ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Imparzialità e ragionevolezza delle leggi-provvedimento. Il caso del Teatro Eliseo (nota a Cons. di Stato, sez. IV, ord. 21 dicembre 2020, n. 8191)
di Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda processuale – 2. La disciplina dell’intervento pubblico nel settore teatrale ed il contributo extra-FUS al Teatro Eliseo – 3. La legge-provvedimento: legittimità e limiti nella giurisprudenza costituzionale – 3.1. I profili di incostituzionalità dell’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 – 4. Una considerazione conclusiva
1. Inquadramento della vicenda processuale
Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato affronta la complessa vicenda innescata dalla erogazione di fondi statali straordinari in favore del Teatro Eliseo di Roma. Tale contributo straordinario è stato, infatti, istituito – al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti per l’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore teatrale – direttamente dalla legge, con l’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 (convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017), al dichiarato fine di garantire la continuità delle attività del Teatro Eliseo in occasione del centenario della sua fondazione. Un successivo decreto del Ministero dell’economia e delle finanze ha, poi, autorizzato la spesa di 4 milioni di euro[1] per ciascuno degli anni 2017 e 2018, istituendo uno specifico capitolo di spesa nello stato di previsione del Ministero dei beni e delle attività culturali.
Avverso tale provvedimento, alcune società titolari della gestione di altri enti teatrali nella stessa città di Roma, hanno proposto ricorso dinnanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, lamentando che la concessione ad un solo teatro di un contributo di tal genere – evidentemente straordinario ed aggiuntivo rispetto a quelli già concessi in virtù della disciplina generale, compendiata nella legge n. 163 del 30 aprile 1985 e, ratione temporis, nel D.M. 1° luglio 2014 – avrebbe alterato la concorrenza e la parità di trattamento nella distribuzione delle risorse pubbliche disponibili. Dopo una pronuncia di inammissibilità da parte del Tribunale amministrativo regionale[2], in sede di appello il Consiglio di Stato ha invece ritenuto il ricorso ricevibile ed ammissibile e – segnalando la natura di legge-provvedimento della disposizione legislativa di cui all’art. 22, comma 8, del d.l. n. 50 del 2017 – con l’ordinanza annotata ne ha sollevato la possibile illegittimità costituzionale, in relazione alla violazione degli articoli 3, 9, 33, 41 e 97 della Costituzione: «[è] rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 22, comma 8, d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 21 giugno 2017, in relazione agli artt. 3, 9, 33, 41 e 97 Cost. nella parte in cui introduce un contributo straordinario in favore del teatro Eliseo al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti ai fini dell’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore del teatro e dello spettacolo dal vivo».
La pronuncia appare particolarmente interessante poiché, dopo aver operato una ricostruzione della normativa in materia di intervento pubblico nel settore dello spettacolo dal vivo, si sofferma efficacemente sulla controversa categoria delle leggi-provvedimento, inquadrandone i caratteri principali e ripercorrendo i principali arresti della giurisprudenza costituzionale in materia.
2. La disciplina dell’intervento pubblico nel settore teatrale
La disciplina dell’intervento pubblico nel settore teatrale e dello spettacolo dal vivo si fonda essenzialmente sullo stanziamento di fondi pluriennali da parte dello Stato, cui i soggetti interessati possono accedere partecipando a specifiche procedure che si svolgono su base comparativa. Il fulcro del sistema è costituito dal Fondo unico per lo spettacolo (FUS), istituito dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, “Nuova disciplina degli interventi a favore dello spettacolo”, con il duplice scopo di riordinare gli interventi finanziari a favore dell’intero settore dello spettacolo e di conferire agli stessi una disciplina unitaria. L’importo complessivo del FUS è allocato su differenti capitoli – sia di parte corrente che di conto capitale – dello stato di previsione del Ministero della Cultura.
La destinazione del FUS ai diversi settori che rientrano nella nozione di “spettacolo” (attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante ed iniziative di carattere e rilevanza nazionali da svolgersi in Italia o all’estero) viene effettuata secondo una ripartizione percentuale, originariamente stabilita in quote minime dalla stessa legge n. 163/1985. Dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che – com’è noto – ha attribuito alla competenza concorrente Stato-Regioni la promozione e l'organizzazione delle attività culturali (fra le quali è ricompreso lo spettacolo dal vivo[3]), l'art. 1 del D.l. 18 febbraio 2003, n. 24 (convertito in legge n. 82/2003), ha stabilito che i criteri e le modalità di erogazione dei contributi e le quote percentuali di ripartizione del FUS siano annualmente individuati con uno specifico decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo (oggi Ministro della Cultura) non avente natura regolamentare, adottato d’intesa con la Conferenza unificata[4].
I criteri e le modalità di erogazione dei contributi nell'ambito di ciascun settore sono stati, invece, più di recente ridefiniti dal D.l. 8 agosto 2013, n. 91 (convertito, con modificazioni dalla legge 7 aprile 2013, n. 112), recante «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo». In particolare, per tutti i settori dello spettacolo dal vivo (diversi da quello relativo alle fondazioni lirico-sinfoniche, per le quali è prevista una specifica disciplina), l'art. 9, comma 1, del D.l. n. 91/2013 ha previsto che i criteri di assegnazione dei contributi devono tener conto dell'importanza culturale della produzione svolta, dei livelli quantitativi, degli indici di affluenza del pubblico, nonché della regolarità gestionale dei relativi organismi.
A seguito della riforma del 2013, è intervenuto il D.M. 1° luglio 2014 – oggi superato, ma vigente ratione temporiscon riferimento alla vicenda oggetto dell’ordinanza annotata[5] – che ha definito, per la prima volta, criteri generali comuni a tutti i settori, introducendo la programmazione triennale delle attività ammesse al finanziamento, ferma restando la corresponsione annuale del contributo[6]. L’art. 46, comma 2 del medesimo decreto, ha previsto inoltre che, su esclusiva iniziativa del Ministro e sentite le Commissioni consultive competenti per materia, potessero essere finanziati anche progetti speciali, a carattere tanto annuale, quanto triennale.
In ogni caso, ai fini della valutazione comparativa delle domande (presentate da teatri nazionali, teatri di rilevante interesse culturale, imprese di produzione teatrale e centri di produzione teatrale), il D.M. disponeva l’attribuzione ai relativi progetti e programmi di un punteggio numerico massimo di cento punti, sulla base di tre parametri: la qualità artistica, per un massimo di trenta punti, attribuiti dalla Commissione consultiva competente attraverso la valutazione discrezionale di alcuni parametri; la qualità indicizzata, per un massimo di trenta punti, attribuiti dall’Amministrazione su base oggettiva, attraverso la valorizzazione di indicatori per la misurazione di specifici fenomeni individuati dal Decreto; la dimensione quantitativa (input/output/risultati), per un massimo di quaranta punti, attribuiti in maniera automatica, secondo una formula di calcolo prevista dallo stesso Decreto.
Si tratta, dunque, di un sistema “misto”, in parte discrezionale ed in parte legato a valutazione tecniche e vincolate, alla luce del quale i fondi disponibili vengono ripartiti in misura proporzionale al punteggio ottenuto in centesimi (che non può, ai fini dell’inserimento in graduatoria, essere inferiore a trenta). All’Amministrazione è sempre riconosciuto un potere-dovere di controllo (art. 7 D.M. 1° luglio 2014), anche successivo, al fine di accertare la permanente regolarità degli atti riguardanti l’attività sovvenzionata e dei relativi requisiti ed a seguito del quale possono verificarsi ipotesi di decadenza o revoca del contributo erogato (art. 8).
Alla luce della normativa generale, qui richiamata, al teatro Eliseo erano stati corrisposti sia contributi “ordinari” quale teatro di rilevante interesse culturale (ai sensi dell’art. 11 del D.M. 1° luglio 2014), sia contributi per progetti speciali (ai sensi dell’art. 46, comma 2, dello stesso D.M.), pari – rispettivamente – ad € 481.151 per il 2015 e ad € 514.831 per il 2016, nonché un ulteriore somma di € 250.000 per la realizzazione del progetto speciale “Generazioni”, sempre nel 2016.
In tale contesto si colloca l’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017) che – come sopra anticipato – ha istituito un ulteriore contributo straordinario in favore del Teatro Eliseo, «per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità della sua attività in occasione del centenario della sua fondazione». Tale disposizione ha, evidentemente, natura di legge-provvedimento, poiché riguarda un solo destinatario, specificamente individuato e qualificato e presenta un contenuto particolare e concreto, rappresentato dall’erogazione di un contributo economico preventivamente quantificato e collocato nei capitoli di spesa nello stato di previsione del Ministero della Cultura, già responsabile dei finanziamenti ordinari.
Prima di analizzare più nello specifico i profili di illegittimità costituzionale che, a secondo la ricostruzione dell’ordinanza annotata, emergerebbero dalla disposizione in questione, è opportuno soffermarsi sulla figura generale della legge provvedimento, inquadrandone i tratti distintivi elaborati dalla dottrina e ripercorrendo le coordinate ermeneutiche nel tempo fornite dalla giurisprudenza costituzionale e richiamate dai giudici di Palazzo Spada.
3. La legge-provvedimento: legittimità e limiti nella giurisprudenza costituzionale
Com’è noto, la caratteristica principale della legge-provvedimento è rappresentata dalla capacità del dettato legislativo di incidere in via diretta sulle situazioni giuridiche soggettive dei suoi destinatari, con effetti concreti e puntuali, intervenendo su un campo ordinariamente assegnato all’autorità amministrativa[7]. Della legge essa mantiene, dunque, esclusivamente la dimensione “formale”, ovvero il procedimento genetico e l’aspetto esteriore, mentre la peculiare configurazione degli effetti prodotti, equivalenti a quelli provvedimentali, la riconduce – sul piano pratico – alle misure propriamente amministrative. Come ampiamente rilevato in dottrina[8], nella legge-provvedimento emerge una sorta di anomalia genetica che, unificando una qualificazione relativa all’efficacia della decisione pubblica (la legge) ed una che si riferisce al contenuto (provvedimento) «vale ad alterare il sistema delle fonti normative»[9].
La legittimità di tali atti legislativi è stata più volte scrutinata dalla Corte Costituzionale, che ne ha però escluso l’astratta incostituzionalità rispetto all’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione[10]. L’assenza in Costituzione di una esplicita “riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non consentirebbe, infatti, di considerare preclusa la possibilità che la legge ordinaria attragga nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’azione amministrativa[11].
L’ordinanza in commento si sofferma ampiamente sulla giurisprudenza costituzionale in materia, evidenziando come – secondo la Consulta – il sistema di garanzia dei diritti individuali, “colpito” dalla legge-provvedimento, sarebbe comunque assicurato dalla “sostituzione” della giurisdizione costituzionale a quella amministrativa[12]. D’altro canto, la Corte prevede l’attuazione di uno scrutinio particolarmente stringente sulla ragionevolezza della disposizione, con un riferimento “rafforzato” alle regole ed ai principi – di uguaglianza, parità di trattamento, imparzialità e buon andamento – che ordinariamente presiedono all’attività amministrativa[13].
