ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (*)
(18 l. n. 241 del 1990 s.m.i. e D.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.)
di Maria Alessandra Sandulli
sommario: 1. Premessa. La ratio delle “dichiarazioni sostitutive”. — 2. Il sistema delle autodichiarazioni nel d.P.R. 445 del 2000. — 3. Segue: i controlli sulle autodichiarazioni. — 4. Segue: le conseguenze delle dichiarazioni non veritiere. — 5. L’acquisizione d’ufficio.
1. Premessa. La ratio delle “dichiarazioni sostitutive”. Come anticipato nell’Introduzione, le riforme più recenti, nell’ottica della semplificazione amministrativa (sancita anche dal divieto di aggravio procedimentale), hanno, per un verso, sollecitato “l’acquisizione d’ufficio” dei “documenti attestanti fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria del procedimento quando sono in possesso dell’amministrazione procedente ovvero detenuti, istituzionalmente, da altre amministrazioni”, e “l’accertamento d’ufficio” da parte del responsabile del procedimento dei fatti, stati e qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare (la regola, risalente all’art. 2 del d.P.R. n. 678 del 1957, è oggi sancita dall’art. 18, commi 2, 3 e 3-bis, l. n. 241 del 1990 s.m.i.), e, per l’altro verso, in direzione sostanzialmente opposta, dato sempre maggiore spazio alle c.d. “autocertificazioni” (dichiarazioni sostitutive di “certificazioni” e di “atti di notorietà” su dati e informazioni non soggetti a certificazione) mediante le quali gli amministrati possono (e sempre più spesso devono) direttamente attestare l’esistenza di fatti, atti, rapporti, stati e qualità personali di loro conoscenza in forza del d.P.R. 445 del 2000 (art. 18, comma 1, aggiunto durante l’iter parlamentare di approvazione della legge, come modificato dal recentissimo d.l. n. 76 del 16 luglio 2020, recante “misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” a sostegno della ripresa economica per fronteggiare la crisi conseguente all’emergenza sanitaria COVID- 19, c.d. “Decreto Semplificazioni” cui si deve anche l’aggiunta del menzionato comma 3-bis).
Come osservato da pregevole dottrina (M. Occhiena, Autocertificazione, 874, cui si rinvia anche per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale fino al 2017), la norma “riflette appieno la concezione organizzativa del procedimento amministrativo e, in generale, dell’attività degli enti pubblici”. In un tempo in cui l’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni era fortemente arretrata e lo scambio di dati tra le stesse era limitato e inefficiente, il legislatore aveva individuato nelle autocertificazioni e nella documentazione esibita in forza della l. n. 15 del 1968 (e relativi decreti di attuazione) gli strumenti per semplificare i processi decisionali pubblici e per evitare agli amministrati le lunghe e onerose attese agli sportelli per ritirare certificati e trasportarli materialmente dall’uno all’altro ufficio. Le autodichiarazioni furono poi significativamente rafforzate per effetto della “rivoluzione semplificatrice” operata dalla l. n. 127 del 1997 (c.d. “legge Bassanini-bis”), e, in particolare, negli artt. 1, 2 e 3 della stessa (poi modificati dalla l. n. 191/1998: c.d. “legge Bassanini-ter”) e nel relativo regolamento di attuazione (d.P.R. n. 403/1998), che ne estese l’ambito di applicazione e gli effetti, eliminò l’obbligo di autenticazione della firma e, soprattutto, precisò che la loro mancata accettazione integrava violazione dei doveri d’ufficio.
Quando tuttavia (grazie ai supporti informatici e all’evoluzione telematica) i collegamenti tra gli uffici pubblici sono stati nettamente incrementati e facilitati, avrebbero potuto trovare attuazione anche i commi 2 e 3, in forza dei quali le amministrazioni procedenti avrebbero dovuto provvedere autonomamente all’acquisizione dei documenti e all’accertamento dei fatti.
Significativamente, la riforma del 2005, riscrivendo l’art. 18, comma 2, nei termini sopra riportati, ha sostituito la formula che onerava l’interessato di specificare i documenti in possesso dell’amministrazione attestanti i fatti, gli stati e le qualità necessari per l’istruttoria, con il nuovo obbligo dell’ente procedente di acquisirli d’ufficio, temperato unicamente dalla facoltà di “richiedere agli interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti” (v. anche infra, par. 5).
Lungi dal segnare il superamento del sistema delle dichiarazioni sostitutive, la riforma non ha però trovato concreta attuazione e, come dimostrano l’evoluzione della d.i.a./ s.c.i.a. (su cui v. infra l’apposito contributo) e i successivi interventi legislativi (ultimo dei quali il richiamato d.l. n. 76 del 2020), le autodichiarazioni hanno assunto un ruolo sempre più “centrale” nel sistema dei rapporti tra privati e amministrazioni e, travalicando l’originaria funzione di sostituire le “certificazioni” amministrative e gli “atti di notorietà” (consentendo agli amministrati di certificare essi stessi alle amministrazioni dati, circostanze e informazioni chiaramente risultanti da documenti amministrativi o comunque “notori”), sono state impropriamente chiamate anche a “supplire” alle inefficienze dei poteri pubblici, implicando di fatto il trasferimento in capo ai privati di responsabilità di ricostruzione e valutazione di un quadro normativo e tecnico sempre più farraginoso e complesso che i dipendenti pubblici non si sentono in grado di assumere (cfr. supra, l’Introduzione e le considerazioni di G. Trovati, Prove di semplificazione sulla responsabilità contabile, in Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2020, e di P. Severino, La burocrazia difensiva, in La Repubblica, 30 maggio 2020).
Il primo comma dell’art. 21 della l. n. 241, al primo periodo, infatti, testualmente recita che “Con la denuncia o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti” (rispettivamente per il valido utilizzo della d.i.a./s.c.i.a. e per l’accoglibilità, anche tacita, dell’istanza) e che “In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non `e ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Su tale formula le Amministrazioni e la giurisprudenza hanno costruito un’autoresponsabilizzazione del dichiarante anche per meri errori valutativi (v. le considerazioni svolte infra al par. 4 e nel contributo sulla s.c.i.a., nonché i contributi di G. Mari e M. Sinisi, rispettivamente sul silenzio assenso e sull’autotutela), confondendoli indebitamente con il rilascio di dichiarazioni false o mendaci e in tal modo contravvenendo allo spirito e alla logica della semplificazione. Come anticipato nell’Introduzione è infatti evidente che il falso o mendacio presuppone la volontà di travisare una circostanza inconfutabile (oggettivamente verificabile), sicché non può essere considerata falsa o mendace la dichiarazione che, basandosi su un elemento valutativo (ex se opinabile), propone senza dolo una costruzione/soluzione diversa da quella che l’amministrazione o il giudice ritengano poi corretta: una dichiarazione falsa o mendace è evidentemente sbagliata, ma non è vero l’inverso, ché l’errore del dichiarante non è necessariamente espressione di un falso, tanto più laddove la rappresentazione/valutazione richiestagli sia resa oggettivamente difficile dal contesto di riferimento; al punto che il legislatore ha avuto bisogno di intervenire a ridurre la responsabilità erariale e penale dei funzionari pubblici, bloccati dalla c.d. “paura della firma” (artt. 21 e 23 del d.l. 76/2020, su cui v. amplius infra). Si ricorda in proposito che, anche in tema di falsità documentali, ai fini dell’integrazione del delitto di falsità, materiale o ideologica, in atto pubblico, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, il quale, tuttavia, non può essere considerato in re ipsa, in quanto deve essere rigorosamente provato, dovendosi escludere il reato quando risulti che il falso non risponde a una volontà di immutatio veri, ma deriva da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell’agente, poiché il sistema vigente non incrimina il falso documentale colposo (così Cass. pen., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 30862; si v. anche Cass. pen., Sez. V, 28 luglio 2010, n. 29764).
Le autodichiarazioni hanno avuto un ruolo decisivo anche nell’emergenza sanitaria COVID-19 (dimostrando tutta la loro debolezza e i loro rischi quando il dichiarante è stato chiamato a costruire, sotto la propria responsabilità, l’ignota nozione di “congiunto” introdotta dall’art. 29, d.P.C.M. 6 aprile 2020) e sono espressamente evocate anche dalle numerose disposizioni finalizzate a far fronte alle conseguenze sociali ed economiche di tale eccezionale e drammatica pandemia. Come anticipato, da ultimo, il menzionato d.l. n. 76 del 2020, intervenendo direttamente sull’art. 18 l. n. 241, vi ha aggiunto un comma 3-bis, il quale dispone che “Nei procedimenti avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l’erogazione di benefici economici comunque denominati, indennità, prestazioni previdenziali e assistenziali, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni, da parte di pubbliche amministrazioni ovvero il rilascio di autorizzazioni e nulla osta comunque denominati, le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, ovvero l’acquisizione di dati e documenti di cui ai commi 2 e 3, sostituiscono ogni tipo di documentazione comprovante tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento, fatto comunque salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159”.
Nonostante l’insistenza sul duplice binario autodichiarazioni/acquisizioni o accertamenti d’ufficio, è presumibile che le prime siano destinate, ancora una volta, a prevalere, con tutti i rischi che ne conseguono, in termini di garanzia della legalità (a svantaggio dell’interesse pubblico particolare e generale) e di certezza degli effetti del provvedimento o del titolo ottenuto (a svantaggio dell’autodichiarante).
2. Il sistema delle autodichiarazioni nel d.P.R. 445 del 2000. Il sistema delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e/o di atti di notorietà è attualmente disegnato dalla Sezione V (“Norme in materia di dichiarazioni sostitutive”) del Capo III (“Semplificazione della documentazione amministrativa”), del “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, approvato con d.P.R. n. 445 del 2000 (che, all’art. 2, dispone che le dichiarazioni sostitutive possono essere impiegate anche nei rapporti tra l’attestante e gli altri soggetti “privati che vi consentono”).
In particolare, detto d.P.R. elenca, all’art. 46, le “dichiarazioni sostitutive di certificazioni”, precisando che esse possono essere rese anche contestualmente all’istanza per comprovare “in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti: a) data e il luogo di nascita; b) residenza; c) cittadinanza; d) godimento dei diritti civili e politici; e) stato di celibe, coniugato, vedovo o stato libero; f) stato di famiglia; g) esistenza in vita; h) nascita del figlio, decesso del coniuge, dell’ascendente o discendente; i) iscrizione in albi, registri o elenchi tenuti da pubbliche amministrazioni; l) appartenenza a ordini professionali; m) titolo di studio, esami sostenuti; n) qualifica professionale posseduta, titolo di specializzazione, di abilitazione, di formazione, di aggiornamento e di qualificazione tecnica; o) situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei benefìci di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali; p) assolvimento di specifici obblighi contributivi con l’indicazione dell’ammontare corrisposto; q) possesso e numero del codice fiscale, della partita I.V.A. e di qualsiasi dato presente nell’archivio dell’anagrafe tributaria; r) stato di disoccupazione; s) qualità di pensionato e categoria di pensione; t) qualità di studente; u) qualità di legale rappresentante di persone fisiche o giuridiche, di tutore, di curatore e simili; v) iscrizione presso associazioni o formazioni sociali di qualsiasi tipo; z) tutte le situazioni relative all’adempimento degli obblighi militari, ivi comprese quelle attestate nel foglio matricolare dello stato di servizio; aa) di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa; bb) di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimenti penali; cc) qualità di vivenza a carico; dd) tutti i dati a diretta conoscenza dell’interessato contenuti nei registri dello stato civile; ee) di non trovarsi in stato di liquidazione o di fallimento e di non aver presentato domanda di concordato”.
Il successivo art. 47 dispone, a sua volta, ai commi 1 e 2, che “l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti [anche relativi ad altri soggetti] che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da [apposita] dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con l’osservanza delle modalità di cui all’art. 38”, che regola, in termini generali, le modalità di invio, anche per fax e via telematica, e sottoscrizione, anche digitale, delle istanze e delle dichiarazioni da presentare alle pubbliche amministrazioni o ai gestori o esercenti di pubblici servizi (disciplina che deve essere pertanto integrata dalle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale).
A rafforzare la valenza dello strumento, il comma 3 prevede che, salvo espresse preclusioni di legge, nei rapporti con gli enti pubblici e i concessionari di pubblici servizi “tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46” (ovvero che non sono oggetto di certificazione) “possono essere comprovati dall’interessato mediante dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”. L’art. 19 dello stesso d.P.R. ammette inoltre l’utilizzo della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà anche per attestare la conformità di una copia di un atto o di un documento al suo originale.
L’art. 49 ha invece cura di precisare che, salvo diverse disposizioni speciali, “i certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di conformità CE, di marchi o brevetti non possono essere sostituiti da altro documento”.
Dopo aver ribadito che le dichiarazioni sostitutive “hanno la stessa validità temporale degli atti che sostituiscono”, l’art. 48 prescrive alle singole amministrazioni di predisporre “i moduli necessari per la redazione delle dichiarazioni sostitutive, che gli interessati hanno facoltà di utilizzare” e di inserire la relativa formula nei moduli per le istanze. La norma si combina con il disposto dell’art. 35, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (cd. “Decreto Trasparenza”), che impone alle amministrazioni di pubblicare sui loro siti istituzionali, “per i procedimenti ad istanza di parte, gli atti e i documenti da allegare all’istanza e la modulistica necessaria, compresi i fac-simile per le autocertificazioni”, e vieta alle medesime di “richiedere l’uso di moduli e formulari che non siano stati pubblicati”, precisando che “in caso di omessa pubblicazione, i relativi procedimenti possono essere avviati anche in assenza dei suddetti moduli o formulari” e che, comunque, “L’amministrazione non può respingere l’istanza adducendo il mancato utilizzo dei moduli o formulari o la mancata produzione di tali atti o documenti, e deve invitare l’istante a integrare la documentazione in un termine congruo”.
