampia come quella bocciata dal referendum del 2016. E, tuttavia, questo carattere non deve indurre, per un verso, a sottovalutare l’importanza di una seria analisi preventiva d’impatto della stessa revisione e, per altro verso, a trascurare il quadro complessivo che potrebbe scaturire dalla di poco successiva approvazione di altre revisioni, prima fra tutte quella dell’art. 71 Cost. Una riforma, quest’ultima, che introdurrebbe l’istituto del referendum propositivo, azionabile qualora un disegno di legge d’iniziativa popolare non fosse approvato dalle Camere entro diciotto mesi. In questo caso, la consultazione, qualora avesse esito positivo, comporterebbe l’approvazione definitiva del testo di legge.
Appare evidente l’intento ancora una volta punitivo di quest’ultimo intervento nei confronti dell’istituzione parlamentare, che vedrebbe così ulteriormente ridursi il proprio ruolo, a fronte di un rischioso potenziamento di quella che Ernst Fraenkel ha definito la componente plebiscitaria dello Stato democratico.
Modelli come quello che si verrebbe a delineare, frutto di combinazioni degne del dottor Frankenstein, come ha scritto Gaetano Silvestri, hanno un fascino certamente superiore alle pur appassionate difese della Costituzione, ormai sempre più spesso etichettate come “conservatrici”, ma la loro attuazione minerebbe alle fondamenta le istituzioni della democrazia pluralista.
Né, d’altro canto, appare realistico pensare che la riforma potrebbe costituire, come pure si è sostenuto, l’occasione per un ripensamento complessivo del bicameralismo.
L’esperienza dimostra, innanzitutto, come simili “occasioni”, in passato, non siano mai state colte nel senso auspicato dai promotori delle riforme approvate. Si pensi alle consistenti modifiche apportate al Titolo V della Parte II della Costituzione nel 1999 e nel 2001, che avrebbero dovuto avviare un processo di sviluppo delle autonomie ma che sono rimaste in gran parte sulla carta: dalla previsione della successiva ulteriore riforma del bicameralismo perfetto, con l’introduzione del Senato delle regioni o delle istituzioni territoriali (in attesa del quale l’art. 11 della legge costituzionale n. 3/2001 prevedeva l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e degli enti locali), alla previsione, ora contenuta nel riformato art. 116 Cost., del “regionalismo differenziato”, al quale si sta ancora faticosamente cercando di dare una prima attuazione. Ma si pensi anche alle sorti del più recente processo riformatore avviato dal Governo Renzi, naufragato nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, e alle leggi ordinarie precedentemente approvate, che anticipavano e presupponevano la stessa riforma costituzionale poi bocciata dalla consultazione popolare, tra cui soprattutto la legge Delrio (n. 56/2014) sull’assetto degli enti locali.
Se si guarda, insomma, alla storia delle riforme costituzionali degli ultimi decenni, si può ricostruire, come si è detto, un percorso ripetutamente interrotto da battute d’arresto e da spericolate inversioni, che ha scontato le conseguenze nefaste di un’immancabile eterogenesi dei fini.
Se anche volessimo dare seguito gramscianamente all’ottimismo della volontà, il pessimismo della ragione lascerebbe ben poco spazio alle speranze.
Ci siamo chiesti, peraltro, cosa accadrebbe se anche questo tentativo non andasse a buon fine? Se dopo l’approvazione referendaria della legge costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari non si riuscisse a trovare l’accordo sulla nuova legge elettorale e non fossero approvate le necessarie revisioni costituzionali e le modifiche legislative e regolamentari?
È ragionevole immaginare che, quando fosse possibile, potrebbe intervenire la Corte costituzionale, che molto probabilmente sarebbe chiamata in causa ancora una volta sulla legge elettorale, per valutarne la compatibilità con il mutato parametro costituzionale. Con tutte le conseguenze negative che tale ulteriore intervento comporterebbe, sia riguardo all’ulteriore delegittimazione del Parlamento sia ai rischi di sovraesposizione politica della stessa Corte. Quando, invece, quest’ultima non potesse arrivare, rimarrebbero i guasti provocati dall’ennesima “occasione” non colta.
Il bilancio decisamente negativo dell’esperienza riformista degli ultimi anni dovrebbe indurre a riflettere sul metodo finora seguito e sull’opportunità di avviare un discorso pubblico volto a collocare il tema delle modifiche costituzionali su un piano diverso da quello della quotidiana contesa politica, anche al fine di restituire alla stessa legge fondamentale una legittimazione troppe volte messa in discussione dai numerosi tentativi falliti di revisionarne i contenuti.
Tre ragioni per il SÌ
di Valerio Onida
Il referendum che si terrà il 20 settembre è di tipo “confermativo” o “oppositivo”. Non è cioè un istituto di democrazia diretta volto a consentire l’espressione della volontà degli elettori su una proposta formulata dai promotori (come avviene nel referendum abrogativo di leggi in vigore). Al contrario, i promotori qui chiedono che gli elettori votino per opporsi (o invece non opporsi, confermandola) ad una deliberazione già assunta dal Parlamento, cui spetta in esclusiva in potere di approvare – salvo appunto conferma degli elettori, qualora venga chiesto il referendum – una legge costituzionale già deliberata dalle Camere. Infatti, come si sa, l’articolo 138 della Costituzione stabilisce che deliberare una legge costituzionale di modifica della Carta spetta alle Camere, le quali all’uopo deliberano due volte ciascuna, a distanza di almeno tre mesi fra la prima e la seconda deliberazione, per consentire ogni ripensamento, e la seconda volta a maggioranza dei membri di ogni Camera. La richiesta di referendum, che può essere avanzata da un quinto dei membri di una Camera, da cinquecentomila elettori o da cinque consigli regionali, è preclusa se in seconda deliberazione entrambe le Camere hanno approvato la legge con la maggioranza dei due terzi dei componenti.
Ora, nel nostro caso la legge costituzionale che riduce il numero dei componenti delle Camere (non userei la brutta espressione dl “taglio”) è stata approvata dal Senato la prima volta il 7 febbraio 2019 con 185 voti a favore (più della maggioranza assoluta), 54 contro e 4 astenuti su 243 votanti; dalla Camera la prima volta il 9 maggio 2018 con 310 voti a favore, 107 contrari e 5 astenuti su 417 votanti; dal Senato la seconda volta l’11 luglio 2019 con 180 voti a favore (maggioranza assoluta), 50 contrari, nessun astenuto, su 230 votanti; alla Camera la seconda volta con 553 voti a favore (più di due terzi, e precisamente il 97,5% dei votanti e l’87,7 per cento dei componenti), 14 contrari e due astenuti. Il referendum ha potuto essere chiesto, non senza qualche difficoltà per trovare i firmatari, da 71 senatori (di cui 42 di Forza Italia; cinque senatori hanno pure ritirato la loro firma dopo averla data); non vi è stata richiesta da parte di elettori (una raccolta di firme indetta dal Partito radicale ha raggiunto solo poche centinaia di firme) né da parte di consigli regionali.
Ho ricordato questi dettagli per mettere in evidenza come si tratti di una legge che ha raccolto il larghissimo suffragio del Parlamento (alla Camera in seconda votazione quasi l’unanimità dei votanti) al termine di un iter complesso che ha visto confluire nel voto positivo, da ultimo, entrambi gli schieramenti di maggioranza formatisi al tempo dei due Governi Conte, e i dissensi – per lo più taciti – ridotti al minimo.
Da ultimo, come si è detto, su questa legge si è manifestato il consenso praticamente di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione (nelle due configurazioni successive), cioè una condizione che dovrebbe auspicabilmente sempre verificarsi quando si tratta di modificare la Costituzione, per evitare il rischio di riforme “di maggioranza”.
In queste condizioni, di fronte alla richiesta referendaria, fermi evidentemente la possibilità e il dovere di ogni elettore di orientarsi autonomamente in base alle proprie convinzioni, non si può non pensare che un voto negativo, diretto a smentire il pronunciamento compatto del Parlamento, dovrebbe trovare fondamento in solidi argomenti attinenti al merito della riforma, che cioè prospettino dei rischi di deterioramento delle istituzioni costituzionali.
Ora, la mia impressione è che gli argomenti portati in questi giorni a favore del no siano tutt’altro che convincenti. Non sono in gioco valori costituzionali primari. Non è in gioco l’equilibrio fra i poteri, non è in gioco il sistema parlamentare. Le assemblee parlamentari possono funzionare efficacemente sia con i numeri attuali, sia con i numeri ridotti proposti. Che la funzionalità di un’assemblea parlamentare dipenda dal numero dei suoi componenti, almeno entro certi limiti, non è vero (come dimostra tra l’altro il fatto che oggi Camera e Senato, che svolgono di fatto gli stessi compiti, e anche per prassi vengono trattati del tutto alla pari, funzionano altrettanto bene, o altrettanto discutibilmente, anche se la prima ha il doppio di membri del secondo). Semmai, si può ragionevolmente ritenere che l’approvazione della legge possa essere l’occasione (speriamo non sprecata) per mettere allo studio e per realizzare una serie di miglioramenti quanto alla loro funzionalità. Oggi assistiamo troppo spesso a dibattiti in aula che non sono veri confronti sia pure dialettici, ma mere occasioni di propaganda, in cui prevalgono le invettive, più che le critiche, nei confronti degli avversari politici; e a un lavoro legislativo quasi sempre volto solo ad approvare ed emendare testi governativi, per lo più decreti legge Anche se il prevalere dell’iniziativa legislativa del Governo è in qualche modo inevitabile nella legislazione corrente, non è bene che non restino spazi anche per approfondite riflessioni parlamentari su argomenti estranei all’indirizzo politico di Governo (si pensi al clamoroso silenzio del Parlamento “messo in mora” dalla Corte costituzionale sul delicato tema del fine vita, e più in generale a quante volte i “moniti” della Corte, che chiedono interventi legislativi, restino inascoltati).
Il rimedio è la riduzione del numero dei parlamentari? No, certo, ma può essere un’occasione da cogliere.
Si lamenta da parte dei fautori del “no” un indebolimento della “rappresentatività” del Parlamento, dovuto all’aumento del quoziente di rappresentanza, cioè del rapporto complessivo fra elettori ed eletti. Ma pensare che la rappresentatività delle Camere sia legata al fatto che ad eletto corrisponda un numero ristretto di elettori, è antistorico. Che a un deputato corrispondano 80.000 piuttosto he 128.000 elettori cambia poco o niente. Oggi la capacità delle assemblee di rappresentare effettivamente gli elettori, le loro idee, le loto istanze, i loro problemi, non è legata essenzialmente, specie in un Paese di decine di milioni di abitanti, ad una sorta di rapporto personale fra l’eletto e i suoi elettori, ma essenzialmente agli strumenti collettivi della rappresentanza politica, i partiti e le grandi organizzazioni sociali. Se c’è un difetto di rappresentatività questo è dovuto, indipendentemente dal numero degli eletti, al fatto che partiti e organismi intermedi non fanno bene il loro mestiere, a livello centrale e territoriale. Del resto la rappresentanza elettorale non si limita al Parlamento: ci sono assemblee elettive ai vari livelli territoriali. Non è che la “rappresentatività” di queste assemblee (come i consigli regionali e comunali) si sia ridotta a seguito delle leggi recenti (d.l. n. 138 del 2011) che hanno ridotto (fra l’altro in nome di esigenze di riduzione dei costi: la motivazione “anti casta” che oggi viene, giustamente, indicata come non valida rispetto alla riduzione del numero dei parlamentari!), il numero massimo di componenti delle assemblee locali. Piuttosto, una carenza di rappresentanza si è verificata con la legge “Del Rio” n. 56 del 2014 che ha abolito l’elezione diretta degli organi delle Province e delle Città metropolitane (e pochi hanno denunciato la riduzione, quella sì reale, della rappresentatività).
Se poi si vuole dire che con meno eletti scende la possibilità che formazioni politiche molto piccole entrino in Parlamento, questo è vero, perché una frazione di un quattrocentesimo o di un duecentesimo di elettorato è inferiore a un seicentesimo o a un trecentesimo. Ma l’eccessiva frammentazione politica del Parlamento non è di per sé un bene: tanto che in sede di legislazione elettorale (poiché quella è la sede decisiva) sono prevalenti oggi le spinte a non favorire o a ridurre l’eccessiva frammentazione, attraverso sistemi in tutto o in parte maggioritari o attraverso clausole di sbarramento esplicite o implicite (in un sistema di circoscrizioni senza recupero di resti in sede nazionale, è impedito l’ingresso in Parlamento di eletti rappresentanti di forze politiche inferiori a certe dimensioni). Ferma l’esigenza di salvaguardare un buon livello di pluralismo, ridurre la frammentazione politica eccessiva è desiderabile.
Nemmeno è valido l’argomento per cui con la riduzione del numero di parlamentari si verificherebbe un’assenza di rappresentanza di territori specifici come quelli delle piccole Regioni. Infatti i deputati come i senatori “rappresentano la Nazione”, dovunque siano eletti, e non solo i territori in cui sono eletti. Il Senato poi è bensì eletto (già oggi) a base regionale, in vista di un arricchimento della rappresentanza legato alla specifica presenza dei corpi elettorali regionali nell’ambito del Parlamento. Oggi c’è chi vorrebbe eliminare questa caratteristica del Senato, da sempre presente, muovendo in senso contrario all’idea costituzionale di un ruolo anche nazionale delle Regioni. In ogni caso, la riforma attuale non intaccherebbe questo aspetto, posto che continuerebbe ad essere previsto un numero minimo di senatori per ogni Regione, indipendentemente dalla popolazione (oggi sono sette, diverrebbero tre), per cui resterebbe un diverso e più alto quoziente di rappresentanza proprio nelle Regioni più piccole.
Quindi: nessuno “sfregio” e nessuna “mutilazione” al Parlamento o alla Costituzione; nessuna significativa alterazione della rappresentanza degli elettori, anche nei diversi territori; nessun ostacolo al buon funzionamento delle Camere, ma semmai un’occasione di miglioramento da questo punto di vista.
Cosa resta allora degli argomenti per il “no”? Resta, paradossalmente, solo la condivisibilità della critica portata ad una delle motivazioni addotte dai fautori della riforma; la riduzione dei costi. I “costi” della politica” – ferma l’esigenza di evitare sprechi – non sono un motivo per ridurre il numero degli eletti (e da questo punto di vista si può notare che anche le forze politiche “tradizionali” non sono prive di colpe, come si è detto).
Il resto, smontate le motivazioni di merito, attiene alla valutazione degli effetti del voto sul panorama delle forze politiche in campo, sui rapporti fra le stesse e sulle sorti del Governo: argomenti che dovrebbero di massima restare estranei ad una scelta referendaria che si confronta con una volontà legislativa ampiamente [vo1] e ripetutamente espressa proprio da quel Parlamento che si afferma di voler difendere.
Tre ragioni per il NO
di Lara Trucco
“Un filosofo che non poteva camminare
perché si pestava la barba, si tagliò i piedi”
(A. Jodorowsky)
Desidero innanzitutto rivolgere un grazie sentito alla Rivista “Giustizia Insieme”, nonché al Presidente Onida ed ai Colleghi per questa opportunità di dialogo e di confronto.
Una tale occasione di approfondimento dei contenuti della proposta di riforma, peraltro, risulta tanto più preziosa in quanto all’ampio consenso ricevuto dalla stessa in aula non sembra avere corrisposto – da ultimo, complice, probabilmente, l’epidemia di covid-19 – un altrettanto importante coinvolgimento della pubblica opinione, così da apprendersi, a pochi giorni dalla consultazione, che molta parte degli elettori ancora non saprebbero che oggetto del voto è proprio l’«organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero ordinamento» (Corte cost., sent. n. 35 del 2017).
Peraltro, il titolo proposto – “tre ragioni per il sì e per il no al referendum” – benché orientato ad una qualche presa di posizione al riguardo, conduce, nondimeno, a svolgere un’indagine a più ampio spettro, che è quanto dunque ci si propone di fare nelle pagine che seguono.
1. La prima ragione per il no al referendum: la (solo) apparente chiarezza del quesito proposito
1.1. Dei suddetti tre “versanti tematici” su cui siamo chiamati ad esprimerci, un primo che a nostro avviso merita senz’altro attenzione è quello che riguarda i contenuti del quesito.
È stato, infatti, da più parti evidenziato come la proposta attuale abbia abbandonato l’approccio “organico” seguito in tempi recenti, optando per un intervento più mirato, con l’obiettivo di meglio rispondere alla struttura binaria del voto referendario, e di venire così incontro all’esigenza di porre gli elettori nelle condizioni di rispondere con un “sì” o con un “no” a quanto richiesto.
Su questa base, volendo rifarsi a categorie note rese dalla Consulta a tutela della “libertà di voto” in ambito referendario, il quesito risulta “omogeneo”, disponendo di una matrice razionalmente unitaria: la “riduzione del numero dei parlamentari”, per l’appunto (ormai impressa nell’immaginario collettivo con il “taglio” di forbici diffuso dai media, a cui pertanto ci si riferirà nel prosieguo). Un diverso discorso, invece, ci sembra che vada fatto per il profilo dell’“univocità” del medesimo quesito, essendo l’elettore chiamato, con un solo voto, a compiere una pluralità di scelte (ben visibili, del resto, nella delibera proposta di riforma costituzionale) su cui, dunque, a stretto rigore, a stare del suddetto obbiettivo, ci si sarebbe dovuti poter esprimere disgiuntamente, e cioè a dire:
- il numero dei deputati (art. 1);
- il numero dei senatori (art. 2);
- il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione estero (art. 2);
- le Province autonome (art. 2) ed
- i senatori a vita (art. 3).
Chi voterà, infatti, potrebbe volere la riduzione del numero di deputati ma non quella dei senatori, o viceversa. Ancora, perché incorporare in un solo quesito anche la rappresentanza estera? E riformare contestualmente quella delle Province autonome? E, poi, perché non dare modo agli elettori di lasciare inalterato il numero complessivo di senatori di nomina presidenziale?
Si osserva, peraltro, che se il quesito fosse stato effettivamente “spacchettato”, si sarebbe potuto assecondare, in qualche misura (s’intende: nell’ipotesi di un “sì” alla riduzione dei senatori e di un “no” a quella dei deputati) uno di quegli aspetti su cui si registra una maggiore condivisione in dottrina (cfr., ex multis, Cheli, Tesauro e Violante), e cioè a dire la differenziazione tra le due Camere; tendendo, invece, un siffatto “accorpamento” ad omologare gli esiti referendari nella direzione del consolidamento dell’attuale “bicameralismo paritario” (specie in combinato col d.d.l. Fornaro).
Ciò, ci pare, potrebbe forse già di per sé bastare a dar prova della reale complessità della revisione, a fronte di una semplicità del quesito solo apparente, che potrebbe indurre a sottovalutarne la portata o comunque soggetto a molteplici interpretazioni (cfr., variamente, Ainis, Cacciari, Morelli, Prodi, Spataro, Zagrebelsky). Potendo, quindi, guardarsi in quest’ottica all’auspicio del Presidente della Camera dello svolgimento di «un dibattito ampio e approfondito», così da mettere i cittadini nelle condizioni di «poter votare in modo pienamente informato e consapevole». Là dove poi della medesima necessità di chiarezza si è fatto soprattutto interprete e portavoce, sempre nei giorni scorsi, lo stesso Capo dello Stato, allorquando, nel discorrere del disposto relativo alla “decorrenza delle disposizioni” della riforma dalla prossima legislatura – norma rimasta fuori dal quesito ma pur sempre presente nel testo della legge (art. 4) – ha teso, a precisare che comunque vada «il Parlamento in carica resta legittimo».
1.2. Peraltro, ad un esame più approfondito della proposta di riforma ci si avvede delle ulteriori implicazioni che l’eventuale vittoria del “sì” avrebbe sui contenuti della Carta.
La riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e di quello dei senatori da 315 a 200 comporterebbe, infatti, innanzitutto, una variazione del corpo votante per l’elezione del Presidente della Repubblica (ex art. 83 Cost.), il quale si vedrebbe, per l’appunto, “tagliato” da 1009 a 664 elettori, con la conseguenza che le maggioranze richieste si abbasserebbero, rispettivamente, a 443 voti (invece di 673) per i primi tre scrutini e 333 (invece di 505) dal quarto. Col che, si osserva, non solo i 58 delegati regionali avrebbero un peso maggiore sul totale degli aventi diritto al voto, ma l’ammontare complessivo dello stesso elettorato finirebbe per coincidere col numero di voti che decretarono l’elezione dell’attuale Capo dello Stato (n. 665, alla quarta votazione).
A ben vedere, sarebbero tutte le maggioranze richieste per le deliberazioni del Parlamento in seduta comune a venire incise: l’elezione di cinque giudici della Corte costituzionale (art. 135 Cost.), quella di un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104 Cost.) e, non in ultimo, la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica (art. 90 Cost.). Inoltre, verrebbero toccati i quorum di garanzia e in tutte le circostanze in cui siano richieste maggioranze qualificate e valori numerici assoluti (spec. artt. 62, 64, 72, 73, 79, 94 Cost.), nonché la stessa organizzazione interna, non escluse le dinamiche procedimentali, delle Camere (con la riduzione, tra l’altro, dei componenti e, correlativamente, dei quorum deliberativi delle commissioni). Ma, del resto, è la stessa avvertita necessità di ridefinire il rapporto percentuale tra senatori di diritto ed eletti a vita (v. supra) a dimostrare l’impatto che la riforma avrebbe sui rapporti numerici «armonicamente connessi» al tessuto della Carta (Costanzo, Volpi).
Pertanto, in questo quadro, nemmeno la revisione costituzionale verrebbe risparmiata (ex art. 138 Cost.), così che mentre da un lato sarebbe più facile da parte dei parlamentari fare domanda di referendum popolare (dal momento che la soglia si abbasserebbe da 126 deputati e 64 senatori a, rispettivamente, 80 deputati e 41 senatori), dall’altro lato e contestualmente sarebbe più a portata di mano la possibilità di non fare luogo a referendum, dato che per raggiungere la soglia dei due terzi dei voti basterebbero ora solo 267 deputati e 137 senatori (invece che, rispettivamente, 420 deputati e 214 senatori com’è stato sino adesso).
Pertanto, a tutto concedere, tassello dopo tassello, indipendentemente dal fatto di condividerne o meno il contenuto, sembra oggettivamente difficile valutare come sostanzialmente «insignificante» l’impatto della riforma (…).
2. La seconda ragione per il no al referendum: l’inadeguatezza del metodo di reclutamento “promesso” per la rappresentanza politica ridimensionata
2.1. Il secondo profilo tematico su cui s’intende portare ora l’attenzione è dato dall’incidenza della proposta di riforma in esame sulla rappresentanza politica e la rappresentatività dello stesso organo parlamentare.
Anche a questo proposito nelle argomentazioni del “sì” come in quelle del “no” è rilevata (e comunque continua a rilevare) la centralità del dato numerico, con le prime orientate dall’idea che il nostro Parlamento conti troppi componenti e le seconde, invece, schierate nel senso di ritenerlo in linea rispetto agli altri Paesi europei. È stato soprattutto nelle ultime settimane che (anche) da parte dei media si è teso a fare chiarezza sul punto, evidenziandosi la correlazione degli esiti delle analisi svolte con i metodi di comparazione adottati (v. grafici che seguono, basati sui dati forniti dai dossier dal Servizio Studi di Camera e Senato).
Ad ogni modo le cifre segnalano che se la revisione dovesse andare in porto il rapporto del numero degli abitanti per deputato aumenterebbe, passandosi da all’incirca da 96mila a 151mila ed analogamente avverrebbe per l’altra camera, con un innalzamento da 188mila a 302mila unità per senatore. Correlativamente, mentre sul versante dell’elettorato “attivo” si assisterebbe alla diminuzione della capacità dei singoli elettori di influire sull’esito dell’elezione, su quello “passivo” si avrebbe un innalzamento del consenso necessario per essere eletti (secondo dinamiche che verrebbero perdipiù assecondate dalla più ampia estensione dei collegi elettorali). Si osserva, peraltro, come parte della dottrina ritenga un siffatto ridimensionamento di «dubbia costituzionalità» in mancanza di un «chiaro disegno razionalizzatore», vedendosi, dapprima nel rapporto sancito dalla Costituente (di un deputato ogni 80mila abitanti per la Camera dei deputati e di un senatore ogni 200mila abitanti per il Senato) e, quindi, nell’ammontare fisso stabilito in sede di revisione (alla ricerca dell’equilibrio tra rappresentatività e funzionalità) una «soglia minima invalicabile per non compromettere il principio democratico» (Costanzo).
Ciò considerato, pare oggettivamente difficile contestare il fatto che alla “riduzione” del numero di parlamentari corrisponderebbe una “diminuzione” della rappresentatività dell’organo (cfr. Morelli). Per cui si condivide l’auspicio (cfr. Cacciari, De Marco, Lanchester) che al “taglio” si accompagni un sistema elettorale in grado di compensare quanto andrebbe perso (v. infra) nonché, in vista del dichiarato obbiettivo di una maggiore efficienza dell’azione di governo, un impianto istituzionale idoneo ad incanalarne gli esiti (v. infra). E, questo, indipendentemente dall’idea, di alcuni Costituenti, che «se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare» (Terracini).
In questo modo, le stesse occasioni di partecipazione politica, rese possibili, come osservato da parte della dottrina, dal rinnovato panorama istituzionale (spec. rappresentanza “multilivello”) e tecnologico (spec. sviluppo delle telecomunicazioni ed avvento del digitale), lungi dall’assumere una valenza surrogatoria o compensativa ne uscirebbero arricchite (cfr., variamente, sul punto, De Siervo, Nicotra, Onida).
2.2. Il fatto è che ci pare lecito avere qualche dubbio sull’idoneità dei sistemi elettorali messi ad oggi in campo a conseguire il suddetto obbiettivo, sia in termini “quantitativi” sia “qualitativi”, nella direzione della preservazione del pluralismo e, nel contempo, della valorizzazione della meritocrazia e della responsabilizzazione sul piano politico.
Va preliminarmente osservato come la riduzione stessa del numero di scranni comporti un aumento della soglia implicita di elezione in direzione “maggioritarizzante” (particolarmente “avvertibile” al Senato), dal momento che alla diminuzione dell’“offerta elettorale” a disposizione corrisponderebbe un aumento del costo di ciascun seggio in termini di voti, a beneficio delle forze politiche maggiori (cfr. Carlassare).
Ciò posto, secondo un primo scenario, sia che venga ripristinata la “legge Mattarella” (A.C. 2346), sia che si reintroduca il premio di maggioranza di lista e di coalizione (A.C. 2562), sia, ancora, che si segua la via della valorizzazione dell’uninominale prevista dal sistema attuale (A.C. 2589), ciò che rileva è – si precisa, in vario modo e diversa misura, in ragione delle caratteristiche di tali sistemi – l’accentuazione dell’impatto “dis-rappresentativo” della riforma costituzionale in esame. E ad un esito analogo condurrebbe il secondo scenario che si aprirebbe se venisse approvata la proposta di legge proporzionale in discussione alla Camera (A.C. 2329), data la difficoltà (spec. al Senato) di procedere alla “proporzionalizzazione” di liste (più) corte (di prima), e la previsione di una soglia di sbarramento esplicita (ad oggi fissata al 5%), che andrebbe a sommarsi a quella implicita di cui si diceva, a scapito delle forze minoritarie (di qui la necessaria previsione di un “diritto di tribuna”).
Né, per vero, a conclusioni molto diverse si arriverebbe nel “terzo scenario” che si aprirebbe se, invece, com’è probabile, non si facesse a tempo a modificare il Rosatellum-bis, per cui si avrebbe l’entrata in gioco delle norme già predisposte dal legislatore “per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” (legge 27 maggio 2019, n. 51, sul cui impatto si rinvia, volendosi, a Trucco). In particolare, si guarda problematicamente alla perdurante vigenza (spec. qui), delle liste bloccate, il cui bilancio, a distanza di tempo, non può che essere valutato negativamente in termini di risultati ottenuti. Con l’aggiunta, perdipiù, in caso pur sempre di mantenimento dell’attuale sistema, di quel meccanismo parimenti critico che è la “multicandidabilità” (la cui portata, peraltro, risulterebbe ora amplificata dalla mancata “riproporzionalizzazione” del numero di “multi-candidabili” nel quadro del nuovo impianto).
Per cui, ciò che se ne conclude è la (ulteriore) dilatazione del potere delle segreterie e soprattutto dei singoli leader nella selezione degli stessi parlamentari che potrebbe verosimilmente prodursi all’indomani della riforma, con ricadute che pare possibile preconizzare come non molto diverse da quelle attuali (cfr. Clementi, Dogliani, Morelli). Ci si limita, peraltro, a rilevare come la stessa riduzione dei parlamentari, combinata ai suddetti meccanismi maggioritarizzanti e blindati – in mancanza, com’è attualmente, di correttivi “di peso” – potrebbe verosimilmente portare ad una compressione – ed in fin dei conti al peggioramento – della situazione concernente la rappresentanza femminile (anche) in Parlamento. Il tutto, mentre il tema della regolamentazione “dei partiti” risulta essere uscito completamente di scena.
Non in ultimo, sul piano più propriamente tecnico si rileva il rischio (remoto ma comunque non trascurabile, stante la situazione politica attuale) del possibile innesco, a seguito di una ipotetica vittoria del “sì”. di un black-out istituzionale, nel lasso di tempo intercorrente tra la data di entrata in vigore della legge costituzionale modificativa del numero dei parlamentari e quella di entrata in vigore del decreto legislativo di ridefinizione dei collegi elettorali, per il fatto che, se per qualsiasi ragione si dovesse andare ad elezioni, il sistema di voto con l’attuale formato circoscrizionale non potrebbe funzionare (art. 3 della l. n. 51 del 2019, cit.).
2.3. Quanto testé osservato ci induce ad un ulteriore esame dell’impatto che la riduzione che deriverebbe “dal taglio” – pari, in termini percentuali, al 36,5% degli attuali componenti elettivi – avrebbe sull’autonomia territoriale, con specifico riguardo dunque alle Regioni ed alle “Province autonome” (v. il “nuovo” art. 57 della Costituzione).
Da uno sguardo complessivo rileva, infatti, la sofferenza che ne deriverebbe per quelle regioni nelle quali la parvità di seggi non consentirebbe di garantire una adeguata “copertura”, in termini di rappresentanza, all’intero territorio (si pensa, solo per fare un esempio, alla Liguria che, con la “disponibilità” di soli 5 seggi vedrebbe “scoperto” l’intero collegio al confine con la Francia).
Più nello specifico, risulta controversa la scelta politica relativa al mantenimento delle soglie minimali di seggi nella stessa norma costituzionale, ritenendosi maggiormente confacente al principio di eguaglianza un riparto puramente proporzionale dei seggi sulla base della popolazione dei vari territori. Così, com’è noto, la formulazione del nuovo disposto manterrebbe un numero minimo di senatori (pari però ora non più a sette ma a tre) “per Regione o provincia autonoma”, lasciando al contempo immodificata la previsione vigente dell’articolo 57, terzo comma della Costituzione relativa alle rappresentanze del Molise (2 senatori) e della Valle d’Aosta (1 senatore). Vero è, peraltro, che un siffatto rinnovato quadro vedrebbe alcune regioni meglio allineate al quoziente di rappresentanza medio (dato dal rapporto tra seggi e abitanti) rispetto alla situazione attuale. Tuttavia continuerebbero a vigere discrasie di rilievo nel quadro della rappresentanza regionale, per cui a beneficiare della situazione sarebbero, rectius: resterebbero (cfr. Conte), in particolare, Valle d’Aosta, Molise, Umbria e Basilicata, mentre a perdervi sarebbero Liguria, Abruzzo, Calabria e Sardegna (v. le tabelle che seguono).
Nel suddetto quadro, a far discutere sono soprattutto le province autonome di Trento e di Bolzano, in ragione non solo e non tanto, sul piano sostanziale, del perdurante favor rispetto agli altri territori (dato che in base alla popolazione esse dovrebbero beneficiare, al più, di un solo seggio), quanto, soprattutto, sul quello formale, per l’equiparazione che ne deriverebbe con le altre regioni.
La menzione, infatti, da parte del “nuovo” disposto costituzionale, proprio in vista della “ripartizione dei seggi” delle “Province autonome” insieme alle “Regioni” viene da alcuni (Besostri) ritenuto in contraddizione con la considerazione delle medesime – alla stregua di enti “compresi” nella (ovvero distinte ed autonome dalla) Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol – da parte dello Statuto speciale della Regione (agli artt. 1 e 3), oltre che dello stesso dettato costituzionale (all’art. 116, c. 2, Cost.).
3. La terza ragione per il no al referendum: la “cieca” razionalizzazione della forma di governo
3.1 Quanto osservato ci porta, da ultimo, a considerare una delle principali argomentazioni addotte dai sostenitori del “sì” e cioè a dire la maggiore funzionalità dell’organo e, correlativamente, il migliore rendimento della più ampia forma di governo che dalla riduzione preconizzata potrebbero verosimilmente scaturire (Nicotra).
Ciò si dovrebbe, in particolare, all’automatismo insito nella maggiore facilità che si avrebbe, al cospetto di numeri (più) ridotti, nel trovare l’accordo politico. Tesi, questa, che si condivide con riguardo a contesti in cui vigano rapporti personali votati alla collaborazione, ma che non ci pare possa essere data per scontata in contesti conflittuali, in cui “la personalizzazione” della scelta potrebbe anzi acuire la polarizzazione dello scontro, a fronte, invece, dei benefici che potrebbero derivare dal maggiore anonimato indotto dall’ampiezza dei consessi (Villone).
Più nello specifico, circa la funzionalità dei due rami del Parlamento è possibile pensare che molto dipenderà dalla (ulteriore) riforma che si vorrà fare dei regolamenti parlamentari (cfr. Clementi, Pertici). Mentre sembra trovare tutti d’accordo la necessità di concentrarsi più che sulle questioni legate alle tempistiche ed alla quantità di leggi approvate (cfr. Cassese), soprattutto sulla loro qualità (col che ritornandosi a quanto si osservava infra, circa l’importanza del sistema di reclutamento dei parlamentari). È noto, peraltro, il monito sui rischi di un rallentamento dei lavori e addirittura sui rischi di disfunzionalità che una riforma così tranchante potrebbe comportare soprattutto al Senato, data l’oggettiva difficoltà in cui le Commissioni potrebbero venirsi a trovare di adempiere ai propri incarichi (cfr. Azzariti, Violante). A tale riguardo, un profilo che, ci pare, sta passando sottotraccia è dato dall’ulteriore indebolimento che (pure in un contesto sovranazionale che vorrebbe valorizzarne il ruolo) deriverebbe sui rapporti intrattenuti dal nostro Parlamento col Parlamento europeo, e, più in generale, con le Istituzioni eurounitarie e le organizzazioni internazionali (cfr. Ceccanti). Col che riecheggiano le parole di chi in Assemblea Costituente avvertiva sull’opportunità che “il numero dei componenti un’assemblea risulti in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale” (Terracini).
Voci critiche di rilievo, poi, si sono levate anche in merito alla presunta maggiore efficienza dell’azione di governo a cui “il taglio” condurrebbe (Buzzacchi, Violante). In questo senso, si è osservato problematicamente come la riforma in esame tenda al suddetto traguardo attraverso uno svuotamento non meglio razionalizzato dell’organo, dal momento che l’«evidente perdita di ruolo che il Parlamento subirebbe non potrebbe non avere ricadute sulla dialettica col Governo, spostando il baricentro del sistema a favore dell’Esecutivo» (Algostino, Costanzo, Gambino, Tripodina, Volpi).
Più in generale, ritenendosi illusorio che il taglio di per sé solo possa bastare ad innescare la governabilità si è portati anche qui (v. supra) ad estendere lo sguardo alle (altre) proposte di riforma costituzionale in itinere, al fine di rinvenirvi qualche collegamento utile a rassicurare sull’idoneità della riduzione numerica del Parlamento al mantenimento delle promesse attese. Col risultato, tuttavia, di (ri)trovare (nel paragrafo della nota di aggiornamento del “DEF 2018” dedicato al programma di riforme istituzionali che il Governo intende attuare) tra le linee di intervento volte al “miglioramento dell’efficacia dell’attività del Parlamento” proprio la stessa e sostanzialmente sola “riduzione del numero dei parlamentari” (riguardando, le altre tre linee di intervento, rispettivamente: il potenziamento degli istituti di democrazia diretta, la soppressione del CNEL e l’introduzione del ricorso diretto alla Corte costituzionale sulle deliberazioni assunte dalle Camere in materia di elezioni e cause di ineleggibilità e incompatibilità dei membri del Parlamento).
3.2. Volendo, con la necessaria sintesi, tirare le fila del discorso, le tre “ragioni” di cui si è discusso, conducono, in ultima analisi, a rilevare problematicamente l’approccio riduzionista e fideistico della riforma, rispetto, peraltro, a quella stessa rappresentanza politica che sia “col sì” sia “col no” si mirerebbe variamente ed in certa misura a “sanzionare” politicamente.
Ciò, a nostro avviso, può già valere a motivare la diversa posizione assunta ora da parte di quella dottrina che in occasione della cd. “riforma Renzi-Boschi” si era dimostrata invece favorevole alla riduzione del numero di parlamentari; mentre, d’altra parte, non pare sufficiente a far concludere per una valutazione di puro conservatorismo della posizione di chi entrambe le volte si sia dichiarato contrario alla revisione…data la necessità, per l’appunto, in tutti i casi di considerare contestualmente – in disparte le motivazioni politiche – le ragioni di metodo e di merito sottese alle stesse riforme istituzionali.
Un denominatore comune che emerge dal confronto tra i diversi interventi svolti nel presente forum, sembra essere dato dal rilievo dell’importanza di avviare un discorso pubblico sul tema delle modifiche costituzionali. Col che, prendendosi atto di come il cammino delle riforme sia andato e vada nella direzione della riduzione della consistenza numerica dei parlamentari (v. tabella del Servizio studi della P.C.M.), si ritiene imprescindibile – sia che vinca “il sì”, sia che vinca “il no” –la ripresa del percorso delle riforme costituzionali avviato nel corso della XVII Legislatura, da parte dapprima dei due Gruppi di lavoro sui temi istituzionali ed in materia economico-sociale ed europea, e quindi della Commissione di esperti per le riforme costituzionali.
Può infatti pensarsi che quell’esperienza, interrottasi proprio alla soglia d’ingresso del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali, offrisse le più adeguate garanzie sotto ambo i profili più sopra menzionati, come del resto può dirsi spia l’importanza riconosciuta al dibattito in seno alla società civile (con la previsione, tra l’altro, di una procedura di consultazione pubblica) sulle stesse riforme.
