Sommario: 1. Premessa: la proposta italiana e l’esperienza (fallimentare) di Israele – 2. La forma di governo introdotta in Israele tra il 1996 e il 2001 – 3. Crisi e abbandono dell’elezione diretta in Israele – 4. Il confronto con la proposta italiana: convergenze e divergenze – 5. Conclusioni: il rischio di riproposizione delle criticità dell’esperienza israeliana.
1. Premessa: la proposta italiana e l’esperienza (fallimentare) di Israele
Alla data di stesura del presente contributo è in discussione in Parlamento il disegno di legge di riforma costituzionale (di seguito “ddl Meloni”) finalizzato a riformare la Parte seconda della Costituzione («ordinamento della Repubblica») con l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri[1]. Nell’intenzione dei suoi proponenti, la proposta di revisione «ha l’obiettivo di offrire soluzione a problematiche ormai risalenti e conclamate della forma di governo italiana, cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il “transfughismo” parlamentare[2]». Il testo iniziale, abbinato al disegno di legge di revisione costituzionale A.S. 830, c.d. ddl Renzi[3], ha subito ripetute modifiche a seguito dell’approvazione degli emendamenti governativi e parlamentari[4].
Per i fini del presente scritto – per il quale si prenderà in considerazione il testo del ddl Meloni così come approvato in prima deliberazione al Senato nel giugno 2024 – il progetto di revisione costituzionale prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio contestualmente a quella del Parlamento e l’attribuzione della fiducia da parte del secondo al primo[5].
Accanto a tali profili, incidenti prevalentemente sulla forma di governo, il ddl Meloni include interventi che interessano il sistema elettorale, con modifiche direttamente inserite in Costituzione[6]. Si prevede, infatti, di modificare l’art. 92 Cost. assegnando per l’elezione di entrambe le Camere e del Presidente del Consiglio un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche[7].
Le modifiche sulla forma di governo ipotizzate hanno destato alcune notazioni critiche tra i primi commentatori in dottrina[8]. Tali rilievi si sono concentrati, oltre che sulle conseguenze nei rapporti con altre istituzioni e, in particolare, la Presidenza della Repubblica, anche sul fatto che il sistema così introdotto risulterebbe sostanzialmente privo di eguali nell’ambito delle forme di governo nazionali[9] previste dalle costituzioni attualmente vigenti nelle c.d. democrazie stabilizzate[10].
In effetti, un ordinamento nel quale l’elezione diretta del primo ministro contemporaneamente e contestualmente a quella del Parlamento è stata in vigore è quello di Israele. Tale sistema ha conosciuto una forma di governo strutturata in modo simile[11] negli anni Novanta ma l’ha superata dopo appena pochi anni[12].
Introdotto in Israele nel 1992 con la comune finalità di promuovere una maggiore stabilità degli esecutivi, il modello basato sull’elezione diretta del Premier contestualmente alla Knesset e l’attribuzione della fiducia da parte di quest’ultima al primo è entrato in vigore nel 1996 ma è stato modificato già nel 2001 con il ritorno ad una forma parlamentare classica (benché razionalizzata). È così rimasto in forza complessivamente per tre elezioni e circa un quinquennio[13].
Tali analogie hanno spinto vari commentatori ad indicare il caso di Israele ed il fallimento dell’intervento del 1992 in tale paese come un riferimento naturale per valutare la riforma in discussione in Italia[14].
La conoscenza dell’esperienza israeliana e delle criticità che ne hanno motivato il subitaneo superamento, del resto, pare nota allo stesso legislatore di revisione italiano. Nella relazione tecnica al ddl Meloni A.S. 935, infatti, si menzionano espressamente le «degenerazioni funzionali che hanno caratterizzato l’esperienza del Premierato israeliano», che si intendono evitare con le modifiche costituzionali incidenti sul sistema elettorale sopra citate[15]. Il successivo dossier parlamentare 215/1 del maggio 2024 dedica, inoltre, un’intera appendice all’esperienza israeliana[16].
Di fronte alle apparenti similitudini tra la forma di governo israeliana in vigore nel periodo 1996-2001 ed il progetto di riforma costituzionale italiano, molti si sono domandati se un sistema che non ha raggiunto l’effetto di stabilizzare gli esecutivi in Israele potrà conseguire tale risultato in Italia.
Alla luce di tali premesse, obiettivo del presente contributo è quello di analizzare la revisione costituzionale di cui al ddl Meloni, come modificato dagli emendamenti approvati sopra citati, mettendo in luce analogie e differenze rispetto alla forma di governo israeliana vigente nel periodo tra il 1996 e il 2001.
A tal fine, nei paragrafi 2 e 3, si tenterà in particolare di comprendere le ragioni che hanno spinto a introdurre e poi a superare dopo soli pochi anni il sistema di elezione diretta del primo ministro in Israele. Nel paragrafo 4 verranno quindi messe in evidenza le similitudini e le differenze del modello israeliano rispetto alle proposte di riforma di cui al ddl Meloni, al fine di appurare se il richiamo all’esperienza di Israele, a più voci proposto, risulti pertinente e appropriato.
Nell’ultimo paragrafo, infine, si tenterà di riflettere sull’idoneità dei correttivi immaginati dall’intervento di revisione costituzionale italiano ad evitare la riproposizione delle criticità sperimentate in Israele.
A tal fine, dal punto di vista metodologico, l’indagine terrà conto, oltre che delle differenze tra le famiglie giuridiche degli ordinamenti considerati e delle particolarità della cultura giuridica israeliana, di aspetti sia di merito sia di metodo. Riguardo ai primi, la riflessione si concentrerà sul tema della “doppia legittimazione” attribuita dall’elezione popolare diretta del primo ministro contestualmente a quella dei componenti del Parlamento e del conseguente «doppio circuito fiduciario» che impone all’eletto di ottenere la fiducia del Parlamento[17]. Riguardo agli aspetti di metodo, particolare attenzione verrà prestata – a fronte dell’esigenza (apparentemente comune) di rafforzare la stabilità dei governi – alla scelta di intervenire sulla forma di governo, sul sistema elettorale o su entrambi.
2. La forma di governo introdotta in Israele tra il 1996 e il 2001
Per analizzare compiutamente analogie e differenze tra il ddl Meloni e la forma di governo israeliana in essere tra il 1992 e il 2001, pare opportuno premettere alcuni cenni introduttivi sul contesto politico e costituzionale israeliano nel quale si innesta la riforma del 1992.
Riguardo al contesto politico, va premesso che, dal momento della sua creazione nel 1948[18] fino alla seconda metà degli anni Settanta, Israele è stata caratterizzata da governi guidati dal partito Mapai, in seguito confluito nel partito laburista[19]. A partire dal 1977, invece, è stato il partito di centro-destra del Likud a mostrare una marcata crescita e ciò ha condotto alla formazione di governi di coalizione per tutta la durata degli anni Ottanta[20].
Anche grazie a un sistema elettorale proporzionale poco razionalizzato e alla presenza di una certa frammentazione partitica favorita dalla crescita di consensi dei partiti minori[21], la situazione politica israeliana si è caratterizzata per una ricorrente instabilità degli esecutivi ed una marcata difficoltà a formare governi duraturi[22].
Con riferimento al contesto costituzionale, va osservato che Israele si caratterizza per una «costituzionalizzazione a tappe»[23] e sui generis[24], passata dall’iniziale assenza di una costituzione scritta – eredità dell’influenza giuridica britannica e del principio della sovereignty of Parliament – fino all’introduzione delle Basic Laws[25] ed alla fondamentale decisione United Mizrahi Bank del 1995 della Corte suprema israeliana[26].
Con tale decisione, la Corte ha determinato la natura sostanzialmente costituzionale delle Basic laws, dichiarandone la supremazia sulle altre leggi[27]. La sentenza United Mizrahi Bank rappresenta, inoltre, il momento d’avvio di un controllo di legittimità costituzionale delle leggi rispetto al sistema delineato dalle Basic Laws, così facendo guadagnare alla decisione la reputazione di Marbury v. Madison israeliana[28].
Nell’ambito di un processo costituzionale fondato sulla stratificazione ma anche sulla rilevanza del fenomeno religioso nella vita pubblica[29], la forma di governo israeliana si è caratterizzata per una connotazione parlamentare classica e per la centralità della Knesset – il Parlamento monocamerale israeliano –, nonché per un sistema elettorale proporzionale poco razionalizzato.
È in questo contesto politico e costituzionale che va collocata la riforma Basic Law: The Government 1992, introdotta a seguito di una prolungata fase di paralisi politica che aveva contraddistinto la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta e volta a modificare il sistema delineato dalla precedente Basic Law: The Government del 1968. Con l’intervento si intendeva ottenere un miglioramento della governabilità e un effetto di stabilizzazione della competizione partitica, nel quadro di un sistema elettorale che doveva restare invariato[30].
Il punto centrale della riforma del 1992 riguardava l’elezione diretta del primo ministro contemporaneamente a quella della Knesset e l’introduzione di un collegamento tra la durata in carica dei due organi[31].
Tali elementi non costituiscono un’idea nuova: trovano infatti precisi e autorevoli antecedenti teorici nel pensiero di autori francesi come Blum e Duverger e nella forma di governo c.d. neoparlamentare ispirata al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent[32].
Il modello delineato da Maurice Duverger, teso ad introdurre un governo di legislatura eletto a suffragio universale in grado di restare in carica per tutto il mandato previsto, riadatta alcuni principi della tradizione britannica al modello continentale e trae origine dal dibattito maturato negli anni Cinquanta in Francia durante le fasi finali della IV Repubblica[33].
La forma neoparlamentare doveva garantire una maggior stabilità dell’esecutivo, rendendo più conveniente la composizione dei conflitti politici insorti piuttosto che l’apertura di una crisi ed il conseguente ritorno alle urne a seguito dello scioglimento dell’assemblea parlamentare[34].
Più nel dettaglio, il sistema introdotto con la riforma israeliana del 1992 prevedeva l’elezione diretta del primo ministro e della Knesset contestualmente e su due schede separate[35]. In ottemperanza al principio aut simul stabunt aut simul cadent, era prevista una durata in carica del Premier eguale a quella della Knesset e pari a quattro anni.
Il governo del primo ministro eletto doveva però ottenere la fiducia dall’organo parlamentare, attraverso un voto esplicito iniziale a maggioranza assoluta, da svolgersi entro quarantacinque giorni dalle elezioni[36]. La mancata attribuzione della fiducia iniziale, così come l’approvazione di una successiva mozione di sfiducia nei confronti del premier, si risolveva in una decisione di autoscioglimento da parte della Knesset e comportava l’avvio di nuove elezioni, sia del premier sia dello stesso organo legislativo[37]. Ciò doveva costituire un deterrente rispetto a possibili attacchi alla stabilità del governo, spingendo a serrare i ranghi della maggioranza ovvero a ritornare alle urne.