3. Segue: i controlli sulle autodichiarazioni. Il Capo V della Sezione VI (artt. 71 e 72) del t.u. del 2000 è dedicato ai “controlli” sulle suddette autodichiarazioni. L’art. 71, recentemente novellato dal d.l. n. 34 del 2020 (c.d. “Decreto Rilancio”), convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 17 luglio, disciplina le modalità di controllo, anche a campione, sollecitandone l’effettuazione. Anche in relazione a quanto si dirà subito infra in riferimento alle conseguenze delle dichiarazioni non veritiere, merita sottolineare che il terzo comma del suddetto articolo precisa testualmente che “se le dichiarazioni sostitutive rese in un procedimento amministrativo contengono irregolarità od omissioni rilevabili d’ufficio che non costituiscono falsità, a pena di mancata prosecuzione del procedimento l’interessato deve riceverne apposita segnalazione da parte del funzionario competente e deve procedere alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione medesima”, e che se egli non provvede “alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione”, “il procedimento non ha seguito”. In coerenza con il principio di leale collaborazione (declinato anche nel dovere del c.d. “soccorso istruttorio” di cui all’art. 6 l. n. 241, su cui v. il contributo di F. Aperio Bella), il legislatore ha dunque introdotto un evidente elemento distintivo tra le mere “irregolarità od omissioni” e le “falsità”, espressamente onerando l’Amministrazione procedente di rilevare e contestare le prime in tempo utile per permetterne la regolarizzazione in corso di procedimento.
Nella medesima ottica di garanzia, il quarto, e ultimo, comma dell’art. 71 stabilisce invece che “Qualora il controllo riguardi dichiarazioni sostitutive presentate ai privati che vi consentono di cui all’articolo 2, l’amministrazione competente per il rilascio della relativa certificazione, previa definizione di appositi accordi, è tenuta a fornire, su richiesta del soggetto privato corredata dal consenso del dichiarante, conferma scritta, anche attraverso l’uso di strumenti informatici o telematici, della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei dati da essa custoditi”.
L’art. 72 impone la trasparenza delle modalità di controllo adottate e stigmatizza come violazione dei doveri d’ufficio la mancata risposta alle richieste di controllo entro i successivi trenta giorni.
4. Segue: le conseguenze delle dichiarazioni non veritiere. Il d.P.R. 445/2000 disciplina, al Capo VI (“Sanzioni”) le conseguenze delle dichiarazioni non veritiere (artt. 73, 75 e 76) e della violazione dell’obbligo di accettare le dichiarazioni sostitutive (art. 74).
Tali disposizioni, come anticipato nell’Introduzione e come si avrà modo di riscontrare dalla lettura dei successivi contributi, incidono sulla stabilità degli effetti dei provvedimenti che, sulla scorta di tali dichiarazioni, abbiano determinato l’erogazione di benefici e, di conseguenza, interferiscono con le garanzie di “certezza” che il legislatore sta cercando (almeno dichiaratamente) di garantire agli amministrati attraverso i modelli di semplificazione dei sistemi di controllo sulle attività interferenti con interessi pubblici (silenzio assenso e s.c.i.a.) e, in termini più generali, attraverso il nuovo paradigma dell’autotutela soprassessoria e caducatoria.
La disamina degli artt. 73 ss. del d.P.R. 445 deve essere condotta pertanto in parallelo con quella degli artt. 21 e 21-nonies della l. n. 241 (al quale ultimo espressamente rinviano gli artt. 19, per i limiti ai controlli postumi sulla s.c.i.a.), e 21-quater (per quelli al potere di sospensione di precedenti provvedimenti), e rimeditata anche alla luce delle ultime disposizioni del Decreto Semplificazioni (il d.l. n. 76 del 2020).
Come più diffusamente illustrato nel contributo sull’autotutela (M. Sinisi), a partire dal 2004 (art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004, che sanciva il divieto di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi incidenti su rapporti contrattuali o negoziali decorso il termine di tre anni “dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”), il legislatore ha cercato di delimitare il potere dell’Amministrazione di rimuovere/sospendere in autotutela i propri atti sul presupposto della loro originaria illegittimità, curandosi di bilanciare l’interesse al ripristino della legalità con quello del destinatario alla conservazione delle posizioni soggettive (anche invalidamente) acquisite o riconosciute. Attraverso un progressivo percorso in tal senso, l’art. 21-nonies della l. n. 241, nel testo attualmente vigente, dispone che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”. I suddetti limiti, motivazionali e temporali, sono stati espressamente richiamati anche per l’eventuale controllo postumo sulla s.c.i.a. (consentito all’Amministrazione, in parallelo al potere di annullamento sui propri provvedimenti, impliciti o espliciti, dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 19, commi 3 e 6-bis, per la verifica immediata, e doverosa, dell’idoneità/validità della segnalazione). Proprio con riferimento ai titoli impliciti o autocertificati, l’assenza della garanzia del provvedimento espresso rendeva e rende infatti ancora più importante garantirne la stabilità (e la spendibilità) contro l’esercizio tardivo del potere di controllo (M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio; Riflessioni sulla tutela del cittadino; Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela). Come recentemente evidenziato dalla giurisprudenza (CGAS, 26 maggio 2020 n. 325) a proposito dello speciale regime dell’annullamento regionale dei titoli edilizi, infatti, “la stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della pubblica amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale”. Osserva in merito condivisibilmente l’organo giudicante che “il principio costituzionale dell’art. 97 cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro”, che “trova fondamento anche nell’art. 3 cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico”, sottolineando, più in particolare, come “non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all’esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale, che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l’uso scorretto, irragionevole e sproporzionato del potere pubblico”; e significativamente concludendo che l’obbligo di motivazione (che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha, almeno formalmente, escluso potersi rinvenire in re ipsa per particolari categorie di atti: cfr. infra il contributo di M. Sinisi) “è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato apparentemente dalla reciproca buona fede”.
Per contemperare detta garanzia di stabilità con l’esigenza di evitare un utilizzo fraudolento dei nuovi strumenti di semplificazione e di liberalizzazione, lo stesso art. 21-nonies ha peraltro disposto, in via derogatoria ed eccezionale, al comma 2-bis, a sua volta valido anche per i provvedimenti taciti e per i controlli postumi sulla s.c.i.a., che il predetto limite temporale non opera in riferimento al potere di annullamento dei “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, con sentenza passata in giudicato”. La stessa disposizione fa peraltro testualmente “salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445”: formula infelice, frutto di un verosimile errore di trasposizione della formula originariamente contenuta nell’art. 19 (“sanzioni penali di cui al comma 6, nonché di quelle di cui al capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”), che, più coerentemente, come osservato nella precedenti edizioni di questo Volume (contributo sulla s.c.i.a.), sembrava limitare la clausola di salvezza alle sanzioni penali di cui all’art. 76 dello stesso t.u.. Nonostante il dettato normativo appaia chiaro e univoco, tanto nel senso dell’imprescindibile correlazione tra la derogabilità al termine di 18 mesi e il “falso”, quanto nel senso che il riferimento alle “false rappresentazioni dei fatti o [di] dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci” debba leggersi in termini di endiadi (stante anche l’oggettiva difficoltà di configurare “rappresentazioni dei fatti” al di fuori delle dichiarazioni sostitutive, che, come sopra evidenziato, assolvono, tra l’altro, proprio alla finalità di attestare “fatti”), la giurisprudenza, supportata da parte della dottrina, vi ha però individuato una breccia per ridurre l’ambito di operatività del limite del giudicato penale e per ricondurre, in modo evidentemente improprio, alle “false rappresentazioni dei fatti”, non tanto e non soltanto (in coerenza con il ricostruito “sistema” delle autodichiarazioni disegnato dal t.u. del 2000) le eventuali alterazioni dei documenti o dei dati oggettivamente risultanti da pubblici registri o simili, o comunque “notori”, ma anche le presunte inesattezze nella descrizione o qualificazione tecnicogiuridica delle fattispecie, riconducibili piuttosto a errori di valutazione e/o ricostruzione del quadro normativo e/o tecnico di riferimento (quali quelli su la validità di un titolo, la qualificazione di un intervento edilizio, la sussistenza di un vincolo, l’individuazione della regula iuris correttamente applicabile, e simili), perfettamente compatibili con la sua riconosciuta complessità e contraddittorietà e, come tali, irriducibili all’antitesi vero/falso (cfr. amplius l’apposita appendice al contributo di M. Sinisi). Significativamente, il Consiglio di Stato, nei succitati pareri nn. 839 e 1784 del 2016, aveva sollecitato un intervento chiarificatore da parte del legislatore, suggerendo, in alternativa alla proposta lettura in chiave di endiadi delle due espressioni, la sostituzione di quella “false rappresentazioni dei fatti” con la più consona “presentazione di documenti falsi”.
La confusione sull’effettiva portata del limite dei 18 mesi è stata sotto altro profilo alimentata da uno scarso coordinamento con l’art. 21 della stessa l. n. 241 e dal suddetto richiamo alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445” (come detto, verosimilmente frutto del riferito errore di trasposizione di quello originariamente contenuto nell’art. 19: v. amplius infra, in questo contributo, con riferimento all’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020).
Pur opportunamente intervenendo a eliminare il comma 2 dell’art. 21 (che, in contraddizione con il sistema costruito dagli artt. 19 e 20, assoggettava le attività esercitate in base a titoli illegittimi alle medesime sanzioni comminate per quelle esercitate in assenza di titolo: sul punto v. amplius il contributo di G. Mari), la l. n. 124 del 2015 (“legge Madia”) ha infatti lasciato inalterato il comma 1 dello stesso articolo, che, tutt’ora, come visto, dopo aver ribadito (in chiave responsabilizzante) l’obbligo dell’interessato di dichiarare nella segnalazione di cui all’art. 19 e nella domanda di cui all’art. 20 la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti (obbligo corroborato dall’art. 12 del d.l. n. 76 del 2020, che fa però correttamente testuale rinvio alle sole dichiarazioni sostitutive di cui ai riferiti artt. 46 e 47 d.P.R. 445 del 2000), non ammette “la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge e la sanatoria prevista dagli articoli medesimi”. Il persistente riferimento alla “sanatoria”, prevista nel testo originario dell’art. 20, ma eliminata dalla riforma del 2005 (che fa anzi espresso ed esclusivo riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies), dimostra che la mancata modifica della disposizione non risponde a una specifica scelta legislativa in senso antitetico a quella operata con l’abrogazione del comma 2 e con l’introduzione di puntuali limiti (e controlimiti) al potere di rimuovere con effetto ex tunc i titoli e i benefici acquisiti in forza dei richiamati artt. 19 e 20. Come già rilevato nelle precedenti edizioni (nel contributo specificamente dedicato alla s.c.i.a.), lo spirito della riforma, l’abrogazione dell’art. 21, comma 2, e il chiaro disposto dell’art. 21-nonies, comma 2-bis, inducono dunque ragionevolmente a circoscrivere la portata dell’art. 21, comma 1, alla verifica ordinaria di conformità della s.c.i.a., che l’amministrazione deve compiere nei primi 60 o 30 giorni. Anche il Consiglio di Stato, nei pareri 839 e 1784 del 2016 sui decreti delegati s.c.i.a. (su cui v. amplius nel relativo contributo), riscontrando la distonia della disposizione, aveva del resto giustamente sottolineato che, se avesse inteso effettivamente legittimare una deroga ulteriore a quella prevista dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies, il legislatore avrebbe dovuto specificare “quali siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies (...)”.
La chiave di lettura qui prospettata trova ormai conferma nel comma 8-bis dell’art. 2, l. 241, introdotto dall’art. 12 del citato d.l. n. 76 del 2020, che, ribadendo la volontà legislativa a favore della stabilità del titolo tracciata dalla riforma Madia e sgombrando (si spera, definitivamente) il campo da ipotesi di mancata formazione dei titoli impliciti o autocertificati (su cui amplius il citato contributo di G. Mari e, ancora recentemente, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 aprile 2020, n. 634), precisa testualmente che “le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14 -bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, comma 3 e 6-bis, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando [soltanto: n.d.r.] quanto previsto dall’art. 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Le precedenti considerazioni consentono di esaminare con maggiore cognizione di causa le disposizioni di cui al Capo VI del d.P.R. 445 del 2000 e la relativa incidenza sul sistema generale sopra ricostruito. A tale proposito occorre peraltro preliminarmente evidenziare che l’art. 264, comma 1, del richiamato d.l. n. 34 del 2020 (convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 17 luglio), nell’ampliare ulteriormente l’ambito delle dichiarazioni e asseverazioni sostitutive in relazione alle istanze di benefici e agevolazioni legate alla nuova, drammatica, emergenza pandemica, ha confermato e rafforzato i limiti imposti all’autotutela caducatoria dalla riforma Madia. La novella ha invero ridotto, in via derogatoria ed eccezionale, con riferimento agli atti adottati (o all’attività intrapresa) in relazione alla stessa emergenza, da 18 a 3 mesi il termine perentorio di cui all’art. 21-nonies, dandosi espressamente cura di ribadire, facendola dunque testualmente propria, la regola che tale limite, come disposto dal riportato comma 2-bis dello stesso articolo, trova eccezione nel caso (e, proprio perché si tratta di eccezione, salvo chiare ed espresse controindicazioni, soltanto nel caso) in cui detti atti o titoli siano frutto di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”. Si conferma dunque che la deroga al limite temporale per inesatte “rappresentazioni dei fatti” richiede l’elemento della “falsità” e che, anche a voler accettare la lettura (a mio avviso strumentale e non conforme all’intentum legis) che esclude per le “false rappresentazioni dei fatti” la necessità del giudicato penale, tale garanzia è ineludibile quantomeno per le “dichiarazioni sostitutive”. Sicché, dal momento che, come detto, esse normalmente assorbono ogni tipo di “fatto”, la querelle sulla possibilità di distinguere, ai fini della prescritta condizione del giudicato penale, tra false rappresentazioni dei fatti e false dichiarazioni sostitutive dovrebbe assumere una rilevanza affatto marginale (si segnala in proposito che le dichiarazioni “asseverate” da un professionista abilitato possono essere disattese solo attraverso una prova rigorosa e stringente in senso opposto e non possono certamente essere smentite mediante mere presunzioni o deduzioni: Cass. pen., III, 19 gennaio 2009 n. 1818; Cons. St., Sez. VI, n 148/ 2014). Non solo. Lo stesso art. 264, comma 1, del d.l. n. 34 dà ragione anche della suesposta prospettazione in termini di errore di drafting del richiamo alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445” operato dall’art. 21-nonies, comma 2-bis. Riavvicinandosi al testo originario dell’art. 19 l. 241, evidentemente erroneamente trasposto nella novella del 2015, il legislatore del 2020 fa invero (più correttamente) salve soltanto le “sanzioni penali, ivi comprese quelle previste dal capo VI” del suddetto t.u. e, dunque, soltanto quelle previste dal suo art. 76, il quale statuisce che chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso “è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia”. In particolare, per le fattispecie incriminatrici previste dal codice (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ex art. 483 c.p., false attestazioni o dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o di altri ex artt. 495 e 496 c.p., su cui, rispettivamente, inter alia, Cass. pen., Sez. V, 14 giugno 2016, n. 36821 e 21 luglio 2009, n. 35447), il d.l. n. 76 del 2020 ha previsto l’aumento da un terzo alla metà della sanzione ordinaria. Il comma 4 dell’art. 76 aggiunge che se la falsa dichiarazione è resa per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o l’autorizzazione all’esercizio di una professione o arte, “il giudice, nei casi più gravi, può applicare l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e arte”. Tra le norme speciali, si segnala l’art. 19, comma 6, l. 241, che, nel testo modificato dalla l. 122/2010, stabilisce che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, la falsa dichiarazione o attestazione nella segnalazione dell’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punita con la reclusione da uno a tre anni.