Si riporta la tabella del Dossier della PCM
“Rassegna stampa” richiamata
M. Ainis, Un voto per la Costituzione, in La Repubblica, 1° settembre 2020
A. Algostino, Contro la riduzione del numero dei parlamentari, in nome del pluralismo e del conflitto, in Questione Giustizia, 10 febbraio 2020
G. Azzariti, La modifica del sistema elettorale secondo la proposta di legge dell’attuale maggioranza, in Consulta OnLine, 8 giugno 2020
G. Azzariti, I costituzionalisti critici spiegano in No ma i giornalisti non leggono più, in Il Manifesto, 10 agosto 2020
G. Azzariti, Riforma improvvisata per motivi strumentali, in La Stampa, 29 agosto 2020
F. Besostri, Il taglio dei parlamentari è anti costituzionale e il referendum non si può tenere lo stesso giorno delle amministrative, in articolo21.org, 14 luglio 2020
C. Buzzacchi, Se la rappresentanza diventa solo un inutile costo: ancora ragioni per il ‘no’, in Lacostituzione.info, 22 agosto 2020
M. Cacciari, Il referendum e le distopie dei populisti, in La Stampa, 22 agosto 2020
L. Carlassare, Referendum, Carlassare: “Se passa il No nulla verrà più cambiato. Meno parlamentari? Quel che conta è il loro rapporto con gli elettori”, in IlFattoQuotidiano.it, 30 agosto 2020S. Cassese, L’attività e l’efficacia del nostro Parlamento, in Corriere della Sera, 2 settembre 2020
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Tre ragioni per il SÌ
di Ida Angela Nicotra
Votare SÌ per allineare il Parlamento italiano agli standard degli altri Stati europei. Dal confronto con i Paesi del Vecchio Continente, quello italiano con i suoi 945 parlamentari è il più pletorico. L’Italia ha più parlamentari degli Stati Uniti, del Brasile e della Dieta nazionale del Giappone. Nel mondo, l’organo legislativo italiano risulta il terzo per numero di componenti. L’assemblea nazionale del popolo cinese è la più popolosa con quasi 3000 componenti, seguita dal Parlamento del Regno Unito la cui numerosità dipende dalla Camera dei Lord; l’Assemblea di origine medievale composta da 800 membri non scelti dai cittadini mediante elezioni e designati a vita.
Le Camere basse hanno in media 418 componenti, le Camere alte, rappresentative dei territori, 143. Qualora il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari venisse approvato, il parlamento italiano con 400 deputati e 200 senatori si collocherebbe nella media degli altri ordinamenti dell’UE.
L’integrazione europea e le sfide internazionali richiedono, infatti, la presenza di organismi politici sani, capaci di fornire prestazioni in termini di efficienza e capacità decisionale. Le inefficienze del Parlamento italiano hanno conseguenze anche sul corretto funzionamento delle istituzioni comunitarie. Il ruolo costituzionale del Parlamento è risultato infiacchito oltre che dalla scarsa qualità della rappresentanza, dalla sua composizione pletorica che ha comportato distorsioni sulla stessa funzionalità, producendo una legislazione bulimica, sovente incomprensibile e disordinata anche in settori nevralgici per la società e per l’economia.
La difficoltà di mediazione politica in un mutato clima istituzionale produce una legislazione confusa e contorta finalizzata a dar conto di interessi settoriali e di ristretti gruppi di potere, perdendo di vista la realizzazione dell’interesse generale. L’elevato numero di parlamentari esaspera la propensione della classe politica a condividere logiche particolaristiche attraverso la presentazione di micro – emendamenti che individuano precisamente i destinatari in gruppi di interessi ben delineati. Ciò produce una normazione spesso oscura e contraddittoria, con gravi ripercussioni sulla certezza del diritto e sulla relazione di fiducia tra cittadini e istituzioni, che comporta una disaffezione generalizzata verso le sedi di rappresentanza politica e robusti anticorpi al modello di democrazia rappresentativa.
Votare SÌ per adeguare, attraverso una riforma puntuale, il Testo Costituzionale ai mutamenti istituzionali e sociali. Infatti, la Costituzione italiana del 1948, nella sua versione originaria, non prevedeva un numero prestabilito di parlamentari. La riforma avvenuta con la legge costituzionale n. 2 del 9 febbraio del 1963, che – oltre a parificare la durata delle due Camere, fino ad allora diversificata in quanto di sei anni per il Senato – introdusse il numero fisso in Costituzione per i componenti delle Camere, si inquadrava in un contesto ordinamentale e politico assai peculiare.
In primo luogo, si viveva in piena guerra fredda, all’interno di un modello di democrazia bloccata in cui era inibito ad alcune forze politiche di far parte della compagine di Governo e dunque il Parlamento costituiva l’unico spazio riservato a quei gruppi politici costretti a svolgere costantemente un ruolo di opposizione. La composizione pletorica delle Camere, dunque, costituiva una sorta di correttivo che, a seguito dell’affermarsi della conventio ad excludendum, serviva a dare ascolto alle forze politiche emarginate in modo permanente dall’area di governo. Una sorta di diritto di tribuna per coloro cui era preclusa la guida del Paese.
Inoltre, pesava sulla scelta del numero dei parlamentari l’assenza di altri centri di rappresentanza; in particolare le Regioni, con i Consigli regionali, vennero istituite solo nel 1970, mentre si dovette attendere il 1979 per la prima elezione diretta, da parte di tutti i cittadini degli Stati membri dell’Unione, del Parlamento europeo, che passò da un organismo di membri designati a sede di rappresentanza politica europea.
Fino ad allora, la produzione legislativa delle Camere era pressoché esclusiva, il Parlamento godeva di una sorta di monopolio in materia di produzione legislativa.
Prima della riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con l. cost. n.3 del 2001, l’originario Testo costituzionale attribuiva il potere di fare le leggi in via pressoché esclusiva allo Stato, riconoscendo alle Regioni una residua e marginale potestà legislativa. In questo senso, infatti, il principale fondamento costituzionale della potestà legislativa era rinvenibile nella previsione dell’art.70 Cost., il quale prevedendo che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” legava inscindibilmente la funzione di legiferare al relativo potere, individuato nelle due Assemblee parlamentari. Dopo la riforma del titolo V l’assetto della potestà legislativa risulta profondamente mutato. Infatti, il nuovo articolo 117 ridimensiona nettamente la potestà legislativa statale a fronte dell’ampliamento di quella regionale. La rinnovata disciplina costituzionale della potestà legislativa quindi mette in luce come la categoria delle leggi statale e regionale sono poste sullo stesso piano, segnando il superamento dell’originario disegno della legge statale come fonte a competenza generale. Parallelamente, l’evoluzione del sistema giuridico comunitario ha portato ad un rapido sviluppo degli atti legislativi dell’Unione europea direttamente applicabili negli Stati membri. I progressi della governance multilivello richiedono un adeguamento delle Camere anche in termini numerici. La diminuzione del numero dei parlamentari va letta anche alla luce della devoluzione e del trasferimento di competenze in altri luoghi della rappresentanza.
Il numero dei parlamentari risulta ancor più sproporzionato alla luce dell’incongruenza che risiede nella circostanza che si tratta di una rappresentanza esclusivamente politica e non anche territoriale come avviene, di solito, negli ordinamenti a struttura bicamerale, incidendo sul rapporto tra eletti ed elettori e sullo stesso principio di democrazia che, per essere autenticamente effettivo, dovrebbe comportare l’inclusione delle istanze provenienti dai territori e non estromettere le stesse dalla massima sede di rappresentanza politica.
Favorire la caratterizzazione territoriale delle Camere attraverso un reale significato del potere di iniziativa legislativa delle Regioni e un coinvolgimento più intenso dei delegati regionali in occasione dell’elezione del Capo dello Stato condurrebbe ad un allargamento dello spazio per il concreto esercizio del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Una delle conseguenze della riduzione andrebbe ad incidere sulle maggioranze per l’elezione del Presidente della Repubblica, con un mutamento di proporzione che avrebbe l’effetto di dare più voce alle Regioni sull’elezione della Prima Carica dello Stato: cambierebbe infatti la proporzione che l’attuale Costituzione fissa in 58 su 945 (più i senatori a vita), con la revisione sarebbe di 58 su 600 (più cinque senatori a vita). Ad ogni modo se si volesse ripristinare l’equilibrio iniziale dei delegati regionali nel Parlamento in seduta comune per la scelta del Capo dello Stato basterebbe un intervento legislativo a partire dall’elezione successiva a quella delle nuove Camere a composizione ridotta.
Votare SÌ al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari potrebbe costituire la prima tappa di un percorso di riforma delle istituzioni (parificazione dell’elettorato attivo per la Camera e per il Senato a 18 anni, legge elettorale e bicameralismo paritario), affinché il sentimento antiparlamentarista e antipolitico, molto forte in Italia negli ultimi decenni, possa lasciare il posto a un clima di rinnovata fiducia verso la massima sede di democrazia rappresentativa.
Questa riforma non svuota la rappresentanza ma la riempie di un nuovo spessore. Perché il Parlamento possa riacquistare dignità ed autorevolezza bisogna, infatti, nuovamente intraprendere il percorso, tante volte interrotto, delle riforme istituzionali. La rappresentanza non rinverdisce attraverso consessi pletorici e sovrabbondanti, che anzi, proprio nell’incapacità decisionale, finiscono per smarrire legittimazione e credibilità.
Invero, il tema di una adeguata definizione del rapporto tra eletti ed elettori si ripercuote anche sul principio di responsabilità e sul miglioramento delle performance dei rappresentanti. Lo snellimento dell’istituzione parlamentare potrebbe costituire l’occasione per accrescere sia le capacità di lavoro dei singoli deputati e senatori, sia il peso nel veicolare in modo corretto le istanze di cui sono portatori, producendo maggiore efficienza e prestigio dei due rami del Parlamento.
Un minor numero di parlamentari potrebbe costituire un buon viatico per ciascun rappresentante, sia di maggioranza che di opposizione, a svolgere la propria funzione in modo maggiormente responsabile, secondo la fedele osservanza del precetto secondo cui “i Parlamentari rappresentano la Nazione e svolgono le loro funzioni senza vincolo di mandato” contenuto nell’art.67 della Costituzione.
Più proporzionato è il numero dei parlamentari più sarà incisivo il peso del potere legislativo rispetto a quello esecutivo. Il prestigio (e la capacità di stimolo sul governo) del Senato americano composto da 100 senatori non ha uguali nel mondo.
Come l’emergenza sanitaria da Covid ha ampiamente dimostrato occorre un Parlamento efficiente e snello perché le decisioni fondamentali per la vita sociale non siano prese altrove, attraverso provvedimenti dell’esecutivo sottratti al controllo parlamentare, ma rimangano ancorate alle rassicuranti garanzie previste per le leggi, dalla verifica del Capo dello Stato in sede di promulgazione al controllo di legittimità della Corte Costituzionale.
Il mestiere del giudice e la religione
Intervista di Roberto Conti a Gabriella Luccioli
Un tema apparentemente a rime obbligate quello del rapporto fra giudice e religione che abbiamo scelto di scandagliare insieme a Gabriella Luccioli, tanto esso parrebbe trovare risposta, quasi lapalissiana, nel canone della laicità dello Stato al cui interno si incardina il giudice quale suo ganglio vitale.
Eppure, chi svolge le funzioni giudiziarie e più in generale chi ha vissuto e vive nel nostro Paese sa bene come sia vero il contrario.
Il ruolo giocato dalla giurisprudenza rispetto a temi eticamente sensibili ha messo in luce, in questi anni, quanto sia difficile il mestiere del giudicare quando si incide su questioni che suscitano forti contrapposizioni di natura ideologica. Da qui le accuse che spesso vengono rivolte al giudice di turno, individuandolo come portatore di un preorientamento, più o meno conosciuto o manifestato e comunque percepito come rassicurante da taluni e pericoloso da altri ed in ogni caso capace di instillare nella società la convinzione della non parzialità di quel giudice.
Si percepisce, per altro verso, come emerga, a volte, una sorta di rivendicazione del giudice a non nascondere il proprio credo religioso o il proprio atteggiamento agnostico, esteriorizzando un’esigenza che affonda nel diritto a manifestare liberamente la propria personalità, nella legittima convinzione che il bagaglio di valori laici o religiosi non potrà incidere in alcun modo sul suo “giudicare” ovvero si fonderà con il compendio di principi che affondano nella Costituzione.
Da qui il florilegio di questioni che toccano tanto il piano dell’esteriorità quanto quello del modo del giudicare e che, a ben considerare, coinvolgono questioni di portata universale, come testimoniano i rumors che giungono dagli Stati Uniti circa la nomina alla Corte Suprema, proprosta alle Camere dal Presidente Trump, di una giudice nota per le sue posizioni conservatrici in sostituzione della Giudice Ginsburg, icona delle istanze progressiste.
Gabriella Luccioli, per molti individuata come la giudice della sentenza Englaro, ha trovato il modo di fissare senza enfasi un quadro di regole etiche, deontologiche e giuridiche importanti che non solo invitano alla riflessione, ma suscitano sincera ammirazione per una giurista che, pur avendo alle spalle il peso di un'esperienza professionale pressoché unica in Italia, non perde la voglia di ragionare, di confrontarsi a tutto campo e al contempo di dire in modo chiaro e senza tentennamenti il suo pensiero arioso e moderno com’è quello che si attende con quella società in perenne movimento che Rosario Livatino aveva anche lui individuato come terreno di continuo confronto del giudice, ulteriormente riflettendo attorno al ruolo del giudice e della fede.
1. D. Cara Gabriella, di recente un giudice del Consiglio di Stato nel corso di un’intervista, parlando di una sentenza della quale era stato relatore, relativa ad una questione eticamente sensibile - i matrimoni gay - ha esplicitato la sua fede cattolica dicendo che questa non poteva incidere sulla qualità della sentenza.
In un’altra recente vicenda che ha visto protagonista un altro magistrato questi, in modo garbato, ha stigmatizzato l’atteggiamento dell’attività amministrativa che, in ossequio alle disposizioni in tema di lock down, avrebbero vulnerato il suo diritto alla libera espressione del credo religioso. Secondo te quanto un magistrato ha il diritto di esternare il suo credo religioso e quanto la società ha il diritto-dovere di conoscerlo? E, ancora, quanto le esternazioni pubbliche di un magistrato sulla posizione personale del giudice sono in grado di appannare il canone della neutralità confessionale? Qual è, in definitiva, il punto di bilanciamento fra la libertà di religione e di espressione del giudice e l’interesse dello Stato alla laicità del giudice nell’esercizio delle sue funzioni?
R. Non credo esista un diritto del magistrato ad esternare il suo credo religioso, così come non credo esista il diritto-dovere della società di conoscerlo. Sono convintamente contraria a qualsiasi esposizione pubblica della vita privata e degli spazi esistenziali di ciascuno e rivendico l’importanza della riservatezza, della discrezione e del silenzio su tutto ciò che attiene alla sfera personale del magistrato, ai suoi orientamenti politici, al suo mondo di relazioni.
Ritengo peraltro che esternazioni siffatte siano prive di ogni interesse per la collettività, atteso che gli unici precetti che il magistrato è tenuto ad osservare nell’ esercizio delle sue funzioni stanno scritti nella Costituzione e nelle Carte dei Diritti e che i valori che innervano il suo lavoro sono la soggezione soltanto alla legge, l’autonomia della magistratura, la laicità dello Stato. Il controllo della legalità proprio della funzione del giudice non potrebbe espletarsi validamente se non fosse presidiato dalla saldatura di quei principi.
2. D. Giuseppe Pera, nel suo Un mestiere difficile. Il magistrato, osservava:” È comunque chiaro che, a prescindere dalle legittime e rispettabili convinzioni religiose, il magistrato non può farsi pregiudizialmente condizionare da una determinata concezione dei rapporti tra la predominante confessione nazionale e lo Stato; egli deve sentirsi impegnato alla stretta osservanza della legge statuale, eventualmente anche in contrasto con le direttive promananti dalle autorità ecclesiastiche, specialmente quando queste reclamino in ipotesi posizioni di favore che non possono trovare riconoscimento nell’ordinamento che egli serve, in particolare quando siano in questione i diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Nel passo successivo Pera aggiungeva che “a prescindere dalla posizione specifica del giudice, ove la questione si pone sul piano dei doveri implicitamente collegati alla funzione, io non vedo come il giurista, in quanto tale, possa aggettivarsi, politicamente o confessionalmente, in un senso o nell’altro; confesso che non ho mai condiviso le ragioni per le quali taluni si raggruppano come giuristi democratici e altri come giuristi cristiani, giacchè, a prescindere dalle prese di posizione in questo senso nelle sedi adatte, i giuristi, a mio avviso, non sono nè debbono essere di questa o di quella parte, posto che come tali si distinguono semmai dai non giuristi.” Gabriella, tu sei stata Presidente del collegio della prima sezione della Cassazione cha ha deciso il caso Englaro, suscitando notevoli reazioni nel mondo religioso. Sono passati ormai più di 13 anni dalla storica sentenza che ti vide Presidente. Oggi come rileggi quella vicenda? E ti sentiresti di rivelare le tue convinzioni religiose?
R. Prima di rispondere alle domande ora formulate credo sia necessario fare una premessa, agganciandomi alle parole di Giuseppe Pera.
La generalizzazione sempre più diffusa e convinta dell’ argomento costituzionale come criterio di interpretazione della legge, secondo acquisizioni maturate sin dal Congresso di Gardone, facendo della Costituzione una fonte in grado di regolare direttamente, attraverso l’ interpretazione, la vita delle persone e i rapporti sociali, ha profondamente inciso sull’ esercizio della giurisdizione, consentendo alla giurisprudenza di collocarsi, anche dal punto di vista dommatico, nel sistema delle fonti di produzione del diritto ed attribuendo al giudice un ruolo molto più incisivo e dinamicamente aperto rispetto al passato, ponendolo come cerniera tra legge e cittadino, tra un comando che resta fissato in un testo scritto e richieste di tutela di diritti spesso non immediatamente riconducibili a quel testo.
Ed è inevitabile che nel momento in cui l’ attività interpretativa si inserisce nel processo di individuazione del significato della norma, e dunque di produzione del diritto, che si fa diritto vivente, si aprano spazi sterminati per l’interpretazione, anche a causa dell’ affiorare, spesso inconsapevole, di sensibilità personali, stereotipi inconsciamente alimentati, pregiudizi, convincimenti radicati e mai posti in discussione, esperienze di vita, forme mentali, dati caratteriali. E lì dove premono orientamenti pregiuridici le linee di ragionamento e di valutazione restano profondamente influenzate.
In realtà tutte le nostre decisioni sono impregnate di stereotipi, pregiudizi e ideologie, ed anche la proposizione di questioni di costituzionalità riflette, a ben vedere, la maggiore sensibilità del giudice remittente rispetto ad altri giudici che della norma impugnata hanno fatto sino a quel momento applicazione.
Ben più delicata e complessa è la questione quando si tratta di affrontare argomenti che coinvolgono i grandi temi della fede o comunque profili religiosi, come quelli inerenti alle scelte di vita o di morte e al biodiritto, in quanto per il credente le prescrizioni religiose dispiegano la forza del vincolo ineludibile, da rispettare in ogni momento del suo operare. Ed è qui che viene in gioco il principio di laicità dello Stato.
Alcuni commentatori[1] richiamano, nella sterminata letteratura sul tema, la contrapposizione tra gli studiosi, divisi tra coloro che propugnano una laicità debole (Habermas), che unisce credenti e non credenti e che esige che le ragioni religiose utilizzino clausole di traduzione tali da renderle ragioni condivise, o una laicità debolissima (Taylor), che esclude la possibilità di distinguere argomenti religiosi e non religiosi, così annullando la differenza tra ragione e religione, o infine una laicità forte (Flores d’ Arcais), che tende a rifiutare qualsiasi argomento religioso, in quanto basato su affermazioni di tipo autoritativo, secondo una visione che, prescindendo dalla presenza di una divinità superiore, è inevitabilmente destinata a produrre un irriducibile contrasto tra i suoi fautori ed il pensiero cattolico.