A propria volta, il Prime Minister poteva optare per la dispersion, cioè lo scioglimento della Knesset in caso di ingovernabilità ovvero di opposizione al programma governativo. A seguito dello scioglimento così disposto, si tenevano nuove elezioni della Knesset e dello stesso Premier.
Altra ipotesi in cui aveva luogo una nuova elezione generale di Premier e organo parlamentare riguardava la mancata approvazione della Budget Law entro tre mesi dall’inizio dell’annualità finanziaria, ai sensi della section 20.
La ratio sottesa a tali previsioni è chiara: rendere poco conveniente la crisi e garantire la durata dell’esecutivo per tutta la legislatura con la fiducia della Knesset, ovvero ritornare ad elezioni generali[38].
Malgrado il dibattito francese fosse noto ai riformatori israeliani[39], in ragione delle varie differenze previste la dottrina identifica la forma di governo introdotta in Israele nel 1992 come un modello misto[40], ovvero come «strutturalmente differente» rispetto al modello francese puro di matrice duvergeriana[41].
Una delle ragioni si riconnette all’innesto di tale forma di governo all’interno di un sistema proporzionale quasi puro. Di contro, sia gli autori francesi sia in seguito quelli italiani che partecipano alla riflessione sulla forma neoparlamentare[42] convengono sulla necessità di accompagnare l’attuazione del principio simul stabunt simul cadent con interventi tali da garantire un’ampia maggioranza parlamentare a sostegno del governo e, dunque, un intervento sul sistema elettorale[43].
Sotto altro profilo, varie sono le divergenze nella stessa declinazione della forma di governo israeliana del 1996-2001 rispetto al modello francese sopra indicato ma anche a quello britannico.
In primo luogo, il sistema introdotto nel 1992 si allontana da forme di premierato forte sul modello britannico lasciando, tra l’altro, alla Knesset il potere di esprimere l’approvazione sulla nomina dei ministri da parte del Premier ma anche di rimuoverli[44].
Sotto altro profilo, devia da quello francese per la previsione di significative deroghe rispetto al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent. Tra queste assume rilievo centrale la previsione di plurime ipotesi di special elections, cioè di elezioni che – ai sensi della section 5 – coinvolgono solo il Premier e non anche la Knesset[45]. Si ricordano, tra le altre, le dimissioni e il permanente impedimento del Premier, la mancata presentazione della formazione di governo scelta entro i termini, la presenza di un numero di ministri inferiore ad otto senza che vi sia posto rimedio entro settantadue ore, il venir meno della qualifica di membro della Knesset del primo ministro, l’impeachment nei termini di cui alla section 27 della Basic Law: The Government 1992 o l’approvazione di un voto di sfiducia per indegnità morale secondo quanto stabilito dalla section 26.
3. Crisi e abbandono dell’elezione diretta in Israele
Ricostruito il percorso che ha portato alla previsione dell’elezione diretta del primo ministro in Israele, pare opportuno soffermarsi sulle ragioni che hanno condotto tale ordinamento al repentino superamento della forma di governo introdotta nel 1992.
Come anticipato, infatti, con la Basic Law: The Government 2001 Israele è ritornata al sistema in forza prima dell’entrata in vigore della Basic Law del 1992, con una forma parlamentare classica che affida la scelta del primo ministro alla Knesset pur in presenza di elementi di razionalizzazione quali l’introduzione della sfiducia costruttiva[46].
Il sistema introdotto nel 1992 è entrato in vigore nel 1996 ed ha funzionato complessivamente per tre elezioni (nel 1996, nel 1999 e nel 2001) prima di essere accantonato.
Nel 1996, la vittoria di Netanyahu – candidato premier e leader di Likud – avviene con un ridotto margine sul candidato laburista (Peres), costringendo il primo ministro ad un difficile governo di coalizione con forze eterogenee, inclusive di partiti religiosi, specchio di un paese politicamente frammentato[47].
Il risultato di questa prima applicazione del sistema introdotto dalla Basic law: The Government 1992 è un governo durato circa due anni e terminato nel 1998 con un voto di scioglimento anticipato della Knesset, dopo ben 63 voti di sfiducia nello stesso periodo[48].
In un tale clima, il primo esperimento di funzionamento del nuovo sistema è contraddistinto dall’ingovernabilità e dalla paralisi decisionale, favorita anche dalla necessità del premier di accettare continui compromessi con le forze di una coalizione eterogenea e distante nei temi, comunque insufficienti a mantenerlo alla guida dell’esecutivo[49].
Nel maggio 1999, a seguito delle successive elezioni generali, viene eletto premier l’esponente del partito laburista Ehud Barak. Anche in questo caso il nuovo premier è costretto ad un governo di ampia coalizione, pur tendente verso il centro, per conquistare il decisivo elettorato moderato[50].
I risultati delle consultazioni elettorali mostrano ancora una marcata frammentazione partitica, con i principali attori storici della competizione politica israeliana (Likud e laburisti) penalizzati alle elezioni per la Knesset a beneficio dei partiti minori, tra i quali segnano una marcata crescita anche i partiti religiosi e quelli ultra-ortodossi[51].
Anche in questo secondo esperimento governativo a seguito dell’elezione diretta, limitata è la capacità del primo ministro di portare avanti la propria agenda politica, complici le resistenze degli alleati di coalizione ed i continui attacchi alla stabilità dell’esecutivo[52].
La nuova situazione di ingovernabilità – forse anche più difficile rispetto alla precedente esperienza di Netanyahu[53] – conduce alle dimissioni di Barak, con conseguente applicazione della section 23 della Basic law: the Government 1992 e avvio delle special election per il solo primo ministro.
Barak si ricandida tuttavia alle successive elezioni, non essendo previsto alcun divieto in tal senso nella Basic law, con il fine auspicato di ottenere – a seguito delle dimissioni e delle successive special elections – un nuovo responso elettorale favorevole utile a garantire una più forte legittimazione del Premier nei confronti di una Knesset ostile[54]. In realtà, all’esito delle elezioni del febbraio 2001, non si verifica quell’effetto di «trascinamento»[55] auspicato da Barak, il quale soccombe (appena 22 mesi dopo la propria vittoria) alla prova delle urne, che vede trionfare Ariel Sharon per il Likud[56].
Nonostante la netta vittoria del leader del partito della destra israeliana[57], il paradossale risultato delle elezioni è che Sharon, eletto con una maggioranza più ampia rispetto ai predecessori, si trova nella posizione più debole, avendo “ereditato” una Knesset ostile.
Il premier neoeletto è così costretto ad accettare un governo di unità nazionale formato da ben otto partiti, dovendo fare i conti con un’assemblea parlamentare che vedeva in quello laburista il primo partito per rappresentanza; il suo partito – il Likud – poteva invece contare solo su 19 seggi alla Knesset.
È in questo contesto, di fronte alla persistenza di situazioni di empasse ed ingovernabilità, che matura in modo pressocché generalizzato la condivisione politica verso il superamento della riforma del 1992[58].
Il 7 marzo 2001, la Knesset approvava così la nuova Basic law che ripristinava la forma parlamentare precedente con alcune novità. Viene, innanzitutto, introdotta la sfiducia costruttiva, meccanismo classico di razionalizzazione della forma parlamentare per promuovere una maggiore stabilità degli esecutivi[59].
Rimane però anche qualche traccia della precedente esperienza nella previsione della possibilità del premier di sciogliere la Knesset e nell’obbligatorietà dell’approvazione della budget law entro un termine perentorio che, se non rispettato, comporta lo scioglimento della Knesset e nuove elezioni[60].
In questo quadro, il risultato della riforma del 1992 è quasi unanimemente riconosciuto come fallimentare[61].
La frammentazione partitica che doveva essere attenuata dall’intervento si è acuita[62]. La doppia scheda elettorale prevista per le elezioni generali – una per la Knesset e una per il Premier – ha incrementato il ricorso al voto disgiunto[63]. Frequente, infatti, è stato il caso di un voto in favore del partito laburista o del Likud sulla scheda del premier ed un voto ad un partito minore con un’identità politica meglio definita (spesso anche a carattere religioso) nell’altra scheda relativa alla Knesset.
Ciò ha prodotto un’ulteriore conseguenza contraria a quella voluta: il voto disgiunto – unitamente al sistema proporzionale poco razionalizzato e rimasto immutato – ha favorito la crescita e l’importanza dei partiti di minoranza, che hanno assunto un rilievo politico fondamentale per la tenuta dei governi[64]. Ciò si è accompagnato ad una netta diminuzione dei consensi registrata dai due principali schieramenti politici del Likud e del partito laburista in tutte le consultazioni elettorali tenute con il sistema entrato in vigore nel 1996. È stato così ancora più difficile per il premier, sempre eletto tra le file di uno dei due partiti, ricercare la fiducia della Knesset che, come sopra indicato, non era presunta ma andava attribuita in via iniziale.
I diversi premier succedutisi hanno dovuto formare coalizioni ampie e spesso eterogenee, in un panorama partitico molto frammentato. Il risultato è stato una scarsa incisività sull’agenda politica anche di premier con una larga legittimazione popolare alle elezioni come Barak e Sharon.
La previsione delle dimissioni del premier senza divieto di ricandidatura e in assenza di scioglimento contestuale dell’organo parlamentare ha condotto inoltre al tentativo di forzature (prive di successo) come nel caso di Barak, finalizzate a rinvigorire una posizione di premier debole nei confronti di un Parlamento ostile. La marcata conflittualità tra premier e Knesset, del resto, rappresenta una costante nella parentesi di vigenza della Basic Law del 1992. I tratti disfunzionali del doppio circuito fiduciario introdotto in Israele hanno avuto come conseguenza principale una tendenza all’immobilismo, visto l’alto costo della mediazione politica a fronte di schieramenti polarizzati e maggioranze troppo disomogenee.
Ma un’altra conseguenza è stata anche la breve durata dei governi: proprio uno dei mali che l’intervento avrebbe dovuto curare.
4. Il confronto con la proposta italiana: convergenze e divergenze
Venendo alla comparazione tra la forma di governo introdotta con la riforma israeliana del 1992 ed il progetto di revisione costituzionale italiano di cui al ddl Meloni, vanno preliminarmente ricordate alcune rilevanti distinzioni di fondo tra i due ordinamenti considerati.
In primo luogo, la diversa famiglia giuridica, potendo il sistema israeliano collocarsi tra gli ordinamenti di common law[65], malgrado la presenza di forti influenze del diritto romano, del diritto religioso ebraico e di elementi provenienti dalla tradizione ottomana[66].
Altra fondamentale caratteristica del contesto israeliano riguarda la declinazione rigida del sistema elettorale in senso proporzionale. Come anticipato, la Basic Law: The Knesset delinea un proporzionale quasi puro che doveva restare sostanzialmente invariato anche a seguito della riforma del 1992[67]. Si riteneva, infatti, che l’intervento sulla forma di governo potesse produrre indirettamente un effetto di complessiva stabilizzazione del sistema politico israeliano[68].