Le questioni più complesse investono però, come anticipato, le conseguenze di ordine amministrativo e il loro raccordo con il richiamato paradigma dell’autotutela caducatoria.
Oltre alle conseguenze penali, il d.P.R. 445 ha invero sin dall’origine disposto che, qualora a seguito dei controlli di cui al richiamato art. 71 emerga la “non veridicità” del contenuto della dichiarazione sostitutiva, “il dichiarante decade dai benefìci eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. La norma, risalente al 2000, deve essere pertanto coordinata con il sopravvenuto art. 21-nonies, l. 241 (aggiunto, si ricorda, dalla riforma del 2005 e rivisitato, anche e soprattutto nell’ottica di dare maggiore stabilità ai titoli semplificati e autocertificati, da quella del 2015), che, come visto, introduce limiti motivazionali e temporali al potere amministrativo di rimuovere ex tunc, per vizi originari di legittimità, i provvedimenti/titoli autorizzatori o attributivi di vantaggi economici, consentendo la deroga del limite temporale (fermo in ogni caso quello motivazionale) unicamente nell’ipotesi in cui l’atto risulti adottato sulla base di “false rappresentazioni della realtà o di dichiarazioni false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”. Se dunque, come sostenuto nelle precedenti edizioni di questo Volume e come sembra ormai chiarito dal comma 1 dell’art. 264 del Decreto Rilancio, l’espressa clausola di salvezza delle sanzioni di cui al d.P.R. 445 del 2000 deve intendersi limitata alle sanzioni penali, si potrebbe anche ritenere che il paradigma dell’autotutela caducatoria costruito dal Capo IV-bis della l. n. 241, privilegiando (nella linea intrapresa, proprio per i benefici economici, dall’art. 1, comma 136, della l. 311 del 2004), la stabilità dei rapporti tra privato e pubblica Amministrazione, abbia assorbito e implicitamente abrogato la misura decadenziale automatica e imperitura comminata dal citato art. 75. Se però, come imposto dai richiamati princìpi di legalità, buona amministrazione e certezza del diritto e tutela del legittimo affidamento, le due disposizioni vengono lette e applicate con il dovuto rigore, la sovrapposizione si rivela soltanto apparente. Diversamente dall’annullamento, che interviene con effetto ex tunc sull’atto - o, nella forma del controllo postumo sulla s.c.i.a., sulla valenza del titolo autocertificato - la decadenza ex art. 75 d.P.R. 445 (a meno di integrare una forma di “annullamento travestito”, espressamente stigmatizzata dal Consiglio di Stato nei già richiamati pareri 839 e 1784 del 2016 sugli schemi dei decreti s.c.i.a.) opera sui soli benefici eventualmente ancora dovuti in forza del provvedimento ottenuto attraverso una dichiarazione/asseverazione/attestazione non veritiera. La misura, che non incide direttamente sul provvedimento, si inquadra dunque nella più generale tipologia della decadenza per perdita (o sopravvenuto accertamento dell’insussistenza) dei presupposti o requisiti di legge (M.A. Sandulli, Decadenza, II) Diritto Amministrativo e, prima, Decadenza e sanzione amministrativa). Essa risponde (rectius, dovrebbe rispondere), correttamente e ragionevolmente, alla logica di precludere la (“ulteriore”) fruizione dell’utilitas in tesi indebitamente conseguita, impedendo che il dichiarante “continui” a godere di un beneficio cui non ha diritto: essa coerentemente opera ex nunc e, in questi termini e con questi limiti, può prescindere dall’elemento soggettivo e dalla gravità del mendacio (Cons. St., Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3934, ha sottolineato in proposito che la ratio delle autodichiarazioni, che è quella di “semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante: il corollario che deve trarsi da tale constatazione è che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell’Amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante, perché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in giuoco, ma solo le necessità di spedita esecuzione della legge sottese al sistema della semplificazione” (analogamente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12 marzo 2018, n. 1524; TAR Veneto, Sez. I, 18 settembre 2017, n. 832; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 4 gennaio 2016, n. 33). Il tema resta comunque estremamente delicato, soprattutto alla luce del principio di proporzionalità (su cui v. supra il contributo di D.U. Galetta): con ord. n. 92 del 2020, il TAR Puglia, Lecce, Sez. III (riprendendo e sviluppando gli argomenti svolti nelle ordd. nn. 1346, 1531, 1552 e 1544 del 2018, dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza da C. cost., n. 199 del 2019), ha (ri)sollevato la questione di legittimità costituzionale della disposizione, nella lettura datane dal “diritto vivente”, nel senso di ritenerla applicabile, con un “meccanico automatismo legale (del tutto contestualizzato dal caso specifico)” e con “assoluta rigidità”, per qualsivoglia errore “sostanziale” della dichiarazione, a prescindere dalla sua concreta rilevanza e dalla sua effettiva gravità, anche sul piano dell’elemento soggettivo. Il contrasto è stato dedotto in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e sproporzione della misura impeditiva e decadenziale automatica, anche alla luce delle aperture create dall’ordinamento attraverso il soccorso istruttorio. Sottolinea invero l’ordinanza che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, sia appalesa idoneo (...) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamato a regolare, anche in funzione dell’«“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” ... ed a a criteri di coerenza logica, teleologica, ..., che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa (sentenza numero 87 del 2012)» (Corte costituzionale sentenza 10 giugno 2014 n. 162)”. Spunti interessanti sul rapporto tra effetto preclusivo automatico e principio di proporzionalità sono rinvenibili anche, in termini più generali, nella recente sentenza C UE 30 gennaio 2020, causa C-395/ 2018.
Il legislatore del 2020 (tanto in sede di decretazione d’urgenza, quanto in sede di conversione) ha perso un’importante occasione per fare aperta chiarezza su tale quadro normativo. Ancora una volta, le nuove disposizioni della normativa emergenziale — come si è già visto a proposito della conclamata inefficacia delle determinazioni assunte dopo la scadenza dei termini per la decisione implicita o per la verifica immediata sulla s.c.i.a. (ex art. 12 d.l. n. 76) in rapporto all’art. 21, comma 1, l. n. 241 e del richiamo alle (sole) sanzioni penali di cui al d.P.R. 445 nella rielaborazione della formula del comma 2-bis dell’art. 21-nonies leggibile nel comma 1 dell’art. 264 d.l. n. 34 — offrono però utili spunti ricostruttivi. In particolare, pur senza intervenire direttamente sulla disposizione comminatoria della decadenza di cui al citato art. 75, lo stesso art. 264 del d.l. n. 34 ne ha invero comunque chiaramente circoscritto gli effetti, laddove, nel decidere, con un improvviso e criticabilmente non segnalato cambio di rotta (cfr. M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020), di inasprire il regime delle conseguenze amministrative delle false dichiarazioni, facendo retroagire (e ultragire) gli effetti della decadenza, ha (correttamente) ritenuto necessario aggiungere un apposito (e autonomo) comma 1-bis all’art. 75, enunciante la — nuova — regola che “La dichiarazione mendace comporta, altresì, la revoca degli eventuali benefici già erogati” e, addirittura, “il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e agevolazioni per un periodo di 2 anni decorrenti da quando l’amministrazione ha adottato l’atto di decadenza”.
Sorge però a questo punto un nuovo ordine di questioni. Come rilevato in sede di primo commento alla disposizione (M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264, cit.), la nuova “revoca” (che con la revoca in senso proprio non ha peraltro nulla a che vedere) integra invero, diversamente dalla decadenza, una misura evidentemente distonica rispetto al dettato e allo spirito dell’art. 21-nonies della l. n. 241. È indubbia infatti la differenza tra la preclusione al conseguimento o all’ulteriore godimento di un’utilitas cui il dichiarante non avrebbe avuto in tesi diritto (decadenza) e la revoca ex tunc dei benefici medio tempore ottenuti (e verosimilmente spesi o comunque investiti) per l’inefficienza dei controlli amministrativi. Al di là del nomen, quest’ultima misura appare invero sovrapponibile all’annullamento dell’atto presupposto all’erogazione del beneficio. Ne dà conferma l’art. 56 del più volte citato d.l. n. 76 del 2020, che, ponendo finalmente termine alla vexata quaestio dell’applicabilità dei limiti di cui all’art. 21-nonies al potere del GSE (Gestore dei Servizi Energetici) di intervenire con effetto ex tunc sulla spettanza degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili all’esito della rilevazione, in sede di verifica postuma, del loro indebito riconoscimento (anche a causa della presentazione di documentazione non veritiera o di dichiarazioni false o mendaci), ha espressamente chiarito (mediante una testuale puntualizzazione all’interno dell’art. 42 d.lg. n. 28 del 2011, in tesi estraneo al paradigma generale dell’autoannullamento) che tale potere si esplica “in presenza dei presupposti di cui all’articolo 21-nonies” della l. n. 241 e ha conseguentemente fatto obbligo allo stesso Gestore di riesaminare, su richiesta dell’interessato, i provvedimenti di annullamento e/o di decadenza non ancora divenuti definitivi, provvedendo alla relativa rimozione (impropriamente definita “revoca”) entro 60 giorni dalla stessa richiesta.
La novella conferma dunque la valenza generale dei limiti posti dall’art. 21-nonies per ogni intervento di rimozione degli atti (o rilevamento postumo dell’inefficacia della s.c.i.a.) per vizi originari.
Diversamente da quanto disposto dall’art. 21-nonies, l. n. 241, il comma 1-bis dell’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000 prevede però una misura “automatica” (senza bilanciamento dei contrapposti interessi) e, soprattutto, pur avendo specificamente ad oggetto il recupero di “benefici”, non fa alcuna menzione del giudicato penale. Per giustificare la distonia della “revoca” di cui al novellato art. 75 d.P.R. 445 rispetto al regime generale dell’annullamento d’ufficio, bisogna dunque ricondurla, come del resto ben compreso dai Servizi studi della Camera e del Senato nella Scheda di presentazione del Decreto Rilancio ai fini della relativa conversione in legge, analogamente alla correlata interdittiva biennale da ogni agevolazione, al genus delle sanzioni (identificabili, a prescindere dalla qualificazione, per la loro connotazione afflittiva, siccome definita dalla Corte EDU con i cd Engel criteria, pacificamente applicati, a partire dalla nota sentenza n. 196 del 2010, anche dalla Consulta). Ma ciò implica che le riferite misure devono rigorosamente rispettare i principi e le regole che la Costituzione, la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) univocamente impongono per le pene: inter alia, stretta legalità (e dunque rigorosa delimitazione alle dichiarazioni attinenti all’erogazione di “benefici”, quali evidentemente non sono le autorizzazioni all’esercizio di un’attività e men che meno la s.c.i.a.: cfr. la giurisprudenza costituzionale richiamata nell’apposito contributo), presunzione di non colpevolezza, favor rei, adeguata motivazione e istruttoria, proporzionalità (anche in termini di necessaria graduabilità della sanzione in relazione alla specifica gravità e rilevanza del fatto) e valenza dell’elemento soggettivo (in proposito, tra le più recenti, le sentenze nn. 63 e 112 del 2019, rispettivamente nel senso dell’applicabilità anche alle sanzioni amministrative della regola della retroattività della legge più favorevole e dell’illegittima costituzionale delle sanzioni interdittive non graduabili: cfr. anche E. Bindi, A. Pisaneschi, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, in Federalismi.it, 2019, e ivi ulteriori richiami).
Da ciò la palese erroneità e superficialità della suddetta Scheda, quando unifica e assimila istituti come decadenza, revoca e interdizione e concetti come falsità, mendacio e non veridicità, assumendo (con un’impropria estensione del surrichiamato “diritto vivente” sulla decadenza) che anche per le neo-introdotte misure sanzionatorie la “«dichiarazione falsa o non veritiera» opera come fatto”, sì che “perde[rebbe] rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante”.
La confusione, purtroppo sempre più diffusa e frequente, tra le categorie giuridiche è uno dei più gravi difetti del nostro sistema e aumenta gravemente l’incertezza delle regole e, per l’effetto, la sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese.
Come segnalato nel citato commento a prima lettura della disposizione (M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020), deve essere pertanto stigmatizzata qualsiasi chiave di lettura che, disattendendo i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento permeanti l’azione amministrativa e posti significativamente alla base del nuovo paradigma dell’autotutela soprassessoria e caducatoria, obliteri il connotato doloso intrinseco al falso e al mendacio, che, solo, può giustificare, nel suddetto paradigma, il recupero in ogni tempo del beneficio in forza della rilevata non rispondenza della dichiarazione originariamente resa ai dati e alle situazioni (di “realtà materiale”) riportate, e, travalicando i confini tracciati dal d.P.R. 445, tenda inammissibilmente ad estendere l’applicazione delle nuove sanzioni — testualmente riferite alle sole dichiarazioni “mendaci”, rese, in forza dei menzionati artt. 46 e 47 dello stesso t.u., per l’erogazione di “benefici” — a qualsiasi, preteso, “errore” di ricostruzione e valutazione del quadro tecnico e normativo di riferimento imputabile all’interessato anche nella dichiarazione di circostanze (come il generico possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento) sulle quali (a differenza di quelle risultanti dagli atti di certazione) i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giurisdizionale) o la realtà fattuale (dati inconfutabili, come il peso, la misura, ecc.) non offrono certezza. Merita in quest’ottica sicuro apprezzamento la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato nel senso che, “il concetto di “falso”, nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso” (Sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976; sulla necessità del dolo, ancorché generico, per configurare il reato di falso ideologico in un’autodichiarazione, cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, sent. n. 2496 del 19 dicembre 2019, dep. il 22 gennaio 2020. Analogamente, sulla necessità di una lettura rigorosa della nozione di “falsa dichiarazione”, con riferimento all’impossibilità di assimilarvi l’ipotesi di “omessa o reticente dichiarazione” cfr. Cons. St., Sez. V, 6 luglio 2020 n. 4313, con la conseguenza che, ai fini dell’ammissione a una gara pubblica, “solo alla condotta che integra una falsa dichiarazione consegue l’automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico, mentre, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso”; negli stessi sensi, la stessa Sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407; Id. 22 luglio 2019, n. 5171; Id. 28 ottobre 2019, n. 7387; Id. 13 dicembre 2019, n. 8480). La tematica è comunque all’esame dell’Adunanza Plenaria (Sez. V, ord. 9 aprile 2020, n. 2332), che si confida fornisca opportuni chiarimenti anche di carattere generale.