Corollario di tale ricostruzione concettuale è, dunque, la valorizzazione della pregnanza del sindacato costituzionale di ragionevolezza della legge, sino al punto da renderlo (o, almeno, di tentare di renderlo) incisivo al pari a di quello giurisdizionale sull’eccesso di potere. In tal modo, la Corte intende riconoscere al privato – seppure nella forma indiretta della rimessione della questione alla Consulta da parte del Giudice amministrativo – una forma di protezione ed un’occasione di difesa pari a quella offerta dal sindacato giurisdizionale degli atti amministrativi[14]. Il riconoscimento in capo al legislatore di un ambito di azione che si spinga sino a ricomprendere misure puntuali e concrete viene, dunque, bilanciato attraverso la piena sottoposizione del relativo potere di apprezzamento al vaglio di costituzionalità, sotto il profilo della non arbitrarietà e della ragionevolezza delle scelte compiute: sindacato tanto più rigoroso quanto più marcata appaia la natura provvedimentale dell’atto sottoposto a controllo. Resta, tuttavia, il fatto che lo strict scrutiny compiuto dalla Corte in tali circostanze, pur implicando in astratto l’estensione delle valutazioni del Giudice costituzionale, non può in nessun caso essere parificato al sindacato – ben più pregnante – del Giudice amministrativo[15]. Solo in rari casi, peraltro, la Consulta ha operato un controllo realmente penetrante sulle ragioni che hanno giustificato la deroga ai normali rapporti tra disporre e provvedere, tali da legittimare l’esistenza di una legge in luogo di un provvedimento. Secondo condivisibile dottrina, l’impressione che si ricava è che «la Corte non si inoltri nella ricerca dell’elemento teleologico che sorregge la sostituzione della legge al provvedimento ma si limiti a procedere all’ordinaria verifica della ragionevolezza della disciplina con riguardo al caso concreto»[16].
Per quel che più interessa il caso oggetto della pronuncia, l’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 viene correttamente ricondotto dal Giudice amministrativo nella categoria delle leggi-provvedimento c.d. “innovative”. Si tratta di disposizioni normative caratterizzate da personalità ed eccezionalità che, con riferimento a singoli soggetti e a specifici rapporti, derogano al diritto comune ed incidono in via diretta sul principio di eguaglianza[17]. Il contributo concesso al Teatro Eliseo ha imposto, infatti, all’amministrazione un obbligo di esecuzione ben definito in tutti i suoi elementi costitutivi, privando quest’ultima di qualsivoglia discrezionalità nell’applicazione della norma. In questi casi, come pure il Consiglio di Stato puntualmente rileva, l’unica possibilità di tutela per il cittadino è quella di impugnare gli atti applicativi della legge-provvedimento, seppure di contenuto vincolato, deducendone l’incostituzionalità[18].
3.1. I profili di incostituzionalità dell’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017
Alla luce delle coordinate ermeneutiche della Corte costituzionale, i Giudici di Palazzo Spada rilevano – innanzitutto – il possibile contrasto dell’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 con l’art. 3 della Costituzione.
La finalità enunciata dalla norma, come sopra ricordato, è quella di contribuire alle spese affrontate dal Teatro Eliseo in occasione del suo centenario di attività, attraverso l’erogazione di uno stanziamento straordinario che si discosta dalle regole generali di assegnazione dei fondi statali agli enti teatrali. Sul punto, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza annotata, rileva che tale previsione determinerebbe una ingiustificata discriminazione nei confronti degli altri teatri operanti nella medesima area geografica e con riferimento al medesimo bacino di utenti, in quanto soggetti titolari di un equivalente interesse al sostegno pubblico. Secondo il consolidato orientamento della Corte costituzionale, infatti, «[i]l principio di uguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni»[19], poiché «l’art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni irragionevoli»[20]. Di conseguenza, «quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso»[21], si verifica una palese violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Orbene, nel caso di specie – ad avviso del Giudice amministrativo – non emergerebbero né un particolare interesse pubblico alla elargizione del contributo straordinario al solo Teatro Eliseo[22], né tantomeno specifiche ragioni atte a giustificare una differenziazione del teatro beneficiario rispetto alle situazioni giuridiche soggettive dei teatri appellanti. Specularmente, la particolare importanza storico-artistica del teatro beneficiario, pure sostenuta dalle amministrazioni appellate, non troverebbe riscontro in dati concreti ed intellegibili e neppure se ne rinverrebbe traccia nei lavori preparatori alla legge.
Dall’alterazione degli equilibri nella distribuzione delle risorse pubbliche (garantiti dal sistema comparativo previsto dalla normativa ordinaria e derogati dalla legge-provvedimento), il Consiglio di Stato fa discende anche la possibile violazione degli artt. 9 e 33 della Carta costituzionale, posti a tutela dello sviluppo della cultura e della libertà dell’espressione artistica, valori rispetto ai quali risulta centrale la parità di accesso ai benefici disponibili.
Particolarmente interessante appare, poi, l’argomentazione relativa alla violazione dell’art. 97 Cost., in relazione ai principi di buon andamento ed imparzialità. Osserva, sul punto, il Consiglio di Stato – richiamando una recente pronuncia della stessa Corte costituzionale[23] – che in materia di leggi-provvedimento il procedimento amministrativo rappresenta il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto è «nella sede procedimentale (…) che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela». In altre parole, se la legge-provvedimento, per la stessa conformazione che il legislatore ha inteso darle, presenta i tratti e gli effetti di un atto provvedimentale, ne consegue la necessaria applicazione delle garanzie tipiche del procedimento amministrativo, unico luogo che rende possibile l’emersione e la ponderazione degli interessi meritevoli di tutela, nonché la trasparenza dei processi decisionali, l’imparzialità delle scelte ed il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, del pubblico interesse.
Per tali ragioni, la previsione generale contenuta nell’art. 12 della l. n. 241/1990 deve essere considerata, in tali casi, quale norma interposta rispetto all’attuazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, “proiettando” sull’iter formativo della legge-provvedimento il necessario rispetto dei principi vigenti in materia di distribuzione delle risorse pubbliche, secondo i quali – com’è noto – è sempre necessario che i criteri e le modalità per l’attribuzione di vantaggi economici siano predeterminati, al fine di evitare ingiustificate discriminazioni e garantire la trasparenza dell’azione amministrativa[24].
Evidenzia, dunque, il Consiglio di Stato che l’erogazione straordinaria in favore del Teatro Eliseo, operata in assenza di qualsiasi progettualità o valutazione comparativa, si concretizzerebbe in un contributo privilegiato volto a far prevalere l’interesse di uno rispetto a quelli, parimenti meritevoli di tutela, degli altri soggetti esclusi ed «a discapito, quindi, dell’interesse generale».
L’ultimo profilo di incostituzionalità, rilevato dall’ordinanza in commento, riguarda l’art. 41 della Costituzione e s’incardina, dunque, sull’alterazione del meccanismo concorrenziale nel settore teatrale. L’erogazione in denaro conferirebbe, infatti, all’impresa che ne beneficia la possibilità di coprire costi ulteriori e di adottare, dunque, prezzi di mercato più competitivi, a discapito degli altri operatori concorrenti. Non emergerebbe, d’altro canto, alcun elemento idoneo a connotare l’infungibilità o la peculiarità dei servizi offerti dal teatro beneficiario, né tantomeno verrebbero in rilievo altre ragioni che – in un’ottica di bilanciamento – «potrebbero giustificare la deroga al valore costituzionalmente rilevante della libertà di concorrenza».
4. Una considerazione conclusiva
Nell’ultimo ventennio quote crescenti della messa in opera delle politiche pubbliche sono progressivamente passate nelle mani di attori diversi dall’amministrazione. La legislazione prevalente si è mossa, infatti, principalmente in due direzioni: o prevedendo norme dettagliate ed autoapplicative (come nel caso delle leggi-provvedimento), ovvero operando una sorta di “banalizzazione” della pubblica amministrazione, riducendone al minimo il potere decisionale ed accrescendo parallelamente gli oneri formali. Una regolamentazione assorbita soltanto nella forma perde la sua connotazione assiologica, poiché vengono meno i processi di verifica procedimentale con il corpo sociale e con gli interessi che esso esprime. Si delinea, in sostanza, un vero e proprio paradosso, che la dottrina ha sintetizzato come «l’illusione di amministrare senza amministrazione»[25].
In conclusione, l’effetto della legificazione sul terreno amministrativo, seppur astrattamente compatibile con il sistema costituzionale, finisce per avere conseguenze pratiche spesso controverse: la discrezionalità amministrativa non esercitata apre un vuoto enorme nell’amministrazione della cosa pubblica e determina il trasferimento di valutazioni e controlli in sedi atipiche, con il risultato «di giudizi sommari, (…) di confuse sovrapposizioni e serie disfunzioni»[26].
* Ricercatore di Diritto Amministrativo, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
[1] L’entità del contributo, inizialmente ridotta dall’articolo 4, comma 3, della legge 22 novembre 2017, n. 175, – (che, nel disporre un finanziamento di 4 milioni di euro in favore di “attività culturali nei territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto 2016”, aveva rintracciato la relativa copertura finanziaria proprio nella corrispondente riduzione, per l’anno 2018, dell’autorizzazione di spesa in favore del Teatro Eliseo) – era stata poi raddoppiata per l’anno 2018 dalla Legge di Bilancio.
[2] Cfr., T.A.R. Lazio, sez. II, 6 marzo 2019, n. 3028, in www.giustizia-amministrativa.it, che dichiara inammissibile il ricorso in quanto diretto contro un atto – il decreto ministeriale del 3 agosto 2017 – non idoneo a concretizzare la portata lesiva della legge.
[3] Cfr., Corte Cost., sent. n. 255/2004.
[4] Lo ha stabilito la l. n. 239/2005, a norma della quale i decreti possono, però, essere comunque adottati qualora l'intesa non sia stata raggiunta entro 60 giorni dalla trasmissione del testo alla Conferenza unificata. Con la già citata sentenza n. 255/2004, la Corte costituzionale aveva evidenziato la ineludibile necessità di una riforma profonda della disciplina del finanziamento allo spettacolo dal vivo, che smorzasse l’eccessivo accentramento statale nella procedura di ripartizione del FUS, coerentemente con la mutata disciplina costituzionale discendente dal nuovo titolo V della Costituzione. La Corte aveva sottolineato, in particolare, che «per i profili per i quali occorra necessariamente una considerazione complessiva a livello nazionale dei fenomeni e delle iniziative (…) dovranno essere elaborate procedure che continuino a svilupparsi a livello nazionale, con l'attribuzione sostanziale di poteri deliberativi alle Regioni od eventualmente riservandole allo stesso Stato, seppur attraverso modalità caratterizzate dalla leale collaborazione con le Regioni».
[5] Attualmente i criteri di ripartizione del FUS sono disciplinati dal D.M. n. 332 del 27 luglio 2017, che ha abrogato, a partire dal 1° gennaio 2018, il Decreto del 2014 e le sue modifiche e integrazioni, fatte salve le disposizioni relative alla presentazione della documentazione consuntiva relativa all’erogazione dei contributi assegnati nel triennio 2015-2017 e comunque fino alla chiusura dei relativi procedimenti amministrativi. La nuova disciplina non si discosta significativamente da quella prevista dal Decreto del 2014. Di recente, a seguito della sospensione delle attività di spettacolo resasi necessaria per far fronte all'emergenza sanitaria da Covid-19, il D.l. n. 34/2020 ha individuato criteri specifici per l'attribuzione delle risorse del FUS nel periodo 2020-2022, in deroga alla disciplina generale.
[6] Il D.M. 1° luglio 2014 era stato, invero, dichiarato illegittimo dal TAR Lazio, con sentenza n. 7479 del 28 giugno 2016. Secondo il Giudice amministrativo, l’Amministrazione aveva, infatti, posto in essere una vera e propria riforma del sistema del finanziamento dello spettacolo, ponendo in essere un vero e proprio regolamento ed eludendo le disposizioni di cui all’art. 17 della l. n. 400/1988. Successivamente alla sentenza, l’art. 24, comma 3-sexies, del d.l. n. 113/2016, ha ribadito la natura non regolamentare del decreto ministeriale previsto dall’art. 9del d.l. n. 91/2013 (in virtù del quale era stato emanato il D.M. 1° luglio 2014), chiarendo che le regole tecniche di riparto ivi previste sono basate sull’esame comparativo di appositi programmi di attività pluriennale presentati dagli enti dello spettacolo e possono definire apposite categorie tipologiche dei soggetti ammessi alla presentazione della domanda per ciascuno dei settori di attività. Con sentenza n. 5035 del 30 novembre 2016, il Consiglio di Stato ha poi riformato la sentenza del T.A.R. del Lazio, confermando la natura non regolamentare del DM 1° luglio 2014 e ritenendo l'art. 24, co. 3-sexies, del D.L. 113/2016 norma di interpretazione autentica non innovativa.