Al riguardo, è importante precisare che, nel caso italiano, il sistema elettorale costituisce allo stato un’incognita, non essendo il ddl Meloni abbinato ad una proposta chiara di riforma elettorale del sistema misto attualmente vigente, malgrado la presenza di previsioni di principio incidenti in materia elettorale inserite direttamente in Costituzione[69].
Diversamente dal sistema israeliano, ove l’art. 4 della Basic Law: The Knesset 1958 ha disciplinato direttamente il sistema elettorale proporzionale richiedendo una maggioranza assoluta alla Knesset per la modifica[70], la Costituzione italiana del 1948, come noto, non ha incluso indicazioni specifiche sul sistema elettorale, lasciando spazio alla legislazione ordinaria[71]. Ciò ha consentito, tra l’altro, una maggiore flessibilità del sistema ed un più ampio sindacato di legittimità costituzionale da parte della Consulta, come avvenuto – tra i più noti casi – con le sentenze nn. 1/2014 e 35/2017 rispettivamente sul c.d. Porcellum e sul c.d. Italicum[72].
Il ddl Meloni introduce in questa prospettiva due diversi elementi di discontinuità rispetto al passato[73]: in primo luogo, include principi incidenti sul sistema elettorale direttamente in Costituzione e, in secondo luogo, non ha da subito accompagnato alla riforma costituzionale alcun disegno di legge ordinaria in materia elettorale per l’ipotesi di approvazione della riforma, diversamente da quanto avvenuto, ad esempio, con il c.d. ddl Renzi-Boschi[74] e l’Italicum nella XVII legislatura[75].
Va infine considerata, tra le differenze strutturali, la declinazione dell’organo parlamentare: monocamerale in Israele e bicamerale paritario in Italia[76].
Date queste preliminari notazioni di fondo, possono in effetti notarsi alcune analogie tra la forma di governo che verrebbe introdotta in Italia in caso di approvazione del ddl Meloni (nella versione approvata dal Senato) e quella in vigore in Israele tra il 1996 e il 2001.
A livello politico, può evidenziarsi una situazione simile tra i due paesi, caratterizzati da un lungo corso di governi incapaci di restare in carica fino al termine della legislatura e una situazione partitica frammentaria. Di qui, comune (almeno in parte) è la volontà alla base dell’intervento del 1992 e del ddl Meloni: quest’ultimo è infatti prioritariamente volto a rafforzare la stabilità degli esecutivi e ovviare al problema dell’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, nonché di limitare il “transfughismo” parlamentare[77].
Dal punto di vista istituzionale, come anticipato in premessa, anche nel disegno del legislatore di revisione italiano il primo ministro viene eletto dal corpo elettorale contestualmente alle Camere e deve avere anche la fiducia di queste[78]. Come in Israele, la fiducia non è presunta ma viene attribuita al primo ministro eletto sulla base di un voto iniziale che, nel caso del ddl Meloni, deve avvenire entro dieci giorni dalla formazione del Governo[79]. Parimenti, la revoca della fiducia al Presidente del Consiglio si sostanzia in un voto di autoscioglimento che, nel caso italiano, verrebbe però disposto dal Presidente della Repubblica[80].
Anche nel progetto di riforma italiano, inoltre, è riscontrabile un collegamento, pur meno marcato rispetto al caso israeliano, tra il premier e il Parlamento, dovendo il primo rivestire la carica di parlamentare[81].
Curiosamente, a fronte di una comune volontà di rafforzare i poteri del capo del governo, in entrambi i modelli i premier non sono del tutto liberi di nominare e revocare i ministri[82].
Ambedue gli interventi, inoltre, si distanziano dall’applicazione pura del modello duvergeriano in ragione della previsione di plurime eccezioni al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent.
Infatti, anche in base al ddl Meloni residuano diverse ipotesi nelle quali la cessazione della carica del Presidente del Consiglio non comporta anche nuove elezioni parlamentari. È questo il caso, ad esempio, delle dimissioni del Presidente del Consiglio eletto. Il Presidente dimissionario, in base al ddl Meloni, ha due possibilità: o propone, entro sette giorni (previa informativa parlamentare) al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere, ovvero, non esercita tale «facoltà»; in tale ultimo caso, il Capo dello Stato può conferire – per una sola volta nella legislatura – un nuovo incarico di formare il governo, senza sciogliere le Camere, al «Presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».
Il Presidente della Repubblica potrebbe quindi conferire un nuovo incarico di formazione del governo senza scioglimento delle Camere qualora il Presidente del Consiglio non eserciti la facoltà di proporre lo scioglimento e nei casi di «decadenza, impedimento permanente o morte del Presidente del Consiglio eletto». In tali ultimi casi, il nuovo incarico potrebbe essere attribuito ad un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio, così evitando nuovamente il ritorno alle urne.
Residuano peraltro alcuni dubbi interpretativi, come dimostra il caso della «decadenza». Questo riferimento si presta a diverse letture divergenti. Secondo una prima interpretazione, il termine potrebbe indicare la decadenza dalla carica di parlamentare. Tale conclusione sembra coerente – in una visione sistematica – con l’apparente necessità della qualifica di parlamentare del Presidente del Consiglio eletto (come nel caso israeliano), che sembrerebbe sottesa alla previsione di cui all’art. 92 Cost., secondo la quale «Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura»[83].
Altre letture sono però possibili. La decadenza cui fa riferimento l’art. 94 Cost., come modificato dal ddl Meloni, potrebbe coincidere, ad esempio, con quella prevista dalla c.d. legge Severino[84]. In caso di condanna definitiva per i gravi delitti indicati all’art. 1, infatti, l’art. 6 della legge Severino vieta di assumere incarichi di governo – incluso quello di Presidente del Consiglio ex art. 3 l. 215/2004[85] – a coloro che si trovano in condizioni di incandidabilità per le cariche di deputato e senatore. Nel caso del Presidente del Consiglio (e degli altri membri del governo), la sentenza definitiva di condanna per uno dei delitti di cui all’art. 1 della l. Severino determina la decadenza di diritto dall’incarico ricoperto, accertata con decreto del Presidente della Repubblica.
Per i fini del presente scritto, ad ogni modo, può rilevarsi che nel ddl Meloni, così come nella forma in vigore in Israele tra il 1996 e il 2001, molteplici sono i casi nei quali la cessazione dalla carica del premier non comporta necessariamente anche lo scioglimento dell’assemblea parlamentare, in deroga all’aut simul stabunt aut simul cadent e all’esigenza di rafforzare il legame con l’elettorato[86].
Accanto a queste analogie, significative sono però le differenze specifiche (oltre a quelle di sistema sopra evidenziate) tra la forma di governo israeliana del 1996-2001 e quella che risulterebbe dall’approvazione del ddl Meloni, cominciando da quella terminologica. Mentre infatti in Italia, la riforma è stata associata ad un “premierato”, la forma di governo israeliana è stata identificata talvolta come “parlamentarismo presidenziale”[87] o anche come semi-presidenziale[88].
Da un punto di vista più sostanziale, mentre la riforma israeliana interveniva solo sulla forma di governo, quella italiana introduce previsioni incidenti anche sul sistema elettorale direttamente in Costituzione[89]. Secondo la relazione di accompagnamento, l’intervento sulla Costituzione «dovrà garantire al partito o alla coalizione collegati al Presidente del Consiglio dei ministri, mediante un premio assegnato su base nazionale, la maggioranza dei seggi nelle Camere»[90]. Proprio tale correttivo, nell’intenzione del legislatore di revisione, dovrebbe «evitare le degenerazioni funzionali che hanno caratterizzato l’esperienza del premierato israeliano»[91].
Ad ogni modo, può allo stato osservarsi che, mentre la riforma in Israele si inseriva in un sistema proporzionale poco razionalizzato e con un’unica circoscrizione elettorale per la Knesset, nelle intenzioni del legislatore di revisione italiano – ferme le incognite di cui sopra – il «premierato» dovrebbe accompagnarsi ad una riforma elettorale di segno tendenzialmente maggioritario, con l’introduzione di «un premio su base nazionale» inserito in Costituzione. Il tutto in un sistema elettorale attualmente costituito da una pluralità di circoscrizioni elettorali e caratterizzato dall’elezione su base regionale per il Senato prevista dall’art. 57 Cost., sul quale interviene anche il ddl Meloni[92].
Anche rispetto ai poteri del primo ministro, va osservato che – diversamente dal caso israeliano –
nella riforma in discussione non viene prevista la possibilità del Presidente del Consiglio di sciogliere direttamente le Camere, la quale rimane nella disponibilità del Presidente della Repubblica[93].
Ulteriore differenza del progetto di revisione costituzionale italiano riguarda l’introduzione di un limite per l’elezione del Presidente del Consiglio: l’art. 5 del ddl Meloni approvato al Senato, modificando l’art. 92 Cost., prevede infatti l’elezione del Presidente del Consiglio «per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi».
Infine, una peculiarità sostanziale del ddl Meloni, non prevista nel sistema israeliano in vigore fino al 2001, è quella indicata nel linguaggio giornalistico come “norma antiribaltone”. Essa consiste nella previsione di diversi casi nei quali, a seguito della cessazione della carica del premier eletto, il Presidente della Repubblica può assegnare l’incarico di formare un governo senza sciogliere le Camere ad un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio[94].
5. Conclusioni: il rischio di riproposizione delle criticità dell’esperienza israeliana
Complessivamente sono numerose le differenze tra i due modelli in discussione. Nondimeno, l’esperienza israeliana sembra poter fornire alcune lezioni utili da tenere a mente anche nel contesto del dibattito sulle riforme attualmente in corso in Italia.
La revisione israeliana del 1992 ha acuito, anziché lenire, alcune delle criticità strutturali di un sistema caratterizzato da un’ampia frammentazione partitica e da una diffusa instabilità dei governi, rendendolo anche più rigido e «iperrazionalizzato»[95].
Può affermarsi che uno degli aspetti non considerati dal legislatore israeliano del 1992 sia stato quello di pesare i correttivi sulla forma di governo rispetto all’ordinamento nel suo complesso e alle caratteristiche del sistema elettorale, della dialettica politica e della competizione partitica del paese[96].
Ma, più in generale, la riforma ha omesso di considerare come il sostanziale mutamento della forma di governo sarebbe stato declinato dagli attori politici, attuando in sostanza un salto nel buio[97].
Alcuni dei correttivi inseriti dalla Basic law: the Government 1992 hanno sterilizzato le attribuzioni del Premier, legandolo ad una fiducia parlamentare sempre difficile da ottenere, così accentuando criticità pregresse della competizione politica[98].
Sono state sottovalutate le ripercussioni della presenza di una doppia scheda elettorale, la quale ha favorito il voto disgiunto avvantaggiando, in un sistema elettorale proporzionale non toccato dalla riforma, i piccoli partiti e quelli religiosi (anche ultraortodossi), così rendendo più difficile e imprevedibile la formazione di coalizioni e governi coesi nel quadro del nuovo e complesso doppio circuito fiduciario[99].