Non si deve infatti dimenticare che le misure di semplificazione e liberalizzazione sono, sì, volte a rendere più efficace ed efficiente l’azione amministrativa, ma sono altrettanto inequivocabilmente finalizzate a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato e non possono quindi provocarne un sostanziale indebolimento, imputando ai relativi titolari “responsabilità oggettive” per condotte legate a deficienze e incertezze del sistema normativo da cui si cerca di tenere indenni le amministrazioni (E. Casetta, La difficoltà di “semplificare”, 341; M. Occhiena, L’autocertificazione, 891). Merita in proposito segnalare che la giurisprudenza penale ha rigorosamente circoscritto la possibilità di rinvenire un c.d. falso valutativo (qualora specificatamente previsto) alle ipotesi in cui “in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici normalmente accettati l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni” (Cass., Sez. Un., 27 maggio 2016, n. 22474). Si richiede dunque, per un verso, una certezza a monte dei criteri di valutazione e, per l’altro, una consapevolezza della relativa violazione, in una con l’impossibilità di dare altre giustificazioni alla soluzione accolta (sul falso valutativo si v. anche G. Strazza, La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione).
Le precedenti considerazioni valgono a maggior ragione quando si osservi che, proprio per ovviare al diffuso fenomeno della “paura della firma”, determinata dalla preoccupazione dei dipendenti pubblici di incorrere in responsabilità amministrative e penali per possibili errori interpretativi derivanti dall’oggettiva difficoltà di ricostruzione del quadro normativo, il d.l. n. 76 del 2020 (di fatto coevo alla legge di conversione della riportata novella sanzionatoria) per un verso, ha disposto la (per ora temporanea) limitazione della “responsabilità erariale” (responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici e dei soggetti equiparati per danni all’erario) per atti e comportamenti “commissivi” ai casi di dolo (da comprovare attraverso la dimostrazione della “volontà dell’evento dannoso”), mantenendo la responsabilità per colpa (che già la l. n. 20 del 1994 circoscriveva peraltro alla “colpa grave”) soltanto per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente, e, per l’altro verso, ha rigorosamente ridefinito (a regime) l’ipotesi di reato per cd “abuso d’ufficio”. L’art. 23 del decreto è infatti intervenuto direttamente sull’art. 323 c.p. limitando la configurabilità di tale reato alla violazione (affatto difficilmente ravvisabile) “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Sarebbe dunque evidentemente ingiusto “punire” i privati autodichiaranti per omissioni e/o errori dichiarativi (anche imputabili a negligenza) che vengono invece giustificati agli agenti pubblici (sul tema si rinvia a R. Greco, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Giustizia insieme, 22 luglio 2020 e al webinar, introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, su “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, 13 luglio 2020).
5. L’acquisizione d’ufficio. Come anticipato in premessa, il nuovo comma 3-bis aggiunto all’art. 18 l. n. 241 dal d.l. n. 76, in parallelo alle autodichiarazioni, fa anche esplicito richiamo all’acquisizione d’ufficio di cui ai commi 2 e 3 dello stesso articolo, che, come evidenziato in dottrina (M. Occhiena, L’autocertificazione, 890), è ispirata al modello più evoluto dell’istruttoria procedimentale pubblica, in quanto, nella prospettiva degli amministrati, li esonera dal deposito di certificati o delle corrispondenti dichiarazioni sostitutive e dei relativi rischi, e sul piano dell’effettiva realizzazione del pubblico interesse, elide le fisiologiche deficienze e incertezze correlate all’utilizzo delle autocertificazioni.
Il dovere dell’Amministrazione di acquisire in via autonoma gli atti e i certificati concernenti fatti e circostanze che risultino attestati in documenti già in suo possesso o che essa stessa sia tenuta a certificare risale all’art. 2 del d.P.R. n. 678 del 1957 ed è stato formalmente ribadito e progressivamente aggiornato nelle diverse disposizioni che sono intervenute sul tema della produzione documentale privati- pubbliche Amministrazioni: così, in particolare, dopo l’art. 10 della l. n. 15 del 1968, l’art. 18, commi 2 e 3, l. n. 241 (modificato dalla riforma del 2005 e, da ultimo, dal d.l. n. 76 del 2020) e l’art. 43 d.P.R. 445 del 2000, che, al comma 1, come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. c, l. n. 183 del 2011, sottolinea che “Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell’interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall’interessato” e, al comma 3, come modificato dall’art. 14, comma 1-ter, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, in l. 9 agosto 2013, n. 98, dispone che “L’amministrazione procedente opera l’acquisizione d’ufficio...esclusivamente per via telematica”. Quest’ultimo strumento, come quello delle banche dati centralizzate, rende, evidentemente, ancora meno giustificabile, anche alla luce dei parametri fondamentali di ragionevolezza e proporzionalità, l’aggravio allegatorio e autodichiarativo imposto agli amministrati.
Meritano pertanto condivisione le considerazioni di chi rileva la necessità di estendere alla mancata acquisizione d’ufficio la previsione, già operata per la mancata accettazione delle autodichiarazioni, che essa integra una fattispecie di violazione dei doveri d’ufficio e sollecita la giurisprudenza a intervenire con maggior rigore sui provvedimenti adottati all’esito di istruttorie in cui si è verificato il mancato rispetto del dovere di acquisizione d’ufficio (ancora M. Occhiena, L’autocertificazione, 893).
Bibliografia
G. Arena, Autocertificazione e amministrazione per interessi, in Scritti in onore di M.S. Giannini, I, Milano, 1998, 49 ss.; G. Bartoli, L’autocertificazione, Rimini, 1993; M. Bombardelli, Gli errori formali nelle dichiarazioni sostitutive, in GDA, 2007, 31 ss.; Id., Autocertificazione, in E.G.I., IV, Roma, postilla agg. 1999, 1996; G. Cammarota, Circolazione cartacea e circolazione telematica delle certezze pubbliche. Accertamento d’ufficio ed acquisizione d’ufficio, in FA TAR, 2004, 3527 ss.; E. Casetta, La difficoltà di “semplificare”, in D AMM, 1998, 335 ss.; Id., Profili della evoluzione dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, in D AMM, 1993, 9 ss.; L. Donato, Le «autocertificazioni» tra “verità” e “certezza”, Napoli, 2015; Id., L’«autocertificazione» tra certezza e semplificazione, in D E PROC AMM, 2009, 201 ss.; A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, Padova, 2003; F. Fracchia, M. Occhiena, I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006; G. Sala, Certificati e attestati, in D. disc. pubbl., II, Torino, 1987, 531 ss.; G. Gardini, Autocertificazione, in D. disc. pubbl. (Agg.), Torino, 2005, 107 ss.; S. Giacchetti, Certificazione, E.G.I., VI, Roma, 1988; S. Gianferrara, Commento art. 18, in Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi (legge 7 agosto 1990 n. 241), in NLC 1995, 99 ss.; M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993; Id., Certezza pubblica, in EdD, VI, Milano, 1960; M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale - Il caso dell’autocertificazione, in N AUT, 2008, 603 ss.; G.C. Lo Bianco, Autocertificazione e organizzazione amministrativa, Milano, 1999; F. Luciani, Difetto di sottoscrizione delle dichiarazioni sostitutive e poteri di regolarizzazione, in GDA, 2004, 993 ss.; M. Mazzamuto, Dichiarazioni sostitutive: le principali innovazioni delle leggi Bassanini, in N AUT, 1999, 45 ss.; F. Merloni (a cura di), Introduzione all’@government, Torino, 2005; M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966; M. Occhiena, Autocertificazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 873 ss.; Id., Le certificazioni nei processi decisionali pubblici e privati, in I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 91 ss.; Id., Istanze, autocertificazione, acquisizioni d’ufficio, cause di esclusione, regolarizzazione nei concorsi a pubblico impiego e nelle gare d’appalto prima e dopo la riforma Bassanini, in FI, 1999, III, 268 ss.; L. Palmieri, Acquisizione d’ufficio di atti e documenti: un difficile equilibrio fra semplificazione amministrativa e aggravio del procedimento, in SC IT, 2005, 682 ss.; A. Romano Tassone, Amministrazione pubblica e produzione di “certezza”: problemi attuali e spunti problematici, in I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 23 ss.; M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in Giustiziainsieme.it, 2020; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 18, 2019; Id., Le novità in tema di silenzio, in LAD Treccani, 2014; Id., Certificazione, in E.G.I., 2006; Id., Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione, in GC, 1994, II, 485 ss.; Id., Decadenza, II) Diritto Amministrativo, in E.G.I, XI, 1989, 1 e ss.; Id., Decadenza e sanzione amministrativa, in D SOC, 3, 1980, 460 ss.; A. Stoppani, Certificazione, EdD, Milano, 1960; G. Trotta, La semplificazione nella documentazione amministrativa e nel controllo sugli atti, in Semplificazione dell’azione amministrativa e procedimento amministrativo alla luce della l. 15 maggio 1997 n. 127, Milano, 1998, 24 ss.; A. Bartolini, S. Fantini, G. Ferrari (a cura di).
(*) Estratto dal volume "Principi e regole dell'azione amministrativa" su gentile autorizzazione dell'editore.
Decidere nell’emergenza. Limitazione e bilanciamento dei diritti fondamentali.
Prendendo spunto dall'intervista rilasciata nel maggio scorso al settimanale Die Zeit da Jurgen Habermas e Klaus Gunter (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1126-diritti-fondamentali-nessun-diritto-fondamentale-vale-senza-limiti-di-juergen-habermas-e-klaus-guenther-2?hitcount=0) e della rilettura operata alla luce della cultura giuridica italiana dalla dottrina gius-pubblicistica (https://www.giustiziainsieme.i...), l'Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo - AIPDA dedica il suo convegno annuale al tema della limitazione e del bilanciamento tra diritti fondamentali nell'emergenza pandemica.
Il convegno si svolgerà in forma di webinar venerdì 9 ottobre dalle ore 10.00 alle 13.00 sulla piattaforma zoom e sarà possibile accedere tramite il link di seguito indicato:
https://zoom.us/j/96635732283?pwd=dGdwYzhvbUZrNHpjWkJYRGE2REJ0Zz09
L'annosa questione dei settant’anni di Piercamillo Davigo.
Il 20 ottobre 2020 Davigo compirà settant’anni e uscirà dall’ordine giudiziario.
Decadrà dalla carica elettiva di consigliere del CSM?
Nel nostro ordinamento c’è un principio in base al quale la decadenza deve essere espressamente prevista? O viceversa il principio generale è che il venir meno del requisito per l’elettorato passivo determina la decadenza dall’incarico elettivo?
Come influisce sulle qualità dell’organo di governo autonomo della magistratura, composto di togati e non togati nella proporzione prevista dalla costituzione, il venir dell’appartenenza all’ordine giudiziario di un componente?
Come influisce la scelta degli elettori che alle scorse elezioni votarono consapevoli che a metà del quadriennio, per limiti di età, Davigo avrebbe cessato di far parte dell’ordine giudiziario?
Da un punto di vista politico e dell’amministrazione della res publica, in termini di buona amministrazione, quali saranno gli effetti del subentro di un nuovo componente togato (il primo dei non eletti del collegio della legittimità) tenuto conto della natura di alta amministrazione e rilevanza costituzionale di un organo complesso quale il Consiglio superiore della magistratura?
Tenuto conto che la consiliatura 2018-2020 è stata martoriata da dimissioni, subentri e elezioni suppletive (si è ancora in attesa dell'ultimo subentro e ancora non si sa se con o senza ulteriori suppletive), quali saranno gli effetti dell' una o dell’altra scelta?
Quali saranno gli effetti sugli equilibri di forza delle correnti presenti nell’attuale composizione del Consiglio?
Non ci si può nascondere dietro una norma "che per qualcuno c’è e per qualcun’altro non c’è" ma la questione andrà affrontata ( e questo lo farà il CSM entro il 20 ottobre prossimo) tenendo conto di tutte le sfaccettature connesse all’uscita di Piercamillo Davigo da Palazzo dei Marescialli; sfumature politiche, di opportunità, legittimazione e efficienza.
Giustizia insieme, in attesa della decisione, offre ai suoi lettori due diversi punti di vista: quello di Rosario Russo che conclude per la decadenza e quello di Stefano Amore che conclude per la permanenza.
L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex?
di Rosario Russo
In qualità di magistrato esercente funzioni di legittimità, dal 25 settembre 2018 il dott. Camillo Davigo è membro elettivo del Consiglio Superiore della Magistratura e fa parte della Sezione Disciplinare, chiamata a decidere sui procedimenti originati dallo scandalo delle Toghe sporche. Essendo egli prossimo al pensionamento per raggiunti limiti d’età (ottobre 2020), si pone il problema della sua legittima permanenza tra i membri togati del C.S.M. (e della S.D.). È appena il caso di rimarcare l’importanza della questione.
L’obiezione fondamentale opposta alla cessazione dalla carica fa capo ad una norma dal significato letterale indiscutibile: l’art. 104, 6° Cost. prevede che i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni, sicché – si sostiene con forza - Davigo continuerà a fare parte dell’attuale consiliatura fino al 2022 (epoca in cui cesserà per legge l’attuale consiliatura), nonostante il sopravvenuto suo pensionamento.