A fronte di tali distinzioni concettuali io penso che il rispetto della dignità, della libertà, dell’ autonomia di ogni essere umano sancito dalla Costituzione imponga al giudice l’ assunzione di una laicità sana, quella cui la Corte Costituzionale[2] ha inteso riferirsi affermando che ai fini del rispetto del principio di laicità vi è l’ obbligo dello Stato di assumere un atteggiamento di equidistanza e imparzialità nei confronti di tutte le confessioni religiose e di assicurare il libero esercizio di tutte le attività spirituali delle diverse comunità dello Stato. Ne consegue che tra le ragioni esplicitabili nei provvedimenti giurisdizionali non può esservi spazio per argomentazioni di carattere religioso o per manifestazioni di adesione ad una qualsiasi confessione.
Venendo ora alle tue domande, esse mi sollecitano il ricordo delle reazioni violentissime che si scatenarono dopo la sentenza n. 21748 del 2007 e dopo il successivo decreto della Corte di Appello di Milano che in sede di rinvio autorizzò il distacco dei trattamenti di sostegno vitale che consentivano ad Eluana Englaro di continuare a vivere. Reazioni di esponenti di una certa area politica e del mondo ecclesiastico che parlarono di omicidio per sentenza e accusarono la magistratura, ed in particolare la Corte di Cassazione, di aver posto in essere la prima esecuzione capitale per sentenza della storia repubblicana italiana. Nonostante la violenza di un’ accusa siffatta, quella decisione, frutto di uno studio e di una discussione profonda dell’ intero collegio, non mi ha mai posto problemi di coscienza o di coerenza con i miei convincimenti religiosi, trovando essa solido fondamento in quel nucleo forte di principi tratti dalla Costituzione e dalle Carte dei diritti che esaltano la dignità, la libertà e l’ autodeterminazione delle persone, ponendo al centro della riflessione il rispetto dei diritti umani e il valore dell’ eguaglianza.
3. D. Quando il giudice si trova a dirimere una lite nella quale entra in gioco la religione - pensa al caso esaminato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.21916/2019, relativo al diritto del minore a frequentare le funzioni dei Testimoni di Geova alle quali partecipava la madre con l’ opposizione del padre - o direttamente una questione religiosa (sono note le cause relative all’esposizione del crocefisso all’interno di istituzioni pubbliche ed alla compatibilità di tali simboli con il principi di laicità dello Stato, sulle quali è di recente tornata, sia pur investendo della questione le Sezioni Unite civili, Cass. sez. lav., n.19618/2020) quale deve essere, secondo te, la posizione del giudice nel motivare la sua decisione e quanto inciderà sulla decisione stessa il suo convincimento religioso?
R. Le due questioni cui fai riferimento hanno effettivamente costituito oggetto di plurimi interventi della giurisprudenza. Quanto ai testimoni di Geova ed al loro credo contrario ad ogni trasfusione, che ha dato luogo ad un ampio contenzioso, osservo che se il giudice non può non rispettare la volontà espressa dall’ adulto di rifiutare per sé la trasfusione[3], anche a costo della perdita della vita, secondo il principio fondamentale di autodeterminazione, più delicata è la questione quando si tratti di minore e la volontà contraria provenga dall’ esercente la responsabilità genitoriale. Venendo qui in discussione la vita stessa del minore in relazione ad un trattamento terapeutico che viene rifiutato per motivi attinenti al credo religioso del legale rappresentante, che si pongono in antitesi con la tutela della salute psicofisica del minore stesso, e prima ancora della sua vita, soccorre l’ ultimo comma dell’ art. 3 della legge n. 219 del 2017, che affida la decisione al giudice tutelare, il quale non potrà che assumere come canone fondamentale di riferimento e come limite all’ autonomia familiare il best interest del minore. Nella tensione tra le dimensioni della libertà e della doverosità che segnano la responsabilità genitoriale compito del giudice è quello di sottrarre il minore alle conseguenze letali di una scelta ideologica e di farsi garante della tutela della vita, in forza del principio di precauzione che depone per la vita, non per la sua cessazione.
Quanto alla questione della presenza del crocefisso nelle aule scolastiche, non è questa la sede per ricordare i tanti interventi della giustizia amministrativa, anche in sede consultiva, dei giudici ordinari, della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo in materia (io stessa ebbi occasione di occuparmene nel decidere in Sezioni Unite un regolamento preventivo di giurisdizione): ho sempre ritenuto che si trattasse di questione enfatizzata da una ideologizzazione estrema, da una sorta di bigottismo laico, atteso che l’ affissione di quel simbolo, consentita da risalenti e mai abrogati provvedimenti normativi, se può avere un significato di testimonianza per i seguaci della religione cattolica, per chi non è credente si risolve in una presenza ininfluente rispetto alle proprie convinzioni, potendo essere intesa come simbolo di una cultura che fa parte del nostro patrimonio storico o addirittura come un mero elemento di arredo.
4. D. La Corte costituzionale italiana, occupandosi di una vicenda in cui il giudice tutelare remittente aveva prospettato l’incostituzionalità della legislazione interna in tema di autorizzazione di minore d’età ad interrompere la gravidanza laddove non consente al giudice la possibilità di far valere la propria obiezione di coscienza, ha ritenuto, nel dichiarare l’infondatezza della questione, che “É propria del giudice, invero, la valutazione, secondo il suo "prudente" apprezzamento: principio questo proceduralmente indicato, che lo induce a dover discernere - secondo una significazione già semantica della prudenza - intra virtutes et vitia. Ciò beninteso in quei moduli d'ampiezza e di limite che nelle singole fattispecie gli restano obiettivamente consentiti realizzandosi, in tal guisa, l'equilibrio nel giudicare.” (Corte cost.n.196/1987). Concordi con questa prospettiva del giudice costituzionale e, se sì, come si concilia col tema di cui qui discutiamo?
R. Il potere conferito dall’ art. 12 della legge n. 194 del 1978 al giudice tutelare di autorizzare la donna minorenne ad interrompere la gravidanza è forse quello che più incisivamente può far sorgere situazioni di conflitto con la coscienza religiosa del magistrato, non essendo prevista alcuna possibilità di sua obiezione di coscienza. Ma ogni ipotesi di conflitto interiore non può che trovare composizione seguendo le lucide riflessioni della Corte Costituzionale nella sentenza da te citata, che ha ricordato non solo, sul piano strettamente tecnico, che i margini di intervento del giudice tutelare sono ben circoscritti, limitandosi il suo provvedimento ad integrare la volontà della minore, ma anche che il magistrato è istituzionalmente deputato ad attuare un interesse generale che impone la limitazione della sua libertà di coscienza e che il doveroso adempimento dei doveri inerenti al suo ministero vale a rendere compatibili i suoi convincimenti con la norma da applicare.
5. D. Negli Stati Uniti l’incidenza del fattore religioso nella procedura di nomina dei giudici delle Corti federali e delle Corte Suprema assume tratti diversi. Sono note le domande che alcuni senatori rivolsero in sede di audizione preliminare ai futuri giudici della Corte Suprema. Certamente emblematica in tal senso fu la domanda posta dal senatore Joseph Mahoney al futuro giudice della Corte Suprema William Brennan sul conflitto interiore che animerebbe il giudice tra l’asservimento ai dettami della propria religione e l’obbedienza al giuramento alla Costituzione ed alle leggi degli Stati Uniti d’America, ogni qual volta siano sottoposte al suo vaglio questioni involgenti la fede e la morale. Il problema sembra riproporsi in questi giorni, all’indomani della scomparsa della Giudice della Corte Suprema Ginsburg, icona del mondo progressista, che potrebbe essere sostituita dalla Giudice Barrett, personalità del mondo giuridico nota per le sue posizioni conservatrici, che tuttavia ha rivendicato, già in occasione della sua precedente nomina a giudice di una corte federale di appello, di non sentirsi condizionata dalla sua fede religiosa, esternata in alcune pubblicazioni, sentendosi soggetta soltanto alla Costituzione.
Anche nella procedura di nomina dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo i candidati dei singoli Stati sono sottoposti a domande da parte dell’Assemblea del Consiglio dell’Europa nelle quali è possibile che ai giudici vengano poste domande concernenti le loro convinzioni personali.
Orientando ora lo sguardo sul piano interno, secondo te il fattore religioso risulta neutro rispetto al ruolo del giudice o la società accetta che esso possa condizionare la sua attività quando nei casi concreti potrebbero essere determinanti, soprattutto rispetto ai grandi temi etici e bio-giuridici del nostro tempo, le convinzioni religiose del giudice?
Capita che i messaggi dei rappresentati di un orientamento religioso risultino, a volte, davvero di portata universale. Pensa all’incontro di Papa Francesco con l’Associazione Nazionale Magistrati del febbraio 2019, avvenuto ben prima delle vicende culminate nella indagine della Procura di Perugia (Se lo dice il Papa!, in questa Rivista). In quell’occasione furono scolpiti alcuni principi sul ruolo della giurisdizione del nostro tempo mostrandone la centralità ed indispensabilità purché essa si fosse mostrata linda, trasparente, apolitica, non opaca, non parziale, non orientata a logiche ‘di parte’ o ‘di corrente’. Ne condividi la portata ed il senso dunque consentito al giudice laico?
R. Innanzi tutto rivendico la bontà del nostro sistema di reclutamento dei giudici per concorso, che si fonda unicamente sul principio del merito.
Quanto alla vicenda della successione alla giudice Ginsburg, alla Corte Suprema degli Stati Uniti, si tratta di una brutta pagina della storia americana. E’ oggetto di pesanti critiche nella comunità internazionale ed in tutta la libera stampa la repentina, ma non inaspettata, decisione di Trump di sostituire alla vigilia delle elezioni presidenziali colei che è stata una icona liberal della cultura progressista, femminista, intrepida e tenace combattente in tante battaglie in favore delle donne con la giudice Amy Coney Barret, personaggio fieramente di destra ( che sembra peraltro essere stata cinicamente tenuta in stand by in attesa della morte della Ginsburg).
Leggiamo che la Barret è stata assistente di Antonin Scalia, del quale sono ben note le posizioni reazionarie assunte quale giudice della Corte, è cattolica, conservatrice, antiabortista; difende il diritto al possesso di armi; è stata seguace dell’ originalism, corrente di pensiero che sostiene che la Costituzione americana debba essere interpretata secondo lo spirito del tempo in cui fu scritta, senza alcuna possibilità di una sua lettura evolutiva; ha fatto parte della “setta delle ancelle cristiane”, People of Praise, gruppo cristiano emerso dal cattolicesimo che crede nelle profezie e nell’estasi religiosa e pone l’ uomo come unica guida della famiglia, precludendo alle donne il raggiungimento di posizioni di vertice; si è espressa in favore di provvedimenti anti-immigrati; ha contestato le “condanne facili” di studenti accusati di stupro nei campus universitari, denunciando la facilità con la quale si si dà generalmente credito alle parole delle donne denuncianti. Sembra inoltre che in più occasioni abbia affermato di ritenere il suo lavoro legale come un modo per affermare il regno di Dio. Se poi si aggiunge la sua giovane età (ha quasi 40 anni meno della Ginsburg), l’essere madre di sette figli e la sua telegenia, è da prevedere che l’impatto su un certo elettorato sarà fortissimo.
Se, come purtroppo sembra probabile, l’operazione andrà in porto con la ratifica del Senato, un così forte squilibrio tra le due anime della Corte Suprema avrà effetti determinanti nelle decisioni su temi importanti come la riforma sanitaria, l’ immigrazione, la normativa sull’ aborto e sui diritti riproduttivi, il lavoro, l’ ambiente, i diritti sindacali e si proietterà in un tempo assai più lungo della presidenza Trump, attesa l’ assurda durata a vita della carica.
Indubbiamente tra le molte ragioni che hanno ispirato la scelta di Trump vi è quella di recuperare consenso, assicurandosi il voto dei cattolici, così come vi è il proposito di azzerare in tempi brevi riforme non condivise, ed in primis l’Obamacare, come espressamente dichiarato, ma vi è anche, più in generale, la volontà di riaffermare a livello politico, culturale e sociale i suoi valori di riferimento, ispirati alla reazione più oscurantista, consegnando la Corte Suprema americana ad una maggioranza solidamente conservatrice.
Le parole accorate di Ruth Bader Ginsburg, che poco prima di morire formulava l’ auspicio che la nomina del suo successore avvenisse dopo le elezioni presidenziali, suonano ora come una denuncia, più che come una sconfitta.
Vengo all’ ultima domanda. Il pensiero espresso da Papa Francesco in occasione dell’ incontro con l’ ANM nel febbraio 2019 colpisce per la sua forte laicità e per la capacità di rivolgersi a tutti i magistrati, credenti e non credenti, cogliendo in modo intenso il senso del giudicare ed il ruolo del giudice nella società.
Nella visione del Pontefice al centro della giustizia sta l’uomo e la sua dignità, soprattutto quando si trova in condizioni di povertà e vulnerabilità. Il Papa sollecita i giudici ad una giustizia “sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione”. Ed il valore della solidarietà che il Papa fortemente richiama si aggancia nel suo pensiero al tema dei diritti e delle libertà, secondo una prospettiva che trova la sua sintesi nell’art. 2 della nostra Costituzione.
Le uniche norme che il Papa ha evocato nel corso dell’incontro sono state la Carta costituzionale, le leggi dello Stato, da interpretare in senso evolutivo sulla base dei principi sanciti in Costituzione, il codice etico. Una visione moderna, dinamica e aperta ai grandi cambiamenti nella società ed una straordinaria lezione di laicità da parte della massima autorità del cattolicesimo.
6. D. Nel romanzo dello scrittore inglese Ian Mc Ewan “La Ballata di Adam Henry” ad un certo punto, la giudice Maye rivolge al minore che aveva deciso di non sottoporsi alle trasfusioni per il suo credo religioso la seguente domanda: ”Credi che Dio sarebbe contento di averti cieco, demente o in dialisi per il resto della vita?” E il ragazzo così risponde: “Se non crede in Dio dovrebbe evitare di parlare di cosa lo fa contento e cosa no.” In questo frammento del romanzo cosa cogli nel contegno dei due interlocutori, cosa apprezzi e cosa pensi che non andava detto? Come ti saresti comportata tu se, ipoteticamente, ti fossi trovata in una situazione simile a quella di Fiona Maye?
R. Nel bel romanzo di Mc Ewan il malato Adam ha 17 anni e 9 mesi ed è intelligente, brillante, appassionato nelle sue convinzioni di fede, molto preparato sui testi religiosi: tutto questo rende estremamente difficile e sofferta per Fiona Maye la scelta della decisione da adottare, specialmente dopo aver ascoltato il ragazzo in un drammatico e intenso colloquio. Ma la scelta compiuta dalla giudice inglese tra legge laica e precetti religiosi, dando ad Adam con la propria decisione una nuova vita, è quella giusta anche secondo il nostro sistema giuridico, in quanto la minore età del ragazzo gli preclude il pieno esercizio di diritti in ambito sanitario ed il giudice deve ispirarsi al principio del best interest of the child preservando per lui il bene della vita.
7. D. In un passo de Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, discorrendo della pena di morte Guido Calabresi così scrive: “Io sono contrario alla pena di morte, perché, in primis, già sotto il profilo etico-religioso, non ritengo che possa darsi il diritto di uccidere un’altra persona”. Pensi che un giudice in Italia possa spingersi a tali dichiarazioni?
R. Per un giudice italiano la risposta è chiara. La sua contrarietà alla pena di morte non può che trarre ragione dall’ultimo comma dell’art. 27 Cost. e dal disposto del comma precedente, che ne costituisce fondamentale premessa, secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Al di là della facilità della risposta, la domanda evoca il tema più ampio dei doveri del giudice chiamato ad applicare una legge ritenuta ingiusta. La conclusione dell’Autore di quel prezioso libretto, dopo un’accorata e inutile ricerca di una possibile soluzione che lo dispensi dal comminare la pena capitale, è nel senso che l’unica via percorribile è quella del rispetto della legge. Nell’ eterno dilemma tra Antigone e Creonte, tra legge morale e diritto positivo, tra coscienza individuale e ragion di stato[4], il giudice non può che utilizzare gli strumenti che l’ordinamento mette a sua disposizione per avvicinare la legge alla giustizia, percorrendo il sentiero dell’interpretazione costituzionalmente orientata o proponendo la pertinente questione di costituzionalità. Se l’adozione di tali strumenti non producesse il risultato auspicato, al giudice non resterebbe che il confronto sofferto e solitario con la propria coscienza.
8. D. Quando una decisione del giudice risulta “contro-maggioritaria”, ponendosi in contrasto con il sentimento religioso dominante di una società, il giudice rischia di apparire come portatore di un sentimento del tutto opposto a quello della maggioranza. Trovi vi siano rimedi a questa situazione difficile in cui viene a trovarsi il giudice?
R. Non esistono rimedi immediati all’ irrazionalità di un dibattito alterato da posizioni ideologiche preconcette e segnato dall’ intolleranza. Soltanto una maturazione della coscienza collettiva ed un ritorno a ragionamenti lucidamente argomentati può portare alla ricerca di soluzioni nel segno della tutela effettiva dei diritti. Come osserva Marilisa D’ Amico, l’ideologia non difende i diritti.
Tornando alla sentenza Englaro, dubito che le aspre reazioni cui prima cennavo riflettessero il sentire prevalente del Paese, ma so per certo che esse si fondavano su una assurda contrapposizione del partito della vita a quello della morte e sulla inaccettabile pretesa di far risiedere la legittimità di una legge statuale nella sua conformità alla morale cattolica. Le successive evoluzioni di tale tematica sul piano normativo, con la legge n. 219 del 2017 concernente i trattamenti di fine vita, e su quello della giurisprudenza costituzionale, con la doppia pronuncia della Consulta n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019, costituiscono autorevole conferma non solo della coerenza sul piano dei principi di quella decisione, ma anche del maturare a livello politico ed istituzionale di una diversa sensibilità e a livello sociale di una maggiore comprensione per i drammi di coloro che vivono esperienze oltre il limite del sopportabile.
9. D. La rappresentazione della giustizia umana e di quella divina nelle parole di Rosario Livatino tendono a coincidere, ma non sempre questa coincidenza risulta possibile. Nel suo scritto “Fede e diritto” raccolto dalla sua professoressa Ida Abate nel libro “Il piccolo giudice” Livatino scrive che non è possibile non porsi il problema del rapporto fra fede e diritto. Nell’esaminare alcune delle questioni eticamente più sensibili, Livatino afferma che “il magistrato, credente e non credente, deve nel momento del decidere dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia: devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà e autonomia!”
Ancora di recente Marta Cartabia, in un’intervista rilasciata al Messaggero all’indomani del suo commiato dalla Corte costituzionale, alla richiesta di spiegare come riuscisse a conciliare il suo essere cattolica con la visione laica dei suoi colleghi, ha risposto dapprima con un interrogativo - “Perché essere cattolico viene percepito da alcuni come un problema?” - poi, sottolineando come il Vangelo offra uno sguardo che “permette a tutti, laici e credenti, di trovare un terreno di incontro”. Condividi questa prospettiva?
R. Le posizioni di Rosario Livatino ( di cui in questi giorni abbiamo rinnovato il ricordo e il rimpianto) e di Marta Cartabia mi sembrano molto vicine su questo tema. Per entrambi fede e diritto costituiscono mondi pienamente conciliabili, perché la legge evangelica della carità e dell’ amore, anche verso la persona giudicata, comprende e valorizza l’ umanità di ogni essere umano e rende lo sguardo del giudice simile a quello del Cristo che incontra la prostituta o conforta il buon ladrone sulla croce: ed è questo sguardo, nella loro prospettiva, che permette di trovare un terreno di incontro tra laici e credenti.