Il risultato è stato l’emergere di una conflittualità politica generalizzata che ha impegnato i governi a lottare incessantemente per la propria sopravvivenza e, al contempo, ha impedito loro di portare avanti la propria agenda politica di fronte ai veti incrociati delle rispettive «rainbow coalitions»[100]. In definitiva, una situazione di immobilismo politico, accentuata dalla rigidità del nuovo sistema introdotto[101].
Complessivamente, il giudizio negativo sull’esperienza dell’elezione diretta in Israele pare inevitabile a fronte di una riforma «che non ha mutato, nel profondo, la struttura politico-istituzionale israeliana»[102].
Date queste premesse, rispetto alle proposte italiane va messa in evidenza la maggiore pervasività dell’intervento del ddl Meloni che incide profondamente sulla forma di governo ma anche sul sistema elettorale, includendo – in piena discontinuità con il passato – previsioni su di esso incidenti direttamente in Costituzione.
Va in effetti rilevato, pur in mancanza allo stato di un disegno chiaro sulla legge elettorale[103], che la riforma italiana tiene in considerazione l’esigenza di considerare il sistema elettorale nell’introduzione di modifiche alla forma di governo la cui riuscita, in ultima battuta, anche da esso dipende.
Tuttavia, non è detto che l’inserimento dei correttivi immaginati direttamente in Costituzione possa rappresentare una soluzione efficace. Trattasi infatti di principi che, proprio per via della loro collocazione in Costituzione, potrebbero contribuire ad irrigidire il sistema anche a livello elettorale[104].
Oltre alle difficoltà dell’inserimento di un sistema sbilanciato sul piano maggioritario in un contesto di frammentazione partitica[105], va osservato che i correttivi costituzionali al sistema elettorale (a patto che siano ritenuti conformi ai principi costituzionali e supremi[106]) non eliminerebbero, comunque, il rischio di un’accresciuta contrapposizione tra Premier e Parlamento in virtù della doppia legittimazione popolare, così aumentando anche il costo della ricerca della fiducia[107].
È stato osservato, a questo riguardo, che in un contesto politico come quello italiano ove è diffusa una tradizione di instabilità politica e difficoltà a formare coalizioni durature, non sembra del tutto implausibile che il doppio legame tra Presidente del Consiglio, corpo elettorale e Parlamento possa riproporre le difficoltà nella formazione dei governi già sperimentate in Israele[108].
Resterebbe infatti il rischio di doppie maggioranze difformi (per l’elezione del Presidente del Consiglio e per quella del Parlamento) ed il conseguente pericolo di un inasprimento della conflittualità politico-istituzionale, con un Presidente della Repubblica – sullo sfondo – che risulterebbe indebolito nel suo ruolo di ago della bilancia nei momenti di tensione istituzionale[109].
Rispetto alle criticità verificatasi in Israele con l’introduzione della doppia scheda ed il conseguente ampio ricorso al voto disgiunto che ha favorito la creazione di maggioranze distinte, occorre riflettere attentamente sulle scelte che dovrà effettuare la nuova legge elettorale italiana in caso di approvazione della riforma di cui al ddl Meloni.
Come noto, mentre per la Knesset monocamerale era prevista una sola scheda che si affiancava a quella destinata all’indicazione del Premier, in Italia esiste già una doppia scheda per l’elezione dei componenti di Camera e Senato. Non è dato sapere al momento se, in caso di approvazione della riforma, le schede consegnate all’elettore il giorno dell’elezione contestuale di premier e Camere saranno tre (una per il Presidente del Consiglio, una per la Camera ed una per il Senato) ovvero il legislatore opterà per una diversa soluzione (peraltro difficilmente immaginabile).
Nel primo caso, probabilmente il più verosimile, pare evidente il rischio che si ripresenti – visto il frastagliato panorama partitico italiano e l’esperienza delle pregresse legislature[110] – la possibilità di scelte difformi dell’elettore per Camera, Senato e Presidente[111], salva la riproposizione del divieto di voto disgiunto e delle liste bloccate attualmente vigenti per l’elezione delle Camere[112]. Peraltro, in quest’ultima ipotesi, viene da chiedersi se la combinazione di una riforma complessiva della forma di governo[113] con il divieto di voto disgiunto, le liste bloccate e l’introduzione di un premio di maggioranza possa sortire effettivamente l’effetto auspicato di «consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione»[114]. Residuano molti dubbi al riguardo, considerato che il margine di scelta dell’elettore risulterebbe così piuttosto ridotto[115].
Ulteriormente problematico appare anche il menzionato premio di maggioranza e sotto diversi profili[116]. In primo luogo, sono stati avanzati interrogativi sul rispetto dei principi supremi, anche a seguito delle pronunce 1/2014 e 35/2017 della Corte costituzionale, soprattutto in relazione all’originaria versione del ddl Meloni. Essa attribuiva alla legge la disciplina del sistema elettorale «secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio». La soglia indicata, venuta meno a seguito degli emendamenti approvati in Senato, poneva in effetti seri dubbi con riguardo alla mancanza di una previsione minima di voti per far scattare il premio[117].
In secondo luogo, si è osservato che in un sistema bicamerale paritario «sorge il problema di un eventuale doppio premio, uno per ciascuna Camera: premi che però, se indipendenti, potrebbero finire con l’essere assegnati a due schieramenti diversi e quindi col determinare una paralisi, dal momento che si fronteggerebbero due maggioranze «blindate»[118]. Sarebbe un problema simile a quello originato della doppia scheda del sistema israeliano ma amplificato dal bicameralismo italiano, che potrebbe moltiplicare le ipotesi di conflittualità. Nel caso italiano, inoltre, la blindatura sarebbe ancora più forte[119], poiché il premio verrebbe introdotto in Costituzione[120].
A onor del vero, il legislatore di revisione interviene anche sull’art. 57 Cost., mantenendo la previsione dell’elezione a base regionale salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero e facendo «salvo il premio su base nazionale previsto dall’art. 92». La previsione, non di univoca lettura, sembrerebbe così configurare un premio assegnato su base nazionale con ripartizione dei seggi su base regionale per ciascuna coalizione[121]. È chiara la ratio dell’intervento: tentare di scongiurare il rischio che si formino doppie maggioranze tra Camera e Senato, le quali potrebbero riproporre le difficoltà già sperimentate in Israele, rendendo impossibile attuare l’agenda politica anche per un premier eletto con una buona legittimazione popolare.
Su questo correttivo, sono necessarie ulteriori considerazioni. In punto di legittimità costituzionale, risulta opportuno domandarsi se la soluzione proposta non ponga potenziali problemi rispetto alla compatibilità con i principi supremi e, segnatamente, alle esigenze dell’autonomia e del decentramento di cui all’art. 5 Cost.[122], letto in combinato disposto con l’elezione su base regionale che permane, anche nella nuova formulazione, all’art. 57 Cost[123].
Se è vero che l’elezione su base regionale non identifica un nesso tra Senato e amministrazioni regionali ma un mero riferimento alle circoscrizioni elettorali di riferimento[124], la previsione di un unico premio su base nazionale resta comunque problematica[125]. Il conflitto con il principio supremo, infatti, potrebbe risiedere nel fatto che la revisione costituzionale, eliminando il principale elemento di valorizzazione delle realtà regionali nel Parlamento nazionale consistente nell’elezione a base regionale del Senato, andrebbe a diminuire le garanzie che la Costituzione – ex art. 5 e nel suo insieme – attribuisce alle autonomie[126]. Il correttivo immaginato all’art. 57 Cost. potrebbe quindi non essere sufficiente a scongiurare una pronuncia di incostituzionalità per la previsione di un premio su base nazionale al Senato[127].
Un’alternativa per evitare il potenziale contrasto con i principi supremi potrebbe essere l’assegnazione di premi su base regionale come previsto, ad esempio, dalla legge Calderoli n. 270/2005, nota come Porcellum[128]. Sul punto si pongono due diversi ordini di questioni.
In primo luogo, questa soluzione sembrerebbe allo stato contraria alla lettera del ddl Meloni che configura un «premio su base nazionale»[129] e, dunque, sarebbe necessaria una modifica dell’attuale formulazione del progetto di revisione costituzionale per attuarla.
In secondo luogo, tale opzione non parrebbe comunque sufficiente a scongiurare del tutto il rischio di maggioranze difformi tra Camera e Senato e, dunque, evitare le problematiche sperimentate in Israele di un premier eletto incapace di governare. L’esperienza applicativa della legge Porcellum, infatti, suggerisce risultati estremamente variabili e imprevedibili nell’applicazione del premio su base regionale. Le elezioni svolte con il Porcellum hanno spesso originato una maggioranza eterogenea tra Camera e Senato[130], possibile prodromo di una nuova instabilità governativa ovvero di stagioni di governi di larghe intese[131].
In definitiva, allo stato attuale della proposta del ddl Meloni, la difficile scelta a disposizione del legislatore in sede di elaborazione della legge elettorale potrebbe essere tra la previsione di un premio su base nazionale anche al Senato[132], con il rischio di incorrere in censure di incostituzionalità per violazione degli artt. 5 e 57 Cost.[133], oppure la riproposizione dei premi su base regionale che, però, non eliminano il rischio di doppie maggioranze tra Camera e Senato e di ingovernabilità ma anzi lo accentuano[134]. Peraltro, se la formulazione del ddl Meloni approvata al Senato rimanesse quella attuale inclusiva di un premio «su base nazionale», la previsione di premi regionali nella legge elettorale potrebbe comunque risultare incostituzionale.
Sotto un diverso profilo – sempre nell’ottica di uno sguardo a tutto tondo dell’impatto delle riforme alla luce della lezione israeliana – pare necessario tenere a mente anche le possibili ripercussioni sull’equilibrio istituzionale delle misure in via di introduzione. In primo luogo, in Israele le ripetute crisi politico-istituzionali che hanno accompagnato l’introduzione della riforma del 1992 non hanno visto nel Capo dello Stato una figura in grado di contribuire alla risoluzione dell’impasse[135]. Anche nel caso italiano, il Presidente della Repubblica, a seguito della riforma, risulterebbe indebolito in una funzione – quella di sbloccare eventuali situazioni di stallo originate da crisi politiche – che ha invece mostrato di saper svolgere in altre occasioni di cortocircuito della funzionalità dello Stato[136].
In secondo luogo, pare opportuno tenere a mente l’impatto complessivo della riforma sugli organi di garanzia, anche in virtù della presenza di altre rilevanti riforme istituzionali in corso di discussione[137].
In conclusione, alla luce di tali elementi, non pare possibile escludere che anche nel caso italiano vengano riproposte alcune delle criticità riscontrate in Israele neppure alla luce dei correttivi immaginati dal legislatore di revisione, pur presenti e chiari nella loro ratio.