[7] Secondo la giurisprudenza costituzionale, sono leggi provvedimento quelle che: «contengono disposizioni dirette a destinatari determinati» (sentenze n. 154/2013, n. 137/2009 e n. 2/1997) ovvero «incidono su un numero determinato e limitato di destinatari» (sentenza n. 94/2009), che hanno «contenuto particolare e concreto» (sentenze n. 20/2012, n. 270/2010, n. 137/2009, n. 241 2008, n. 267/2007 e n. 2/1997) «anche in quanto ispirate da particolari esigenze» (sentenze n. 270/2010 e n. 429/2009) e che comportano l’attrazione alla sfera legislativa «della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa» (sentenze n. 94/2009 e n. 241/2008).
[8] Per un inquadramento generale del tema in dottrina, si rinvia a: F. Cammeo, Della manifestazione di volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V.E. Orlando, Milano, 1907, III, 94; C. Mortati, Le leggi provvedimento, Milano, 1969; R. Dickman, La legge in luogo di provvedimento, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, 915 ss.; G.U. Rescigno, Leggi-provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi-provvedimento costituzionalmente illegittime, in Dir. Pub., 3/2007, 319 ss. Più di recente: A. Sarandrea, Legge-provvedimento, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Milano, 2006, 3430 ss.; S. Spuntarelli, L’amministrazione per legge, Milano, 2007, passim, che affronta ampiamente il problema della “amministrativizzazione” della legge formale come risposta alle nuove esigenze dello Stato sociale.
[9] In tal senso, L. R. Perfetti, Legge-provvedimento, emergenza e giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 3/2019, 1021 ss.
[10] L’art. 70 della Costituzione esprime una concezione di legge intesa in senso formale: la legge è tale non perché generale ed astratta, ma in quanto adottata all’esito del procedimento legislativo previsto dalla Costituzione. In tal senso: A. M. Sandulli, voce Legge (diritto costituzionale), in Noviss. Dig. It., IX, Torino, 1963, 630 ss.
[11] Tale orientamento si è consolidato a partire dalle decisioni n. 50 e 60 del 1957 ed è stato poi confermato dalla sentenza 21 luglio 1995, n. 347, in Giur. cost., 1995, 2608; Id., 16 febbraio 1993, n. 62, in Giur. cost., 1993, 446; Id., 21 marzo 1989, n. 143 in Giur it., 1989, I, 1, c. 1601. Tra le pronunce più recenti, si segnalano: Corte cost., n. 275/2013, n. 64/2014, n. 231/2014 e, da ultimo, le pronunce n. 181/2019 e n. 116/2020. Per un’analisi storica delle linee evolutive di questa giurisprudenza, nonché per un approfondimento sul concetto di “riserva di amministrazione”, si rinvia a D. Vaiano, La riserva di funzione amministrativa, Giuffrè, Milano, 1996, in part. 56 ss. Certo è che sull’argomento la Corte mantiene da tempo un atteggiamento non pienamente definito. Con sempre maggior frequenza, infatti, la Consulta annulla leggi-provvedimento mediante argomentazioni che sottintendono l’esistenza di una riserva di amministrazione, senza mai però esplicitare la costituzionalità di un tale principio. Esempio ne è la sentenza n. 258 del 2019 che, nel dichiarare illegittima la legge-provvedimento regionale che disciplinava un ambito di materia riservato dalla legge statale ad un provvedimento amministrativo, la Corte costituzionale ha sostenuto a chiare lettere l’esistenza di una «implicita riserva di amministrazione». Cfr., P. Scarlatti, Aggiornamenti in tema di limiti alle leggi-provvedimento regionali: luci e ombre della sentenza n. 28 del 2019 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1, 2019, 360 ss.
[12] Sul punto, si veda in particolare: Corte cost., 10 ottobre 2014, n. 231.
[13] Sul tema, si veda anche il recente commento di S. Spuntarelli, L’illegittimità costituzionale della legge-provvedimento e la “riserva” di procedimento amministrativo (Nota a Corte Costituzionale n.116/2020), in questa Rivista, 2020.
[14] Cfr., Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 ottobre 2004, n. 6727, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Cfr., R. Manfrellotti, Qualche ombra sull’effettività della tutela giurisdizionale avverso le leggi provvedimento, in Giur. cost., 5, 2019, 3740 ss.
[16] Cfr., A. Cardone, Nuovi sviluppi (rectius, ritorni al passato) sulle aree regionali protette in tema di riparto di giurisdizione tra corte costituzionale e giudice ammnistrativo, in Le Regioni, 2008; Id., Le leggi-provvedimento e le leggi autoapplicative, in L’accesso alla giustizia costituzionale: caratteri, limiti, prospettive di un modello, a cura di R. Romboli, Napoli, 2006, spec. 385.
[17] Sul pericolo di violazione del principio di uguaglianza insito in queste previsioni di natura derogatoria, si veda Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, relativa alle norme concernenti la bonifica della ex Italsider di Bagnoli e dell'ILVA di Taranto. Diverso è il caso delle leggi-provvedimento rivolte a dare applicazione concreta ad altre disposizioni normative, che incidono, invece, sulla separazione dei poteri, sottraendo alla cognizione del giudice l’applicazione della legge. Per un approfondimento sulla distinzione, si rinvia a G.U. Rescigno, Leggi-provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi-provvedimento costituzionalmente illegittime, cit.
[18] Sul punto, si segnala anche la recente pronuncia della Quarta Sezione del Consiglio di Stato che, rimarcando la consolidata giurisprudenza amministrativa in materia, ha escluso l’impugnabilità diretta della legge-provvedimento dinanzi al giudice amministrativo, «dovendo il giudizio di costituzionalità conservare il proprio carattere incidentale, e quindi muovere pur sempre dall’impugnazione di un atto amministrativo (sulla cui qualificazione in termini di lesività e impugnabilità, a sua volta la giurisprudenza amministrativa adotta un approccio peculiare rispetto ai comuni principi proprio in quanto trattasi di atti direttamente applicativi di una legge- provvedimento, v. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2008, n. 4933)». È, dunque, inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso con il quale si impugni in via diretta dinanzi al giudice amministrativo un atto avente forza di legge, chiedendone l’annullamento previa rimessione alla Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che nella specie si tratti di una legge-provvedimento. Cfr., Cons. di Stato, Sez. IV, 22 marzo 2021, n. 2409, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Corte cost., sent. n. 15/1960.
[20] Corte cost., sent. n. 96/1980.
[21] Corte cost., sent. n. 340/2004.
[22] Ricorda, a tal proposito, il Collegio che in ogni operazione di finanziamento «non è intelligibile solo un interesse del beneficiario, ma anche quello dell’organismo che l’elargisce, il quale, a sua volta, altro non è se non il portatore degli interessi, dei fini e degli obiettivi che si intendono soddisfare con l’erogazione del contributo» (Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2555).
[23] Corte cost., sent. 5 aprile 2018, n. 69.
[24] Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è salda nell’affermare che, per effetto del corollario desunto dal combinato disposto degli articoli 3 (obbligo di motivazione dell'atto amministrativo) e 12 (provvedimenti attributivi di vantaggi economici) della legge 241/1990, è illegittima la concessione di contributi pubblici qualora l’assegnazione ai relativi beneficiari sia priva di motivazione, ossia non indichi i criteri seguiti per formarla, né faccia rinvio ad altro documento esplicativo con riguardo alla procedura di valutazione eseguita. Sull’argomento, si veda, tra le pronunce più recenti T.A.R. Lazio, n. 2483/2020, in www.giustizia-amministrativa.it.
È interessante evidenziare che anche il Giudice contabile si è spesso soffermato sulla centralità dell’art. 12 della l. 241/1990 in materia di erogazione di contributi economici ai soggetti privati. In particolare, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia (deliberazione Lombardia, 19 gennaio 2017, n. 4/2017/PRSE) ha stabilito che l’Amministrazione che conceda concesso economici in favore di soggetti privati senza “predeterminare” i criteri e le modalità per la loro attribuzione, viola le regole di sana gestione finanziaria: «la condotta tenuta dall’ente non è conforme ai principi di sana gestione finanziaria in quanto, alla luce dei richiamati principi che governano la materia, l’ente non può compiere una valutazione “implicita” ma deve esplicitare le ragioni per le quali un determinato soggetto è individuato quale beneficiario del vantaggio economico riconducibile all’art. 12 della Legge n. 241/90».
[25] In tali termini, M. Cammelli, Amministrazione e mondo nuovo: medici, cure, riforme, Dir. Amm., 1-2/2016, 9.
[26] Ibidem.
Atti giudiziari e tutela dei dati personali (nota a TAR Lazio, Sez. III, 1° febbraio 2021, n. 579)
di Emanuela Concilio
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Tutela dei dati personali: l’evoluzione normativa – 3. L’esigenza di pubblicità dei dati degli atti giudiziari e i “motivi legittimi” di oscuramento dei dati personali. – 4. La decisione. – 5. Considerazioni conclusive.
1.- La vicenda.
L’ordinanza del Tar Lazio in commento costituisce l’occasione per fare il punto sui rapporti tra tutela dell’interesse alla riservatezza e quello alla trasparenza e pubblicità della funzione giudiziaria.
La decisione all’esame origina dal ricorso proposto da una concorrente esclusa dalla procedura selettiva per l’ammissione alle Scuole di Specializzazione di area sanitaria che, impugnando la graduatoria del concorso, formulava, in sede cautelare, istanza di ammissione con riserva e in soprannumero alle Scuole di Specializzazione indicate nella domanda, nonché istanza di oscuramento dei propri dati personali in tutti i provvedimenti oggetto di pubblicazione, ai sensi dell’art. 52, co. 1 del d. lgs. 196 del 2003 e s.m.i.
Il Tar Lazio respingeva l’istanza cautelare e la domanda di oscuramento dei dati personali ritenendo entrambe non sufficientemente motivate. In particolare, in merito alla istanza di oscuramento, il giudice amministrativo riscontrava la totale assenza di ragioni giustificatrici idonee a superare il dettato normativo dell’art. 51 del d. lgs. n. 196/2003, il quale sancisce il principio di accessibilità delle sentenze e delle altre decisioni dell’autorità giudiziaria; e dell’art. 52, co. 1, d. lgs. n. 196/2003 che richiede, ai fini dell’oscuramento dei dati costitutivi dell’atto, l’esistenza di “motivi legittimi”.
2. Tutela dei dati personali: l’evoluzione normativa
Il principio di riservatezza e il diritto alla tutela dei dati personali non trovano espresso riconoscimento nella Carta costituzionale[1]. Essi piuttosto fondano le proprie radici nell’ordinamento sovranazionale, ed in particolare, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, i cui artt. 7 e 8 – rispettivamente rubricati “Rispetto della vita privata e della vita familiare” e “Protezione dei dati di carattere personale” – sanciscono il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni, nonché il diritto alla protezione dei dati di carattere personale, con la precisazione che: “Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o ad un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”.
Il principio di riservatezza e il diritto alla privacy trovano fondamento, inoltre, nell’art. 16, primo e secondo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, il quale enuncia il principio secondo cui ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano; e attribuisce al Parlamento europeo e al Consiglio il compito di stabilire “le norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione, nonché da parte degli Stati membri nell’esercizio di attività che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, e le norme relative alla libera circolazione di tali dati”.
Nell’ordinamento nazionale, un primo passo verso il riconoscimento della tutela dei dati personali è stato attuato, come noto, con l’introduzione del d.lgs. n. 196 del 2003, denominato Codice in materia di protezione dei dati personali. L’attuale disciplina del Codice, tuttavia, costituisce il frutto di un’opera di adeguamento e rivisitazione a seguito della entrata in vigore nel nostro ordinamento del nuovo Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 (relativo alla protezione delle persone fisiche con riferimento al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali, ed indentificato con l’acronimo di GDPR)[2]. L’opera di adeguamento sistematico, attuata dal d.lgs. 10 agosto 2018 n. 101, ha comportato la rimodulazione delle ipotesi di dati tutelati dalla privacy e l’introduzione di nuove disposizioni con ampliamento delle ipotesi di oscuramento obbligatorio.