Mi è difficile condividere l’assunto secondo il quale il rendere giustizia non può essere disgiunto dalla fede. Per formazione mi sento piuttosto in sintonia con quel modello di giurista liberalcattolico propugnato da Arturo Carlo Jemolo, che pur non separandosi mai da un colloquio con se stesso e con la sua coscienza pensa secondo gli schemi della società civile ed intende la laicità - che non ha nulla di antireligioso - come principio di distinzione tra Stato e religioni e che pone come propria coscienza politica uno Stato che accoglie credenti e non credenti e riconosce a tutti eguali diritti ed eguale dignità.
Nella visione laica quello sguardo di carità e di amore si chiama rispetto e si identifica appunto nella tutela della dignità di ogni essere umano. Ed è lo stesso principio di legalità, come ricordava Antonino Caponnetto, che impone di porre la persona al centro dell’universo, così garantendo il rispetto di tutte le fedi da parte dello Stato.
Non riesco peraltro a ravvisare spazi di conciliabilità tra precetti evangelici e diritto positivo su alcuni temi che compendiano valori irrinunciabili per la dottrina cattolica, come quelli dell’aborto, dell’indissolubilità del vincolo coniugale, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, dell’aiuto al suicidio.
Ancor più evidente mi appare l’impossibilità di ricomporre le due sfere negli ordinamenti islamici, in cui le due società, religiosa e statale, sono totalmente fuse ed in cui la coincidenza tra legge divina e legge dello Stato e tra le rispettive tavole dei valori ha determinato l’introduzione nel sistema di istituti come il ripudio o la poligamia e di pratiche di mutilazione genetica del tutto stridenti con il rispetto del valore della persona. Mi piace al riguardo richiamare la recentissima sentenza n. 16804 /2020 della Corte di Cassazione, che ha ritenuto non riconoscibile nell’ ordinamento statuale italiano, per la sua contrarietà all’ordine pubblico sostanziale e processuale, la sentenza di ripudio emessa da un tribunale sciaraitico.
10. D. Le istituzioni giudiziarie, nel momento in cui devono valutare e decidere questioni “religiosamente” sensibili - in Italia tra i casi più noti vi è stato quello del crocefisso esposto nelle aule di giustizia - potrebbero trovarsi di fronte a “scelte tragiche” in caso di conflitto tra i principi costituzionali e quelli della religione che professano o alla quale non aderiscono, più o meno dichiaratamente. La Corte costituzionale ha offerto risposte univoche sul punto?
R. Un’ indicazione precisa in direzione della supremazia del principio di laicità nella soluzione di questioni che hanno a che fare con la religione e con la fede è stata offerta proprio dalla Corte Costituzionale con la due pronunce n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019 innanzi richiamate: ed invero detta Corte ha percepito l’ inaccettabilità da parte dell’ ordinamento del dolore di persone che si trovano in una posizione simile a quella di Fabiano Antoniani ed ha ritenuto irragionevole continuare ad infliggere loro una sofferenza gravissima per mantenere un divieto penale assoluto contrario ad ogni principio di ragionevolezza. Con spirito laico e libero da incrostazioni ideologiche la Consulta ha formulato osservazioni di grande rilievo dal punto di vista etico, prima ancora che giuridico, ed ha saputo conciliare i valori della vita e della salute con il principio di autodeterminazione anche nella scelta finale di morire con dignità, prendendo così le distanze da quella posizione dottrinale che la configura solo come legislatore negativo. L’ esigenza di garantire la legalità costituzionale ha indotto la Corte a rifiutare la facile soluzione dell’inammissibilità della questione in assenza di rime obbligate, dichiarando l’ incostituzionalità, nei limiti precisati, della disposizione impugnata e al tempo stesso ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari.
Una preziosa sollecitazione per ogni giudice in direzione della massima tutela dei diritti fondamentali e della supremazia dei valori fissati nella Costituzione rispetto al principio cattolico dell’assoluta sacralità della vita.
11. D. Che il tema della relazione fra giudice e religione sia di strettissima attualità nel panorama anche straniero sembra confermato dalla recente decisione della Corte Suprema, che ha ritenuto applicabile il titolo VII del Civil Rights Act del 1964 – ove si vieta ogni discriminazione sulla base della razza, del colore, della religione, del sesso o della nazionalità – anche all’orientamento e all’identità di genere di una persona. Secondo il giudice Alito, la sentenza sul transgenderismo equivale a una vera e propria “legislazione” giudiziaria.
Il tema è assai caldo anche in Italia. Come sai, esistono movimenti di pensiero che hanno collocato alcune posizioni assunte dalla giurisprudenza su temi eticamente sensibili come provenienti da settori della magistratura nei quali si contesta la matrice religiosa di istituti giuridici. Cosa ti sentiresti di consigliare o suggerire ai giovani magistrati italiani per evitare le polemiche o, quel che è più importante, essere a posto con la loro coscienza quando adottano una decisione su temi simili a quelli qui accennati?
R. In un sistema orientato sui principi della divisione dei poteri e della soggezione dei giudici soltanto alla legge tanto più le sentenze della magistratura sono corrette e capaci di ricevere condivisione quanto più si inseriscono in una cornice di legalità costituzionale e poggiano su una motivazione coerente, persuasiva, razionale e ragionevolmente prevedibile, così che l’etica del giudice finisce per convertirsi nell’ etica del ragionamento giuridico e della sua razionalità.
Quanto alla domanda conclusiva, rispondo che ai giovani magistrati, che saranno verosimilmente chiamati con sempre maggiore frequenza ad affrontare questioni nuove in materie eticamente sensibili, alimentate dall’ inarrestabile evoluzione della medicina e dalle continue scoperte scientifiche, nonché dal continuo mutare del costume e della coscienza collettiva, è opportuno ricordare che a fronte delle nuove potenzialità dell’ interpretazione in un sistema così articolato e complesso è necessario mettere in campo una forte attenzione e un’ estrema cautela, nel rispetto di quel limite di legalità, di quella soglia ideale oltre la quale si sconfinerebbe nel soggettivismo e nell’ arbitrio.
Deve essere a tutti chiaro che attraverso l’interpretazione non si può fare tutto, non si può far dire ai testi normativi ciò che essi non intendono dire e che si oppone alla loro ratio, né si può utilizzare il metodo dell’interpretazione conforme come uno schermo per compiere una sostanziale manipolazione del disposto legislativo, anziché proporre le pertinenti questioni di costituzionalità.
Vorrei inoltre ricordare ai giovani colleghi che compito dei giudici non è quello di seguire o assecondare nuove mode o tendenze, che sono fenomeni effimeri, ma di comprendere e analizzare i cambiamenti sul piano culturale e sociale e di aver cura, nel dare risposta alle istanze dei cittadini che su tali cambiamenti si innestano, che le decisioni adottate costituiscano coerente sviluppo delle precedenti acquisizioni giurisprudenziali, atteso che ogni distonia può determinare effetti gravemente negativi sulla tenuta complessiva del sistema, come purtroppo di recente è avvenuto.
Tale impegno richiede a ciascuno un costante riferimento al valore dell’ indipendenza, sia all’ interno che all’ esterno dell’ ordine giudiziario: un valore che si acquisisce con la consapevolezza del ruolo e si alimenta con la pratica del quotidiano giudicare, che non costituisce un privilegio di casta, non è uno scudo che protegge dalle critiche, ma integra una garanzia essenziale per i cittadini.
Richiede ancora, come ha ricordato Gaetano Silvestri nel suo discorso di insediamento alla presidenza della SSM, la capacità di essere, al tempo stesso, fermo custode del sistema giuridico esistente e coraggioso costruttore di nuove strade giurisprudenziali. Richiede infine un continuo lavoro di affinamento della propria professionalità ed un aggiornamento costante sulle fonti, così da impersonare un modello di magistrato che sappia integrare preparazione, umanità e senso dell’istituzione.
[1] Così EPIDENDIO, in www.giudicedonna.it, 2019 n. 2-3.
[2] Sentenza n. 508 del 2000.
[3] V. in tal senso per tutte Cass. n. 23676 del 2008.
[4] Sul punto rinvio al volume di Marta Cartabia e Luciano Violante Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone e Creonte.
Il dialogo mai interrotto con Gino Giugni
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Silvana Sciarra
Giustizia Insieme ospita l'intervista alla Professoressa Silvana Sciarra curata da Vincenzo Antonio Poso che, nel ripercorrere l'esperienza umana e professionale di Gigno Giugni, offre la fervida testimonianza di una giurista di alto profilo accademico oggi al servizio della Corte costituzionale, alla quale la Rivista rivolge i sensi della più viva gratitudine per la ricchezza delle riflessioni destinate naturalmente a valicare le tematiche lavoristiche anche per i tratti di umanità che esse contengono.
V.A. Poso Silvana Sciarra è nata a Trani il 24 luglio 1948, si è laureata nel 1971 con Gino Giugni, discutendo una tesi sui Consigli di Fabbrica, nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari, dove ha svolto, subito dopo la laurea, attività di ricerca e didattica. Nel commemorare il Suo Maestro nel 2009, in uno scritto intitolato “Gino Giugni Viaggiatore” ( in Sociologia del diritto, 2009, n. 3, p.199 e ss.) c’è il ricordo, vivente, di un << professore che scende da tanti treni per raggiungere l’Università di Bari: carico di documenti da distribuire, di quesiti da risolvere, di citazioni da verificare, di progetti da condividere. Ogni articolo da riguardare, ogni pagina da discutere porta inciso sulla prima pagina un nome, a volte una sola iniziale. C’era lavoro per tutti, c’era frenesia ed allegria nell’Istituto di diritto del lavoro di Bari. Per tutti noi presenti nelle stanze e nei lunghi corridoi dell’Istituto si aprivano piccoli spazi di felicità quando si riusciva a tener dietro a Gino e talvolta intercettare il suo ingegno creativo e dirompente>>. Era una persona davvero straordinaria.
S. Sciarra È così: Gino Giugni è stato per tutti noi allievi una persona straordinaria ed è rimasto nelle nostre esperienze accademiche un modello da seguire, una persona da ricordare nelle fasi importanti della nostra vita. Incalzanti i suoi richiami – mi sembra di ascoltare ancora la sua voce – ad asciugare la scrittura, accorciare le frasi, evitare i gerundi. Moderno il suo suggerimento di usare con moderazione le note a piè di pagina, per renderle funzionali al testo e non inutile manifestazione di sfoggio o di erudizione. Se ripenso agli anni della ‘scuola barese’ che ha visto tanti allievi, di età e provenienze diverse, attivi intorno a lui, mi accorgo che era assente fra noi la rivalità. Questo è un dato non secondario nel litigioso panorama dell’accademia italiana; una conquista di serenità e di collaborazione proficua. Un altro bel ricordo da preservare.
V.A. Poso Nella presentazione della raccolta di alcuni contributi di Gino Giugni, che Lei ha curato per un pubblico di lettori non specialistico (Gino Giugni, Idee per il lavoro, Roma-Bari, Laterza, 2020), Lei ha scritto: << Le “idee per il lavoro” che, più di altre, hanno caratterizzato l’opera di Gino Giugni, si intrecciano inevitabilmente con i tempi in cui sono state generate, si colorano delle passioni e delle tensioni che attraversano il dibattito pubblico, si calano dentro precise scelte di metodo, destinate ad affinarsi e a divenire funzionali alla realizzazione di progetti riformatori. Il fatto che esse possano essere fruibili nel dibattito contemporaneo dimostra la solidità delle basi teoriche su cui erano state costruite e l’accuratezza dell’analisi storica che le ha conformate>>. Una conclusione solo accennata. Quali sono le moderne idee per il lavoro di cui ha bisogno l’Italia per ripartire e crescere?
S.Sciarra Le idee per il lavoro che Giugni ci ha trasmesso possono sembrare legate a una fase perduta del dibattito pubblico. Non è così. Molte proposte sono sedimentate in una sorta di coscienza collettiva, preservata innanzi tutto dalla comunità scientifica dei giuslavoristi, che ciclicamente le ritrova e le corrobora. Penso, per esempio, alla concertazione intesa come ricerca permanente del consenso, che conduce a soluzioni condivise soprattutto quando si affrontano materie controverse, che spaccano trasversalmente le parti sociali da un lato, e gli operatori del diritto dall’altro. Penso anche alle intuizioni che Giugni ha avuto sulla riforma del collocamento pubblico e sull’avvio delle politiche attive del lavoro, sempre più legate a domande effettive e concrete di professionalità e di competenze. Penso, a questo riguardo, all’attenzione premonitrice da lui prestata allo studio delle mansioni, espressione di un patrimonio culturale identitario del singolo lavoratore. Si sente oggi molto forte l’ansia di crescere su percorsi professionali ben tracciati, spesso polivalenti e capaci di adattarsi a mutamenti rapidi del mercato del lavoro. Si parla non a caso di transizioni occupazionali. E ancora, penso all’impegno, che non dovrebbe attenuarsi, nel preservare spazi di democrazia nei luoghi di lavoro, con l’apertura alla partecipazione dei lavoratori attraverso varie istanze rappresentative. Il tema della tutela della salute, che incombe prepotentemente al tempo della pandemia, è un esempio eloquente di come la partecipazione condivisa sulle misure da adottare può condurre a forme più sicure di prevenzione. Giugni, non a caso, ha sempre valorizzato l’individuo dentro le istanze rappresentative, ne ha esaltato il discernimento e la consapevolezza, contro qualunque forma di supremazia delle organizzazioni rappresentative.
V.A. Poso Molti (da ultimo anche il suo allievo Pietro Curzio, Il metodo Giugni, in Lavoro Diritti Europa, n. 3/2019) parlano di “metodo Giugni”. In cosa consisteva e cosa ha rappresentato questo metodo, anche per i giovani studiosi che gli sono stati vicini e che da lui hanno imparato il “mestiere dell’intellettuale”?
S. Sciarra Il metodo che Giugni ha costruito e progressivamente affinato nel suo lungo percorso accademico è intriso di esperienze comparate e anche per questo è originale e innovativo. Oggi la comparazione appare a volte schematica e troppo condizionata da singoli fattori, piuttosto che da indagini coerenti. Inoltre, la frequentazione delle scienze sociali ed economiche, da un lato, l’attenzione per l’analisi storica, dall’altro, unite a una spiccata propensione per la ‘politica del diritto’ e dunque per l’interesse a incidere sulle scelte del legislatore, hanno reso Giugni un giurista pronto a sfidare il conformismo, che rappresentava un retaggio ingombrante del periodo corporativo. Quella sfida metodologica è servita a rafforzare i pilastri della democrazia nel nostro paese e a dare voce ai corpi intermedi. L’ascolto che imprese e sindacati hanno mostrato per il metodo giugniano è frutto del rispetto che esse hanno inteso rivolgere a un pensiero solido, proprio perché nutrito dalla realtà dei fatti e non da vuota teoria. Si deve aggiungere che il riformismo praticato da Giugni non è stato divisivo. Sia nelle più accanite dispute accademiche – basti ricordare quella con Giuseppe Pera dopo l’emanazione dello Statuto dei lavoratori e quella assai sarcastica con Guido Zangari sulla traduzione del libro di Kahn-Freund – sia sul piano politico, nell’affiancare il legislatore, c’era sempre una via d’uscita dialogante. Metodo e costruzione del consenso hanno marciato insieme. Pietro Curzio ha ragione nel ricordare che quel pensiero emergeva con forza nell’insegnamento universitario e nelle collaborazioni scientifiche; Giugni ci ha tenuti costantemente sul filo di nuovi traguardi, non competitivi, ma molto impegnativi.
V.A. Poso Per diversi anni è stata Direttore con Franco Liso della rivista Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, fondata da Gino Giugni. Cosa può dire di quell’esperienza?
S. Sciarra Grazie per aver citato ‘il Giornale’. Fra le mie esperienze di collaborazione con Gino Giugni quella che ha riguardato l’ideazione e poi la nascita della rivista, da lui così pervicacemente voluta, è stata la più esaltante. Ricordo le lunghe riunioni preparatorie presso lo studio di Roma, in Via Livenza, l’ansia di creare uno strumento comunicativo nuovo, l’attenzione costante nel creare una generazione di giuristi del lavoro aperta al confronto internazionale e finalmente affrancata da ogni formalismo. Il Giornale voleva essere per lui – e lo è stato, mi spingo a dire lo è ancora – un luogo di confronto reale fra idee diverse, di scambio interdisciplinare. Negli anni in cui le forze di Gino si affievolivano a causa del suo stato di salute, con Franco Liso e con il sostegno della redazione abbiamo provato a non disperdere quell’insegnamento. Dopo la mia elezione a giudice costituzionale ho avvertito l’esigenza – anche se la direzione scientifica di riviste accademiche non è incompatibile con la funzione esercitata – di lasciare quell’incarico, per non condizionare in alcun modo il dibattito critico dentro la redazione e non compromettere la mia serenità di giudizio. Resto convinta dell’opportunità di questa scelta, ma non posso negare che il Giornale – guidato con grande competenza da Luca Nogler e ora tristemente privato della co-direzione di Lauralba Bellardi – mi manca molto e avverto nostalgia del clima, a volte disordinato eppure così propositivo, che respiravo nelle riunioni di redazione: le battute scherzose, le lunghe disquisizioni sull’editing delle traduzioni, la ricerca rigorosa dei lettori anonimi cui assegnare i saggi pervenuti. E’ stato già ricordato da Giugni tante volte, ma voglio farlo anch’io: il Giornale ha aperto la strada in Italia alla doppia lettura anonima dei saggi, anch’essi resi anonimi, in tempi non sospetti. Anche questa non secondaria ‘modernizzazione’ si inserisce in un vero e proprio progetto culturale, guidato da scelte trasparenti e rivolto a rendere porosi gli ambienti accademici, perché solo così si esce da logiche restrittive di ‘scuole’ chiuse in se stesse.
V.A. Poso Lei è stata Harkness Fellow presso l’Università di Los Angeles (UCLA ), dove, molti anni dopo, è stata anche Fulbright Fellow, e presso la Harvard Law School. Nel corso degli anni ha insegnato, con vari ruoli, a Warvick, alla Columbia University di New York, a Cambridge, Stoccolma e Lund. In Italia, dopo l’esperienza barese, ha insegnato, dal 1978 al 1990, presso la Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie dell’Università di Siena. Dal 1994 al 2003 è stata Professore di Diritto del Lavoro e Diritto Sociale Europeo presso l'Istituto Universitario Europeo di Fiesole, dove ha diretto diversi progetti internazionali e curato varie pubblicazioni. Ha guidato il Dipartimento di Diritto tra il 1995 e il 1996 e il programma sugli studi di genere dal 2002 al 2003. Prima e dopo questo periodo ha insegnato le stesse materie nell’Università degli Studi di Firenze, dove è stata chiamata per trasferimento nel 1990 presso la Facoltà di Giurisprudenza. Ora è Professore Emerito dell’Università di Firenze. Fin dalla sua fondazione nel 2011 è membro dello European Law Institute (ELI) e ha ricevuto vari riconoscimenti come Dottore di Ricerca Honoris Causa e nel 2015, ad Amsterdam, è stata insignita del premio Hugo Sinzheimer, per la sua carriera accademica. Cosa può dirci di questo lungo percorso di studi e ricerca?
S. Sciarra Devo molto a Gino Giugni per avermi mostrato subito sentieri di ricerca che mi inducevano a uscire dall’ambiente accademico nazionale, per mettermi alla prova. Ricordo il suo incitamento nel fare domanda per la Harkness Fellowship, la sua generosa lettera di referenza, che indicava l’Università di Los Angeles come luogo di approdo negli Stati Uniti, presso l’Istituto diretto da Benjamin Aaron, suo interlocutore nel Comparative Labour Law Group. Poi il viaggio verso Roma per la prova di inglese e l’incontro con Cipriana Scelba, curatrice accorta degli scambi culturali presso l’ambasciata americana. Nella nave Queen Elisabeth II che, partendo dalla Francia e diretta a New York, ha accolto gli Harkness Fellows selezionati quell’anno (era il 1974!) ho incontrato uno studioso francese, non ricordo più di quale disciplina, che più volte mi ha chiesto come mai una donna proveniente dal Sud dell’Italia fosse su quella nave, vincitrice di quella borsa di studio. Non gli ho confessato l’ansia che mi pervadeva e per fortuna ho condiviso la cabina con una linguista inglese che praticava la trascendental meditation. Così mi sono messa anch’io con lei a meditare, imparando a respirare profondamente per scacciare i pregiudizi e guardare oltre l’oceano.