Il principale “male israeliano” che potrebbe riproporsi riguarda la possibilità di disomogeneità tra la maggioranza alla Camera, quella al Senato e tra maggioranze parlamentari e maggioranza a sostegno del Presidente eletto[138]. Se in Israele ciò è stato favorito dal sistema elettorale proporzionale, dal panorama partitico frammentato e dal voto disgiunto, in Italia i fattori critici a cui prestare attenzione sembrano concentrati anche sul bicameralismo paritario e sulla legge elettorale (ad oggi ignota), con particolare riguardo al premio di maggioranza e all’elezione del Senato su base regionale di cui all’art. 57 Cost. Non pare potersi escludere, inoltre, anche il rischio di incompatibilità con i principi supremi di alcune previsioni dell’intervento di riforma, come poc’anzi esposto.
Da ultimo, va considerato l’ulteriore rischio di riproposizione delle difficoltà sperimentate in Israele con riguardo all’attuazione del principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent, fondamento del modello neoparlamentare. Si è visto come, nel paese mediorientale, la presenza di molteplici deroghe al principio abbia di fatto annullato l’effetto di stabilizzazione sul sistema promosso dal timore di elezioni generali e alla base del modello duvergeriano di governo di legislatura.
Anche nel ddl Meloni, così come nella breve esperienza israeliana di elezione diretta del Premier, vengono riproposte plurime deroghe all’operatività del “simul simul” che possono condurre a scenari diversi da nuove elezioni generali. È questo il caso delle dimissioni del Presidente del Consiglio[139]: il primo ministro dimissionario può valutare la convenienza o meno di nuove elezioni optando per la proposizione al Presidente della Repubblica dello scioglimento[140]. Ma nel caso italiano le deroghe al principio tanto caro a Duverger sono forse anche maggiori rispetto al modello israeliano del 1992, specie se si considera la portata della c.d. norma antiribaltone prevista all’art. 94 Cost. (come modificato). Secondo quanto sopra ricordato, tale disposizione consente il conferimento di un nuovo incarico a un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio qualora il premier dimissionario non chieda lo scioglimento delle Camere «e nei casi di morte, impedimento permanente, decadenza»[141].
Trattasi di deroghe che, come insegna l’esperienza israeliana, possono anche prestarsi a strumentalizzazioni politiche in assenza di limitazioni alle nuove candidature del primo ministro dimissionario (vedi il precedente delle dimissioni “strategiche” di Barak) e, in ogni caso, indeboliscono l’effetto di deterrenza rappresentato dalle elezioni generali, con il rischio di annullare gli effetti di stabilizzazione auspicati dalla riforma.
Il presente contributo è tratto da un più ampio scritto destinato alla pubblicazione nel volume E. Albanesi, E. Ceccherini (a cura di), L’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Verso una nuova forma di governo?, Editoriale scientifica, Napoli, 2025.
[1] Trattasi del ddl A.S. 935, Disegno di legge costituzionale recante «Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica».
[2] Cfr. pag. 3 della Relazione di accompagnamento al ddl A.S. 935, Senato della Repubblica, XIX Legislatura. Si veda anche il dossier parlamentare 215/1 del maggio 2024 “Proposta di modifiche costituzionali per l’introduzione della elezione diretta del Presidente del Consiglio. Note sull’A.S. nn. 935 e 830-A”.
[3] Il riferimento è al ddl A.S. 830, recante «Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione». Il 24 aprile 2024, la Commissione affari costituzionali del Senato ha approvato il mandato al relatore a riferire all’Assemblea in relazione al testo del ddl Meloni (A.S. 935), con le modifiche apportate dalla Commissione stessa nei mesi di marzo e aprile 2024. In tale occasione, si è altresì proposto l’assorbimento dell’A.S. 830 e, pertanto, il testo di riferimento è stato in seguito denominato «A.S. 935 e 830-A».
[4] Riguardo all’approvazione di emendamenti e subemendamenti d’iniziativa governativa, il riferimento è, tra l’altro, ai quattro emendamenti approvati nei primi mesi del 2024 e, segnatamente, agli emendamenti governativi nn. 2.2000, 3.2000, 3.0.2000 e 4.2000, approvati dalla prima Commissione Affari costituzionali tra il marzo e l’aprile del 2024. Gli altri emendamenti di iniziativa parlamentare, sono i nn. 1.169 (sen. De Cristofaro et al.), 02.1 (sen. Enrico Borghi et al.) 2.0.1 (sen. Pera), mentre i subemendamenti, sempre di iniziativa parlamentare, sono i nn. 3.2000/444 (sen. Durnwalder et al.), 4.2000/49 (sen. De Cristofaro et al.). È invece di mero coordinamento l’emendamento presentato dal Sen. Balboni. Cfr., amplius il contributo di E. Albanesi, L’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri ed il c.d. simul simul. Della fine del libero mandato parlamentare («après moi le déluge!»), in federalismi.it, 2, 2025, passim e F. Lanchester, Il disegno di legge AS n. 935 2023, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023.
[5] Ciò è previsto, pur con alcune varianti, sia dal ddl Meloni originario (A.S. 935/23), anche a seguito dell’approvazione degli emendamenti governativi sopra citati, sia dal ddl c.d. Renzi (A.S. 830).
[6] Confermate, pur con alcune modifiche, dagli emendamenti al ddl Meloni approvati. Risultano invece assenti nel Ddl Renzi modifiche costituzionali rivolte direttamente al sistema elettorale.
[7] È venuto meno durante l’esame parlamentare il riferimento all’attribuzione ad una quota di seggi predeterminata, presente nella prima versione del ddl A.S. 935. L’art. 57 Cost., nel progetto di revisione qui menzionato, verrebbe ulteriormente modificato prevedendo che «Il Senato è eletto a base regionale (…) salvo il premio su base nazionale previsto dall’art. 92».
[8] Tra gli altri, G. Silvestri, Stretta autoritaria o paralisi: le rosee prospettive del premierato, in Democrazia e Diritto, 2, 2023, 27-28, A. Ruggeri, Il premierato secondo il disegno Meloni: una riforma che non ha né capo né coda e che fa correre non lievi rischi, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023, F. Zammartino, Il progetto di revisione costituzionale del governo Meloni: cambiare tutto per non cambiare niente, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023, M. Della Morte, Uno vale tutti. Considerazioni critiche (a prima lettura) sul ddl premierato, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023, F. Politi, Uno pseudo-premierato che nasconde la costituzionalizzazione di un sistema elettorale iper-maggioritario, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023 e, infine, E. Aureli, Premio di maggioranza e vincolo di mandato governativo: rilievi critici ad una prima lettura del ddl. Costituzionale Meloni, in Osservatorio Costituzionale, 2, 2024, 1-21; R. Tarchi, Il «premierato elettivo»: una proposta di revisione costituzionale confusa e pericolosa per la democrazia italiana, in Osservatorio sulle fonti, 3, 2023, Editoriale.
[9] Un modello simile, come noto, è invece attualmente previsto in Italia per le Regioni. In argomento, anche con riguardo alla riforma del ddl Meloni, si veda F. Furlan, Il premierato elettivo è la strada giusta? La lezione di vent’anni di elezione diretta dei Presidenti di Regione, in Consulta Online, 3, 2023, 1020-1039.
[10] G. Pasquino, The Powers of Heads of Government, Bologna, 2006, 10-11 «Quando si tratta dell’attribuzione della massima carica esecutiva, tutti i sistemi parlamentari condividono una caratteristica specifica: non c’è alcuna elezione diretta del capo del governo. Soltanto Israele per un breve periodo di tempo (1996-2001), vale a dire per tre elezioni nazionali consecutive (1996, 1999, 2001), è ricorso all’elezione popolare del primo ministro con l’intento di ridurre i suoi numerosi problemi di governabilità e, in particolare, l’instabilità e l’incapacità decisionale. Tuttavia, ciò non ha funzionato». Cfr. anche L. Elia, Una forma di governo unica al mondo, in Astrid, 2004 e L. Elia, Governo (forme di), in Aa. Vv., Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano, 1970.
[11] Pur con significative differenze di cui si dirà infra.
[12] Si veda peraltro A. Morrone, Oltre il parlamentarismo, un premierato conflittuale, in Quaderni costituzionali 3, 2024, 697, il quale ritiene il premierato elettivo italiano come un modello sui generis anche rispetto all’esperienza di Israele.
[13] Per un’introduzione, cfr. S. Navot, The Constitution of Israel, Oxford, 2014, 133 ss.
[14] Cfr. in dottrina ex multis T.E. Frosini, Le ragioni del premierato, in Forum di Quaderni costituzionali, 1, 2024, F. Lanchester, Il disegno di legge, cit., LXXXII.
[15] Di questo avviso è anche T.E. Frosini, Il premierato e i suoi nemici, in Diritto Pubblico Europeo, 2, 2023, xix, secondo il quale «Il progetto governativo individua in una legge elettorale con il premio di maggioranza, assegnando il 55 per cento dei seggi nelle Camere, la soluzione che favorirebbe il formarsi di una maggioranza garantita alle liste che sostengono il primo ministro eletto. Se così non fosse, il rischio sarebbe di ripetere la sfortunata esperienza israeliana, che aveva l’elezione diretta del primo ministro ma con un sistema elettorale proporzionale, che ne decretò la sua fine per instabilità parlamentare. Le tecnicalità operative del sistema elettorale verranno poi previste e specificate con legge ordinaria (tenendo a mente, sul punto, le pronunce della Corte costituzionale)».
[16] Ove si afferma, tra l’altro, che essa ha prodotto «esiti profondamente divergenti rispetto a quelli auspicati, mettendo il Parlamento anziché il Premier, al centro del sistema, e facendo dipendere dalla stabilità delle coalizioni formatesi in seno al primo la sopravvivenza dell’esecutivo». Cfr. pag. 79 del Dossier sopra citato. L’appendice sull’esperienza di Israele è presente anche nel dossier n. 319 del 4 luglio 2024 della Camera dei Deputati in relazione ai ddl di revisione costituzionale AA.C. 1354 e 1921.
[17] F. Clementi, L’elezione diretta del Primo ministro: l’origine francese, il caso israeliano, il dibattito in Italia, in Quaderni costituzionali, 3, 2000, 579 ss.
[18] Tappa centrale di questo processo, come noto, è stata la Dichiarazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 sulla previsione di uno Stato ebraico. La Risoluzione n. 181 introduce un Partition Plan volto in origine a introdurre entità territoriali distinte in Palestina e, segnatamente, uno stato ebraico, uno stato arabo e un regime territoriale speciale per la città di Gerusalemme. Mentre la Risoluzione venne accettata dai leader ebraici del tempo, la soluzione proposta risultò fortemente invisa alla parte araba, che annunciò un’opposizione, anche militare, allo stato ebraico in via di creazione. Nel maggio 1948, poco prima del termine della giurisdizione britannica sulla Palestina prevista dal Palestine Act, viene proclamata la Dichiarazione sull’indipendenza dello Stato di Israele. Ciò conduce al primo di una serie di conflitti con gli Stati arabi limitrofi. Cfr. S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 10 ss.