Il G.D.P.R., infatti, ha disposto che siano soggetti ad oscuramento obbligatorio quei dati che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona (art. 9). Inoltre, ha previsto l’oscuramento dei dati relativi a condanne penali, reati e connesse misure di sicurezza (art. 10).
Sulla base di tali indicazioni, il legislatore nazionale – al fine di individuare l’ubi consistam delle limitazioni applicabili alla diffusione, integrale o parziale, delle pronunzie giudiziarie – ha disciplinato la materia dei dati personali distinguendo il profilo del trattamento dei dati personali da parte degli organi di giustizia (l’art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, così come integrato dal d.lgs. n. 101 del 2018) da quello relativo alla divulgazione all’esterno, per finalità di informazione e di informatica giuridica, del contenuto dei provvedimenti giurisdizionali (di cui agli artt. 51 e 52 del d.lgs. n. 196 del 2003, così come integrate dal d.lgs. n. 101 del 2018).[3]
Sotto il primo profilo, l’art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, disciplinante “limitazioni per ragioni di giustizia”, precisa cosa debba intendersi per “ragioni di giustizia”[4].
Sotto il secondo profilo, vengono in rilievo le disposizioni contenute agli artt. 51 e 52, del medesimo d. lgs. n. 196 del 2003. Più precisamente, l’art. 51 del Codice in materia di protezione dei dati personali, rimasto immutato a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 101 del 2018, disciplina la diffusione dei provvedimenti giudiziari, prevedendo la piena accessibilità degli stessi – e quindi dei dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado – da parte di chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet e precisa che le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando opportune cautele.
Le cautele richiamate sono disciplinate dal successivo art. 52, parzialmente modificato dal d.lgs. n. 101 del 2018[5], che individua i limiti alla diffusione del contenuto, integrale o parziale, delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali. Tali limiti si applicano sia alle ipotesi di divulgazione per finalità di informazione giuridica su riviste scientifiche o su supporti elettronici, sia ad ogni altra ipotesi di riproduzione di pronunce giudiziarie, come nel caso della diffusione di notizie su organi di stampa.
L’art. 52, comma 1 del d. lgs. 196 del 2003 s.m.i. autorizza l'interessato a chiedere - per motivi legittimi e prima della definizione del relativo grado di giudizio[6] - l'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.
In altri termini, la norma disciplina le modalità operative attraverso le quali avviene l’anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati nei provvedimenti giudiziari. In particolare, nel definire i casi nei quali è garantito il diritto all’anonimato delle parti in giudizio o dei soggetti interessati, distingue due ipotesi. In primo luogo, individua espressamente specifiche ipotesi nelle quali il bilanciamento tra gli opposti interessi – esigenze di riservatezza e pubblicità degli atti giudiziari – è compiuto a monte dal legislatore in considerazione della delicatezza di determinate categorie di dati (art. 52, co. 5 e art. 9 GDPR): l’oscuramento obbligatorio e d’ufficio riguarda le generalità e gli altri dati identificativi, ovvero altri dati anche relativi a terzi dai quali possa desumersi – direttamente o indirettamente – l'identità di minori o delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone. In secondo luogo, la medesima disposizione prevede il giudizio di bilanciamento a valle della verifica della sussistenza di “motivi legittimi” a fondamento della richiesta di oscuramento dei dati identificativi delle parti, onde consentire al giudice il vaglio sulla meritevolezza delle ragioni per le quali la decisione dovrebbe derogare al principio di pubblicità degli atti.
Del resto, lo stesso art. 52, co. 7, del d.lgs. 196/2003 prevede che al di fuori degli indicati casi “è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.
3. L’esigenza di pubblicità dei dati degli atti giudiziari e i “motivi legittimi” di oscuramento dei dati personali.
L’elemento cruciale, pertanto, è costituito dalla individuazione dell’ubi consistam dei motivi legittimi di oscuramento dei dati personali.
Sul punto è stato dirimente l’intervento nomofilattico della Corte di Cassazione (Sez. VI, 15/2/2017, n. 11959), secondo la quale la corretta interpretazione dell’espressione “motivi legittimi” deve essere intesa come sinonimo di “motivi opportuni”, la cui valutazione impone un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e di pubblicità della sentenza. A guidare il suddetto bilanciamento, peraltro, vengono in rilievo le linee guida del Garante della privacy, pubblicate il 2 dicembre 2010, le quali pongono una duplice tipologia dei “motivi legittimi”: l’una relativa alla particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento; l’altra alla delicatezza della vicenda oggetto del giudizio. Invero, mentre per la nozione di “particolare natura dei dati” non sono sorti dubbi, risultando pacifico il riferimento ai dati sensibili (espressamente indicati dalla normativa speciale), per il concetto di “delicatezza della vicenda” è stato necessaria un’ulteriore specificazione da parte della Suprema Corte, laddove ha precisato che “l’estrema latitudine del sostantivo abbia necessità di essere riempita di contenuti concreti, sintomatici della peculiarità del caso e della capacità, insita nella diffusione dei relativi dati, di riverberare (…) negative conseguenze su vari aspetti di vita sociale e di relazione dell’interessato (…), così andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza del singolo (…)”. Una definizione, insomma, che affida all’imprescindibile ruolo del giudice il bilanciamento in concreto degli opposti interessi in gioco.
L’esito del bilanciamento tuttavia non appare scontato: nelle ipotesi in cui si versi in presenza di dati sensibili o sensibilissimi ovvero di particolari categorie di dati ritenuti prevalenti dal legislatore, l'oscuramento delle generalità degli interessati non pregiudica la finalità di informazione giuridica, risultando, anzi, necessaria per tutelare la sfera di riservatezza dei soggetti coinvolti (Cass. civile, Sez. I, 20/05/2016, n. 10510); diversamente, in tutte le altre ipotesi la liceità della pubblicazione integrale dei dati identificativi delle parti, anche di sentenze di condanna, è data dal pieno rispetto della normativa di cui all'art. 52 d. lgs. 196 del 2003 (Cass. penale, Sez. V, 11/12/2008, n. 4239). E ciò vale sia nei casi in cui si verifichi un “difetto” di oscuramento, sia (a maggior ragione) nei casi di “eccesso” di oscuramento, laddove con tale espressione si intende far riferimento al caso in cui oggetto della relativa richiesta siano non solo i dati identificativi delle persone fisiche, ma anche quelli delle pronunce giurisdizionali. In tali casi, l’oscuramento opererebbe in maniera del tutto arbitraria e in assenza di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali, con il rischio evidente di pregiudicare la possibilità di avere piena contezza degli avvenimenti e di operare quello che è stato definito un “improvvido oscuramento”: “dati identificativi delle pronunce (autorità, data e numero) e dati identificativi delle persone fisiche (generalità e altri dati identificativi della persona) sono cose diverse e sarebbe completamente fuori luogo, ove ne sia stata mai questa la ragione, invocare la possibilità che ciò renderebbe possibile identificare indirettamente la persona fisica, poiché un simile livello di riservatezza è previsto dall’ordinamento solo per le pronunce rese nei confronti di persone offese da atti di violenza sessuale o di minori o in materia di diritto di famiglia e di stato delle persone (articoli 51 e 52 codice della privacy)[7].
4. La decisione.
La decisione adottata dal Tar Lazio con l’ordinanza in commento merita di essere segnalata in quanto, in linea con l’orientamento maggioritario della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, esclude l’accoglimento dell’istanza di oscuramento al di fuori delle ipotesi eccezionali tipizzate dal legislatore (art. 52, co. 5, d.lgs. 196/2003) ed in assenza di motivi legittimi.
In particolare, il Tar Lazio fonda la propria decisione sulla base di un iter logico che pone l’esigenza di pubblicità e quella di anonimizzazione in termini di regola-eccezione. Invero, i giudici amministrativi affermano il principio di pubblicità ed accessibilità delle sentenze e delle altre decisioni della autorità giudiziaria come regola generale dell’ordinamento desunta, oltre che dal richiamato art. 51 d. lgs. n. 196 del 2003, anche dalla circostanza che l’indicazione delle parti costituisce elemento essenziale del provvedimento giurisdizionale[8] e che l’obbligo di pubblicazione rappresenta “un necessario corollario del principio costituzionale dell’amministrazione della giustizia in nome del popolo”[9]. Conseguentemente, essi individuano nell’oscuramento dei dati personali l’eccezione alla regola, necessitante – in quanto tale – di opportuna motivazione, l’unica in grado di consentire all’organo giudicante di effettuare quel “giusto ed equilibrato” bilanciamento tra gli opposti interessi e di verificare l’effettiva prevalenza dell’interesse privato all’anonimato rispetto all’interesse pubblico a garantire accessibilità degli atti giurisdizionali. Sicché, in presenza di una istanza immotivata e del tutto generica, come quella presentata dalla parte ricorrente nel caso di specie, l’esigenza di anonimizzazione diventa recessiva rispetto a quella di pubblicità degli atti giurisdizionali. Nel caso in esame, considerata l’afferenza ad una procedura concorsuale, i dati personali della ricorrente - considerati elementi costitutivi dell’atto indispensabili anche ai fini della integrazione del contraddittorio - sono stati ritenuti “indispensabili ai fini di una eventuale integrazione del contraddittorio per pubblici proclami, nei confronti di molteplici controinteressati ravvisabili negli altri candidati inseriti nella graduatoria”[10].
– 5. Considerazioni conclusive.
Il tema dell’oscuramento dei dati personali acquista sempre maggiore attualità in una società caratterizzata dalla costante evoluzione tecnologica e da una rapida diffusione delle informazioni attraverso la rete, coinvolgendo il diritto alla privacy, posto a presidio della riservatezza, dell’identità e dignità della persona, e l’esigenza di accessibilità della funzione giurisdizionale, posta a presidio dell’interesse pubblico alla pubblicità e trasparenza di relativi atti[11].
In un campo così variegato, il bilanciamento tra gli opposti interessi non può risolversi semplicisticamente in termini di prevalenza/soccombenza di un interesse rispetto all’altro, laddove l’interesse pubblico, in realtà, contiene in sé anche il perseguimento di quelle finalità poste a presidio di esigenze di tipo “privato”[12]. In altri termini, è lo stesso principio di buon andamento ad imporre che l’interesse pubblico garantisca l’osservanza di quelle disposizioni poste a presidio della tutela dei dati personali e che tale tutela costituisca l’esito di un equilibrato bilanciamento tra esigenze diverse[13].
Ovviamente per fare ciò è necessario principiare da una corretta interpretazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali, scongiurando il rischio che arbitrarie generalizzazioni estendano inopportunamente il regime di tutela prevista ex lege per i dati sensibili e sensibilissimi a tutti gli altri dati rendendo automatico l'oscuramento non solo dei dati identificativi delle persone fisiche, ma addirittura dei dati del provvedimento e dell’organo giudicante. Ciò significa, in pratica, che il problema del bilanciamento può porsi - di regola - solo per l’indicazione “diretta” delle generalità delle persone fisiche e che l’oscuramento delle generalità e dei dati che anche indirettamente possono consentire l’identificazione della persona fisica interessata è possibile e doveroso solo in presenza di dati “sensibili”[14].