Le altre tappe che Lei così cortesemente cita sono state raggiunte in piena condivisione con il mio Maestro. Voglio ricordare l’incontro a Siena con Marcello De Cecco, che ha facilitato enormemente il mio ingresso in una facoltà arricchita dalla presenza di molti economisti suoi allievi. Marcello l’ho ritrovato, sia pur brevemente, a Fiesole e ho apprezzato ancora una volta il suo stile sarcastico e profondo, la sua cura dei dettagli. Mi fa piacere che lei abbia menzionato la Direzione del Law Department e poi del centro di Gender studies. In quest’ultima esperienza ho voluto affermare il punto di vista delle giuriste, proponendo una serie di seminari guidati da donne giudici provenienti da vari paesi. Ricordo ancora il dibattito appassionato nel seminario tenuto da Ninon Colneric, allora giudice a Lussemburgo, una giuslavorista tedesca che più volte aveva partecipato ai seminari di diritto del lavoro comparato di Pontignano. Ricordo anche la personalità mite, eppure così convincente, dell’allora presidente del Tribunale costituzionale tedesco Jutta Limbach. La mia idea della promozione di genere, in un ambiente accademico elitario quale l’IUE, si è sostanziata nel condividere con gli studenti le storie di donne indipendenti e appassionate nel loro lavoro, per affermare che non ci sono vette precluse e soprattutto che la scalata poggia sugli arpioni del merito. Questo messaggio deve essere ugualmente e contestualmente indirizzato agli uomini.
Essere ora Professore Emerito nell’Università di Firenze, che mi ha accolta in una fase per me così significativa della vita accademica, è motivo di grande orgoglio e di gratitudine per i miei colleghi e per gli organi accademici che mi hanno onorata della loro considerazione.
La stessa gratitudine provo per le Università straniere che mi hanno invitata come Visiting Professor. L’ingresso in un nuovo ambiente è sempre per me motivo di apprensione. Per fortuna mi aiuta la curiosità: riuscirò a inserirmi in un contesto sconosciuto, capirò le dinamiche interne, gli studenti mi seguiranno o sarò un’aliena planata su di loro? Alla fine – e anche in questo mi sento privilegiata – sono partita con dispiacere da luoghi che inizialmente mi incutevano timore. Ho lasciato con nostalgia nuovi e vecchi amici e ho segnato i nomi degli studenti che ho poi ritrovato altrove, vedendoli camminare con passo sicuro. Non è straordinaria la vita di un professore universitario che ha avuto la fortuna di guardare oltre la siepe del suo luogo di origine? Il merito è tutto di chi ha insegnato a saltare quella siepe.
V.A. Poso Il 6 novembre 2014 è stata eletta (prima donna) dal Parlamento in seduta comune, sostenuta da un vasto schieramento di forze politiche (630 voti su 748 votanti), Giudice della Corte Costituzionale e ha iniziato a svolgere il suo mandato l’11 novembre 2014, dopo il giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. In questi anni ha continuato a pubblicare, oltre che a partecipare a convegni, anche internazionali. Come si combinano fra di loro queste due anime?
S. Sciarra L’elezione a Giudice costituzionale resta nella memoria come uno snodo cruciale della mia vita, non solo professionale. È superato solo da due altri momenti indimenticabili: la nascita delle mie figlie, accompagnata dall’esaltazione impareggiabile della maternità e dalla gioia immensa che questa condizione fa provare. A volte mi scopro a pensare di non essere io seduta in quel collegio, mi scuoto da una incredulità, che poi mi riporta dentro una realtà condivisa di responsabilità e di impegno. Ho imparato molto dai miei colleghi e mi sforzo costantemente di misurare il mio metodo e la mia impronta disciplinare con personalità molto diverse, tutte prorompenti e per questo affascinanti. Ma c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e questo è davvero un impulso vitale da non disperdere.
La scrittura mi aiuta a non perdere di vista la mia vita precedente, che in realtà è sempre la mia vita attuale. Credo molto fermamente che quando si creano occasioni straordinarie non si deve smettere di frequentare quelle ordinarie, perché la concretezza di quello che siamo non deve mai essere perduta. La scrittura corrobora questo mio proposito, perché mi impone una disciplina, che finisce con l’entrare nelle vene per poi scorrere insieme alla linfa dei progetti da realizzare, dei nuovi orizzonti da scoprire.
Così sono riuscita, con grande ritardo, a onorare nel 2018 l’impegno preso tempo fa con Cambridge University Press – casa editrice che ho frequentato fin dagli anni dell’IUE, apprezzandone il rigore e la disponibilità – a riscrivere in inglese un libro già apparso con Laterza, ampliandolo e corredandolo di alcuni riferimenti alla giurisprudenza delle corti costituzionali europee negli anni dell’austerità. Il titolo intrigante ‘Solidarity and Conflict. European Social Law in crisis’ può lasciar intendere che sia in crisi il diritto sociale europeo. In realtà, la crisi economica e finanziaria mi ha indotta a ricercare sinergie fra le politiche europee già in atto, che si riverberano sul lavoro. Questo libro mi ha consentito di riprendere alcuni contatti accademici e di tornare ad apprezzare il gusto della discussione intorno a un tavolo, con colleghi più giovani che ora insegnano in altri paesi e coltivano con i loro studenti l’insegnamento del ‘Diritto sociale europeo’. Questa è una mia piccola ambizione, che porto avanti con discrezione, ma anche con convinzione: non dovrebbe essere marginalizzato il diritto sociale nella formazione dei giuristi europei. Esiste una storia delle politiche sociali europee che si è sedimentata in acquisizioni importanti e che ha corroborato alcuni principi generali del diritto europeo, trasformando in senso più avanzato gli ordinamenti nazionali. Questa affermazione è rilevante nei tempi della pandemia che attraversiamo: molte misure eccezionali e molti finanziamenti non possono che ruotare intorno alle politiche sociali e porre al centro il lavoro.
Quanto ai congressi internazionali, è stata per me una vera rivelazione scoprire che la Corte costituzionale partecipa a numerosi incontri di studio, in cui si realizza un proficuo scambio di buone pratiche e di esperienze con altre corti. L’immagine della ‘rete’ rende molto bene il clima di collaborazione che si instaura. Nel caso delle Corti costituzionali e supreme che operano nell’Unione europea vi è una più precisa finalità comune da perseguire, che va molto più in là del ‘dialogo’, per divenire ricerca di un linguaggio comune. Da qui l’attenzione che la Corte costituzionale sta dedicando – io stessa con alcuni colleghi seguo questi aspetti – alle traduzioni in lingua inglese delle sentenze che presentano profili europei e internazionali di rilievo.
V.A. Poso In occasione della celebrazione del 70° anniversario della Costituzione e nell’ambito del progetto “Il viaggio della Costituzione”, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Editore Laterza ha curato il progetto “Dialoghi sulla Costituzione”. Il 15 dicembre 2018 a Bari si è svolto un dialogo con Pietro Curzio sull’art. 4 della Costituzione sul diritto al lavoro. La “questione lavoro”, una delle tante questioni italiane irrisolte, è rappresentata dallo squilibrio tra imprese e lavoratori. Qual è l’oggetto di questo diritto? Su chi grava il relativo obbligo? Come può essere adempiuto?
S. Sciarra Sono felice che sia ricordato quell’incontro a Bari per due ragioni. Innanzitutto è stata brillante l’idea dell’Editore Laterza di segnare la tappa dei 70 anni della Costituzione con iniziative non paludate, rivolte ai giovani e alle scuole. Quell’esperienza si è incrociata per me con l’altra iniziativa, intrapresa dall’allora Presidente Paolo Grossi, di portare i giudici costituzionali nelle scuole, con esiti di grande soddisfazione per quanti di noi vi hanno partecipato. La seconda ragione di orgoglio per me è aver condiviso quell’incontro di riflessioni sull’art. 4 della Costituzione in un’aula della ‘mia’ Facoltà di Giurisprudenza di Bari, con Pietro Curzio, cui va tutta la mia ammirazione per il prestigioso incarico di Primo Presidente della Corte di Cassazione che ora ricopre. Senza aver coordinato i nostri interventi, ci siamo trovati a riallacciare i nodi della nostra formazione giugniana, che ci accomuna nell’intento di diffondere pensieri costruttivi sul lavoro. Dall’art. 4 della Costituzione si ricavano indicazioni non solo programmatiche; la valenza prescrittiva di quella norma è nella lettura congiunta con l’art. 35, che la Corte Costituzionale propone da lungo tempo. Da quell’impianto di promozione e tutela del lavoro non si può prescindere, soprattutto nel tempo difficile che attraversiamo, caratterizzato dalle incertezze causate dalla pandemia. Diritto al lavoro significa creare lavoro e stimolare, ora più che mai, politiche attive e non meramente assistenziali. Questo progetto deve tenere insieme imprese e sindacati e lo sforzo di adeguamento deve nascere da impulsi comuni. La strada maestra è individuare congiuntamente le carenze e le eccellenze del nostro mercato del lavoro, per renderlo meno asfittico e per modulare i diritti dei lavoratori, senza comprimere l’iniziativa imprenditoriale.
V.A. Poso I quasi nove anni trascorsi all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, sono stati, probabilmente, quelli più fecondi della Sua attività di ricerca e di insegnamento. È così? Quali sono state le tappe fondamentali di questa esperienza?
S. Sciarra In effetti, quelli trascorsi all’IUE sono stati anni molto speciali per me. Ho instaurato rapporti di collaborazione con colleghi, non solo nel Dipartimento di legge, ma anche di Storia, di Scienze politiche e di Economia. Ricordo di essermi spesso seduta nel folto numero di partecipanti che seguiva i seminari di diritto della concorrenza tenuti da Giuliano Amato, in quegli anni Presidente dell’Antitrust e visiting professor. Mi tornano in mente le suggestioni del corso interdisciplinare che ho insegnato con lo storico svedese Bo Stråth, mettendo insieme i nostri dottorandi. Circolavano idee propositive sull’Europa in quegli anni: mercato e diritti sociali; politiche monetarie e politiche dell’occupazione; armonizzazione e metodo aperto di coordinamento. Quello era lo spirito che animava la straordinaria esperienza di insegnamento con giovani studiosi provenienti da tanti diversi paesi europei ed extra europei. Con i frequentanti dei miei seminari si è creato un rapporto di scambio e di ricerca comune, che continua ancora ora. I successi nelle attività che ciascuno di loro ha prescelto sono motivo di grande orgoglio per me, così come lo è saperli attivi e programmaticamente impegnati nella difesa dei diritti sociali, nella diffusione di un diritto europeo specialistico, eppure così centrale nel dibattito pubblico nazionale e sovranazionale. Una tappa fondamentale è stata la ricerca comparata sui rinvii pregiudiziali in materia di lavoro (S. Sciarra (ed) Labour Law in the Courts. National Judges and the ECJ, Oxford 2001), che ha coinvolto colleghi (e amici) giuslavoristi provenienti da altri paesi europei e dottorandi dell’IUE. Oltre allo scambio intergenerazionale, quella ricerca ha creato nuove reti di comunicazione fra IUE e università nazionali, in una materia non sempre valorizzata in precedenti esperienze.
V.A. Poso Delle molteplici esperienze di insegnamento e ricerca svolte all’estero, quali sono quelle che hanno maggiormente segnato la Sua formazione?
S. Sciarra Non c’è dubbio che l’esperienza di insegnamento presso la Law School della Columbia University di New York è stata per me entusiasmante e mi ha consentito di creare nuove e assai solide amicizie. L’insegnamento era collegato alla Cattedra BNL, assegnata ogni anno a un giurista italiano. L’orgoglio nazionale non poteva essere sottaciuto e l’impegno, proprio per questo si faceva sentire in modo impellente, quasi a voler segnare un solco di continuità con gli italiani che avevano ricoperto quella cattedra in anni precedenti. C’era molto interesse per il diritto del lavoro e per la comparazione, oltre che per il diritto europeo. Ho condiviso un ciclo di seminari con Mark Barenberg e rinsaldato un’amicizia che risaliva a un interessante scambio avuto in anni risalenti con alcuni esponenti dei critical legal studies. Le sponsorizzazioni di insegnamenti all’estero, come è stato per le cattedre BNL, sono foriere di progetti comuni fra Università e di occasioni formative per giovani studiosi, incoraggiati nel sapere che ci può essere una circolazione di idee e che si può creare confronto fuori dall’Italia. Grandi sollecitazioni intellettuali mi sono venute dai colleghi svedesi, con cui ho, tra l’altro, condiviso il controverso dibattito europeo e internazionale suscitato dal caso Laval, deciso dalla Corte di Giustizia nel 2007, che tanto ha inciso sul ripensamento di alcune storiche categorie del diritto del lavoro. Infine non posso non citare il mio meraviglioso soggiorno a Cambridge, come Goodhart Professor in Legal Science. Sono dolcissimi i ricordi: i libri lasciati dai professori che mi avevano preceduta nel Goodhart Lodge in cui abitavo, il giardino che guardavo dal mio studio, le lunghe chiacchierate con Bob Hepple al Clare College, il seminario che ho tenuto con Simon Deakin, le molte sollecitazioni e la solidarietà femminile ricevute da Catherine Barnard, le colte conversazione in perfetto italiano con Alan Dashwood e gli incontri con Eleanor Spaventa. Sono davvero stata molto fortunata.
V.A. Poso Un giurista importante nella Sua formazione è stato Lord Wedderburn of Charlton (Bill per gli amici come Lei), rigoroso interprete del metodo della comparazione e grande studioso del diritto del lavoro e sociale inglese ed europeo, legato al Suo Maestro Gino Giugni da un forte sodalizio intellettuale e da una grande amicizia, scomparso agli inizi del 2012. Due Maestri insostituibili. L’ultimo scritto pubblicato sul Giornale di diritto del Lavoro e di relazioni Industriali ( 2007, n. 2, p. 371 ss. ) << Dopo Giugni e Kahn-Freund, quale strada per il diritto del lavoro comparato?>> ( in omaggio per gli 80 anni di Giugni) affronta i temi del diritto del lavoro nel contesto della globalizzazione e dell’esperienza europea. Quale è stato il Suo rapporto con lui e quanto è importante, ancora oggi, il suo insegnamento?
S. Sciarra Ci sono per ciascuno di noi persone care con cui si continua a dialogare anche dopo la loro scomparsa. Per me Bill è una di queste. Certe volte immagino quale potrebbe essere la sua reazione dopo un caso controverso della Corte di Giustizia – verso cui volgeva così spesso il suo pensiero critico – o verso una presa di posizione dei sindacati italiani, che seguiva da vicino e conosceva così bene, o ancora verso una nuova legge, di cui voleva conoscere i dettagli. Rivedo la sua mano che si riavvia il ciuffo di capelli lungo la fronte, in un gesto abituale per noi suoi ammiratori nei seminari di diritto del lavoro comparato a Pontignano negli anni Ottanta dello scorso secolo(!) e riappare la penna biro con tanti colori, utilizzata per segnare e sottolineare i suoi meticolosi appunti. Bill ha trasmesso a persone della mia generazione passione e senso critico, insieme all’ironia che, nelle menti curiose, si accompagna alla voglia di capire e di apprendere. Il suo metodo nella comparazione giuridica è stato rigoroso e analitico, proprio perché animato dall’intento di comprendere i movimenti sociali, spingendosi oltre il black letter law. La sua profonda conoscenza di altri sistemi ha, in alcuni passaggi, influenzato le scelte del legislatore e le strategie sindacali e ha poi lasciato in lui profonda amarezza per quella che avvertiva come una involuzione del diritto del lavoro inglese.
V.A. Poso Quale è stato il Suo rapporto con Giuseppe Pera, mio Maestro, un Maestro con tanti allievi, anche indiretti, ma senza una “scuola”?
S. Sciarra Quando Giugni mi ha presentata al Professor Pera per la prima volta mi sono sentita raggiunta da uno sguardo severo. Avevo già pubblicato i miei primi articoli, molto influenzati dalle ‘scoperte’ che avevo fatto partecipando con altri alla ricerca sulle ‘prassi aziendali’, diretta da Giugni nell’ambito del progetto CNR sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro. Mi ha suggerito di darmi da fare e scrivere un saggio sulla prescrizione o su qualche altro tema molto tecnico. Un modo elegante per dire che non avevo imboccato la strada giusta. Dunque, lo evitavo nei convegni, intimorita; ma il suo sorriso prorompente e la sua voce inconfondibile, che sembrava sgorgasse dal suo papillon come un segnale combinato di suono e di immagine, hanno prevalso sullo sguardo severo. Ho compreso l’umanità e la simpatia, che trapelavano dai racconti di Alessandro Pizzorusso, suo compagno di passeggiate in montagna. E ora mi torna alla mente con grande emozione una visita a casa sua, programmata in modo un po’ formale per portargli qualche mio scritto, e trasformata in un trionfo di ospitalità sua e di sua moglie. Finalmente avevo conosciuto, nel magico luogo annotato nei suoi libri, San Lorenzo a Vaccoli, l’Autore delle ‘Noterelle’ e il Maestro della ‘scuola pisana’.
V.A. Poso Grazie per questo ricordo del mio Maestro; le Sue parole lo rappresentano per come era, anche nei rapporti con i suoi allievi. Tanto diversi nella formazione e nel carattere, Giugni e Pera sono stati grandi amici, sin da quando, nella primavera del 1953, insieme a Federico Mancini, si sono conosciuti nel convegno fiorentino sul progetto di legge Rubinacci promosso da Giuliano Mazzoni. Una amicizia fortificata dalle successive esperienze nelle quali Giugni ha sempre coinvolto Pera: la formazione politico-amministrativa presso un Centro di Via del Corso a Roma ( frequentato da illustri studiosi come Jemolo, Mortati, Giannini, Guarino, ma anche da giovani promettenti studiosi come Elia, Ungari, Napoleoni); l’inchiesta del 1955 sulla riforma agraria promossa dall’Unesco e commissionata a Manlio Rossi-Doria che porterà Pera e Giugni a Gravina di Puglia, per fare interviste sul campo; la frequentazione sin dal 1965, anno della sua costituzione, dell’Associazione Il Mulino di Bologna. Esperienze che denotano la grande versatilità di Giugni e la sua attenzione, non comune in quei tempi, per la sociologia, la politica e l’economia, che ci sono state sempre raccontate con affetto e riconoscenza (anche per i primi, piccoli, guadagni). << Gino Giugni è il più bravo di tutti noi >>;<
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La ragionevole prudenza della Corte Edu: tra prevedibilità e accessibilità del precetto.
Considerazioni a caldo sul parere della Corte (CEDH 150) del 29.05.2020
di Stefano Giordano
Con parere espresso il 29 maggio 2020, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha esercitato il suo potere consultivo fornendo risposta ad alcuni dei quesiti posti dalla Corte Costituzionale armena. Gli altri, come si vedrà, non sono stati considerati direttamente connessi rispetto all’oggetto della decisione di competenza dei giudici armeni e, pertanto, non sono stati presi in considerazione dalla Corte in quanto estranei allo scopo del parere consultivo.