[19] J.O. Frosini, Il sistema primo-ministeriale: una quinta forma di governo?, in Quaderni costituzionali, 2, 2010, 297 ss.
[20] Cfr. S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 98 ss.
[21] Favorita anche dalla presenza di partiti religiosi e ultraortodossi.
[22] Cfr. J.O. Frosini, Il sistema primo-ministeriale, cit., 300 ss. Tali difficoltà sembrano aver contribuito, in fasi molto delicate del processo di pacificazione, a complicarne la risoluzione.
[23] Cfr. Cfr. R. Toniatti, Israele: una costituzione a tappe, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2, 1977, 510 ss. e L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, Padova, 2022, 11 ss.
[24] Si veda S. Navot, The Constitution of Israel, cit., ix, la quale riconosce «una storia costituzionale unica di Israele».
[25] Per un’introduzione sulle varie Basic Laws si veda L. Pierdomicini, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni, cit.,53 ss. Le basic law sono considerate dalla Corte suprema israeliana normativamente superiori rispetto alle leggi della Knesset e prevalgono su queste. Il criterio per individuare una Basic Law è prevalentemente “morfologico”: rientrano in tale categoria le leggi qualificate col nomen “Basic Law” dalla Knesset come osserva S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 51 ss.
[26] United Mizrahi Bank v. Migdal Cooperative Village, Israel Supreme Court, 49(4) P.D. 221 (1995). Per un commento si vedano T. Groppi, La Corte Suprema di Israele: la legittimazione della giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in Giurisprudenza costituzionale, 5, 2000, passim e L. Pierdominici, L’evoluzione costituzionale israeliana nella giurisprudenza della Corte suprema, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2, 2012, 301-358.
[27] Così palesando anche la centralità del formante giurisprudenziale nell’evoluzione costituzionale del paese. Cfr. L. Pierdominici, L’evoluzione costituzionale israeliana nella giurisprudenza della Corte suprema, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2, 2012, 2301–358.
[28] Cfr. A. Gutfeld, Y. Rabin, Marbury v. Madison and its Impact on the Israeli Constitutional Law, in University of Miami International & Comparative Law Review, 2, 2007, 304 ss.; L. Pierdomicini, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni, cit., 67.
[29] Cfr. E. Ceccherini, La rilevanza della religione sul formante giurisprudenziale: brevi riflessioni dal punto di vista del diritto comparato, in E. Ceccherini, M. Miraglia (a cura di), “Diritto dei giudici” e sistema delle fonti, Genova, 2022, 151 ss.
[30] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare: l’elezione diretta del primo ministro in Israele, in Rivista italiana di scienza politica, 2, 2002, 239 ss. Ciò anche in considerazione del fatto che la Basic Law: The Knesset del 1958 prevedeva una maggioranza assoluta per la revisione del sistema elettorale. Cfr. F. Clementi, L’elezione, cit., 584.
[31] S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 134 e A. Brichta, Political Reform in Israel: the Quest for a Stable and Effective Government, Brighton, 2001.
[32] Cfr. L. Blum, Lettres sur la réforme gouvernementale (1917-1918), Paris, 1918, M. Duverger, Demain la République, Paris, 1958, M. Duverger, La VIe République et le Régime présidentiel, Paris, 1961. Maurice Duverger, in altre opere, si è anche espresso in termini di «forma semiparlamentare». Tra gli studi recenti sul pensiero di Duverger si vedano A.G. Cuzán, On Duverger and “Laws of Politics, in Political science & politics, 2, 2023, 213–217, S. Ceccanti, La forma di governo parlamentare in trasformazione, Milano, 1997. Sugli aspetti classificatori si vedano inoltre R. Ibrido, La classificazione delle forme di governo europee caratterizzate dalla commistione tra fiducia ed elezione diretta del Capo dello Stato, in Il Filangieri, 2023, 81-120 e F. Clementi, Il Presidente del Consiglio dei ministri: mediatore o decisore?, Bologna, 2023.
[33] M. Duverger, La VIe République, cit., 580 ss.
[34] Non mancano ricostruzioni che qualificano l’esperienza di Israele all’interno della categoria delle forme semi-parlamentari. Cfr. R. Tarchi, Riflessioni in tema di forme di governo a partire dalla dottrina Mauro Volpi, in DPCE Online, 4, 2021, 4259.
[35] Cfr. section 4. Va rilevata anche la coincidenza dell’elettorato attivo, ai sensi della section 6.
[36] Cfr. section 14 della Basic law e, in argomento, E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 589.
[37] Cfr. section 19.
[38] La section 19 prevedeva alcuni limiti all’esercizio di tale facoltà da parte del Premier, ad esempio, in caso di raccomandazione di rimozione del Premier da parte del Knesset Committee in attesa della decisione finale. Cfr. anche M. Harris, G. Doron, Assessing the Electoral Reform of 1992 and Its Impact on the Elections of 1996 and 1999, in Israel Studies, 2, 1999, 16–39.
[39] Circostanza favorita anche dall’origine ebraica di alcuni dei protagonisti della stagione teorica francese come osserva F. Clementi, L’elezione, cit., 583. Si veda anche C. Fusaro, Forma di governo e leadership: l’ipotesi del governo di legislatura con premier elettivo. La strada per Londra che passa da Parigi, in Aa. Vv., Politica e Società. Studi in onore di Luciano Cavalli, Padova, 1997, 551-584.
[40] F. Clementi, L’elezione, cit., passim.
[41] S. Ceccanti, La forma neoparlamentare di governo alla prova della dottrina e della prassi, in Quaderni costituzionali, 1, 2002, 119. L’Autore descrive in particolare il modello israeliano come «anarchia temperata dall’elezione diretta». Si veda anche R.Y. Hazan, Riforma elettorale e sistema partitico in Israele, in Rivista italiana di scienza politica, 2, 1999, 323, secondo cui «Israele, dunque, non è più un sistema parlamentare puro, ma non è diventato né un sistema presidenziale né un sistema semi-presidenziale».
[42] Tra gli altri, S. Galeotti, Alla ricerca della Governabilità, Milano, 1983, G. Pasquino, Come eleggere il Governo, Milano, 1992 e A. Barbera, Una riforma per la Repubblica, Roma, 1991.
[43] Cfr. G. Sartori, Ingegneria Costituzionale Comparata, Bologna, 1995, 129 ss. e E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 249 ss. Come osserva E. Ottolenghi, peraltro, non è detto che l’intervento elettorale debba essere necessariamente di segno maggioritario: «non è molto importante determinare quale sistema elettorale sia migliore per garantire il buon funzionamento dell’elezione diretta. Differenti scenari partitici e diverse società richiederanno diverse
soluzioni elettorali. Ciò che conta è chiarire che accanto al principio ferreo del «governo di legislatura» – cioè, il concetto
dell’aut simul stabunt aut simul cadent – occorre una riforma elettorale che «produca» una maggioranza a sostegno del Premier».
[44] Come previsto dalle sections 3 e 35, secondo quanto osserva anche F. Clementi, L’elezione, cit., 589.
[45] Sono complessivamente 8 i casi di special elections che derogano all’aut simul stabunt aut simul cadent. Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 250.
[46] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 247. Per un inquadramento dell’istituto nel diritto comparato si veda M. Frau, La sfiducia costruttiva, Bari, 2017.
[47] Cfr. R.Y. Hazan, Riforma elettorale e sistema partitico in Israele, in “Rivista italiana di scienza politica, 2, 1999, pp. 319-344 e A. Arian, M. Shamir (eds,) The Elections in Israel 1996, Albany, 1998. S. Pasquetti, La Nuova Forma di Governo israeliana, in Il Politico, 1998, 311-331.
[48] F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 591, S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 134 ss.
[49] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 260 ss.
[50] R.Y. Hazan, Riforma elettorale, cit., 341 ss.
[51] Il riferimento è in particolare a Shas, Yahadut Ha’torah e al Partito religioso nazionale Mafdal.
[52] Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 263, secondo cui Barack, dopo l’estate del 1999, «ha perso prima gli alleati di sinistra perché giudicato troppo disponibile a soddisfare le richieste dei religiosi in materia di pubblica istruzione, poi gli alleati religiosi per essere troppo disponibile a negoziare Gerusalemme coi palestinesi, e infine l’elettorato laico per avere abbandonato ogni progetto di riforma in senso laico per cercare di riconquistarsi alleati religiosi dopo il fallimento di Camp David nel settembre del 2000». Terreno della crisi politica, già in quell’occasione, è stato il processo di pacificazione.
[53] Così ad esempio per R.Y. Hazan, Riforma elettorale, cit., 343.
[54] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 252.
[55] Id., 252.
[56] Le consultazioni elettorali, svolte dopo la seconda intifada, videro una bassa affluenza.
[57] Sharon otteneva un’ampia maggioranza, pari al 63%, alle elezioni del 2001.
[58] F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 592, il quale osserva come una proposta di reintroduzione della Basic Law: the Government 1968 (peraltro già approvata in prima lettura nel 1998 alla XIV Knesset) fosse significativamente sostenuta sia da esponenti della maggioranza sia dell’opposizione, pur con il voto contrario sia di Netanyahu sia di Barak.
[59] G. Rolla, Elementi di diritto costituzionale comparato, Torino, 2018.
[60] Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 265.
[61] Cfr. M. Cavino, L’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Osservatorio costituzionale, 1, 2024, 53 ss., E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., passim, J.O Frosini, Il sistema “primo-ministeriale”, cit., 305 ss., S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., passim, S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 133 ss., F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 590 ss. e G. Sartori, Premierato forte e premierato elettivo, in Rivista italiana di scienza politica, 2, 2003, 289 ss.
[62] Cfr. R.Y. Hazan, Riforma elettorale, cit., 319-344, secondo cui «[i]n altre parole, la riforma elettorale non solo non è stata in grado di fornire una soluzione al problema per la quale era stata concepita, ma l’ha persino aggravato».
[63] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 264 ss.
[64] Cfr. J.O Frosini, Il sistema “primo-ministeriale”, cit., 303 ss.
[65] V. Varano, V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale: testo e materiali per un confronto civil law common law, Torino, 2018.
[66] S. Navot, The Constitution, cit., 49 ss. e la recensione di E. Campelli, in Nomos, 3, 2016, 2 ss. Trattasi di peculiarità che hanno indotto la dottrina a menzionare l’«uniqueness of the Israeli case». Cfr. R.Y. Hazan, Presidential Parliamentarism: Direct Popular Election of the Prime Minister, Israel’s New Electoral and Political System, in Electoral Studies, 1, 1996, 21-37.
[67] Anche considerato che la modifica del sistema proporzionale richiedeva un voto a maggioranza assoluta della Knesset ex art. della Basic Law: The Knesset del 1958. Come osserva F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 584, pertanto, nel sistema israeliano era più semplice un intervento sulla forma di governo piuttosto che sul sistema elettorale.