Con specifico riguardo alle decisioni del giudice amministrativo, si deve ancora ricordare l’art. 56, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (codice dell’amministrazione digitale), il quale dispone che “Le sentenze e le altre decisioni del giudice amministrativo e contabile, rese pubbliche mediante deposito in segreteria, sono contestualmente inserite nel sistema informativo interno e sul sito istituzionale, osservando le cautele previste dalla normativa in materia di tutela dei dati personali”. Anche in questo caso viene prescritta la pubblicazione delle sentenze e delle altre decisioni del giudice amministrativo nel sistema informativo (sito istituzionale), seppure con dei temperamenti rappresentati dalla necessità di osservare delle cautele previste dalla disciplina in materia di tutela dei dati personali cui viene fatto generico rinvio. La disposizione pecca di genericità, non chiarendo esattamente quali siano le “cautele previste”, ed esponendosi conseguentemente a letture interpretative di difforme tenore che possono ampliare o restringere l’ambito entro cui è consentito (o imposto) l’oscuramento dei dati personali[15]. La regola tuttavia non può che rimanere quella che impone il trattamento dei dati giudiziari in presenza di una richiesta di oscuramento immotivata e che trova fondamento nel principio di liceità del trattamento di cui all’art. 6 del GDPR, secondo il quale “il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”, e nel principio di minimizzazione di cui all’art. 5 del medesimo Regolamento (UE) 2016/679, il quale precisa che i trattamenti devono in ogni caso risultare “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati”. Rimanendo altresì fermo che l’oscuramento dei dati che consentirebbero l’identificazione indiretta sarebbe possibile solo per tutelare interessi sensibili.
Alla luce di tali considerazioni, acquistano rilievo, quanto mai significativo, l’affermazione della Corte costituzionale, secondo la quale è necessario adottare una “nozione dinamica di riservatezza e affidare il bilanciamento ai tradizionali canoni di proporzionalità e pertinenza”[16] e la soluzione adottata dalla Corte di Giustizia europea, la quale ha optato per l’anonimizzazione delle persone fisiche tramite l’uso delle sole inziali all’espresso fine di assicurare la protezione dei dati delle persone fisiche coinvolte nelle cause pregiudiziali, garantendo nel contempo l’informazione dei cittadini e la pubblicità della giustizia.
Tale soluzione, infatti, realizza un equo bilanciamento fra gli opposti valori della pubblicità del processo (di cui agli artt. 6 CEDU, 47 Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e 101 Cost.) e della tutela della riservatezza dei soggetti interessati (di cui al medesimo art. 6 CEDU nonché agli artt. 7 e 8 della Carta UE e 2 Cost.)[17].
***
[1] Il diritto alla riservatezza e alla tutela dei dati personali è stato, tuttavia, ricondotto agli artt. 15 e 21 della Costituzione, i quali disciplinano, rispettivamente, la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, la cui “limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria”; e la libertà di stampa che “non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Cfr. P. PATATINI e F. TRONCONE (a cura di) L’oscuramento dei dati personali nei provvedimenti della Corte costituzionale, in www.cortecostituzionale.it.
[2] Essendo direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, a partire dal 25 maggio 2018, il legislatore italiano ha operato una rivisitazione sistematica della disciplina, mediante l’abrogazione delle disposizioni previgenti incompatibili con il Regolamento (UE) 2016/679, l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle precedentemente vigenti. Sul punto, cfr. A. CENTONZE, Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di cassazione, in questa rivista www.giustiziainsieme.it
[3] A. CENTONZE, op loc. cit.
[4] Si intendono per ragioni di giustizia: i trattamenti di dati personali correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie, i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari.
[5] Modifica operata dall’art. 3, comma 2, lettera c) del d.lgs. 10/8/2018 n. 101.
[6] Sotto il profilo temporale, le Linee Guida del Garante per la protezione dei dati personali del 2 dicembre 2010 rilevano che un’istanza proposta dopo la definizione del giudizio resterebbe priva di effetto, salvo che si tratti di oscuramento obbligatorio. In quest’ultimo caso, infatti, l’obbligo di oscuramento si riconnette direttamente al divieto di diffusione di dati sensibili attraverso la pubblicazione di decisioni giudiziarie nelle banche dati presenti nei siti internet e continua a essere vigente anche dopo la conclusione del giudizio.
[7] In termini, F. FRANCARIO, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866), in www.giustiziainsieme.it, il quale espressamente rimanda l’improvvido oscuramento (in quel caso non attribuibile all’Autorità giudicante) all’oscuramento non solo dei dati identificativi delle persone fisiche interessate dalla decisione, ma anche “inspiegabilmente” dei dati identificativi delle pronunce di primo e secondo grado oggetto del giudizio di revocazione, “fatto che rischia di render incomprensibile la pronuncia e che comunque di certo non ne agevola la comprensione”. Infatti, secondo l’A. “Allo stato l’oscuramento dei dati identificativi delle pronunce giudiziarie non solo mina l’intellegibilità intrinseca della pronuncia, ma pregiudica la stessa possibilità di controllo democratico delle decisioni giurisdizionali da parte degli operatori del diritto e di ogni singolo cittadino interessato. E’ un problema che va segnalato e sul quale sarà necessario tornare perché sotto questo profilo la pronuncia non è un caso isolato ma espressione di una crescente tendenza ad oscurare i dati identificativi delle pronunce giurisdizionali nonché, come spesso avviene in altri casi, i dati di enti e persone giuridiche che sono notoriamente sottratti alla disciplina della protezione dei dati personali (cfr. art 1 DPGR 2016/679: il Regolamento “stabilisce le norme relative alla protezione dei persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” e “protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”).
[8] Cfr. art. 132 c.p.c.
[9] Cfr. Cass. penale, Sez. II, 28/1/2019, n. 4145, in www.cortedicassazione.it.
[10] A tal riguardo, si segnala una recentissima pronuncia del T.A.R. Campania, Sez. II, 16 marzo 2021, n. 1757, che ha disposto l’oscuramento dei dati idonei a identificare il ricorrente e il controinteressato (nell’ambito di un giudizio relativo ad una procedura comparativa per la selezione di un ricercatore a tempo determinato), “ritenendo sussistenti i presupposti dell’art. 52, commi 1 e 2, del d. lgs. 196/2003 e dell’art. 9, paragrafo 1, del Regolamento UE 2016/679”. In questo caso, pertanto, la sentenza non fornisce alcuna indicazione dei motivi legittimi che sarebbero alla base della istanza di parte e, soprattutto, pone a fondamento della decisone (anche) l’art. 9, paragrafo 1 del GDPR che si occupa di “categorie particolari di dati”, che non sembrerebbero ricorrere nella fattispecie analizzata. Consultabile sul sito www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Espressione dei principi generali sanciti dagli artt. 1 e 97 Cost.
[12] Sul rapporto tra interesse pubblico e interesse privato, talora ricompreso o coincidente con il primo, cfr. M.R. Spasiano, Interessi pubblici e soggettività emergenti, Napoli, 1996, 18 ss.; G. C. di San Luca, La tutela delle situazioni soggettive, Napoli, 2011, passim.
[13] Sul tema buon andamento, da ultimo, M.R. Spasiano, Il principio di buon andamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, 63 ss.
[14] Tale qualificazione riguarda le categorie di soggetti individuate ex lege, ossia minori o persone offese da atti di violenza sessuale, oppure si tratti di rapporti di famiglia e di stato delle persone o concernenti l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, l’appartenenza sindacale, dati biometrici o relativi alla salute o alla vita sessuale di una persona.
[15] F. D’ALESSANDRI, La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet istituzionale della Giustizia Amministrativa (Relazione al convegno di Convegno Capri sull’informatica giuridica del 12/10/2019), in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Corte Cost. 21/2/2019, n. 20, in www.corteconti.it.
[17] Cfr. F. D’ALESSANDRI, La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet istituzionale della Giustizia Amministrativa (Relazione al convegno di Convegno Capri sull’informatica giuridica del 12/10/2019), op. loc. cit.
The surrender of death penalty. La lezione della Virginia
di Paolo Spaziani
Si dice che la famosa Appomattox surrender, che si consumò ad Appomattox Court House, nella Contea di Appomattox, in Virginia, l’8 aprile 1865, fu per l’America la fine della guerra e, per la Virginia, il lenzuolo bianco steso sui campi di cotone per assorbirne il sangue lasciato su di essi da Shiloh, da Gettysburg, da Petersburg.
L’odore del sangue, che aveva infettato le narici di entrambi gli eserciti nei quattro anni in cui i fratelli avevano ucciso i fratelli, ora, mescolandosi al profumo soave della primavera, sembrava essere divenuto intollerabile.
Inoltre, il primo sole di aprile, abbacinando l’argenteo letto del Potomac sembrò ricolorire quello già rappreso sui ragazzi lasciati nei campi, sulle loro vesti lacerate dagli uccelli, sulla terra bruciata della Virginia, sugli alberi arsi, nelle sue case violentate.
Mentre ripiegava su Appomattox Station, Lee dovette pensare che non aveva più senso morire per mano nordista. Quando qualcuno lo informò che i treni di rifornimenti che lo attendevano alla stazione erano stati distrutti, ne dovette avere la certezza. Avrebbe cercato di raggiungere Lynchburg, ma non avrebbe impegnato l’esercito in una nuova sanguinosa disfatta. Sarebbe andato a parlare con Grant: la primavera del 1865 non sarebbe stata la morte della confederazione ma la rinascita dell’intero Paese.
Quando consegnò nelle mani di Grant la sua magnifica sciabola di gran signore del sud, con i ceselli d’oro sull’elsa; quando riconobbe nell’uniforme infangata del rivale l’aurora di una nuova libertà, capì che quella primavera avrebbe segnato il ritorno della vita in Virginia.
Questa primavera, per la Virginia, non è dissimile da quella del 1865.
Lo scorso 24 marzo, a Richmond, il governatore Ralph Northam ha firmato la legge che abolisce la pena di morte, la quale era rimasta in vigore per il reato di “omicidio capitale”, caratterizzato, sul piano soggettivo, dal dolo intenzionale e dalla premeditazione e, sul piano oggettivo, dalla presenza di almeno un’aggravante tra quelle elencate dal Title 18.2 del Code of Virginia (rapimento ai fini di estorsione o sevizie, occasione di rapina, violenza sessuale o atto di terrorismo).
La nuova legge, firmata da Notham, è contenuta nel Senate Bill 1165, proposto dal Senatore Surovell ed approvato a febbraio. Il bill ha eliminato dall’ordinamento dello Stato ogni riferimento alla pena capitale e ha abrogato il Chapter 13 del Title 53.1 del Code of Virginia, che regolava le modalità di esecuzione della pena, il rilascio del relativo certificato e le procedure di disposizione della salma.
Si tratta di disposizioni che ho trovato agghiaccianti e mi sono chiesto come un giudice potesse applicarle. Particolarmente quelle contenute nel capo specifico sull’esecuzione, ove si prevedeva la regola generale secondo cui si doveva procedere con l’iniezione letale, attribuendosi tuttavia al condannato la “facoltà” di optare per la sedia elettrica.
La legge firmata da Northam ha una portata storica. La Virginia non è “solo” il ventitreesimo Stato degli Stati Uniti ad avere abolito la pena di morte, ma è il primo Stato del Sud: quel sud che, dopo essere rinato alla vita nella primavera del 1865 vi rinasce nuovamente in questa strana primavera del 2021, quando tutto il mondo, tra timori e speranze, si avvia a rinascere dalla paura.
Si conclude, con le riflessioni dei cinque costituzionalisti coinvolti dai Professori Oreste Pollicino e Corrado Caruso, il focus aperto da Giustizia Insieme sul fine vita all'indomani dei noti interventi della Corte costituzionale sul caso del dj Fabo.
I piani di indagine prescelti- penale, comparato, civile, filosofico e costituzionale - sono stati vivificati da numerosi studiosi, capaci di offrire un quadro estramamente poliedrico di contenuti e prospettive che hanno accompagnato, in questi mesi, i lettori e che, idealmente, si offre ora in tutta la loro ricchezza e problematicità al decisore politico.