È un’opinione insostenibile, intanto sul piano sistematico. Il C.S.M. governa e (per tramite dell’apposita S.D.) tecnicamente giudica in sede disciplinare soltanto i magistrati in servizio. Infatti, il potere disciplinare presuppone il perdurante rapporto di servizio, cessato il quale (specialmente per raggiunti limiti di età, che operano automaticamente) si estingue il procedimento disciplinare dianzi avviato, in qualunque fase esso si trovi[1]. Tale essendo la ‘missione’ del Consiglio, il legislatore ha coerentemente disciplinato l’elettorato attivo e passivo, riservandoli per l’appunto soltanto ai magistrati ordinari in servizio. In particolare, ai sensi dell’art.14 della L. n. 195/ 1958, sono esclusi dall’elettorato attivo i magistrati sospesi dalle funzioni. Parimenti sono esclusi dall’elettorato passivo, i «magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime ai sensi...». Né è sufficiente l’esercizio delle funzioni giudiziarie soltanto al momento della nomina: infatti l’art. 37 della L. cit. predica la sospensione di diritto del magistrato componente del Consiglio se, dopo la nomina, egli sia stato sospeso dalle funzioni. Ovviamente in tal caso la sospensione perdura fino alla pronuncia di merito disciplinare che, se comporti una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, provocherà la decadenza e la conseguente sostituzione ai sensi dell’art. 39. Dunque a fortiori, se il componente togato del Consiglio cessa definitivamente dalle funzioni per raggiunti limiti d’età, si darà luogo non a sospensione, ma a immediata sostituzione.
L’interpretazione sistematica, così argomentata, è avallata e garantita da quella costituzionale.
Come risulta dalla stessa disposizione richiamata (art. 104, 4° Cost.), i magistrati in servizio hanno eletto alla controversa carica il dott. Davigo non come magistrato d’indubbie qualità personali e professionali, ma in quanto appartenente (anche) ad una specifica ‘categoria’: quella di magistrato esercente le funzioni di legittimità presso la Suprema Corte, ch’egli al momento della nomina svolgeva. La disposizione costituzionale non si limita a stabilire la prevalenza numerica (e perciò decisionale) dei componenti togati (2/ 3) rispetto ai laici (1/ 3), giacché impone altresì che i primi siano eletti tra gli appartenenti alle specifiche categorie previste dall’ordinamento giudiziario; una della quali è per l’appunto quella dei magistrati che esercitano le funzioni di legittimità (presso la Suprema Corte o la Procura generale presso la Suprema Corte), come detta l’art. 23, 2° lett. a) della L. cit. Il rigoroso rispetto della ‘categorizzazione’ rende puntuale e articolato il principio di rappresentatività, cioè l’esigenza che il Consiglio, nella sua componente togata, costituisca l’espressione di gruppi di interessi professionali sufficientemente omogenei, in concreto individuati per legge nelle categorie dei magistrati, esercenti in concreto: le funzioni di legittimità presso la Suprema Corte ovvero la P.G. (due seggi); le funzioni requirenti (quattro seggi); le funzioni di merito (dieci seggi). Il rigoroso rispetto di tale categorizzazione è stato sancito dalla Corte Costituzionale (sentenze nn. 12 del 1971, 87 del 1982 e 262 del 2003) e deve essere ovviamente permanente. I magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Suprema Corte o la P.G. devono potere contare sul fatto che i loro specifici interessi (e le pertinenti e vissute modalità del loro servizio) siano puntualmente rappresentati (anche) da due loro colleghi, che quelle funzioni in concreto e personalmente abbiano svolto e continueranno a svolgere dopo la cessazione del mandato (non immediatamente rinnovabile) al C.S.M. Niente è più rassicurante dal sapere che il decidente adotta un orientamento cui egli stesso potrà essere sottoposto; al contrario non è affidabile la rappresentanza di chi non sarà mai soggetto alle decisioni adottate. Con il collocamento a riposo, Davigo cesserà di rappresentare istituzionalmente quegli specifici interessi in rappresentanza dei quali è stato nominato al Consiglio. Uscito dall’ordine dei magistrati per raggiunti limiti di età, in iure egli rappresenterebbe soltanto sé stesso, ovvero (eventualmente) la corrente di cui fa parte all’interno dell’A.N.M.; mentre i magistrati esercenti funzioni di legittimità potranno contare giuridicamente soltanto sul contributo di esperienza del secondo (ed unico) consigliere a ciò preposto, registrando così una menomata rappresentanza. A questa situazione si può porre adeguato rimedio soltanto con la sostituzione del Davigo ai sensi dell’art. 39 L. cit.
Sulla base di queste osservazioni si può dare spazio alle prolepsi.
La prima. É indubbiamente vero che gli elettori (in grande numero) del dott. Davigo sapevano - o agevolmente potevano sapere – che nel corso della consiliatura, egli sarebbe uscito dall’ordine giudiziario. Sennonché, in primo luogo, le norme che regolano la composizione e le finalità del Consiglio non sono disponibili, neppure ad opera degli elettori; in secondo luogo ed in subordine, gli elettori che non hanno votato Davigo non possono essere comunque pregiudicati.
La seconda. É altresì vero che non esiste un divieto espresso che ab origine impedisca l’elezione di un componente destinato ad essere sostituito qualora esca dall’ordine dei magistrati nel corso della consiliatura. Ebbene, il divieto non sussiste, ma – come si è cercato di argomentare – vige invece la disposizione per cui – nel caso anzidetto – il consigliere togato ultrasettantenne deve essere sostituito; d’altronde, nessuno mette in dubbio la legittimità della funzione svolta in seno al Consiglio dal consigliere Davigo finché egli resti magistrato.
«Un diamante è per sempre»; un magistrato (anche con i meriti di Davigo) no!
[1] Cass, Sezioni Unite, sent. nn. 15878/ 2011, in motivazione: «Occorre altresì rilevare che la "cessazione del rapporto di servizio del magistrato" influisce sullo stesso esercizio del potere disciplinare tanto che l'intervenuta cessazione dell'appartenenza all'Ordine Giudiziario" determina - come correttamente dichiarato con l'ordinanza impugnata - l'estinzione del procedimento disciplinare anche innanzi al Consiglio Superiore della Magistratura per esserne venuto meno il presupposto del perdurante rapporto di servizio dell'incolpato (in tali sensi, tra le tante, ordinanze del CSM 8/2/2001 n. 23; 22/12/2010 n. 192; 18/11/2010 n. 168)».
In senso conforme S.U. sent. n. 16980/2019.
UNA DIVERSA OPINIONE.
Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M.
di Stefano Amore
Sommario: 1. Rispetto e dissenso - 2. Qualche considerazione di sistema e una precisazione sul ruolo del C.S.M. nell’ordinamento - 3. Il C.S.M. come organo di garanzia e la legge 24 marzo 1958, n. 195 - 4. Gli argomenti desunti dall’analisi del sistema di giustizia amministrativa - 5. L’aspetto disciplinare ed etico - 6. Conclusioni.
1. Rispetto e dissenso
Prendo spunto per questo contributo sull’“affaire Davigo” (l’espressione è volutamente ironica) dai molti interventi e articoli che si sono succeduti sul tema negli ultimi mesi.
Mi sembra opportuno evidenziare subito che trovo le considerazioni formulate sull’argomento degne tutte del massimo rispetto e, in ogni caso, utili a quella trasparenza e capacità di dialogo che dovrebbe animare, in ogni occasione, la magistratura.
Mi dolgo solo che il dibattito si sia aperto negli ultimi mesi e non già quando Davigo è stato candidato al C.S.M., come forse sarebbe stato più opportuno.
Che la problematica fosse già nota all’epoca in cui si sono tenute le elezioni è, infatti, indubbio, anche se credo che molti magistrati, non solo tra quelli che lo hanno votato, fossero convinti che l’assenza di una esplicita norma di decadenza avrebbe, comunque, assicurato la pienezza del mandato del collega.
Certamente, sarebbe impensabile invocare a sostegno della permanenza in Consiglio di Davigo, nonostante il collocamento a riposo, l’ampio successo elettorale conseguito. Mi permetto, anzi, di richiamare in proposito una considerazione di Luigi Ferrajoli: «la giurisdizione è sempre applicazione sostanziale di un diritto pre-esistente, argomentabile come legittima e giusta solo se in base a tale diritto ne sia predicabile la “verità” processuale sia pure in senso intrinsecamente relativo. Di qui il suo carattere anti-maggioritario: nessun consenso di maggioranza può rendere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero» (1).
Nel caso in esame non siamo propriamente di fronte ad una ipotesi di giurisdizione, ma credo che le conclusioni di Ferrajoli possano trovare, comunque, brillante applicazione.
Da questo punto iniziano però le mie perplessità sulla ricostruzione del sistema normativo e sull’interpretazione che se ne è voluta dare in diversi contributi sul tema apparsi negli ultimi mesi (2).
2. Qualche considerazione di sistema e una precisazione sul ruolo del C.S.M. nell’ordinamento
Che la perdita dello status di magistrato in servizio sia ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle funzioni di componente del Consiglio Superiore è quanto sostiene il Consiglio di Stato, Sez. IV, nella sentenza n. 6051 del 16 novembre 2011, in cui il giudice amministrativo, esaminando il caso del Consigliere Borraccetti, imperniato sulla questione della natura del termine per esercitare l’opzione per il mantenimento in servizio dei magistrati sino al settantacinquesimo anno di età, formula alcune considerazioni in ordine ai presupposti che la legge contempla per il conseguimento della qualità di componente elettivo togato del C.S.M.
Il Consiglio di Stato, in quella pronuncia, sostiene, più precisamente, che «una lettura formalistica del già citato art. 24 della legge nr. 195 del 1958 o di altre disposizioni in materia appare decisamente insufficiente a illuminare sui principi e sulla ratio sottesi alla disciplina tutta in materia di autogoverno della magistratura. Se, infatti, per “autogoverno” deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione di una determinata istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano. In altri termini, il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare. Di conseguenza, del tutto legittima è una lettura dell’art. 39, l. nr. 195/1958 laddove prevede il subentro del primo dei non eletti in caso di cessazione dalla carica “per qualsiasi ragione”, ben potendo ricomprendersi in tale ampia formula anche l’ipotesi suindicata senza alcuna indebita estensione analogica di norme eccezionali e senza alcuna violazione de principi di rango costituzionale».
La ricostruzione sul ruolo e sulla natura del C.S.M. proposta dal Consiglio di Stato e le conclusioni che ne vengono tratte appaiono, come risulta chiaramente dal passaggio richiamato, profondamente influenzate dell’idea che il Consiglio Superiore della Magistratura debba essere qualificato come “organo di autogoverno” della magistratura, costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica.
Nella pronuncia appare, invece, sottovalutata o, comunque, non adeguatamente considerata la funzione di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura svolta dal C.S.M. e le conseguenze che da tale funzione si possono e si debbono trarre nell’interpretazione delle disposizioni della legge 24 marzo 1958 n. 195 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura) (3).
In un suo recente contributo, il Prof. Gaetano Silvestri, già componente laico del C.S.M. e, successivamente, Presidente della Corte costituzionale, ha evidenziato, esaminando la questione della classificazione del CSM nella dicotomia tra organo politico e organo di garanzia, che «la risposta maggioritaria in dottrina è, senza dubbio, per la seconda ipotesi» e che, nonostante ciò «nell’uso corrente, il Consiglio è qualificato “organo di autogoverno” e addirittura vi è stato un congresso dell’Associazione nazionale magistrati (1996) intitolato «Governo della giustizia e autogoverno della magistratura». Si potrebbe dire: due equivoci messi insieme fanno un grave errore. Chi può pretendere di “governare” la giustizia? Il Governo? Certamente no, poiché il Ministro del settore non si occupa della giustizia tout court, ma, più limitatamente, dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.), mentre il CSM non governa né la giustizia né i magistrati, ma espleta soltanto quelle funzioni che Alessandro Pizzorusso ha felicemente denominato di “amministrazione della giurisdizione”, sottratte al Ministro per garantire l’indipendenza esterna dei magistrati e non per sostituirsi a quest’ultimo in una inammissibile pretesa di direzione dall’alto.» (4).
Al di là delle opinioni di dottrina, non può poi essere dimenticato che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 142 del 1973, aveva già escluso, in modo inequivoco, che il Consiglio Superiore della Magistratura potesse essere ritenuto organo di rappresentanza, in senso tecnico, dell’ordine giudiziario.
«Né può affermarsi, come si assume, che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l'ordine giudiziario, di guisa che, attraverso di esso, se ne realizzi immediatamente il cosiddetto autogoverno (espressione, anche questa, da accogliersi piuttosto in senso figurato che in una rigorosa accezione giuridica): con la conseguenza che, esercitando il potere autorizzativo in questione, esso verrebbe ad agire in luogo, per conto ed in nome dell'ordine giudiziario medesimo. La composizione mista dell'organo, solo in parte - anche se prevalente - formato mediante elezione da parte dei magistrati, e per altra parte, invece, da membri eletti dal Parlamento (tra i quali dev'essere scelto il Vicepresidente), oltre che da membri di diritto, tra cui il Capo dello Stato, che lo presiede, si oppone chiaramente ad una simile raffigurazione.
Al più - e questa stessa definizione, com'é noto, é controversa in dottrina - potrebbe parlarsi di organo a composizione parzialmente rappresentativa; ma é certo comunque, ed é argomento decisivo, che la presenza nel Consiglio di membri non tratti dall'ordine giudiziario e la particolare disciplina costituzionalmente dettata quanto alla presidenza di esso rispondono all'esigenza (che fu avvertita dai costituenti) di evitare che l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato. Sono stati predisposti, perciò, accorgimenti idonei ad attuarne e mantenerne una costante saldatura con l'apparato unitario dello Stato, pur senza intaccarne le proclamate e garantite autonomia e indipendenza.»
In altri termini, in ragione della stessa conformazione del potere giudiziario come potere diffuso, sembra potersi concludere che il C.S.M. non rappresenta l’organo di «vertice» del potere giudiziario, né il suo organo rappresentativo in senso proprio, pur non potendosi negare, evidentemente, che la componente togata sia rappresentativa dei magistrati che la eleggono, ma rappresentativa non già in un organo politico, ma in un organo con funzioni di garanzia.
3. Il C.S.M. come organo di garanzia e la legge 24 marzo 1958, n. 195
La ricostruzione della natura e del ruolo che il C.S.M. svolge nell’ordinamento non consente, naturalmente, di dedurre automaticamente la soluzione della questione che stiamo affrontando. Ma, certamente può orientare, in funzione degli aspetti che vengano accentuati, l’interpretazione delle disposizioni in tema di elettorato passivo e di decadenza contenute nella legge 24 marzo 1958, n. 195.
Come è noto i requisiti di elettorato passivo dei componenti togati del CSM possono essere ricavati, a contrario, dall’art. 24 della detta legge che stabilisce che non sono eleggibili:
a) i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime ai sensi degli articoli 30 e 31 del citato regio decreto legislativo n. 511 del 1946, e successive modificazioni;
b) gli uditori giudiziari e i magistrati di tribunale che al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica;
c) i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni abbiano subìto sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare;
d) i magistrati che abbiano prestato servizio presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni;
e) i magistrati che abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni.