[68] Tanto che, come osserva E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 250-251, citando Hazan, l’intervento era visto come una vera e propria riforma del sistema politico ed elettorale. Nello stesso senso si veda anche A. Brighta, Political Reform in Israel: the Quest for a Stable and Effective Government, Brighton, 2001.
[69] Nella seduta dei lavori del Senato della Repubblica del 7 maggio 2025, la Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito che il premierato costituisce «la madre di tutte le riforme», ribadendo la centralità della riforma per il programma di governo. Malgrado ciò, l’iter parlamentare del ddl sembra aver subito un netto rallentamento e molte incognite circondano anche la legge elettorale. Da ultimo, in una risposta ad un’interrogazione parlamentare alla Camera dei Deputati nel dicembre 2024, la Ministra Casellati ha ribadito l’intenzione di presentare un nuovo disegno di legge elettorale dopo la conclusione della prima lettura sul relativo al premierato.
[70] Prevedendo che «The Knesset shall be elected in general, national, direct, equal, secret, and proportional elections, in accordance with the Knesset Election Law. This article may not be changed save by a majority of the Knesset Members».
[71] Cfr. M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Roma, 1991, 20 ss., A. Gigliotti, Sui principi costituzionali in materia elettorale, in Rivista AIC, 4, 2014, 3 ss.
[72] Legge 6 maggio 2015, n. 52.
[73] Peraltro, la discontinuità va circoscritta all’ordinamento italiano: deve infatti rilevarsi che, come indicato nel dossier parlamentare relativo al ddl Meloni, vari ordinamenti europei e non solo hanno incluso direttamente nelle proprie costituzioni principi relativi al sistema elettorale, spesso con riguardo alla previsione di formule proporzionali. Cfr. A. Gigliotti, Sui principi costituzionali, cit., 2 ss.
[74] Trattasi del disegno di legge costituzionale presentato nella XVII legislatura dall’allora Presidente del Consiglio dei ministri Renzi e dal Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento Boschi n. 1429 recante «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione».
[75] Sugli argomenti in favore dell’opportunità di lasciare alla legislazione ordinaria la determinazione del sistema elettorale si tornerà infra nelle conclusioni.
[76] La Knesset è composta da 120 deputati eletti per 4 anni con un sistema proporzionale, un collegio unico e una soglia di sbarramento storicamente piuttosto bassa.
[77] Cfr. la relazione di accompagnamento al ddl Meloni.
[78] Nel testo di risulta dell’art. 94 Cost., in base al ddl Meloni come approvato al Senato, «Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia». Secondo l’art. 92, inoltre, «Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente».
[79] Verbatim dall’art. 94 Cost. come modificato dal ddl Meloni «Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia».
[80] Verbatim dall’articolo 92 Cost. come modificato dal ddl Meloni: «In caso di revoca della fiducia mediante mozione motivata, il Presidente del Consiglio eletto rassegna le dimissioni e il Presidente della Repubblica scioglie le Camere». Da notare che, in base al ddl Meloni, il Capo dello Stato non ha più la possibilità di disporre lo scioglimento di una sola delle Camere.
[81] Sempre nel testo dell’art. 92 Cost., come previsto dal ddl Meloni nel testo approvato in Senato, si afferma infatti che «Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura». Il legame è riscontrabile, sempre all’art. 92, anche laddove, in caso di dimissioni, è prevista a talune condizioni la possibilità di attribuire l’incarico di formare il governo proprio a «un altro parlamentare» (cfr. testo A.S. 935 modificato a seguito degli emendamenti governativi e parlamentari), così implicitamente evidenziando l’appartenenza parlamentare del premier eletto. Nel testo approvato al Senato nel giugno 2024 questo secondo elemento di collegamento è stato attenuato. Infatti, la versione approvata in prima lettura al Senato prevede la possibilità di attribuire, per una sola volta l’incarico di formare il governo «a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio», con l’eliminazione di «altro».
[82] Mentre nel caso israeliano occorreva una manifestazione di volontà della Knesset, a seguito degli emendamenti introdotti al ddl Meloni, il Presidente del Consiglio può proporre, oltre che la nomina, anche la revoca dei ministri. Questa rimane però un atto del Presidente della Repubblica.
[83] Nel corso della discussione che ha condotto all’approvazione del testo da parte del Senato nel giugno 2024, è venuto meno un altro elemento che deponevano a favore di questa lettura e cioè il riferimento ad un «altro parlamentare» presente nella formulazione dell’art. 94 Cost. del ddl Meloni, il quale implicitamente deponeva a favore della necessaria qualifica di parlamentare per il Primo ministro. La formulazione approvata al Senato si riferisce solo a «un parlamentare eletto».
[84] D.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235.
[85] Alla quale rinvia la l. Severino.
[86] Non pare sufficiente a ripristinare la pienezza del principio la limitazione della possibilità prevista dall’art. 92 c. 4 volta a consentire l’incarico ad altro parlamentare solo una volta nel corso della legislatura.
[87] R.Y. Hazan, Presidential parliamentarism, cit., passim.
[88] S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 133. Vale la pena notare, di contro, che la relazione illustrativa del ddl Meloni faceva riferimento ad un «Premierato israeliano». Si veda anche S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., 120, secondo cui «Si potrebbe qualificare il sistema israeliano, in analogia con quanto proposto da Maurice Duverger per la Repubblica di Weimar, come «un’anarchia temperata dall’elezione diretta (…) in termini modellistici si può essere incerti tra una collocazione nella forma di governo presidenziale (cui osta però il rapporto fiduciario) ed una nel sottotipo non maggioritario della forma di governo parlamentare (alla quale osta l’elezione diretta)».
[89] Secondo il nuovo testo di risulta dell’art. 92 Cost., infatti, «La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche».
[90] Cfr. pag. 4 della Relazione al ddl A.S. 935.
[91] Va osservato che l’utilizzo del termine “premierato” non appare invalso nell’ambito della dottrina israeliana ma sembra frutto di una rilettura sulla base del dibattito italiano. Sul punto si veda J.O. Frosini, Il sistema “primo-ministeriale”: una quinta forma di governo?, in Quaderni costituzionali, 2, 2010, 300 ss.
[92] Nella specie prevedendo che il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero «e salvo il premio su base nazionale previsto dall’articolo 92».
[93] Malgrado la presenza di fattispecie nelle quali lo scioglimento sembra assumere la connotazione di atto necessitato. Sul punto si veda il contributo di E. Albanesi, op. cit., passim. Viene così in parte modificato quell’«equilibrio del terrore» di cui parla E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., siccome mediato dalla Presenza del Presidente della Repubblica.
[94] Previsioni di questo tipo erano previste anche nella proposta di riforma costituzionale della forma di governo avanzata nel 2006 e rigettata a seguito di referendum, come osserva N. Zanon, Tra diritto parlamentare e limiti alla revisione costituzionale: significato ed effetti delle norme “antiribaltone”, in Rassegna Parlamentare, 3, 2006, 723 ss.
[95] Cfr. R. Toniatti, Una forma di governo parlamentare iperrazionalizzata: la soluzione dell’elezione diretta del primo ministro in Israele, in L. Mezzetti, V. Piergigli (a cura di), Presidenzialismi, Semipresidenzialismi, Parlamentarismi: modelli comparati e riforme istituzionali in Italia, Torino, 1997.
[96] Cfr. M. Volpi, Premierato: una comparazione problematica, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 3, 2024, 757, secondo cui la crisi del sistema israeliano è derivata «da un sistema politico a multipartitismo estremo che nelle tre elezioni ha favorito la crescita dei partiti minori a scapito dei due più grandi».
[97] Viene in mente, in questa prospettiva, il sempre attuale pensiero esposto dal Calamandrei nella seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea Costituente: «La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope». Questo aspetto è stato particolarmente evidente rispetto alla mancata previsione di un divieto del premier dimissionario di ripresentarsi alle successive special elections, come avvenuto nel caso di Barak.
[98] Peraltro, a fronte di pregresse ambiguità rispetto al rafforzamento del ruolo del premier, il quale non poteva, come si è detto, nominare e revocare liberamente i propri ministri.
[99] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 243.
[100] F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 591.
[101] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., passim.
[102] Id., 601. L’autore aggiunge inoltre che «Tutto questo rende la legge fondamentale adottata un efficace catalizzatore delle disfunzioni e dei mali sia del sistema politico-parlamentare sia del sistema istituzionale che, in mancanza di equilibrio nel doppio circuito di legittimazione popolare, si dimostra poco flessibile ed ingessato, al punto tale da rischiare di scatenare conflitti anche interorganici».
[103] Dalle ultime notizie risulta comunque l’intenzione annunciata dal Governo di presentare nell’autunno 2024 un disegno di legge in materia elettorale a completamento della riforma sull’elezione diretta di cui al ddl Meloni. Cfr. F. Fabrizzi, G. Piccirilli (a cura di), Un nuovo Osservatorio per un nuovo tentativo di riforma costituzionale (aggiornamento del 26 giugno 2024).
[104] La volontà di non irrigidire eccessivamente l’ordinamento è stata del resto una delle ragioni per cui anche i Costituenti non optarono – «saggiamente» secondo A. Barbera – per la previsione in Costituzione di un determinato sistema elettorale. Cfr. A. Barbera, La nuova legge elettorale e la forma di governo parlamentare, in Quaderni costituzionali, 3, 2015, 365 e A. Gigliotti, Sui principi costituzionali, cit., 5 ss. Va ricordata al riguardo l’opinione difforme (e favorevole alla costituzionalizzazione della formula proporzionale) di Costantino Mortati. Cfr. Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 7 novembre 1946, Seconda Sottocommissione.
[105] Cfr. Aa. Vv., Costituzione: quale riforma? La proposta del Governo e la possibile alternativa, in Astrid, 2024, 21 ss.
[106] Con riguardo ai rilievi critici in dottrina che richiamano le pronunce nn. 35/2017 e 1/2014 della Corte costituzionale, si veda, tra gli altri, E. Aureli, Premio di maggioranza e vincolo di mandato governativo: rilievi critici ad una prima lettura del ddl. Costituzionale Meloni, in Osservatorio costituzionale, 2, 2024, 1-21. Va peraltro rilevato che, nel corso dell’esame al Senato, è stato eliminato il riferimento al 55% dei seggi previsto nella versione originale del ddl Meloni.
[107] Alcuni autori, di fronte al rischio di doppie maggioranze divergenti e conseguente stallo analogamente a quanto avvenuto in Israele, hanno proposto l’introduzione direttamente in Costituzione di un’elezione a due turni con un ballottaggio. Così, «Con il primo voto si designa la composizione del Parlamento tranne una quota di premio di maggioranza. Con il secondo, in un unico ballottaggio per entrambe le Camere trai primi due leader, si sceglie la premiership, attribuendo il premio nel rispetto della sua ragionevolezza e della giurisprudenza della Corte (…). Con ciò, eviteremmo almeno il rischio-stallo di due maggioranze distinte e distanti». Cfr. F. Clementi, Premierato e Camere disomogenee: rischio stallo se non c’è ballottaggio, in Il Sole 24 ore, 2 luglio 2024.