Il fine vita e il legislatore pensante
5. Il punto di vista dei costituzionalisti
Considerazioni di Stefano Agosta, Lucia Busatta, Carlo Casonato, Giacomo D’Amico e Chiara Tripodina
Introduzione di Corrado Caruso e Oreste Pollicino
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli) - Il fine vita e il legislatore pensante. 4. Il punto di vista dei civilisti (di Mirzia Bianca, Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano)]
Introduzione
Corrado Caruso e Oreste Pollicino
Talune recenti pronunce della Corte costituzionale (ord. n. 207 del 2018, sent. n. 242 del 2019) hanno reso nuovamente attuale le problematiche che ruotano attorno al fine vita, sia da punto di vista dei principi costituzionali coinvolti, sia rispetto alla disciplina positiva da predisporre in un ambito particolarmente delicato sul piano dei valori coinvolti. Si rendono così necessarie le riflessioni degli studiosi di diritto costituzionale, chiamati a discutere anche dell’eventuale riforma della legge n. 219 del 2017 e, più in generale, di un quadro normativo coerente con la giurisprudenza costituzionale.
Hanno partecipato a questo dibattito: Stefano Agosta, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’ Università di Messina, Lucia Busatta, dottoressa di ricerca e docente a contratto in diritto costituzionale presso l’Università di Trento, Carlo Casonato, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l’Università di Trento, Giacomo D’Amico, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Messina e Chiara Tripodina, professoressa ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università del Piemonte Orientale.
1. Le pronunce sul caso “Cappato” della Corte costituzionale (e prima ancora, la sentenza “Englaro” della Cassazione, alla quale ha fatto seguito la legge n. 219 del 2017) possiedono un indubbio valore “normativo”. Può ritenersi vigente oggi, nelle trame dell’ordinamento, un diritto al suicidio?
Prof. Stefano Agosta
Tutt’altro che facile (anche solo provare ad) abbozzare in poche, sintetiche, battute una risposta a così ampi ed articolati interrogativi. In via del tutto preliminare può, innanzitutto, precisarsi come neppure troppo si siano invero fatte attendere in dottrina quelle voci miranti a rilevare (già nel metodo, prima ancora che nel merito su cui ci si sta, più nello specifico, per soffermare) un singolare slittamento del giudizio di costituzionalità – dalla nuda e cruda fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen. alla vera e propria richiesta di suicidio medicalmente assistito del singolo nei confronti delle strutture ospedaliere pubbliche – il quale avrebbe finito per portare la Corte costituzionale inevitabilmente a pronunziarsi, per così dire, extra petitum.
Venendo al versante del merito – prima di ricondurne nell’alveo della c.d. alleanza terapeutica tra medici e degenti il quomodo della protezione – è ovviamente indispensabile una disamina dell’an costituzionale della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» [così ord. n. 207/2018 (punto 9 cons. dir., ultimo cpv) e sent. n. 242/2019 (punto 2.3 cons. dir., ultimo cpv)], che possa eccezionalmente spingersi fino al legittimo accesso ad un farmaco letale. Nella riconosciuta impossibilità di una ricostruzione, per così dire, a “rime obbligate” discendente tanto dai principi costituzionali che EDU (rispetto ai quali ultimi la relativa giurisprudenza è stata, casomai, ritenuta assai fumosa, nella migliore delle ipotesi, quando non correttamente ricostruita, nella peggiore), è ovvio che intanto potrà legittimamente ammettersi un vero e proprio diritto dei degenti in relazione alla richiamata somministrazione in quanto non ci si accontenti del ricorso al comune procedimento di estensione analogica: dal positivo diritto di essere curati ex art. 32 Cost., cioè, al suo speculare negativo di abbandonare ogni cura sino al sopraggiungere della morte ovvero, da quest’ultimo, direttamente a quello di ottenere che siano predisposti e forniti presidi farmacologici con proprietà abbrevianti della vita stessa.
Allo scopo è stato, al contrario, evocato (non già dal giudice remittente bensì dalla Consulta) in campo il criterio ternario di cui al tradizionale giudizio d’eguaglianza ex art. 3 Cost. Essendosi giovati insomma, come tertium comparationis, del riconoscimento già operato in materia dalla l. n. 219/2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, nel 2018 [cfr. ord. n. 207 cit. (punto 9 cons. dir., ultimo cpv)], anche la più forte declinazione della libertà di autodeterminazione terapeutica supra cit. – intesa, appunto, nel senso della legittima accessibilità ai farmaci letali – ha così potuto finalmente entrare nel delicato gioco del bilanciamento con le altre esigenze costituzionali coinvolte, nel successivo giudizio del 2019.
Alla luce di quanto appena detto, è ad ogni modo di tutta evidenza come non sia certo stato un assoluto ed incondizionato diritto al suicidio tout court quello avuto di mira dalla giurisprudenza – come invece inizialmente suggerito dalla medesima Corte d’Appello di Milano – quanto, ed all’opposto, un relativo e condizionato diritto al suicidio medicalmente assistito (e, pertanto, anch’esso frutto di una ponderazione con l’imperativa esigenza di tutela della vita in capo allo Stato ancora peculiarmente emergente dall’art. 580 cit.). La titolarità del quale ultimo è stata, in altre parole, eccezionalmente ammessa solo a beneficio di un ristretto novero di aventi (loro malgrado…) diritto, in virtù di taluni canonizzati presupposti: tra di essi non potendo non assumere precipuo rilievo proprio l’elevato grado di sofferenza di cui costoro finirebbero per essere drammaticamente vittima (tale riconoscimento rispecchiando, d’altro canto, non solo le condizioni in cui aveva tragicamente versato Fabiano Antoniani nella vicenda giudiziaria in concreto ma, anche, quelle a suo tempo autorevolmente delineate dallo stesso Comitato nazionale di bioetica in materia).
Dott.ssa Lucia Busatta
Sicuramente esiste un diritto a chiedere di ricevere assistenza medica al morire, se sussistono le condizioni soggettive espressamente indicate, e definite in modo minuzioso, dal giudice costituzionale. Personalmente escluderei l’esistenza di un “diritto al suicidio” tout court. La Corte è infatti assai attenta nel circoscrivere l’ambito di operatività della propria (duplice) decisione. Da un lato, infatti, esclude che si possa parlare di piena incostituzionalità dell’art. 580 c.p. perché tale norma «assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ord. 207/2018, p.to 6 considerato in diritto).
La Corte radica la possibilità di chiedere l’assistenza medica al suicidio, per una persona che si trovi in condizioni di salute gravissime e irreversibili, secondo la descrizione dei criteri delineata già a partire dall’ordinanza del 2018, nelle trame del principio di eguaglianza. La condizione esclusiva per riconoscere uno spazio effettivo nel nostro ordinamento a tale possibilità consiste nella situazione clinica della persona: questi deve essere sottoposto a un trattamento medico rispetto al quale potrebbe esercitare il diritto al rifiuto previsto dalla legge n. 219 del 2017.
Sono tanti, quindi, gli argini che la Corte costruisce per limitare la possibilità di poter parlare di un diritto al suicidio. Tutti i limiti individuati, inoltre, sono espressamente previsti per la tutela della persona e per proteggere chi si trova in situazioni di maggiore fragilità.
Sebbene esista un diritto a chiedere l’assistenza al suicidio, poi, non pochi sono i vuoti di effettività, come ora vedremo.
Prof. Carlo Casonato
La questione è complessa. Cercherò, anzitutto, di fare un po’ di ordine.
Nel caso di Eluana Englaro, la questione non si poneva in termini di suicidio, ma di interruzione di trattamenti di sostegno vitale di una persona che non poteva esprimere alcuna volontà attuale. Il principio del consenso informato e il diritto al rifiuto delle cure, già riconosciuti dall’art. 32, secondo comma della Costituzione letto in combinato con gli articoli 2 e 13 (a partire dal primo gennaio 1948, quindi) hanno dovuto attendere, rispettivamente, il 2007 e il 2008 per essere concretamente considerati per via giurisprudenziale ordinaria (caso Welby) e poi costituzionale (sent. n. 438 del 2008), e addirittura il dicembre del 2017 per essere precisati a livello legislativo (legge n. 219). Tale intervento normativo, fra l’altro, ha confermato e specificato l’esistenza di un diritto al rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, comprese nutrizione e idratazione artificiali, indicando, come noto, anche gli strumenti per esprimere le proprie volontà anticipate (disposizioni anticipate di trattamento e pianificazione condivisa delle cure). Dopo tali passaggi, quindi, il consenso informato è oggi un dato giuridico costituzionale non più discutibile.
Il caso “Cappato” aggiunge una ulteriore tappa nel percorso di riconoscimento di una più ampia tutela dell’autonomia individuale nelle fasi finali della propria esistenza; tappa riferibile alla non punibilità, a determinate condizioni, dell’assistenza al suicidio. Anche qui può essere utile articolare il discorso su più piani. Il suicidio in sé, nonostante in alcuni paesi comportasse in passato sanzioni sia per il suicida (sepoltura fuori dalle mura della città o in territorio non consacrato) sia per gli eredi (trattenuta sul patrimonio), consiste in un atto cui non è collegata oggi alcuna conseguenza giuridica di sfavore. In questi termini, alcuni ne parlano come di una facoltà. Altra cosa, evidentemente, è l’assistenza al suicidio, condotta che in Italia era, e in molti paesi ancora è, considerata reato in termini assoluti e incondizionati.
A fronte dell’’inerzia del Parlamento, come noto, è stata la Corte costituzionale (sent. n. 242 del 2019) a ritagliare la non punibilità per chi agevoli “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Da questo punto di vista, quindi, si potrebbe parlare di un diritto all’assistenza al suicidio come di un diritto di libertà; diritto condizionato, però, da quattro requisiti, uno dei quali (la presenza di trattamenti di sostegno vitale) fortemente problematico, in quanto legato sì alla logica adottata dalla Corte, ma foriero di possibili discriminazioni.
D’altro canto, la mia posizione è che, in presenza dei quattro requisiti citati, le strutture del Servizio Sanitario Nazionale non possano negare la presa in carico del malato e la soddisfazione della sua richiesta di assistenza. Se la sentenza è chiara nel non porre “alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”, è altrettanto precisa nell’affidare la verifica delle quattro condizioni citate “a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale”, alla stregua di quanto già disposto in riferimento, ad esempio, alla sent. n. 96 del 2015 sull’ampliamento nell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Se quindi la sentenza lascia libero il singolo professionista di aiutare o meno il malato, la struttura non potrebbe rifiutarsi di assisterlo nel porre fine alla sua esistenza accampando motivi di delicatezza etica o di incertezza giuridica. Tale condotta, similmente a quanto è già accaduto in riferimento alla condanna della Regione Lombardia da parte del TAR Lombardia (sent. n. 214 del 26.1.2009) e del Consiglio di Stato (sent. n. 4460 del 2014) per non aver ottemperato alla sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro, costituirebbe, quindi, un atto contrario ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza della Pubblica Amministrazione.
Se non si può parlare quindi di un diritto al suicidio in termini generali e assoluti, in presenza dei quattro menzionati requisiti, la persona malata ha diritto a che la struttura si attivi per soddisfare la sua richiesta.
Prof. Giacomo D’Amico
La risposta a questa domanda non può che essere decisamente negativa perché non è rinvenibile nelle due pronunce sul caso “Cappato” né nella sentenza Englaro alcuna indicazione che possa giustificare una simile affermazione. Per questa ragione discutere di “diritto al suicidio” può risultare fuorviante e può addirittura costituire un argomento per una lettura denigratoria delle decisioni sopra citate. Ma vi è di più. Infatti, non solo non vi è traccia di questo diritto nelle motivazioni della Corte costituzionale e della Cassazione ma neanche Marco Cappato – imputato nel processo – ha rivendicato questo presunto diritto. Ribadito, quindi, che di un diritto al suicidio non può discutersi, occorre circoscrivere la portata delle due decisioni del Giudice delle leggi a quella che la stessa Corte definisce «l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio».