Il requisito dell’esercizio delle funzioni giudiziarie è, certamente, indispensabile, ai sensi di legge, per la sussistenza dell’elettorato passivo del magistrato, ma manca una disposizione che stabilisca, esplicitamente, la necessità della sua permanenza ai fini del mantenimento della carica.
Inoltre, va considerato che il secondo comma dell'art. 30 del d.P.R. 916 del 1958, contenente disposizioni di attuazione e coordinamento della legge 195 del 1958, che nella sua versione originaria prevedeva che i componenti del C.S.M. eletti tra i magistrati continuassero ad esercitare le funzioni giudiziarie per tutta la durata della carica, è stato sostituito dall’art. 8 della legge n. 1 del 1981 che ha introdotto la diversa previsione, tutt’ora vigente, secondo cui «i magistrati componenti elettivi sono collocati fuori del ruolo organico della magistratura».
Previsione che attenua sensibilmente il collegamento tra carica elettiva ed esercizio effettivo delle funzioni giudiziarie, richiedendolo solo al momento delle elezioni.
Il legislatore mantiene il silenzio sulla questione che stiamo esaminando anche nell’art. 37 della detta legge n. 195 del 1958, in cui individua le ipotesi di sospensione e decadenza dalla carica di componente del Consiglio, stabilendo, in particolare, nel quarto comma, che i componenti (sia laici che togati) del CSM «decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo” e, nel quinto comma, che “i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento».
Il carattere “scontato” dell’indispensabilità dello status di magistrato in servizio ai fini del mantenimento dell’incarico di componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura costituirebbe, secondo quanto sostenuto dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 6051 del 16 novembre 2011, la ragione del silenzio della legge in materia.
Ad avviso del giudice amministrativo, il legislatore avrebbe ritenuto che non fosse necessaria una esplicita disposizione normativa per disciplinare il caso, in quanto la perdita dello status di magistrato in servizio (che rappresenta, come già rilevato, un requisito dell’elettorato passivo dei magistrati) comporterebbe senz’altro “il venir meno del presupposto della partecipazione all’autogoverno” e, quindi, la decadenza dall’incarico.
L’inversione dei termini del ragionamento interpretativo e la petizione di principio mi sembra evidente. Nel caso di specie non si tratta, infatti, di estendere la portata precettiva di una disposizione normativa ad un caso che solo apparentemente ne sembra escluso, quanto piuttosto di integrare le sue previsioni con una regola aggiuntiva, che viene però dedotta dal Consiglio di Stato in maniera sostanzialmente apodittica.
A conforto di tale conclusione basterebbe osservare che il Consiglio di Stato non spiega in alcun modo per quali ragioni il silenzio del legislatore non potrebbe, invece, essere interpretato secondo il tradizionale criterio per cui “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” (certo non basta affermare che questa sia una interpretazione formalistica del dato normativo).
D’altra parte, nel caso in esame, appare discutibile lo stesso, eventuale, ricorso al procedimento di interpretazione analogica.
L’articolo 12, comma 2, delle disposizioni preliminari al codice civile ne prevede, infatti, l’applicazione ai soli casi in cui una controversia non possa essere decisa con una specifica disposizione, consentendo in tale caso l’applicabilità di disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe. Ovvero, se il caso rimane ancora dubbio, facendo ricorso ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.
Il ricorso all’interpretazione analogica rappresenta, in altri termini, una extrema ratio a cui è possibile ricorrere soltanto quando sussista una lacuna normativa. Concludere diversamente comporterebbe, infatti, il generalizzato ricorso all’analogia in ogni caso in cui manchi una disposizione normativa espressa, con il risultato di trasformare surrettiziamente in lacune normative quelle che, invece, rappresentano precise scelte legislative.
In altri termini, il ricorso all’interpretazione analogica non sembrerebbe praticabile, non solo nei casi indicati dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, ma anche quando ad una disposizione normativa si voglia attribuire un significato più ampio di quello che se ne può dedurre in forza della interpretazione letterale, al solo fine di ampliarne l’ambito di operatività, ovvero in tutti quei casi in cui il legislatore non abbia dettato una disciplina espressa proprio nell’intento di escluderla.
Nel caso in esame, quindi, l’ostacolo ad una eventuale interpretazione analogica non sarebbe rappresentato soltanto dalla stessa natura delle previsioni contenute nell’art. 24 della legge n. 195 del 24 marzo 1958 che individuano le cause di ineleggibilità al C.S.M. (secondo un costante insegnamento giurisprudenziale e dottrinario le norme limitative del diritto di elettorato passivo, così come tutte quelle riguardanti la materia elettorale, sono di stretta interpretazione), ma dall’assenza stessa, in senso proprio, di una lacuna normativa, risultando dubbio che tale possa considerarsi la circostanza che il legislatore, con riferimento ai componenti togati del C.S.M., non abbia previsto esplicitamente l’ipotesi del collocamento a riposo del magistrato come causa di decadenza o di ineleggibilità sopravvenuta dall’incarico.
Che la scelta legislativa non sia frutto di dimenticanza, ma di una precisa intenzione, appare, d’altra parte, confermato da quanto invece previsto dal comma 4 dell’art. 7 della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali) che, con riferimento al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, stabiliva espressamente che «i membri eletti che nel corso del triennio perdono i requisiti di eleggibilità o cessano per qualsiasi causa dal servizio oppure passano dal Consiglio di Stato ai tribunali amministrativi regionali o viceversa, sono sostituiti, per il restante periodo, dai magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale che seguono gli eletti per il numero dei suffragi ottenuti».
Forse è discutibile, e va stigmatizzato, che il legislatore non abbia avvertito la necessità di regolare in modo inequivocabile la materia, stabilendo o negando esplicitamente la decadenza dall’incarico di componente del C.S.M. nell’ipotesi di collocamento a riposo del magistrato, ma, alla luce delle disposizioni stabilite per il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, e considerato il rilievo che assumono le regole elettorali e di funzionamento del C.S.M., il silenzio del legislatore in materia di collocamento in quiescenza del magistrato ordinario nominato componente del Consiglio Superiore sembra da intendere come frutto di una precisa scelta. Peraltro, anche nel caso in cui si ritenga che nel caso in esame ricorre effettivamente una lacuna normativa, è evidente che decidere come colmarla appartiene alla discrezionalità del giudice o, in questo caso, almeno in prima battuta, del C.S.M., che potrebbe evidentemente valorizzare, in un senso o nell’altro, il silenzio del legislatore (5).
In altri termini, e con il massimo rispetto per le opposte valutazioni, non mi sembra proprio che alla questione che stiamo esaminando si possano fornire risposte obbligate o soluzioni che possano definirsi scontate.
4. Gli argomenti desunti dall’analisi del sistema di giustizia amministrativa
Nel parere reso il 7 marzo 2007 dall’Adunanza del Consiglio di Stato, Sezione Prima, sul quesito riguardante la possibilità o meno per un magistrato della Corte dei Conti eletto nel Consiglio di Presidenza di rimanere nell’organo elettivo dopo il suo collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di altro incarico sembra, pure, essere stata sostenuta la tesi che la cessazione del rapporto di servizio determini, immancabilmente, il venir meno della rappresentatività necessaria per l’espletamento delle funzioni di componente dell’organo elettivo.
Al di là della evidente diversità esistente tra un magistrato della Corte dei Conti eletto nel Consiglio di Presidenza e un componente togato eletto nel Consiglio Superiore della Magistratura, è opportuno evidenziare che il menzionato parere del Consiglio di Stato risulta essere stato formulato in un contesto normativo in cui, come già rilevato, il legislatore si era preoccupato di stabilire, chiaramente ed inequivocabilmente, all’articolo 7, comma 4, della legge 27 aprile 1982, n. 186, che «i membri eletti che nel corso del triennio perdono i requisiti di eleggibilità o cessano per qualsiasi causa dal servizio oppure passano dal Consiglio di Stato ai tribunali amministrativi regionali o viceversa, sono sostituiti, per il restante periodo, dai magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale che seguono gli eletti per il numero dei suffragi ottenuti».
Tale disposizione, relativa al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, era infatti specificamente richiamata dall’art. 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (poi modificato dall'art. 18 della legge 21 luglio 2000, n. 205), istitutiva del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, che modellava quel Consiglio sul paradigma del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa.
Successivamente l’art. 18, comma 1, della legge 21 luglio 2000, n. 205 ha modificato il testo dell’art. 7 della legge 27 aprile 1982, n. 186, ma solo per elevare a quattro anni il termine di durata del mandato dei componenti del Consiglio di Presidenza.
In altri termini, nell’ambito del sistema di giustizia amministrativa e contabile, una specifica disposizione legislativa stabiliva espressamente che la perdita dei requisiti di eleggibilità o la cessazione per qualsiasi causa dal servizio determinasse il venir meno del mandato elettivo nel Consiglio di Presidenza. Regola che, invece, con riferimento al Consiglio Superiore della Magistratura, nonostante le numerose riforme del sistema elettorale susseguitesi nel tempo, non è mai stata introdotta.
Il Consiglio di Stato può, quindi, giustamente affermare che «la rappresentatività deve permanere per tutto il mandato” e che “l’elettorato passivo, dopo l’elezione, si traduce in un diritto alla permanenza nella carica elettiva che - a pena di decadenza - rimane condizionato al non sopravvenire di fatti che privino il soggetto dell'attitudine rappresentativa a suo tempo necessaria per l'elezione» proprio alla luce di questo diverso ed esplicito contesto normativo.
Contesto normativo che, peraltro, nonostante l’intervenuta abrogazione dell'art. 7, quarto comma, della legge n. 186 del 1982 ad opera dell'art. 1 del Decreto legislativo 7 febbraio 2006, n. 62 (successivamente dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18 del 2018, per violazione dell’art. 76 Cost., sia nella parte in cui, modificando l’art. 9, terzo comma, della legge n. 186 del 1982, prevedeva che dovessero essere indette le elezioni suppletive per la sostituzione del componente togato del CPGA cessato anzitempo dal mandato, sia nella parte in cui disponeva l’abrogazione del richiamato comma 4 dell’art. 7 della legge n. 186 del 1982) non sarebbe, ad avviso del Consiglio di Stato, sostanzialmente mutato, in quanto la «norma abrogante (art. 1 d.lgs. n. 62 del 2006) ha regolato la fattispecie mediante il nuovo art. 9, terzo comma, per il quale "in caso di dimissioni o di cessazione di uno o più membri elettivi dall'incarico per qualsiasi causa nel corso del quadriennio, sono indette elezioni suppletive tra i magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale per designare, per il restante periodo, il sostituto del membro decaduto o dimessosi». E « il fatto che non sia più testualmente presente la previsione della sorte elettiva di quanti "perdono i requisiti di eleggibilità" nulla significa, giacché il contrario proverebbe troppo: a guardare alla lettera, nemmeno è riprodotta, ad esempio, la fattispecie delle dimissioni o dalla cessazione dal servizio; eppure per un criterio di logica generale che è anche di logica giuridica (e che afferma che accessorium sequitur principale) non si può dubitare che persistano come cause di cessazione dal mandato rappresentativo» (6).
Avrebbe potuto il Consiglio di Stato formulare queste medesime considerazioni se la normativa non avesse regolato esplicitamente l’ipotesi del sopravvenuto venir meno dei requisiti di eleggibilità dei componenti del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa? Io credo di no. O, comunque, le opzioni ermeneutiche possibili non avrebbero certamente avuto esiti obbligati o scontati.
Dopo aver sottolineato il dato testuale che «l’effettivo esercizio delle funzioni d’istituto costituisce un requisito di eleggibilità al Consiglio di presidenza, non essendo eleggibili i magistrati che, al momento della indizione delle elezioni, non esercitano funzioni istituzionali» (art. 8, primo comma, l. n. 186 del 1982), il Consiglio di Stato afferma che tale impedimento della capacità elettorale passiva si fonda sulla considerazione che, per la funzione di (parziale) autoamministrazione, «l’eleggibilità richiede nell’eletto una rappresentatività del corpo sociale che sia effettiva ed attuale». La causa di ineleggibilità – prosegue il parere – non è perciò soltanto genetica ma funzionale, destinata cioè ad operare sub specie di decadenza anche se sopravviene nel corso del mandato al Consiglio di presidenza.
In altri termini, «la rappresentatività deve permanere per tutto il mandato, giacché la stessa ragione di presunta riduzione di capacità rappresentativa può intervenire ad operare in un momento sopravvenuto qualsiasi del mandato stesso. Perciò il fatto che automaticamente ed implicitamente la dichiara (il collocamento fuori ruolo in corso di mandato) realizza una vera e propria condizione risolutiva del mandato medesimo. In altri termini, dal punto di vista dell’eletto l’elettorato passivo, dopo l’elezione, si traduce in un diritto alla permanenza nella carica elettiva che – a pena di decadenza - rimane condizionato al non sopravvenire di fatti che privino il soggetto dell’attitudine rappresentativa a suo tempo necessaria per l’elezione: questo avviene in caso di cessazione del rapporto di servizio, ma anche nel caso di sopravvenuto non esercizio delle funzioni d’istituto e dunque del collocamento fuori ruolo che sopravvenga durante munere».
Come è evidente, nel ragionamento svolto dal Consiglio di Stato si ritiene indiscutibile che la rappresentatività necessaria per l’espletamento delle funzioni di componente del Consiglio di Presidenza sia totalmente elisa dalla cessazione del rapporto di servizio. Ma a fondamento di questi ragionamenti e delle relative conclusioni vi era e vi è un quadro normativo esplicito, ben diverso da quello che caratterizza il Consiglio Superiore della Magistratura.
Naturalmente nulla vieta di ritenere applicabile al Consiglio Superiore, nel silenzio del legislatore, una regola fissata dalla legge con riferimento al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa. Ma l’opzione ermeneutica non sembra convincente, anche in considerazione della diversa natura dei due organi.
In proposito voglio ricordare alcune considerazioni, fatte nel libro “Alla ricerca dello Stato di diritto” dal Prof. Andrea Orsi Battaglini sul sistema di giustizia amministrativa: «cosa dovrebbe ritenersi di una ipotetica legge che affidasse al Governo la nomina del primo Presidente della Corte di Cassazione e di un quarto dei suoi componenti? … Quanti accetterebbero che per la giurisdizione ordinaria si applicassero norme di questo genere?» (7).
E’ noto che il sistema di garanzie previsto per la magistratura ordinaria dall’art. 104 Cost. non è riprodotto dall’art. 108 Cost. per la magistratura amministrativa e che, quindi, l’applicazione di una regola dettata dal legislatore con riferimento al Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa non può trovare senz’altro applicazione in relazione al Consiglio Superiore della Magistratura.