[108] S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., 120-121. Si veda anche A. Morrone, op. cit., 698 secondo cui «Il punto critico è, soprattutto, la previsione di un dualismo molto problematico tra il premier eletto, da un lato, il governo e il parlamento, dall’altro, realizzato con un mix inedito di presidenzialismo e di parlamentarismo».
[109] Si veda, ancora, Aa. Vv., Costituzione: quale riforma?, cit., 5, ove si afferma che «la riforma produrrebbe un forte indebolimento del ruolo di garanzia e di equilibrio finora assicurato dal Presidente della Repubblica, non solo perché i poteri di risoluzione delle crisi e gli verrebbero sottratti, ma anche perché, in quanto eletto dal Parlamento e non dal popolo, egli disporrebbe di una legittimazione e di un’autorevolezza chiaramente inferiori rispetto a quelle di cui disporrà il Presidente del Consiglio».
[110] Specie in relazione alle diverse maggioranze frequentemente riscontrate tra Camera e Senato.
[111] Va ricordato che, nel caso israeliano, la scelta del premier è di norma ricaduta su uno dei “candidati forti” dei partiti del Likud o del partito laburista, mentre il voto per la Knesset ha avvantaggiato i piccoli partiti con una più specifica caratterizzazione politica. Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., passim.
[112] Cfr. M. Volpi, La forma di governo parlamentare in Italia tra problemi di funzionamento e squilibrio tra poteri, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 1, 2024, 259-267.
[113] Pare condivisibile al riguardo l’opinione di chi, piuttosto che valorizzare il numero ridotto di articoli interessati, qualifica la riforma come un mutamento sostanziale e profondo della forma di governo.
[114] Cfr. pag. 3 della Relazione di accompagnamento al ddl Meloni.
[115] Il dato va contestualizzato in un ordinamento come quello italiano caratterizzato dall’alta astensione, problematica sulla quale non interviene specificamente il ddl Meloni, ritenendo che la possibilità di scegliere il Presidente ridurrà di per sé l’astensione. Non si considera però l’opposto effetto di dissuasione che potrebbe realizzarsi nel caso in cui venissero introdotte limitazioni di tale sorta alla scelta degli elettori sulla base della nuova legge elettorale. Questi ultimi, infatti, potrebbero sì scegliere il proprio presidente del Consiglio ma dovrebbero continuare a rinunciare alle preferenze e alla possibilità del voto disgiunto, così ratificando in sostanza le sole scelte di lista del candidato Premier. Nello stesso senso, si veda M. Volpi, La forma di governo parlamentare in Italia, cit., 261, secondo cui «La legge elettorale vigente con la scelta dall’alto dei parlamentari, imposta dalle liste bloccate, e il divieto del voto disgiunto tra candidato nel collegio uninominale e lista circoscrizionale, entrambe limitative della libertà degli elettori, ha contribuito ad accentuare il forte calo della partecipazione popolare negli ultimi due anni».
[116] Cfr. C. Bassu, L’elezione diretta del Capo del Governo è sufficiente per valorizzare il principio democratico e garantire la stabilità?, in Osservatorio costituzionale, 1, 2024, 5 ss.
[117] Cfr. M. Cartabia, Traccia Audizione – riforma costituzionale. Ddl 830 e ddl 935. Senato, 28 novembre 2023, in www.astridonline.it. Contra, si veda T.E. Frosini, Le ragioni del premierato, in Forum di Quaderni costituzionali, 1, 2024, 64, il quale, pur non entrando nel merito della possibile contrarietà ai principi supremi, vede nel premio lo strumento necessario ad evitare di «ripetere la sfortunata esperienza israeliana, che aveva l’elezione diretta del primo ministro ma con un sistema elettorale proporzionale, che ne decretò la sua fine per instabilità parlamentare».
[118] Cfr. S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., 120-121.
[119] E quindi anche più difficile da rimediare nel caso in cui vengano riscontrate criticità come quelle israeliane.
[120] Sul ruolo del bicameralismo attuale come anomalia italiana che causa alcune delle attuali problematiche di funzionamento della forma di governo si veda E. Albanesi, Teoria e tecnica legislativa nel sistema costituzionale, Napoli, 2019, 107 ss.
[121] Cfr. E. Albanesi, L’elezione diretta del Presidente, cit. Questa lettura pare avvalorata dal riferimento al «premio su base nazionale» presente nel ddl Meloni e richiamato anche dalla relazione di accompagnamento introduttiva e da quella del 24.4.2024 a seguito dell’abbinamento col ddl Renzi.
[122] Sul valore dell’art. 5 Cost. e sulla possibilità di annoverarlo come uno dei principi supremi immodificabili, oltre all’“indizio” rappresentato dalla collocazione tra i principi fondamentali, si veda R. Bifulco, Art. 5, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, La Costituzione commentata, Torino, 2006, secondo cui «l’esame dei lavori dell’Assemblea costituente ha permesso di evidenziare la natura fondamentale, pregiudiziale dell’art. 5 rispetto alla configurazione del profilo della Repubblica italiana». Nello stesso senso E. Albanesi, L’elezione diretta, cit.
[123] Cfr. M. Cavino, L’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Osservatorio costituzionale, 1, 2024, 53 ss.
[124] L. Paladin, Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quaderni cost., 1984, 236 ss.
[125] Sull’incompatibilità del premio su base nazionale all’art. 57 Cost. si veda anche C. Fusaro, M. Rubechi, Art. 57, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, La Costituzione commentata, cit., 9.
[126] Si veda al riguardo G. Rivosecchi, Art. 5, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana, Bologna, 2021, secondo cui le disposizioni ricavabili dall’art. 5 Cost. «esprimono una capacità ordinante nei confronti dell’organizzazione e delle funzioni dello Stato» e «il principio autonomistico, stante la comune derivazione di tutti gli enti territoriali dal principio democratico e dalla sovranità popolare (C.cost. 106/2002), costituisce limite alla revisione costituzionale (ad esempio: Pubusa 1983, 178), esprimendo l’art. 139 cost. una nozione di Repubblica che deve conformarsi ai principi fondamentali della Carta».
[127] Sul punto si veda il par. 5.4 del contributo di E. Albanesi, L’elezione diretta, cit.
[128] Come noto, in base a tale legge elettorale, il premio di maggioranza per il Senato era assegnato su base regionale: la coalizione che otteneva più voti in una regione otteneva il premio corrispondente ai seggi disponibili per la medesima regione, che variava tra le diverse regioni in base alla popolazione. Cfr. AA. Vv., Costituzione: quale riforma?, cit., 56 ss. Va ricordato che, anche all’epoca dell’approvazione di tale legge elettorale, l’originaria intenzione di prevedere un premio su base nazionale al Senato venne successivamente accantonata.
[129] Peraltro in due diversi articoli: il nuovo art. 57 Cost. e il nuovo art. 92 Cost.
[130] Il rischio di frammentazione derivante dall’applicazione di molteplici premi su base regionale pare anche accentuato dalle caratteristiche del radicamento territoriale di alcuni partiti italiani, tradizionalmente in grado di canalizzare forti consensi in certe aree del Paese ma non a livello nazionale.
[131] Ciò è accaduto ad esempio ad esito delle elezioni politiche del 2013, quando la coalizione guidata dal Partito Democratico, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera in virtù dell’applicazione del premio di maggioranza su base nazionale, non è riuscita a formare un governo in quanto priva di una netta maggioranza al Senato. Per un confronto, alle stesse elezioni tale coalizione ottenne 344 seggi alla Camera contro i 124 della coalizione di centro destra, ma solo 123 al Senato, contro i 117 della stessa coalizione. Un problema che avrebbe anche il Presidente del Consiglio eletto che, come previsto dal ddl Meloni, deve avere la fiducia di entrambe le Camere.
[132] Direzione apparentemente assunta in base all’attuale proposta e alle considerazioni esposte nella relazione di accompagnamento.
[133] Va riportata, per completezza, l’opinione di C. Fusaro, M. Rubechi, Art. 57, cit., secondo cui « Non è proprio scontato, tuttavia, che il premio sarebbe illegittimo: se la Costituzione impone il doppio rapporto fiduciario e se si interpreta la «base regionale» restrittivamente (come è del resto quasi sempre avvenuto), seggi aggiuntivi che siano poi assegnati a candidati regionali in relazione ai voti conseguiti nelle singole regioni dovrebbero risultare compatibili con essa». In questa prospettiva, potrebbe residuare, secondo tale opinione, un margine di compatibilità di un premio su base nazionale a Senato ma resterebbe il rischio per il legislatore di incorrere in nuove pronunce di incostituzionalità da parte della Consulta. Rischi che, in allora, avevano condotto il legislatore del 2005 ad accantonare l’ipotesi di un premio su base nazionale per il Senato.
[134] Il tema si ricollega anche alla questione delle schede sopra trattata. Già con il Porcellum, nonostante la previsione del premio di maggioranza, venivano consegnate all’elettore due diverse schede, una per il Senato, una per la Camera. L’ipotesi più semplice sarebbe, anche in questo caso, quella di mantenere due schede distinte per Camera e Senato oltre alla terza scheda per l’indicazione del Presidente del Consiglio. Ma in questo caso, come sopra esposto, per evitare l’esperienza israeliana e i disastrosi effetti di voti diversi degli elettori tra Camera, Senato e Presidente, sarebbe necessario riproporre forti limitazioni alla scelta del corpo elettorale quali il divieto di voto disgiunto. Neppure tali limitazioni, peraltro, erano valse a scongiurare i problemi di governabilità nel caso del Porcellum ed avevano condotto alle censure della sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.
[135] In Israele, peraltro, lo scioglimento delle Camere veniva disposto dal Premier mentre nel ddl Meloni resta formalmente in capo al Presidente della Repubblica.
[136] Cfr. A. Ruggeri, Il premierato secondo il disegno Meloni: una riforma che non ha né capo né coda e che fa correre non lievi rischi, Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023.
[137] La presenza di un premio di maggioranza significativo avrebbe infatti conseguenze non trascurabili rispetto all’elezione del Presidente della Repubblica ma anche su quella dei cinque giudici costituzionale e dei componenti laici del CSM eletti dal Parlamento in seduta comune.
[138] Specie considerata la necessità di un’attribuzione di fiducia palese da parte delle Camere al Premier eletto prevista dal ddl Meloni.
[139] V. supra il par. 3.
[140] Cfr. art. 94 Cost. nel ddl Meloni. Questa possibilità, peraltro, apre ad un possibile utilizzo per fini di convenienza politica dell’istituto delle dimissioni, già sperimentato in Israele (con esiti infausti).
[141] Si veda anche, tra i sostenitori del premierato, T.E. Frosini, Le ragioni del premierato, cit., 65, il quale è a propria volta critico sulla norma c.d. antiribaltone, rispetto alla quale «si può evidenziare una certa incoerenza con l’elezione diretta».