Si tratta di una prerogativa della Corte di recente introduzione, esercitata per la prima volta in materia penale in questa occasione, introdotta con l’approvazione del Protocollo n° 16 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che – come sancito all’art. 1 del Protocollo stesso – conferisce alle più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente la facoltà di presentare alla Corte “richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli.”[1]
La ratio di questo nuovo strumento è quella di prevenire possibili conflitti in ordine all’interpretazione dei princìpi sanciti nella Convenzione e costantemente interpretati e applicati dalla Corte di Strasburgo, in modo tale da scongiurare (o comunque contenere) il numero delle pendenze davanti la Corte stessa e, al contempo, favorire l’uniforme interpretazione del diritto convenzionale.
Sommario: - 1. Il contesto storico del caso e la procedura interna - 2. La richiesta di parere e le questioni poste alla Corte - 3. Prevedibilità e accessibilità come requisiti di qualsiasi base legale - 4. La legge penale in senso convenzionale e il principio di legalità - 4.1. Il principio di tassatività e sufficiente determinatezza - 4.2. Il principio di irretroattività e il principio di retroattività della lex mitior - 5. Il parere della Corte - 6. Considerazioni conclusive.
1. Il contesto storico del caso e la procedura interna
Nel luglio del 2018, Robert Kocharyan, il quale era stato dal febbraio 1998 all’aprile del 2008 Presidente delle Repubblica armena, veniva incriminato – insieme ad altri – del reato previsto dall’art. 300.1 § 1 del codice penale armeno: overthrowing the constitutional order (rovesciamento dell’ordine costituzionale)[2].
Le accuse mosse nei suoi confronti facevano riferimento ad eventi che si erano verificati all’inizio del 2008, quando, alla scadenza del suo secondo mandato, si svolsero nuove elezioni. Non essendo Kocharyan rieleggibile per un terzo mandato, le elezioni del 2008 furono comunque vinte dal suo alleato, Serzh Sargsyan, permettendo così di garantire continuità alla linea politica portata avanti dall’ex presidente. Tuttavia, l’opposizione denunciò irregolarità nelle procedure elettorali, chiedendone l’annullamento e dando vita a numerose manifestazioni e proteste pubbliche, alle quali presero parte migliaia di persone. Durante la repressione delle stesse da parte delle forze armate, tra il 1° e 2 di marzo del 2008, nel corso della quale furono arrestate centinaia di persone (tra cui vari membri dell’opposizione[3]), purtroppo rimasero uccise dieci persone (8 civili e 2 militari) e, in conseguenza di ciò, Kocharyan dichiarò uno stato di emergenza della durata di venti giorni, durante i quali venne limitato l’esercizio di una serie di diritti.
Nel maggio del 2019, dunque, il Tribunale di primo grado di Erevan, l’organo giurisdizionale competente a giudicare Kocharyan, decideva di sospendere il procedimento, rimettendo alla Corte costituzionale armena la questione circa la costituzionalità dell’art. 300 § 1 del codice penale del 2009.
Nello specifico, il Tribunale di Erevan domandava se questa disposizione soddisfacesse il requisito della certezza del diritto, alla luce del principio di non retroattività del diritto penale, e se fosse peggiorativa della situazione giuridica dell'interessato rispetto all'articolo 300 (usurpazione del potere) del codice penale in vigore al momento dei fatti asseritamente commessi.
Kocharyan invocava l’intervento della Corte costituzionale due volte, chiedendo di pronunciarsi su questioni simili. Sottolineava, inoltre, l’esistenza di differenze sostanziali tra le due disposizioni in questione.
2. La richiesta di parere e le questioni poste alla Corte
La richiesta di parere consultivo veniva presentata il 2 settembre 2019 dalla Corte costituzionale armena e accettata il 2 ottobre 2019 dal Collegio della Grande Camera. Il 7 ottobre veniva, dunque, istituita una Grande Camera ai sensi dell’articolo 24, (paragrafo 2, lettera h), del regolamento della Corte[4].
La Corte riceveva osservazioni scritte dall’Assemblea nazionale armena, dal sig. Kocharyan, dal governo armeno, dall’associazione “Helsinki Association for Human Rights” e dal sig. Yegoryan, a nome dei familiari delle vittime degli eventi dell’1 e 2 marzo 2008.
Il parere veniva così reso dalla Grande Camera di 17 giudici, composta secondo le regole (sopra richiamate) previste dall’art. 24 del regolamento della Corte.
Le questioni sollevate dalla Corte costituzionale armena erano essenzialmente le seguenti:
a) le nozioni di «diritto» (Droit, Law) ai sensi dell’art. 7 della Convenzione[5] e quella di «legge» che appare in altri articoli della Convenzione, ad esempio negli articoli da 8 a 11, richiedono le medesime condizioni qualitative (precisione, accessibilità, prevedibilità e stabilità)?[6]
b) in caso contrario, quali sono le regole che permettono di effettuare una differenziazione?
una legge penale che, nel definire una fattispecie di reato, fa riferimento ad alcune disposizioni di una norma giuridica avente valore supremo e un livello di astrazione superiore, soddisfa le condizioni di precisione, accessibilità, prevedibilità e stabilità?
c) alla luce del principio di irretroattività della legge penale (art. 7 § 1 della Convenzione), quali sono i criteri da applicare quando si confronta la legge penale in vigore al momento della commissione del reato rispetto a quella successiva modificata, al fine di individuare le somiglianze o differenze fondamentali?
3. Prevedibilità e accessibilità come requisiti di qualsiasi base legale
Prima di passare in rassegna le risposte fornite dalla Corte ai quesiti sopra riportati, è opportuno fare un passo indietro e soffermarsi proprio sull’art. 7 della Convenzione e sui princìpi in esso sanciti.
La nozione di “diritto” (law) utilizzata nell’art. 7 corrisponde a quella di “legge” che compare in altri articoli della Convenzione; essa comprende sia il diritto di origine legislativa che quello di origine giurisprudenziale: entrambi devono possedere i requisiti della accessibilità e della prevedibilità (Kokkinakis c. Grecia §§ 40-41, Cantoni c. Francia § 29, Coëme e altri c. Belgio § 145, E.K. c. Turchia § 51). L’accessibilità (intesa come conoscibilità) e la prevedibilità del comando legale e delle conseguenze normative costituiscono il fuoco della tutela apprestata dall’art. 7 e sono oggetto di costante declinazione da parte della Corte di Strasburgo con riferimento non solo alla disposizione legislativa che prevede il precetto e la sanzione, ma anche alla giurisprudenza nazionale che ne precisa il significato all’atto della sua concreta applicazione, attraverso la formazione di precedenti che orientano il comportamento della giurisprudenza successiva, e sulla base dei quali il destinatario della norma è tenuto a orientare il proprio comportamento[7].
Evidentemente, pertanto, la nozione convenzionale di “base legale” non si sovrappone (alla) – né può confondersi con la – garanzia della riserva di legge prevista in materia penale dalla Costituzione italiana. L’art. 7 della Convenzione non vieta la graduale chiarificazione delle norme in materia di responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC] § 50). L’esistenza di una base legale è strettamente funzionale alla garanzia della prevedibilità, la cui portata dipende in larga misura dal contenuto del testo normativo in questione, dall’àmbito che esso ricopre e dalla qualità dei suoi destinatari. Il requisito della prevedibilità di una legge non conduce a escludere che la persona interessata possa ricorrere alla consulenza di esperti per valutare le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (Achour c. Francia § 54). Concetto, quest’ultimo, che – come vedremo più avanti – verrà ribadito dalla Corte nel parere rilasciato.
4. La legge penale in senso convenzionale e il principio di legalità
La Convenzione, nel modellare la definizione di principio di legalità ai suoi scopi, non può infatti ignorare che fra gli Stati parte soltanto alcuni adottano il modello continentale di “legge”; altri, invece, sono vincolati da una nozione di diritto in senso giurisprudenziale, secondo modelli di common law. Emerge, dunque, una nozione ibrida, anfibia, materiale di precetto penalistico, comprensivo di tutte le norme di comportamento che siano prefigurate in modo da fungere da possibile schema di orientamento per i singoli. Tali norme, da una lato, devono essere certe, chiare, tassative e sufficientemente determinate; dall’altro, devono essere previste in maniera preventiva e devono preesistere alle condotte che tali regole disciplinano.
Il giurista continentale (e probabilmente anche quello anglosassone) storcerà presumibilmente il naso di fronte a un simile Giano bifronte, che cerca di compendiare la certezza della tassatività penalistica di stampo continentale con la fluidità del diritto pretorio basato sul case law; purtuttavia, di fronte all’esigenza, sottesa al diritto convenzionale, di assicurare la positivizzazione di una sorta di minimo comune denominatore di legalità, in grado di non essere estraneo a nessuno dei due – in sé diversi – modelli giuridici succitati, è difficile negare che il sistema eletto è quello senz’altro preferibile.
Un sistema che introduce una riserva di legge senza la necessità della... legge, un principio di legalità in cui si deroga alla riserva di legge per permettere che le altre declinazioni dello stesso principio (la tassatività, la sufficiente determinatezza del precetto penale, l’irretroattività, il divieto di analogia) possano avere diritto di cittadinanza in modelli giuridici di tipo pretorio[8].
La Corte Europea ha dunque il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale e alla condanna, esistesse una disposizione “legale” – cioè un precetto normativo, di matrice legislativa o giurisprudenziale, che rendesse l’atto punibile – e che la pena imposta non abbia superato i limiti fissati da tale disposizione (Coëme e altri c. Belgio § 14, Achour c. Francia § 43).
4.1. Il principio di tassatività e sufficiente determinatezza
Quanto all’altro aspetto del principio di legalità, quello della determinatezza della fattispecie penale, nel linguaggio della Convenzione quest’ultimo si iscrive in pieno nel principio di legalità e nella garanzia della prevedibilità cui si è fatto cenno.
La legge deve definire chiaramente i reati e le pene; e questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può sapere – a partire dal testo della disposizione pertinente e, se necessario, con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali – quali atti e omissioni implichino la sua responsabilità penale (Kokkinakis c. Grecia § 52, Achour c. Francia § 41, Sud Fondi e altri c. Italia § 107).
La Corte Europea ammette che, anche a causa del carattere generale delle leggi, il testo di queste ultime possa non presentare una precisione assoluta. Una delle tecniche-tipo di regolamentazione consiste nel ricorrere a categorie generali piuttosto che a liste esaustive. Molte leggi, come si è visto, si servono anche di formule più o meno vaghe, la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla attività giudiziaria (Cantoni c. Francia § 31, Kokkinakis c. Grecia § 40).
Pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognerà, pertanto, sempre chiarire i punti oscuri e adattarsi ai cambiamenti di situazione. Inoltre, la certezza, benché fortemente auspicabile, è spesso accompagnata da un’eccessiva rigidità; il diritto deve invece sapersi adattare ai casi mutevoli della vita e quindi la tassatività può anche tollerare il ricorso a elementi normativi o vaghi, che, come tali, saranno oggetto della doverosa interpretazione del giudice.[9]
La funzione decisionale affidata alle giurisdizioni serve precisamente a dissipare i dubbi che potrebbero sussistere per quanto riguarda l’interpretazione delle norme (Kafkaris c. Cipro § 141). Del resto, è patrimonio consolidato della giurisprudenza della Corte che il formante giurisprudenziale contribuisca necessariamente alla progressiva evoluzione del diritto penale (Kruslin c. Francia § 29).
4.2. Il principio di irretroattività e il principio di retroattività della lex mitior
Strettamente connesso al requisito della prevedibilità è il divieto previsto dall’art. 7 di punire un soggetto sulla base di una norma penale entrata in vigore dopo il fatto commesso (Sud Fondi e altri c. Italia § 110). Il principio di irretroattività impone altresì di non interpretare la legge penale in maniera estensiva a svantaggio dell’imputato e di non ricorrere al canone interpretativo dell’analogia (Coëme e altri c. Belgio § 145).
La giurisprudenza europea ha chiarito che la garanzia in questione non si applica ai mutamenti della legislazione penitenziaria (Kafkaris c. Cipro [GC] § 151). Con riguardo alla portata dell’art. 7, di recente si è assistito a un significativo overruling della giurisprudenza nella nota sentenza pilota Scoppola c. Italia.
Sin dal 1978 la Commissione europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto che, a differenza dell’art. 15, par. 1, del Patto delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, l’art. 7 Convenzione non sancisse il diritto di beneficiare dell’applicazione di una pena meno severa prevista da una legge posteriore al reato (X c. Germania (dec.)). E, in effetti, l’art. 7 non fa espressamente menzione dell’obbligo, per gli Stati contraenti, di garantire all’imputato il beneficio di un cambiamento legislativo più favorevole intervenuto dopo la commissione del reato: pertanto, sulla base di un argomento testuale la Commissione aveva rigettato il motivo di ricorso. L’orientamento sopra ricordato è stato fatto proprio dalla Corte Europea (Le Petit c. Regno Unito (dec.) 2000, Zaprianov c. Bulgaria (dec.) 2003).
Tuttavia, nel 2009, nel caso Scoppola c. Italia (n. 2), il giudice di Strasburgo ha constatato un’evoluzione in materia negli ordinamenti degli Stati contraenti in generale, sottolineando la fondamentale importanza di interpretare e applicare la Convenzione in modo da renderne le garanzie concrete e effettive, non meramente teoriche ed illusorie. L’approccio dinamico ed evolutivo sposato dalla Corte ai fini dell’interpretazione della Convenzione è promosso allo scopo di non ostacolare ogni riforma o miglioramento del livello di tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione (Stafford c. Regno Unito § 68, Goodwin c. Regno Unito [GC] § 74).
Dal 1978 al momento della decisione in discussione, dunque, si sono registrati importanti sviluppi sul piano internazionale: l’entrata in vigore della Convenzione americana dei diritti dell’uomo, il cui art. 9 sancisce il principio della applicazione delle legge penale più favorevole; la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui art. 49, § 1, precisa che «se, posteriormente a tale reato, la legge prevede una pena più lieve, quest’ultima dovrà essere applicata». La Corte Europea tiene conto anche di alcuni significativi sviluppi giurisprudenziali, ricordando come, nella causa Berlusconi e altri, la Corte di giustizia della Comunità europea abbia ritenuto che questo principio faccia parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
La Corte ricorda, infine, che l’applicabilità della legge penale meno severa è stata iscritta nello statuto della Corte Penale Internazionale e affermata nella giurisprudenza del Tribunale Penale Internazionale per la ex Yugoslavia. Il giudice di Strasburgo, sulla base del consensus formatosi a livello europeo e internazionale, si spinge sino ad affermare che l’applicazione della legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla perpetrazione del reato, può ormai considerarsi un principio fondamentale del diritto penale. Secondo la Corte Europea, è coerente con il principio della preminenza del diritto, di cui l’art. 7 costituisce un elemento essenziale, aspettarsi che il giudice di merito applichi a ogni atto punibile la pena che il legislatore ritiene proporzionata. Infliggere una pena più severa solo perché essa era prevista al momento della perpetrazione del reato si tradurrebbe in una applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo. Ciò equivarrebbe inoltre a ignorare i cambiamenti legislativi favorevoli all’imputato intervenuti prima della sentenza e continuare a infliggere pene che lo Stato e la collettività che esso rappresenta considerano ormai eccessive.
La Corte osserva, infine, che l’obbligo di applicare, tra molte leggi penali, quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato si traduce in una chiarificazione delle norme in materia di successione delle leggi penali, il che soddisfa un altro elemento fondamentale dell’art. 7, ossia quello della prevedibilità delle sanzioni.
Pertanto, oggi l’art. 7, § 1, della Convenzione deve interpretarsi nel senso che esso sancisce espressamente il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa. Questo principio si traduce nella norma secondo cui, quando la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori (adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva) sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato.
In conclusione, i princìpi di accessibilità e prevedibilità così come declinati dalla Corte, hanno una portata applicativa generale, riguardante ogni base legale, mentre gli ulteriori princìpi sopra enunciati trovano applicazione nell’àmbito esclusivo della matière pénal; concetto che, al di là della nomenclatura formale utilizzata negli Stati membri, riguarda tutte le norme giuridiche caratterizzate da un contenuto sostanzialmente punitivo e/o da una dimensione intrinsecamente afflittiva. Così facendo, si permette di ampliare il campo di applicazione ed i margini di operatività delle garanzie riconnesse a tale nozione e, al contempo, di smascherare parecchie ipotesi di c.d. “frode delle etichette”[10]. In questo senso, infatti, è noto che l’approccio della Corte Europea, ai fini definitori della nozione di materia penale[11], sia di natura prettamente sostanzialistica e si contrapponga alla prospettiva dell’ordinamento giuridico penale italiano, rigidamente declinato sul concetto formale di reato e sul principio nominalistico accolto dal codice penale (v. artt. 17, 39 c.p.).
Ai fini dell’individuazione delle norme (effettivamente) penali, la Corte ha fatto quindi leva su autonomi criteri (e sottocriteri) di regola considerati alternativi e non cumulativi, ma spesso apprezzati in maniera congiunta e complessiva. Tali criteri, denominati nella prassi criteri Engel (per effetto, appunto, della più nota delle decisioni in cui essi sono stati elaborati[12]) vengono fondamentalmente distinti in un triplice ordine:
1) la qualificazione della infrazione nel diritto interno (che però ha un valore formale e relativo, a detta della Corte);
2) la natura dell’infrazione o dell’illecito (che fa leva sul carattere e la struttura della norma trasgredita in termini di generalità del precetto e dei destinatari, nonché sulla significatività della trasgressione, anche alla luce di un confronto comparatistico);
3) la natura e la gravità della sanzione, dove l’elemento della gravità incentra l’analisi principalmente su principi contenutistici (per esempio la natura custodiale o meno della sanzione), mentre per natura si intende un concetto imperniato sulla pertinenzialità rispetto ad un fatto di reato, sia alla luce dello scopo (repressivo in caso penale) della sanzione stessa, sia alla luce delle procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione.
5. Il parere della Corte
Tornando all’analisi del parere espresso dalla Corte a fronte dei quesiti posti dalla Corte costituzionale armena, è d’obbligo sottolineare come sia la Corte stessa a rammentare che i pareri che questa è chiamata a esprimere devono essere limitati ai punti che hanno un legame diretto con il contenzioso pendente in corso a livello interno[13].
Inoltre, come avvenuto nel primo parere consultivo reso[14], la Corte esercita la sua facoltà di riformulare i quesiti posti e di riunirli, così come di non rispondere a quelli che non soddisfano i criteri stabiliti nel Protocollo n°16.
Lo scopo del parere consultivo reso dalla Corte, nel caso specifico, è quello di consentire alla Corte costituzionale armena di decidere la questione di costituzionalità dell’art. 300 § 1 del codice penale del 2009, alla luce dei parametri posti dall’art. 7 della Convenzione. Specificando che, tuttavia, spetterà poi al Tribunale di Erevan il compito di applicare al caso concreto la risposta che verrà data dalla Corte costituzionale.
Per quanto concerne la prima e la seconda questione (a e b, ut supra), la Corte non ravvisa alcun legame diretto tra le domande e il procedimento contro il sig. Kocharyan; ritiene del tutto improprio e inconferente – rispetto al caso di specie – il riferimento agli articoli da 8 a 11 della Convenzione, così come non comprende quali questioni, legate a tale contesto di discussione, la Corte Costituzionale intendesse decidere con l’aiuto del parere della Corte.
In questo senso, la Corte puntualizza come qualsiasi risposta alla prima e alla seconda questione sarebbe di natura puramente teorica e generale e, dunque, del tutto sganciata dalla ratio e finalità del parere consultivo. Pertanto, la Corte ritiene di non rispondere al primo e al secondo quesito, in quanto ritenuti non conformi ai presupposti stabiliti dall’art. 1 del Protocollo n° 16[15], né riformulabili in maniera tale da consentire alla Corte stessa di esercitare la sua funzione consultiva in maniera effettiva e conforme al suo scopo.