5. L’aspetto disciplinare ed etico
Un altro aspetto che è stato considerato negli interventi pubblicati sul tema è quello disciplinare ed etico.
L’argomento utilizzato per sostenere la tesi della cessazione del mandato consiliare è che il componente togato del Consiglio superiore collocato in quiescenza sarebbe sottratto al sistema disciplinare, non essendo più esercitabile nei suoi confronti alcuna azione disciplinare e non potendo trovare applicazione, nel suo caso, neppure la norma secondo cui «i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento» (art. 37, comma 4, legge n. 195 del 1958 e succ. modif.).
Nonostante ciò, si è rilevato, evidenziando una apparente aporia del sistema, quello stesso componente del Consiglio Superiore continuerebbe ad esercitare la funzione di giudice disciplinare nei confronti dei magistrati ancora in servizio.
Non solo. Nei confronti di tale magistrato, ormai pensionato, non potrebbe neppure essere fatta valere alcuna violazione del codice etico dell’A.N.M., né essere disposta, evidentemente, alcuna sanzione disciplinare.
Gli argomenti addotti sono, indubbiamente, estremamente suggestivi, ma sembrano frutto di una inversione dei termini della ricostruzione del sistema.
Una volta, infatti, che si sia escluso che la cessazione dal servizio per collocamento a riposo faccia venir meno il mandato del Consigliere, è evidente che questo non potrebbe trovarsi in una situazione in cui i suoi poteri e il suo ruolo sono dimezzati.
A fronte dell’ibrido paventato da alcuni del “magistrato, metà pensionato e metà consigliere” (8) starebbe, infatti, “il Consigliere dimezzato”, una figura, se possibile e se vogliamo dar sfogo alla nostra fantasia e alle nostre reminiscenze letterarie, ancora più paradossale.
Sembrano, poi, possibili ulteriori considerazioni.
Il pensionato, almeno quello appena collocato in quiescenza, non è, infatti, un extraneus alla magistratura se non dal punto di vista formale. Nella sostanza è un individuo che ha trascorso la sua esistenza nella magistratura e che dei valori e dei doveri connessi alla posizione di magistrato ha (o dovrebbe avere) piena consapevolezza. Il fatto che abbia raggiunto l’età di pensionamento non lo priva della sua esperienza, della sua conoscenza e dei valori a cui ha improntato la sua attività.
E’ opportuno evidenziare, inoltre, anche un altro aspetto.
A prescindere dalla circostanza che numerosi magistrati non sono iscritti all’A.N.M. (magistrati che potrebbero essere, evidentemente, comunque candidati ed eletti al C.S.M.), le dimissioni dall’A.N.M. (così come il collocamento a riposo) troncano attualmente, senz’altro, il giudizio disciplinare, sulla base di una regola che appare quanto meno discutibile.
Considerato il rilievo dei valori in gioco, sarebbe miglior partito prevedere, quanto meno nei casi più gravi, che possa continuare ad essere coltivata l’azione disciplinare, nonostante l’intervenuta estinzione del rapporto associativo.
In questo senso, d’altronde”, sia pure mutatis mutandis, abbiamo già un modello nel pubblico impiego privatizzato, per cui la Cassazione, in numerose sentenze, ha stabilito che “la cessazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato non estingue il procedimento disciplinare già avviato quando l’infrazione commessa dal lavoratore preveda la sanzione del licenziamento o, nelle more del procedimento stesso, sia stata disposta la sospensione cautelare”.
La stessa Cassazione civ. Sez. Unite Sent. 08/07/2019, n. 18264 ha evidenziato anche come «la cessazione dal servizio per collocamento a riposo del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare non (omissis…..) determina il venir meno dell'interesse dell'Amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, atteso che gli effetti prodotti dal provvedimento di sospensione cautelare di natura provvisoria non possono "cristallizzarsi" in conseguenza della cessazione dal servizio avvenuta nel corso del procedimento penale, tenuto altresì conto del principio di buon andamento all'Amministrazione della giustizia, in virtù del quale persiste l'interesse a una pronuncia sul merito in considerazione non solo dell’elevato onere finanziario cui sarebbe esposta la stessa amministrazione in caso di una pronuncia di improcedibilità che comporterebbe la ricostruzione economica e giuridica della carriera del magistrato incolpato, ma anche dell'interesse a tutelare l'immagine ed il prestigio della Magistratura».
Resta il fatto che un componente del Consiglio Superiore che mantenesse l’incarico, pur essendo stato collocato in quiescenza, non potrebbe sicuramente essere sottoposto a procedimento disciplinare per fatti successivi al suo pensionamento e che nei suoi confronti non troverebbe applicazione neppure la norma secondo cui «i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento» (art. 37, comma 4, legge n. 195 del 1958 e succ. modif.).
Unico rimedio a questa situazione, evidentemente, un intervento legislativo che colmi la lacuna del sistema disciplinare. Ma, lo ribadisco, da una carenza di regolamentazione del sistema, non possiamo ricavare l’impossibilità giuridica del suo presupposto. Almeno, questa è la mia opinione.
Un’ultima considerazione.
Come ben sappiamo, l’età pensionabile dei magistrati può essere modificata dal legislatore ordinario in modo estemporaneo.
Supponiamo che la cd. legge Orlando (il decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114) che ha abbassato da 75 a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, venga adottata oggi. Immaginiamo un “ritorno al passato” o (lo scrivo ironicamente) un “ritorno al futuro”, con un ulteriore abbassamento dell’età pensionabile.
Non solo verrebbero liberati, all’improvviso, centinaia di posti direttivi e semi-direttivi (come è già accaduto), ma gli eventuali Consiglieri togati che dovessero compiere l’età di pensionamento in corso di mandato, si potrebbero trovare, all’improvviso, privati dell’incarico. E’ questo che vogliamo?
Naturalmente, si tratta di un paradosso e non di un ragionamento giuridico. Ma anche i paradossi hanno una loro verità. In un caso del genere, si potrebbe obiettare, l’applicazione della legge non potrebbe che essere graduale e la nuova regola dovrebbe essere applicata solo ai componenti togati del C.S.M. eletti successivamente all’entrata in vigore della legge.
Le considerazioni di buon senso però, come noto, rischiano sovente di rimanere nel limbo delle buone intenzioni. Come risulta chiaramente anche da quanto riferito, nel corso di un’intervista (9), dallo stesso ex Ministro della Giustizia Orlando che ha ricordato come, nonostante il suo parere favorevole, non si volle prevedere all’epoca una gradualità nell’applicazione della nuova normativa che stabiliva l’abbassamento dell’età di pensionamento.
In conclusione, e qui torniamo agli argomenti iniziali incentrati sulla natura di organo di garanzia del Consiglio Superiore della Magistratura, pur non potendosi negare che la componente togata sia rappresentativa dei magistrati che la eleggono, mi sembra che non solo puntuali ragioni giuridiche, ma anche ragioni di opportunità, militino senz’altro a favore di una interpretazione che salvaguardi, non tanto l’incarico del singolo, quanto la stessa funzione del Consiglio Superiore.
6. Conclusioni
Ragionare sulla decadenza o meno di Davigo dal mandato al C.S.M. non significa dimenticare o voler accantonare i grandi problemi della giustizia e la profonda crisi culturale ed etica della magistratura.
Credo, anzi, che queste riflessioni costituiscano una buona occasione per fare alcune considerazioni ulteriori.
Ritenere che la giustizia continuerà a costituire, anche per il futuro, quanto meno metaforicamente, il “primo requisito delle istituzioni sociali” (secondo la nota definizione di Rawls) non significa ignorare i problemi che l’avvento di una società tecnocratica, fondata sul populismo e sulla comunicazione di massa, pone rispetto alla sua nozione tradizionale.
Alcune di queste difficoltà sono già ben note in Italia e derivano soprattutto dalla tendenza dei mass media a fornire una rappresentazione estremamente semplificata della realtà, imponendo, secondo una felice espressione coniata qualche tempo fa da Umberto Eco, “simboli e miti dalla facile universalità”.
Questa “semplificazione”, già pericolosa di per sé considerando l’estrema complessità della gran parte delle vicende che sono alla base dei procedimenti giudiziari, viene poi ulteriormente aggravata dall’evidente incapacità dei media di rappresentare i fatti giudiziari in un’ottica e con un lessico che non sia quello mutuato dallo scontro politico.
La vivacità delle “tribune politiche” degli anni settanta, animate dalle grandi contrapposizioni ideologiche rivive, così, oggi nei dibattiti televisivi in cui si discute di giustizia. Viene addirittura il dubbio che questa tendenza degli organi di informazione integri gli estremi di un vero e proprio fenomeno di acculturazione, di riduzione cioè dei valori generali e delle culture particolari al modello di una cultura (se così possiamo chiamarla) unica.
Non è un paradosso e quello che è accaduto e sta accadendo lo dimostra senza tema di errore.
In “Idee essenziali per una nuova Costituzione”, Simone Weil scriveva: “I giudici devono ricevere una formazione spirituale, intellettuale, storica, sociale, ben più che giuridica” (10).
Forse è giunto il momento di accogliere, finalmente, questi auspici e di ripensare radicalmente il sistema di accesso in magistratura e la stessa formazione universitaria e culturale dei magistrati.
Stefano Amore, magistrato, assistente di studio presso la Corte costituzionale.
(1) “Contro la giurisprudenza creativa” di Luigi Ferrajoli, p. 25, Questione Giustizia, n. 4 del 2016, numero monografico dedicato a “Il giudice e la legge”
(2) Tra gli altri, “L’esercizio delle funzioni giudiziarie requisito per la permanenza nella carica di Consigliere togato” di Rinaldo Romanelli e Giorgio Varano, pubblicato sulla rivista dell’Unione delle Camere penali dirittodidifesa.eu e “Sta per nascere al CSM un caso Davigo?” di Nello Rossi, pubblicato su Questione Giustizia del 31 luglio 2020.
(3) definiscono il C.S.M. organo di garanzia costituzionale Bonifacio-Giacobbe, Commento all'art. 104 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca, Bologna, 1986, p. 46.
(4) “Princìpi costituzionali e sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura” di Gaetano Silvestri, su Sistema Penale, rivista giuridica online.
(5) così Francesco Galgano, “La globalizzazione nello specchio del diritto”, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 150: «lo stabilire quale sia la norma di legge da applicare al caso di specie, quale sia l’interpretazione da dare alla norma e, soprattutto, il decidere come colmare le lacune della legge, che sempre più spesso tace di fonte agli incessanti mutamenti della realtà, sono valutazioni largamente discrezionali, tali da conferire all’autorità giudiziaria, anche nei sistemi di civil law, una grande latitudine di potere, ben lontana dalla visione illuministica della legge e della sua interpretazione giudiziaria».
(6) Comma abrogato dall'art. 1, comma 2, D.Lgs. 7 febbraio 2006, n. 62 (Gazz. Uff. 3 marzo 2006, n. 52), a decorrere dal novantesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2 dello stesso decreto. Peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza 5 dicembre 2017-30 gennaio 2018, n. 10 (Gazz. Uff. 7 febbraio 2018, n. 6 - Prima serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del suddetto comma 2, nella parte in cui ha modificato l'art. 9, terzo comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186, prevedendo che «[I]n caso di dimissioni o di cessazione di uno o più membri elettivi dall'incarico per qualsiasi causa nel corso del quadriennio, sono indette elezioni suppletive tra i magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale per designare, per il restante periodo, il sostituto del membro decaduto o dimessosi», e nella parte in cui ha disposto l'abrogazione del comma 4 dell'art. 7 della legge n. 186 del 1982.
(7) Andrea Orsi Battaglini, “Alla ricerca dello Stato di diritto”, Milano, 2005.
(8) In questo senso Nello Rossi in “Sta per nascere al CSM un caso Davigo?”, pubblicato su Questione Giustizia del 31 luglio 2020.
(9) “Nello scontro tra correnti della magistratura ci finisce anche il Pd”, di David Allegranti, su il Foglio del 7 giugno 2019.
(10) Simone Weil, “Idee essenziali per una nuova Costituzione”, in Una costituente per l'Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi editore, 2013.
Principali indirizzi della Procura generale presso la Corte di cassazione sulla risoluzione dei contrasti tra pubblici ministeri
La Procura generale presso la Corte di Cassazione ha recentemente pubblicato sul proprio sito istituzionale i principali indirizzi sulla soluzione delle tipologie più ricorrenti ed attuali di contrasti di competenza tra pubblici ministeri (si rinvia a questo link). Il documento ha la funzione di orientare i sostituti Procuratori dell’intero territorio nazionale circa l’opportunità di sollevare un contrasto, in base alla presumibile opinione di chi dovrà deciderne l’esito. Pubblichiamo di seguito una breve presentazione di Pasquale Fimiani, coordinatore del lavoro di redazione ed aggiornamento svolto dai magistrati addetti al settore.
Presentazione di Pasquale Fimiani
La soluzione dei contrasti negativi e positivi tra pubblici ministeri, ai sensi degli artt. 54 e 54-bis c.p.p., quando sia in discussione la competenza tra diversi distretti di Corte di appello è affidata ad uno specifico settore della Procura generale presso la Corte di Cassazione la cui organizzazione è stata tradizionalmente abbinata a quella relativa alla trattazione dei reclami avverso i provvedimenti di avocazione delle indagini preliminari disposti dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o dal Procuratore generale presso la Corte di appello.
L’efficienza dell’intervento in tale settore si misura non soltanto con la tempestività della decisione, ma anche con la capacità di prevenire contrasti su questioni, di carattere sostanziale e procedimentale, già risolte dall’Ufficio, in quanto istanze scarsamente motivate, prive di adeguata istruttoria o di confronto con la giurisprudenza e/o gli orientamenti della Procura generale finiscono per appesantire inutilmente il sistema rallentando inutilmente il corso delle indagini (va ricordato che i termini di prescrizione non sono sospesi in pendenza della decisione sul contrasto).
La duplice funzione - decisoria e preventiva - dell’intervento del Procuratore generale della Cassazione nella materia ha portato nel 2020 ad un’ampia rivisitazione degli orientamenti in materia di contrasti (emanati a partire dal 2014 e risalenti nell’ultima versione al febbraio 2018), con la creazione di un assetto organizzativo incentrato sulla messa a punto di un sistema di aggiornamento costante, grazie al contributo di tutti i magistrati facenti parte del gruppo di lavoro (si rinvia al documento per l’indicazione dei partecipanti) e sulla pubblicazione immediata sul sito internet dell’Ufficio della versione di volta in volta aggiornata
L’attuale versione è la prima ad essere pubblicata con tali modalità (si rinvia a questo link) e, grazie a tale nuova modalità di diffusione, potrà essere aggiornata con cadenze più brevi, in modo da poter dare immediatamente conto di novità giurisprudenziali ed interpretative.