Volendo provare a leggere queste pronunce alla luce di alcuni topoi argomentativi della giurisprudenza costituzionale, può dirsi che in queste decisioni confluiscono alcuni orientamenti consolidati sugli anacronismi legislativi. È infatti l’evoluzione della scienza medica (che ha permesso la sopravvivenza dell’individuo financo in uno stato vegetativo permanente, come nel caso della povera Eluana Englaro) ad aver reso anacronistica l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio e quindi l’automatica riconduzione di ogni caso di aiuto alla fattispecie penale di cui all’art. 580 c.p. In altre parole, l’accertamento dell’anacronismo ha determinato l’illegittimità costituzionale di quello che potrebbe definirsi, non senza qualche approssimazione, l’automatismo sanzionatorio di cui all’art. 580 c.p. (si discute di automatismo nel senso che ogni condotta di aiuto, anche la più blanda, rientrava nella fattispecie penale). Illuminanti sono al riguardo gli esiti di un recente studio sugli automatismi legislativi, nel quale si fa notare che l’«ineliminabile discrasia fra quanto astrattamente prescritto e il campo del concretamente verificabile impone la necessità che il profilo materiale sia in grado di condizionare quello formale; in altri termini che vengano prescritti meccanismi interpretativo-applicativi che permettano l’adattabilità dell’effetto al fatto» (L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Napoli 2020, 69). Proprio in questa direzione sembra essersi mosso l’intervento della Corte, che ha eliminato la «discrasia» creatasi come conseguenza di un anacronismo legislativo, rendendo così inaccettabile l’automatismo sanzionatorio.
In definitiva, la prospettiva da cui ha preso le mosse la Corte non è quella del riconoscimento di un illimitato diritto a scegliere come porre fine alla propria esistenza, ma è piuttosto quella, ben delimitata e inevitabilmente circoscritta alle caratteristiche del caso sottoposto al suo esame, della repressione penale della condotta di chi, in presenza delle condizioni tassativamente indicate dal Giudice delle leggi, agevola l’altrui proposito suicidario.
Da questo punto di vista, a mio avviso si registra una singolare analogia tra l’argomentazione della Corte costituzionale nella sent. 242 del 2019 e nell’ord. 207 del 2018 e quella della Cassazione nel caso Englaro (sent. n. 21748 del 2007). In quest’ultima pronuncia, infatti, il principio di diritto enucleato dalla Cassazione era ritagliato sulla vicenda di Eluana e si presentava in una veste analoga a quella che, per le pronunce della Consulta, assumono le c.d. decisioni additive di procedimento.
In conclusione, la Corte costituzionale non si è occupata di un diritto al suicidio; piuttosto, ha ritagliato un’area di immunità penale nell’ambito della fattispecie di aiuto al suicidio che continua a essere prevista nell’art. 580 c.p.
Prof.ssa Chiara Tripodina
Le pronunce della Corte costituzionale sul Caso Cappato possiedono un sicuro “valore normativo”, se con ciò si intende la capacità di una decisione giurisprudenziale di concorrere alla definizione dell’ordinamento giuridico. In particolare, la sent. 241/2019 Corte cost. ha inciso sulla fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio, delimitandone una “circoscritta area” sottratta alla punibilità: il c.d. suicidio medicalmente assistito. Ha infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p. «nella parte in cui non esclude la punibilità» di chi agevola l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona «a) affetta da una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Prima della pronuncia della Corte, il suicidio senz’altro non era “diritto”, bensì “libertà”: l’ultima libertà, estrema e di fatto, di gettarsi oltre la soglia. Sarebbe stato diritto se su altri fosse gravato l’obbligo di agevolare il suicida o di non ostacolarlo. Ma così non era – e non è -, esistendo all’opposto nel nostro ordinamento il divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e il dovere di impedire l’altrui suicidio nella ricorrenza dei presupposti dell’omissione di soccorso (art. 593 c.p.).
Ma anche dopo la pronuncia della Corte non si può dire che il suicidio, neppure nella sola forma del suicidio medicalmente assistito, sia assurto al rango di diritto. In primo luogo, perché è la Corte costituzionale stessa a non pronunciare mai la parola “diritto”. Usa esclusivamente la parola “libertà”: «libertà di autodeterminazione» del paziente «nella scelte delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze» (includendo – forzatamente - il suicidio medicalmente assistito tra le terapie anti-dolore che il paziente può scegliere).
In secondo luogo, perché «un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui corrisponde» [S. Weil, La prima radice, 1943]. All’assenza del “diritto” corrisponde nella sentenza l’assenza dell’“obbligo”; rectius la sua esplicita esclusione: la Corte, infatti, esclude «la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Ma è ineludibile: se sul medico non ricade l’obbligo di aiutare il paziente a suicidarsi, questi non è titolare di alcun diritto, bensì, al più, della libertà di esprimere una richiesta di essere aiutato a suicidarsi. Se la libertà del paziente si incontra con quella del medico di accettare tale richiesta, ciò non è ora più punibile. Ma questo non rende il suicidio (medicalmente assistito) un diritto.
2. Con le menzionate decisioni, il Giudice delle leggi ha inaugurato una innovativa tecnica decisoria. A suo parere, si tratta di un modus decidendi ispirato alla leale collaborazione istituzionale, capace di valorizzare la discrezionalità legislativa o, al contrario, di ridurre lo spazio di azione delle Camere in questioni eticamente (e politicamente) sensibili?
Prof.Stefano Agosta
Non poche volte, com’è noto, le pronunzie sui diritti (specie, se non principalmente, su quelli di natura personalissima, come nel nostro caso) finiscono anche profondamente per incidere sul piano dei poteri e, in particolar modo, sulle tecniche decisorie in concreto adottate (così come, pure, viceversa) [sul cruciale punto ha molte volte insistito, ad esempio, A. RUGGERI, ex plurimis nei suoi “Dialogo” tra le Corti e tecniche decisorie, a tutela dei diritti fondamentali, in www.diritticomparati.it (19 novembre 2013); Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie delle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2017, 1 ss.; Tutela dei diritti fondamentali e ruolo “a fisarmonica” dei giudici, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale, in Dir. fondam., n. 2/2018, 1 ss.].
A tale generale considerazione non fa eccezione – e anzi, a ragion veduta, può essere preso ad emblematica testimonianza di essa – proprio il c.d. caso Cappato [e – in termini parzialmente sovrapponibili – la più recente questione di legittimità costituzionale, rispettivamente, degli artt. 595, comma 3, cod. pen. (Diffamazione) e 13 l. n. 47/1948, Disposizioni sulla stampa, di cui all’ord. n. 132/2020]. È anche in quest’ultima occasione, del resto, che la Consulta non ha mancato di offrire ulteriore efficace prova, nel metodo, della «sostanziale fungibilità delle tecniche decisorie» [così, nuovamente, A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in www.giurcost.org (20 novembre 2018), 571] allo scopo, neanche poi tanto velatamente perseguito, di cogliere il risultato di una maggiore flessibilizzazione della disciplina del processo costituzionale; così come, nel merito, di volere audacemente intraprendere – e battere fino in fondo ai suoi ultimi esiti – l’intermedio, innovativo, sentiero della pronunzia c.d. “ad incostituzionalità differita”: di una peculiare decisione, vale a dire, collocabile tra quel quid pluris rappresentato dal tradizionale strumento dell’accoglimento mediante additiva di principio e quel quid minus costituito, invece, dall’altrettanto diffuso ricorso all’inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore (di norma affiancata pure da un monito rivolto al Parlamento nel senso di risolversi al più presto a provvedere).
Quasi inutile dare, a questo punto, conto – se non, appunto, di sfuggita – del fitto polverone di critiche che una pronunzia così confezionata (di ordinanza, nella forma, e, ciononostante, di sentenza di accoglimento, nella sostanza) ha finito, nell’immediato così come anche nel prosieguo, di sollevare. Se è difatti in astratto che dall’introduzione di questo nuovo genere di decisione il primato stesso della Costituzione potrebbe giovarsi – e, anche per tale via, riaffermarsi – è tuttavia sul diverso piano del vincolo in concreto discendente da tale pronunzia che sono sembrate emergere le maggiori perplessità: in altri termini quindi, per un verso, con riferimento alla persistenza dell’obbligo o meno di applicazione della normativa indubbiata da parte del giudice a quo, degli altri giudici diversi dal primo, così come, pure, di ogni altro operatore giuridico ovvero della Pubblica amministrazione [la previsione temporaneamente salvata pur sempre reclamando, ad ogni buon conto, «l’applicazione che compete alle norme che continuano a comporre l’ordinamento, e che non ne siano ancora state espunte formalmente»: in tal senso, M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in www.questionegiustizia.it (19 novembre 2018)]; per un altro, nei confronti dello stesso Tribunale costituzionale (se vincolato o meno al proprio, così ingombrante, decisum, qualora ad esempio ne sia, nel frattempo, mutata la composizione); per un altro ancora, infine, avuto riguardo allo stesso legislatore, se sol si consideri la non insolita – e anzi, spesso, fisiologica – vocazione degli stessi decisa costituzionali ad innescare (piuttosto che sopire ovvero immobilizzare) i processi di produzione normativa.
Dott.ssa Lucia Busatta
Non ho una risposta univoca a questa domanda.
Da un lato, infatti, ho trovato convincenti le motivazioni con le quali la Corte, nell’ordinanza 207, spiega perché ha scelto di escludere la strada “tradizionale” del rigetto (o dell’inammissibilità, che forse sarebbe stata la via più semplice per il giudice costituzionale e più facile da adattare alle maglie dell’ordinanza di rimessione), cui aggiungere un monito al legislatore. Chiudere il giudizio costituzionale, in quel caso specifico, avrebbe però aperto più problemi rispetto a quelli risolti. Altre persone, nella medesima posizione dell’imputato Cappato, sarebbero infatti andate incontro a un processo penale. Altri malati, nelle condizioni di Antoniani, si sarebbero trovati ancora nell’impossibilità di dare seguito alle proprie volontà. Quasi di sicuro, una questione simile sarebbe in breve tornata al Palazzo della Consulta.
La Corte dimostra una sensibilità particolare per le vicende umane che si celano dietro la questione ad essa rimessa e per l’eventualità – per nulla peregrina – che si possano ripresentare situazioni analoghe. Del resto, dinamiche simili possono essere osservate anche in altri ordinamenti (è di poche settimane fa, ad esempio, una sentenza del Tribunale costituzionale austriaco, G-139/2019 dell’11 dicembre 2020, mentre il Bundesverfassungsgericht tedesco si è pronunciato il 26 febbraio 2020).
Su questa linea, non posso dire di trovare eccessivamente invasive le indicazioni per il legislatore contenute nella prima ordinanza. Mi sembra che la Corte abbia cercato di declinare rispetto alle specificità del caso in discussione nel processo a quo il monito rivolto al legislatore.
Dall’altro lato, però, qualcosa di poco convincente, a mio avviso, rimane. Il problema non sta nei contenuti dell’ordinanza n. 207, ma in qualcosa che viene prima (e, a dirla tutta) anche in ciò che è venuto poi, ossia la definizione della “procedura” stabilità nella sentenza n. 242.
Sospendere il giudizio per undici mesi per consentire al Parlamento «ogni opportuna riflessione e iniziativa» può rispecchiare effettivamente una visione attuale della leale collaborazione istituzionale, nella quale il giudice delle leggi è calato anche nella concretezza delle situazioni individuali. Prendere tale decisione, però, significa aver già meditato sulle sue implicazioni e sul risultato finale, dal punto di vista legislativo (ossia, sull’eventualità in cui il legislatore rimanga inerte). La prospettiva che la Corte adotta per decidere come pronunciarsi, in altre parole, si pone non tanto – come invece le motivazioni dell’ordinanza sembrano far intendere – nella (sola) dimensione del caso concreto da cui la questione di legittimità costituzionale prende origine, ma in un’ottica legislativa propriamente detta. D’altro canto, in considerazione della velocità dei rivolgimenti tecnologici e valoriali che caratterizzano la società contemporanea, non si può pensare, per tematiche tanto delicate, di inaugurare un’annosa stagione di pronunce dai moniti progressivamente più severi rivolti a un legislatore tradizionalmente lento sulle questioni c.d. eticamente sensibili. La giurisprudenza stessa della Corte, però ci insegna che è possibile anche scegliere subito la via dell’accoglimento della questione, imponendo, di fatto, l’intervento legislativo necessario a chiarire come realizzare quanto affermato dal giudice delle leggi (mi sto riferendo alla sentenza n. 27 del 20175, con cui la Corte si pronunciò per la prima volta sul reato di aborto, dichiarandolo in parte incostituzionale e cui, come è noto, è seguita la legge n. 194 del 1978).