La terza questione (c) fa riferimento al fatto che il sig. Kocharyan è stato accusato di un reato definito attraverso la tecnica della blanket reference o legislation by reference (quella che, nell’ordinamento giuridico italiano, è conosciuta come «legge penale in bianco»).
Nel nostro ordinamento giuridico, assai discussa è stata la compatibilità delle norme penali in bianco con il principio della riserva di legge in materia penale, sancito all’art. 25 della Costituzione. Il ricorso a tale tecnica normativa, pacificamente accolto nel nostro ordinamento nell’ipotesi di rinvio ad altre norme di legge, secondo dottrina minoritaria è stato ritenuto in contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale nel caso in cui il precetto venisse integrato da un provvedimento amministrativo (cfr., ad esempio, l’art. 650 c.p.)[16]; mentre nella maggior parte dei casi è stata ritenuta compatibile con la riserva di legge, sebbene sulla base di teorie differenti. Un primo indirizzo sostiene che la riserva di legge non sarebbe violata, purché il provvedimento amministrativo richiamato trovi il suo fondamento in una legge[17]. Un secondo indirizzo, rifacendosi alla teoria della disobbedienza come tale, fondata sull’assunto che i precetti penali non pongono regole concrete di condotta, ritiene che l’art. 650 c.p. enunci un generico dovere di obbedienza ai provvedimenti legalmente dati dall’Autorità, sicché il provvedimento amministrativo inosservato non integrerebbe il precetto penale della contravvenzione in esame, non violando così il principio di riserva di legge[18]. Infine, un ultimo indirizzo considera compatibile l’art. 650 c.p. con il predetto principio, a condizione che i provvedimenti amministrativi, richiamati dalla legge penale, siano individuali e concreti, in quanto solo in questo caso il provvedimento non integrerebbe la norma penale, facendo salva la riserva di legge[19].
Nel caso in disamina, invero, non si pone alcun problema di compatibilità rispetto al principio della riserva di legge, essendo le norme richiamate addirittura di rango costituzionale. Tutt’al più si porrà la questione circa la compatibilità con il principio di prevedibilità e accessibilità di cui all’art. 7 della Convenzione.
Nello specifico, l’art. 300 § 1 fa rinvio – nella sua determinazione precettiva – agli artt. da 1 a 5 e 6 § 1 della Costituzione Armena.
Secondo la Corte costituzionale armena, le norme costituzionali a cui rinvia l’art. 300 del codice penale hanno forza superiore nella gerarchia delle fonti normative e, al contempo, sono formulate con un maggiore livello di astrattezza rispetto al Codice Penale.
Sostanzialmente, è proprio la Corte Costituzionale a domandarsi se tale situazione sia compatibile con l’art. 7 della Convenzione, ed in particolare con i requisiti di chiarezza e prevedibilità, che ne costituiscono i corollari.
La Corte, sul punto, si esprime nel senso che il ricorso alla tecnica della legislation by reference nel diritto penale non è di per sé incompatibile con l’articolo 7.
Del resto, come sottolinea la stessa Corte nel parere, questa tecnica normativa risulta ampiamente utilizzata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa per definire quei reati che, nel nostro codice penale (al Titolo I, Libro Secondo) vengono rubricati come delitti contro la personalità dello stato (criminal offences against the constitutional order).
Secondo la Corte, le due previsioni normative – la norma incriminatrice e quella a cui essa fa rinvio – lette congiuntamente, devono consentire al cittadino, anche eventualmente attraverso il ricorso a una consulenza legale, di determinare quale comportamento può avere rilevanza penale. Principio, questo, che deve operare anche nel caso in cui la norma a cui si rinvia sia di rango gerarchico superiore.
In questo senso, precisa la Corte, il modo più efficace per garantire il rispetto degli standard convenzionali di chiarezza e prevedibilità in questo o in casi analoghi, è far sì che il rinvio sia esplicito e che la norma incriminatrice (di rinvio) definisca gli elementi costitutivi del reato e, al contempo, che la fonte secondaria non finisca per ampliare la portata dell’incriminazione originariamente prevista.
Sarà compito del Giudice nazionale, in forza del principio di sussidiarietà che regola l’intero apparato convenzionale, applicare tali principi al caso concreto e valutare se la rilevanza penale delle condotte sia sufficientemente chiara e prevedibile.
Per quanto riguarda l’ultimo quesito (d) posto alla Corte, è bene tener presente come il sig. Kocharyan sia stato accusato sulla base di una disposizione del Codice Penale entrata in vigore dopo gli eventi in questione, quando invece era vigente una sua precedente formulazione.
La Corte Costituzionale, ritenendo che le due norme presentassero differenze significative in relazione alla definizione del reato di “rovesciamento dell’ordine costituzionale”, ha chiesto alla Corte quali criteri dell’art. 7 utilizzare per comparare la norma in vigore al presunto tempus commissi delicti e quella successivamente modificata.
La Corte ha osservato – attraverso un raffronto comparatistico – che molti Stati membri utilizzano, ai fini dell’esame del principio di irretroattività della legge penale, il principio di concretisation (valutazione in concreto), che consiste nel tenere conto delle circostanze particolari del caso concreto al fine di valutare se la legge introdotta dopo la commissione del reato sia più o meno favorevole rispetto a quella in vigore al momento del fatto.
Tale principio, peraltro, si riflette fortemente sulla giurisprudenza della Corte, la quale è granitica nel ribadire che l’art. 7 della Convenzione vieta assolutamente l’applicazione retroattiva della legge penale meno favorevole per l’indagato/imputato, mentre – al contempo – permette (anzi, favorisce) l’applicazione retroattiva della lex mitior.[20]
Pertanto, la Corte ha ritenuto che alla domanda se l’applicazione dell’art. 300 § 1 del Codice Penale del 2009 nel caso del sig. Kocharyan violasse il principio di irretroattività previsto all’art. 7 della Convenzione, non possa darsi una risposta in abstracto.
Al contrario, l’articolo 7 richiede sempre una valutazione in concreto, sulla base delle specifiche circostanze del caso.
Sarà compito delle corti nazionali, di volta in volta, valutare le conseguenze giuridiche derivanti dall’applicazione dell’una e dell’altra norma incriminatrice, alla luce delle azioni o omissioni contestate all’accusato e di tutte le circostanze particolari del caso concreto.
In particolare, i tribunali nazionali dovranno stabilire se tutti gli elementi costitutivi del reato e le altre condizioni per l’incriminazione – come stabiliti dal codice penale in vigore al momento dei fatti – siano stati accertati e rispettati. In caso contrario, l’art. 300.1 del 2009 non potrà essere considerato più favorevole e, pertanto, non potrà essere applicato nel caso di specie. Allo stesso modo, la nuova disposizione non dovrà essere applicata al caso concreto se i giudici interni dovessero stabilire che l’applicazione di quest’ultima disposizione determinerebbe conseguenze più gravi per l’imputato rispetto all’applicazione del vecchio articolo 300 del codice penale.
In conclusione, i giudici nazionali devono quindi tenere conto di tutte le circostanze particolari del caso concreto (concretisation) per determinare se, ai fini dell’Articolo 7 della Convenzione, una legge adottata dopo la commissione dell’asserito reato sia più o meno favorevole per l’accusato rispetto alla legge in vigore al tempo dei fatti. Se la legge successiva è più severa, quest’ultima non può essere applicata.
Peraltro, tali princìpi di fatto coincidono con quelli sanciti all’art. 2 del nostro codice codice penale[21].
6. Considerazioni conclusive
La Corte, a ben vedere, adotta nel caso di specie un approccio particolarmente prudente. Un self-restraint dettato dalla volontà/necessità di non travalicare il proprio àmbito di “competenza” e di tenere, al contrario, ben saldo il principio di sussidiarietà della propria “giurisdizione”[22].
Del resto, appare piuttosto evidente come le questioni sollevate dalla Corte costituzionale armena si inseriscano nel solco di un complesso procedimento giudiziario dai forti connotati politici; ragion per cui, prudentemente, la Corte si limita a riaffermare nel parere princìpi ormai ben consolidati nella sua giurisprudenza e patrimonio ormai acquisito del diritto convenzionale.
La Corte, dunque, sembra cogliere l’occasione per ricordare all’Armenia (così come a tutti i paesi facenti parte del Consiglio d’Europa) che i diritti garantiti dalla Convenzione sono patrimonio innanzitutto dei singoli Paesi contraenti e che il loro rispetto dev’essere prerogativa dei giudici nazionali; solo in via del tutto sussidiaria, la Corte può intervenire e, se ne ricorrono i presupposti, accertare la violazione di diritti e adottare le misure atte a porvi rimedio. Al pari, il nuovo strumento consultivo introdotto dal Protocollo n° 16 non potrà essere utilizzato dagli stati contraenti al fine di “scaricare” sulla Corte delicate questioni relative al diritto interno, che necessariamente dovranno essere valutate dai giudici interni, bilanciando i diversi interessi coinvolti. Circostanza, questa, che invero pare essersi verificata proprio nel caso in commento.
Quel che la Corte ha particolare cura di sottolineare, nella stesura del parere, è comunque l’importanza del principio di concretizzazione.
Coerentemente all’approccio sostanzialistico tipico della Corte, viene ancora una volta sottolineata l’assoluta centralità del caso: luogo nel quale si intrecciano il fatto e il diritto e dal quale può estrapolarsi il principio e la corretta regola ermeneutica.
Ed è il Giudice del caso concreto (il giudice interno) che ha il compito, quale garante dei diritti (siano essi di matrice nazionale o convenzionale), di verificare quale sia la risposta che ne garantisce il rispetto. Il giudice nazionale, primo custode della Convenzione, nel suo operare, non potrà comunque discostarsi dall’interpretazione eminente che della Convenzione stessa offre la Corte di Strasburgo, così come stabilito a chiare lettere all’art. 32 della stessa.
Così, tornando al caso in disamina, ai fini di valutare quale sia la norma che produce effetti più favorevoli all’imputato, ci si dovrà sganciare necessariamente dalle etichette formali proprie delle norme giuridiche (law in the books), per concentrarsi invece su quelli che sono gli effetti prodotti dall’applicazione effettiva della norma (law in action). È come la disposizione “vive” e viene interpretata e applicata nella prassi – non già come la disposizione potrebbe essere (anche legittimamente) interpretata – a creare in capo all’individuo affidamenti che l’ordinamento ha poi il dovere di proteggere.[23]
Ancora una volta, in ogni caso, la Corte sembra porre l’attenzione su un concetto di prevedibilità in senso oggettivo e impersonale[24], sganciato da qualsiasi connotazione soggettiva del destinatario della norma giuridica. Un concetto di prevedibilità quale contrassegno della tipicità che è connesso, ma ben distinto da quello fatto proprio dalla Corte Costituzionale, con la celebre pronuncia n. 364/88, che lo colloca sul piano dell’eventuale difetto di colpevolezza (in senso normativo).[25]
A differenza di quanto sostenuto in talune opinabili sentenze penali italiane[26], quando la Corte si muove sul piano del sistema ordinamentale interno, ciò che rileva per essa è il concetto di accessibilità del precetto e prevedibilità declinati in termini generali e obiettivi e, dunque, impersonali[27].
il medesimo principio pare attagliarsi perfettamente al caso oggetto del parere della Corte, in cui nessuna attenzione viene posta sulle caratteristiche e conoscenze personali del sig. Kocharyan, quanto piuttosto sulla “qualità” della norma, sulla sua prevedibilità e accessibilità.
Il compito del giudice nazionale (in questo caso i giudici di merito armeni) sarà quello di valutare se l’art. 300 §1 del codice penale armeno fosse una norma incriminatrice dotata di sufficiente determinatezza/tipicità; se il fatto punito dalla norma fosse oggettivamente chiaro e prevedibile; se la precedente formulazione della norma fosse o meno in grado di produrre effetti più favorevoli per il sig. Kocharyan rispetto a quella successiva. Infine, applicare la legge penale, tra le due, in concreto più favorevole per l’imputato.
Avendo, pertanto, la pronuncia in commento carattere sistemico, essa è destinata a produrre effetti indiretti erga alios (altri potenziali destinatari della norma), indicando canoni ermeneutici che incidono sulla struttura oggettiva della tipicità e determinatezza della norma incriminatrice.
[1] L’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo n°16, per una serie di ragioni analizzate in maniera commendevole da R. Conti, “Chi ha paura del Protocollo 16 – e perché?”, in Sistema Penale, 27 dicembre 2019.
[2] Article 300 – Usurping state power
1. Actions directed towards violent takeover of the State power or towards its violent retaining in breach of the Constitution of the Republic of Armenia, as well as actions directed towards violent overturning of the constitutional order of Republic of Armenia or towards violent infringement of the territorial integrity of the Republic of Armenia shall be punishable by deprivation of liberty for a term of ten to fifteen years.
2. The person having voluntarily informed the governmental bodies about the actions mentioned in this Article shall be released from criminal liability if in result of measures taken pursuant to such informing the implementation of the respective actions has been prevented.
[3] Tra questi, anche Nikol Pashinyan, l’attuale primo ministro armeno, il quale fu uno dei principali promotori delle manifestazioni e che, accusato di avere causato disordini di piazza, fu arrestato e detenuto fino al 2011.
[4] Rule 24, § 2, lett. (h) “In examining a request for an advisory opinion under Protocol No. 16 to the Convention, the Grand Chamber shall be constituted in accordance with the provision of paragraph 2 (a), (b) and (e) of this Rule.”
[5] Articolo 7 – Nulla poena sine lege
1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
[6] Si tenga presente come tale distinzione linguistica ha una sua ragion d’essere esclusivamente nell’àmbito dei paesi di civil law, mentre perde del tutto di significato nei Paesi di origine anglosassone fondati sul sistema di common law (dove, infatti, scompare qualsiasi forma di distinzione). A conferma di ciò, è sufficiente leggere il testo ufficiale in lingua inglese della Corte, oggetto del presente commento, che testualmente così recita, con riferimento al primo quesito: “does the concept of ‘law’ under Article 7 of the Convention and referred to in other Articles of the Convention, for instance, in Articles 8-11, have the same degree of qualitative requirements (certainty, accessibility, foreseeability and stability)?”; a differenza di quanto avviene nella traduzione francese, dove invece viene espressamente marcata la differenza tra i due termini: “la notion de «droit» au sens de l’article 7 de la Convention et celle de «loi» qui figure dans d’autres articles de la Convention […]”
[7] Viganò, Il principio della prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 12 ss. In questo senso, cfr. anche ordinanza di rimessione alle SS.UU. n. 21767/2019, nella quale la Suprema Corte ben sottolinea come “la Corte EDU ha evidenziato che la sentenza di condanna pronunciata nei confronti del Contrada si era basata su una giurisprudenza consolidatasi in malam partem successivamente ai fatti ascritti e che questi all’epoca della loro commissione non erano (in termini generali e non soggettivi) sufficientemente chiari e prevedibili e che il ricorrente non poteva quindi conoscere la pena ad essi correlata.” Contra, cfr. Cass., Sez. I, n. 8661, del 12.01.2018; Cass., sez. I, n. 36505, del 12.06.2018; Cass., Sez. I, n. 15574, del 19.02.2019; queste pronunce pongono l’accento sull’errato presupposto sul quale sarebbe incorsa la Corte nella pronuncia n. 3 (Contrada c. Italia), ovvero la qualificazione del “concorso esterno in associazione mafiosa” come reato di creazione giurisprudenziale, denotando, in questo modo, una mancata comprensione in tali sentenze – da parte della Suprema Corte – della questione centrale cui la Corte di Strasburgo volge l’attenzione: la prevedibilità in senso oggettivo, sia che il reato abbia origine normativa o invece giurisprudenziale (distinzione, per la Corte, del tutto irrilevante). Sul punto, cfr. Massaro, Determinatezza della norma penale e calcolabilità giuridica, Napoli, 2020, p. 259, secondo la quale il concetto di “infraction d’origine jurisprudentielle è solo fumo negli occhi destinato a svanire nel tempo di un repentino battito di ciglia”.
[8] Ci si permetta di richiamare il nostro Giordano, “il «concorso esterno» al vaglio della Corte Edu: prime riflessioni sulla sentenza Contrada contro Italia”, in Archivio Penale, 2015.
[9] Così, in dottrina, sugli elementi vaghi e la compatibilità con il principio di determinatezza, Pagliaro, Princìpi di diritto penale, parte generale, Milano, 2000, p. 50 e ss.
[10] Sul punto, ci sia consentito un richiamo al nostro Giordano, Principio di legalità europeo e applicabilità retroattiva dei «punitive damages» in via transitoria: una “svista” del legislatore?, in Arch. pen., 2016.
[11] Sulla definizione in senso sostanziale del concetto di norma penale cfr. Manes, La lunga marcia della Convenzione europea ed i “nuovi” vincoli per l’ordinamento (e per il giudice) penale interno, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di Manes, Zagrebelsky, Milano, 2011, 34 ss.
[12] Sentenza Engel e altri contro Paesi Bassi, caso n. 5100/71.
[13] Protocollo n° 16, Articolo 1
1. Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente, designate conformemente all’articolo 10, possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli.
2. La giurisdizione che presenta la domanda può chiedere un parere consultivo solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essa.
3. La giurisdizione che presenta la domanda deve motivare la richiesta di parere e produrre gli elementi pertinenti inerenti al contesto giuridico e fattuale della causa pendente.
[14] ECHR 132 – 10.04.2019. Parere consultivo reso dalla Corte, in materia civile, su richiesta della Corte di Cassazione francese. Il Parere oggetto del presente commento, come già detto, costituisce il primo espresso dalla Corte in materia penale.
[15] V. nota n. 6.
[16] Carboni, L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità, Milano, 1970, 7.
[17] Vallini, Clonazione e fecondazione assistita: ordinanze ministeriali contingibili e urgenti e nozione di “provvedimento” nell’art. 650 c.p., in Leg. pen. 1997, 880.
[18] Marinucci-Dolcini, Codice penale commentato, Assago, 2011, 6616.
[19] Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 317; Romano M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1995, 37-38)
[20] La Corte fa riferimento a diversi casi che hanno riguardato la riqualificazione giuridica delle accuse formulate, sulla base di una versione modificata del Codice Penale (G. v. France, Ould Dah v. France, Berardi and Mularoni v. San Marino, and Rohlena v. the Czech Republic), o sul principio di irretroattività delle sanzioni (Maktouf and Damjanović v. Bosnia and Herzegovina). In entrambi i casi la Corte ha posto l’attenzione alle specifiche circostanze del caso concreto, ma non ha tenuto conto delle classificazioni formali o delle denominazioni date ai reati in base al diritto interno.
[21] Sulla natura sostanzialmente costituzionale dei primi tre commi dell’art. 2 c.p., cfr. Pagliaro, Princìpi, cit., p. 114 e ss.
[22] In questa direzione appare orientata la stesura del Protocollo n° 16, nel cui preambolo si legge: “[…]Considerato che l’estensione della competenza della Corte a emettere pareri consultivi permetterà alla Corte di interagire maggiormente con le autorità nazionali consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione, conformemente al principio di sussidiarietà […]”.
[23] Viganò, Il principio, cit., 12 ss.
[24] Sul punto, cfr. Donini, Il Caso Contrada e la Corte EDU. La responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, in RIDPP, 2016, 346 ss.
[25] In questo senso, risulta inconferente ed ultroneo il passaggio della sentenza delle SS.UU. n. 8544/2020, che invece ascrive il concetto di prevedibilità proprio al piano del difetto di colpevolezza in senso soggettivo (“ignoranza inevitabile della legge penale ex art. 5 c.p.). Sulla concezione normativa della colpevolezza, cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 1999, 274 ss.
[26] Cfr. SS.UU. cit.
[27] Su una possibile lettura oggettiva dell’art. 5 c.p., cfr. Massaro, Determinatezza, cit., p. 166 e ss.
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