Il documento contiene i principali orientamenti della Procura generale della Cassazione relativi alle tipologie di contrasto maggiormente ricorrenti, ordinati secondo un indice ipertestuale, tendenzialmente coerenti con la giurisprudenza di legittimità; ha la funzione di orientare i sostituti Procuratori dell’intero territorio nazionale circa l’opportunità di sollevare un contrasto, in base alla presumibile opinione di chi dovrà deciderne l’esito.
L’iniziativa si integra con il trend evolutivo delle attività di attuazione dell’art. 6, che, dalla fine del 2019, sono state impostate su un più stretto e costante collegamento con gli Uffici territoriali, andando oltre il tradizionale incontro annuale e valorizzando il ricorso a metodi di confronto più agili nella discussione delle varie questioni.
In tale contesto è stata avviata la costituzione di gruppi di lavoro su questioni di particolare importanza, aperti alla partecipazione volontaria dei colleghi, con funzioni sia di supporto delle attività di attuazione dell’art. 6, sia di approfondimento di tematiche di carattere trasversale, rilevanti per la materia civile e l’eventuale proposizione del ricorso nell’interesse della legge di cui all’art. 363 c.p.c. (soluzione operativa inaugurata con la costituzione del gruppo di lavoro sul ruolo del pubblico ministero nella crisi di impresa).
Questa duplice prospettiva di lavoro ha caratterizzato anche la fase acuta dell’emergenza da Covid-19.
In questo periodo, infatti, le attività di attuazione dell’articolo 6 hanno richiesto plurime interlocuzioni con gli Uffici, agevolate dall’uso dell’applicativo Teams, sulle varie problematiche emerse durante la fase emergenziale, le quali, grazie anche al positivo apporto dei gruppi di studio istituiti sui vari temi all’interno dell’Ufficio (estesi alla partecipazione dei Procuratori generali e, per i gruppi crisi di impresa e responsabilità sanitaria, ad alcuni Procuratori di Tribunale, nonché a rappresentanti istituzionali ed esperti della materia), hanno consentito l’elaborazione di orientamenti e linee guida su diversi temi (si rinvia, per il testo degli orientamenti, al sito internet dell’Ufficio, sezione Orientamenti per gli Uffici di Procura).
Trattasi di una prassi già positivamente sperimentata che potrà applicarsi anche alla materia dei contrasti qualora si dovessero presentare questioni di particolare importanza e di rilievo generale (come è avvenuto nel 2019 quando uno dei temi del tradizionale incontro annuale con i Procuratori generali fu quello della individuazione del pubblico ministero competente a promuovere il procedimento di conversione delle pene pecuniarie non pagate, cui fece seguito l’emanazione di orientamenti consultabili nella predetta sezione dedicata del sito dell’Ufficio).
Il Codex Incertus
Simplicius Incertus o Incerto – come ormai tutti gli studiosi riconoscono [1] – è stato il più grande retore e giurista dell’antichità. Le sue eccezionali doti di sapienza, intuizione ed equilibrio e la sua straordinaria abilità di oratore, su qualsivoglia argomento, furono evidenti fin dalla nascita (fu infatti immediatamente battezzato “fante”: qui fari potest, soprannome col quale divenne popolarissimo tra le Milizie) e tutti a lui si rivolgevano per risolvere qualsiasi genere di contrasto.
Ebbe vita lunghissima, tenuto conto dell’epoca.
Recenti studi hanno infatti dimostrato, in modo incontrovertibile, che Incerto il Giovane e Incerto il Vecchio furono in realtà la stessa persona ([2]). A differenza di quanto avvenuto per altri grandi dell’antichità [3], “Giovane” e “Vecchio” furono utilizzati per indicare non diverse persone, ma fasi diverse di una stessa vita. E siccome nell’antichità la vecchiaia iniziava intorno ai trent’anni, fino a quella soglia Incerto venne detto il Giovane, dopo venne denominato il Vecchio.
Egli fu perfettamente consapevole di essere il Giovane fino ad una certa età, e il Vecchio dopo.
Si narra, infatti, che l’imperatore Sesto Moscato Giubilo [4], ansioso di passare alla storia, gli chiese di raccogliere in un testo da diffondere in tutto l’impero le leggi fondamentali di Roma, comprendenti lo jus gentium. Allora, Incerto aveva poco più di vent’anni, ma la sua fama già aveva travalicato i confini delle Province anche più remote.
«Sono davvero onorato per la tua richiesta, imperatore» rispose Incerto «ma tu stai facendo una richiesta al Giovane; e forse soltanto il Vecchio, tenuto conto della complessità del lavoro che mi assegni, potrà soddisfarla».
L’imperatore non si perse d’animo:
«Dì al Giovane di parlarne col Vecchio» replicò «e vedete un poco, tutti e due, cosa potrete fare per accontentarmi».
Incerto il Giovane si mise al lavoro, certo che Incerto il Vecchio gliene sarebbe stato grato.
Ma, dopo una prima ricognizione delle numerose fonti, Incerto chiese all’imperatore:
«Nobile Moscato, le leggi di Roma possono consentire o possono vietare. A seconda di come imposterò la raccolta, potrà dirsi che è vietato tutto ciò che non è consentito, ovvero che è consentito tutto ciò che non è vietato».
L’imperatore convenne con tale rilievo. Dopo averci pensato un poco, disse:
«Incerto, ci devo riflettere ben bene. Se consento, diranno di me che sarò stato un imperatore liberale o, peggio, permissivo. Se vieto, diranno di me che ho preferito essere un cieco repressore. A me non importa cosa raccontino di me questi quattro buzzurri [5] dei miei contemporanei, però voglio che i posteri non abbiano a criticarmi. Mi occorre quindi un parere illuminato. Per la prima volta nella mia vita, ho paura di sbagliare. Mi rimetto alla tua ben nota saggezza».
Incerto rispose:
«Grande Moscato. Una sola persona potrà consigliarti al meglio. Questa persona è Incerto il Vecchio».
L’imperatore non si perse d’animo:
«Allora tu portati avanti col lavoro» disse «e quando verrà il tempo giusto, lo chiederò al Grande Incerto».
Quando Incerto ebbe compiuto il trentesimo anno, l’imperatore lo mandò a chiamare.
«Grande Incerto. Dimmi se debbo raccogliere leggi che consentono, o leggi che vietano. Non mi importa cosa diranno di me i contemporanei, che non stimo punto, ma voglio essere un esempio per la posterità».
«Imperatore» rispose Incerto il Vecchio «tu solo sei Grande, e lo sei sempre stato. Io ormai sono soltanto un Vecchio, e ti confesso di esserlo diventato proprio riflettendo attorno al quesìto che tu hai posto al Giovane Incerto. Sono giunto, dopo tanti anni, alla conclusione che non è tanto importante il segno delle tue leggi, quanto il loro numero e il loro oggetto. Se vieterai tante cose ne consentirai meno, e viceversa. Se ne consentirai poche ne avrai vietate tante, e viceversa. Qualsiasi soluzione ti espone al severo giudizio dei posteri. Se è quello che ti preme, devi assolutamente fare in modo di sottrarti ad un simile giudizio. Quando non puoi controllarlo, lo devi eliminare: il giudizio è invero l’arma più temibile dell’uomo. E quello dei posteri, te lo dico per esperienza, è il giudizio più impietoso, perché in genere non tiene conto delle contingenze nelle quali il caso ti ha costretto a operare».
L’imperatore, turbato, si ritirò nella sua residenza, per pensarci un po’ su.
Dopo qualche mese, mandò a chiamare Incerto il Vecchio.
«Incerto» disse l’imperatore «tu sei il più grande giurista della nostra storia. Il caso ha voluto che le nostre vite si incrociassero. Scusa se te lo dico apertamente, ma io vorrei trarre da questo fortunato incrocio il massimo di utile per me. Siccome la sola cosa che mi interessa è essere ricordato dalla posterità come il miglior imperatore di Roma, dimmi tu quale raccolta dovrò mettere in cantiere. Posso abrogare o approvare qualsiasi legge, non mi interessa a vantaggio o a detrimento di chi. Non mi interessa quale fenomeno si dovrà regolare con nuove leggi. Non mi interessa sapere di quante leggi abbiamo bisogno per realizzare il nostro disegno. La sola cosa che mi interessa è che la storia parli bene di me»
Incerto il Vecchio si avvicinò.
«Grande Moscato» disse «c’è una sola soluzione: devi fare in modo che le tue leggi non si capiscano. Più la legge è complessa, oscura, contraddittoria, maggiore sarà la responsabilità degli interpreti. Se la legge è fatta bene, dal tuo punto di vista (che è il solo che conta), essa potrà essere, al tempo stesso, permissiva e repressiva. Il risultato finale non dipenderà dalla legge, e quindi non sarà dipeso da te. Tu potrai sempre dire: questa interpretazione restrittiva non rispetta lo spirito e la lettera della legge, e viceversa. Se ti tieni l’ultima parola nessuno potrà giudicarti, e tu potrai sempre prevalere sulla legge. Ricordati, non esiste una legge buona o una legge cattiva: ne esistono soltanto buone o cattive interpretazioni e applicazioni. E tu, per non essere giudicato dall’interprete, devi porti al di sopra della legge e soprattutto al di sopra di chi, quella stessa legge, è chiamato ad interpretarla».
L’imperatore guardò il suo interlocutore con un velo di sospetto.
«Perché ti chiamano Incerto, Vecchio?».
«Non lo so, Grande Moscato; avevo lo stesso nome sin da Giovane; e del resto nessuno mi ha mai chiamato Simplicius, che è poi il mio primo nome, o Fante, che è il mio soprannome».
«Bene» disse l’imperatore dopo una breve riflessione «Giovane o Vecchio che tu sia, mi hai semplicemente convinto, Fante. Ti dò mandato di scrivere un intero codice di leggi che non si capiscono, e quando avrai terminato abrogherò tutte le leggi anteriori, perché solo il Codex Incertus dovrà avere applicazione, in tutto l’impero. Esso sarà la mia definitiva consacrazione. Il monumento delle leggi incomprensibili che onorerà per sempre la mia gloria. A te l’onore di coniarle».
Fu così che Incerto il Vecchio si mise al lavoro.
Ma era già molto avanti con gli anni, e ad un certo punto si accorse che non avrebbe mai avuto il tempo né le forze di completare la sua poderosa raccolta di astruserie.
Si presentò quindi dall’imperatore.
«Grande e Nobile Moscato, di protetta appellazione. Sono diventato troppo Vecchio. Improvvisamente. Temo che non riuscirò a completare il Codex Incertus. Ti chiedo di perdonarmi. Ho deluso le tue aspettative. Se aspetti me, stai fresco».
«Non preoccuparti, troppo Vecchio. Tu sei un grande giurista, il più grande che l’umanità avrà mai avuto. La tua mente è superiore a ogni altra: ciò che tu giudichi comprensibile, per altri è perfettamente incomprensibile, e viceversa. Ma hai commesso il più classico degli errori in cui incorre la mente superiore: giudicare gli altri sul tuo metro, senza tener conto che quelli sono ben diversi e ben peggiori di te. Mentre riflettevi, anch’io nel mio piccolo ho riflettuto. Io non ho la tua testa, ma proprio per questo posso vedere cose che tu non vedi. E sono giunto alla seguente conclusione: per i buzzurri che sono intorno a noi qualsiasi legge è incomprensibile. Il problema non è nelle leggi. Il Codex non serve, è già nella testa e nella coscienza di chi ci circonda. Mi limiterò ad alimentare stupidità ed ignoranza. Io, in ogni caso, avrò vinto la mia battaglia».
Incerto il Vecchio sorrise.
Guardò il suo interlocutore con ammirazione, sollevato, sapendo di essersi liberato di un compito molto difficile.
Sesto Moscato Giubilo gli rivolse uno sguardo annoiato.
Incerto si inchinò davanti all’imperatore e s’incamminò con passo veloce per la strada dei secoli, la stessa che porta sino a noi.
[1] Vedi, per tutti ed anche per citazioni, O. Ignazio Picone, Perdutamenti. Grandi e perdute menti del passato, Napoli, 2010, pag. 170.
[2] Il primo ad avanzare la rivoluzionaria ipotesi fu, com’è noto, Aristarco di Plotina, in Annales, IV, 2, De Illustribus, pag. 702.
[3] Il caso più noto è quello di Plinio; il Vecchio, infatti, altri non era che Gaio Plinio Secondo, morto tra le esalazioni sulfuree del Vesuvio il 25 agosto del 79 d.C., mentre il Giovane, nipote del primo, rispondeva al nome di Gaio Plinio Cecilio (anch’egli) Secondo, e del primo divenne il figlio adottivo dopo la morte di entrambi i genitori. Forse per distinguerlo dallo zio sarebbe stato sufficiente chiamarlo Cecilio, ma sembra che entrambi preferissero chiamarsi Plinio.
È nota la lite giudiziaria che contrappose i due Plinii quanto all’appellativo di Secondo, che in partenza spettava a entrambi; dopo la sentenza, emessa dal senatore Pellegrino Stanziale, esso non spettò più a nessuno dei due, perché il Giovane non riuscì a dimostrare l’esistenza di un Plinio Primo, mentre il Vecchio, che non voleva essere Secondo a nessuno, ma casomai Terzo, rifiutò l’appellativo di Primo e scelse di chiamarsi soltanto Plinio.
[4] Noto per essere stato, oltre che gran bevitore, il primo compilatore ufficiale dei mores romani. Le malelingue del tempo spiegavano il suo nome con l’effervescenza di cui l’imperatore era regolare vittima dopo aver bevuto sei coppe di vino dei Castelli.
[5] Il termine “buzzurro”, secondo le fonti ufficiali, avrebbe origine più tarda, designando coloro che, nell’evo medio, calavano dalle regioni settentrionali a Roma per vendere polenta e caldarroste, oltre che per pulire i camini delle case patrizie. Ma, sul punto, la testimonianza dello storico Aristarco non può mettersi in discussione: egli attesta infatti che l’imperatore era solito rivolgere ai suoi concittadini i termini di “buzzurro” ovvero di “ciafruijone”, dal significato esattamente corrispondente.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.