Ciò che, forse, non è molto aderente ad una leale collaborazione istituzionale pienamente intesa sta nell’eccesso di zelo nel definire come procedere in attesa dell’agognato intervento legislativo (v. sent. n. 242). Questo, a mio avviso, tradisce un’eccessiva sfiducia nei confronti del legislatore e sembra lasciar trasparire un intento dai tratti forse pedagogici in cui il giudice delle leggi non dovrebbe incappare.
Sulle implicazioni future di tale innovativa tecnica decisoria, poi, tutto è ancora da scrivere. La Corte ha già sperimentato nuovamente la possibilità di rinviare di un anno la propria decisione in attesa di un’opportuna iniziativa parlamentare (cfr. ordinanza n. 132 del 2020, in tema di libertà di stampa): in questo caso i giochi sono ancora aperti e si vedrà nei prossimi mesi quale seguito avrà la scelta della Corte e se tale tecnica decisoria avrà successo.
Prof. Carlo Casonato
In presenza di questioni eticamente sensibili, la Corte mi sembra abbia sempre agito con la massima cautela adottando pronunce (sentenze o ordinanze) di inammissibilità. Si pensi, fra le altre, alla sentenza n. 84 del 2016 in cui, pur di non negare la “dignità antropologica” che alcuni attribuiscono all’embrione fin dai suoi primi stadi di sviluppo, ne ha negato l’impiego a fini di ricerca, anche se l’alternativa, trattandosi di embrioni non impiantabili, è quella di essere mantenuti in uno stato di crioconservazione indefinitamente. Il fatto è che moltissime questioni eticamente sensibili sono anche costituzionalmente inquadrabili, e quindi non possono sfuggire all’esame da parte della Corte, a meno di non riconoscere una “zona franca” dell’oggetto all’attenzione della Corte ovvero di non produrre una “de-costituzionalizzazione” dei parametri di riferimento.
In questi casi, la tecnica adottata dalla Corte mi sembra costituire un apprezzabile bilanciamento fra le esigenze di tenuta del sistema costituzionale, che non può sopportare riduzioni del controllo della Corte oltre la sfera della discrezionalità politica, e la fisiologia che vorrebbe che fosse il Parlamento ad adottare discipline generali e comprensive su questioni che coinvolgono il diritto e i diritti costituzionali. L’alternativa ad una decisione di “illegittimità differita”, del resto, sarebbe consistita in una pronuncia di rigetto con monito, che non avrebbe garantito in alcun modo il ripristino del vulnus costituzionale, o da una decisione di accoglimento di principio, che avrebbe lasciato margini di incertezza ancora maggiori.
Prof. Giacomo D’Amico
Per tentare di dare una risposta a questa domanda occorre chiarire due profili preliminari: innanzitutto, cosa si intende per «leale collaborazione istituzionale» e quanto questa si differenzia da un atteggiamento di mera deferenza nei confronti del legislatore? In secondo luogo, quali tecniche decisorie avrebbe potuto adottare la Corte in alternativa a quella poi fatta propria?
Quanto al primo interrogativo, non vi è dubbio che la risposta sia condizionata dal modo di concepire i rapporti tra Giudice delle leggi e Legislatore, di tal che, per quella parte della dottrina particolarmente critica nei confronti degli atteggiamenti “suprematisti” della Corte (su tutti, A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss.), la leale collaborazione non può che coincidere con un atteggiamento di massima deferenza nei confronti dell’organo deputato all’approvazione delle leggi. Rispetto a questa posizione, degna di massima considerazione e comprensibile (almeno per alcuni versi), è lecito però ritenere che l’inerzia del legislatore su tante questioni e la possibilità per quest’ultimo di intervenire in qualsiasi tempo e senza alcuna preclusione consentano al Giudice delle leggi un “margine di movimento” utile esclusivamente a garantire un’effettiva tutela di alcuni diritti fondamentali che, senza l’intervento della Corte, potrebbe essere definitivamente compromessa (ancora di recente, G. Amato nel webinar su Rappresentanza, populismo, democrazia, la cui registrazione è disponibile in https://fb.watch/41I49EtbFV/). Da questo punto di vista, il caso Cappato è particolarmente emblematico: una pronuncia di inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore avrebbe infatti portato alla condanna dell’imputato, soluzione, questa, che francamente sarebbe risultata inaccettabile agli occhi di molti (se non di tutti).
Quanto al secondo interrogativo, si è già fatto riferimento a una possibile decisione di inammissibilità, con le conseguenze che da essa sarebbero derivate. Parimenti “pesante”, ma per ragioni opposte, sarebbe risultato l’accoglimento secco delle questioni già a seguito dell’udienza pubblica svoltasi a ottobre 2018. Altre soluzioni intermedie, pur apprezzabili teoricamente, come ad es. un’eventuale additiva di principio, avrebbero fatto ricadere sulle spalle del giudice comune il peso di una decisione formalmente di accoglimento ma di problematica attuazione nella sostanza. Infatti, la naturale genericità dell’addizione operata dalla Corte in questi casi (appunto, di un principio) avrebbe determinato un’estrema difficoltà a rinvenire nella sentenza l’indicazione di un percorso concreto da seguire per giungere all’assoluzione dell’imputato.
Ed allora, ben venga una nuova tecnica decisoria!
In particolare, l’aver differito di un anno la decisione delle questioni di legittimità costituzionale mediante l’ord. n. 207 del 2018 va oltre il mero rinvio di una questione cui talvolta la Corte ha fatto ricorso per consentire l’intervento del legislatore (il riferimento è al rinvio dell’udienza di discussione della questione concernente il sistema elettorale c.d. Italicum). L’ord. n. 207 è tale, infatti, solo per il nomen utilizzato ma già dall’articolazione della motivazione (suddivisa in Ritenuto in fatto e Considerato in diritto) e soprattutto dalla pregnanza delle argomentazioni svolte si deduce la sua sostanza di sentenza.
Non a caso l’allora Presidente della Corte Giorgio Lattanzi ha parlato di un’«incostituzionalità prospettata», aggiungendo che «la Corte ha inteso evidentemente riconoscere il primato delle Camere nel definire dettagliatamente la regolamentazione della fattispecie in questione, perciò confido fortemente che il Parlamento dia seguito a questa nuova forma di collaborazione, nel processo di attuazione della Costituzione, e non perda l’occasione di esercitare lo spazio di sovranità che gli compete. Il successo della tecnica dell’ordinanza di “incostituzionalità prospettata” sarebbe anzitutto un successo per la funzione rappresentativa del legislatore, che andrebbe perduto se tale funzione non fosse in concreto esercitata» (Relazione in occasione della Riunione straordinaria del 21 marzo 2019, in www.cortecostituzionale.it, 12-13).
Sebbene, com’è noto, questa tecnica decisoria non abbia fin qui prodotto gli effetti sperati (né nel caso Cappato né nell’altra ipotesi in cui si è ad essa fatto ricorso, ord. n. 132/2020), stante la perdurante inerzia del legislatore, credo che le parole del Presidente Lattanzi e, prima ancora, la soluzione adottata dalla Corte siano del tutto condivisibili. Ciò nondimeno, possono immaginarsi correttivi, come ad es. quello di concedere un rinvio più lungo, specie là dove la decisione della Corte dovesse intervenire a ridosso dello scioglimento delle Camere; peraltro, la previsione di un rinvio più lungo potrebbe costituire un’alternativa preferibile rispetto a un’eventuale pronunzia della Corte che manipoli gli effetti temporali di una decisione di accoglimento, posticipandone il momento di produzione.
Si potrebbe ancora immaginare una ordinanza di rinvio (della causa ad altra udienza) un po’ più “contenuta” nella trattazione dei profili di merito rispetto a quella adottata nel caso Cappato, proprio al fine di non limitare eccessivamente i margini di manovra del legislatore e della stessa Corte. In ogni caso, però, credo che la strada tracciata dall’ord. n. 207/2018 costituisca uno strumento utile per garantire la leale collaborazione istituzionale.
Prof.ssa Chiara Tripodina
La Corte costituzionale, con la “doppia pronuncia” sul caso Cappato, ha in effetti inaugurato una nuova tecnica decisoria, data da un’“ordinanza di incostituzionalità prospettata” [Lattanzi], a cui segue una sentenza di accoglimento additiva di regola.
In particolare, nell’ord. 207/2018, la Corte, benché riscontrasse un vulnus costituzionale nel divieto assoluto di aiuto al suicidio ex dell’art. 580 c.p., non lo dichiarava nel dispositivo: riconoscendo che la questione di legittimità costituzionale si collocava all’«incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone[va …] scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere», i giudici costituzionali sospendevano il loro giudizio, dando al Parlamento undici mesi di tempo per «assumere le necessarie decisioni». Tali decisioni erano rimesse «in linea di principio alla sua discrezionalità»; ma, in linea di fatto, avrebbero dovuto essere adottate «nei limiti indicati dalla presente pronuncia» e «in conformità alle segnalate esigenze di tutela». Limite ed esigenze dettati in modo così stringente da fare pensare a un’“ordinanza-delega”, con tanto di indicazione di oggetto, principi, criteri direttivi e termine.
Che in undici mesi il Parlamento italiano - in quel momento storico e con quella maggioranza – potesse giungere a un accordo per un’apertura all’aiuto al suicidio nel senso indicato dalla Corte era assai improbabile. Così è infatti stato: non essendo sopravvenuta «nessuna normativa in materia», la Corte, ha adottato la sent. 241/2019.
Unico freno alla Corte costituzionale all’adozione di una sentenza additiva di regola avrebbe potuto venire – e in passato veniva – dal fatto che per disciplinare la materia fossero possibili plurime «risposte differenziate» e non vi fosse alcun contenuto che discendesse “a rime obbligate” dalla Costituzione. Ma la Corte ha reputato superato quel suo storico self-restraint: ciò «non è di ostacolo». Ove «i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali», la Corte «può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento».
Nel caso di specie, invero, non vi era un “vuoto di disciplina”, giacché il legislatore si era premurato di colmarlo con l. 219/2017, prevedendo per i pazienti nelle condizioni indicate dalla Corte il diritto alla rinuncia o alla sospensione dei trattamenti terapeutici vitali e la possibilità della sedazione profonda e continua e dichiarando al contempo inesigibili e irricevibili i «trattamenti sanitari contrari alle norme di legge», quali l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente.
Alla luce di ciò, benché la Corte costituzionale cerchi di collocare il suo innovativo modus procedendi in un contesto «collaborativo e dialogico fra Corte e Parlamento», a me non pare si possa parlare di “leale collaborazione istituzionale”: una questione così irriducibilmente divisiva a livello etico, giuridico, medico, politico e sociale, come superare il tabù del non uccidere e rendere non punibile una seppur circoscritta area di aiuto al suicidio, rispetto alla quale la Costituzione italiana non dice, meno che mai “a rime obbligate”, non avrebbe dovuto essere risolta dalla Corte costituzionale attraverso una scelta politica – quale inevitabilmente è una scelta che si assume in assenza di vincoli costituzionali - ma dal Parlamento, unico organo al quale la Costituzione riconosce tale potere, perché rappresentativo dei cittadini e dell’evoluzione della loro coscienza sociale. È la Corte Costituzionale stessa, per altro, ad affermarlo nell’ordinanza 207/2018: la questione «reclama una valutazione approfondita da parte del legislatore» e «richiede un approccio prudente delle corti», il cui «compito naturale» è quello «di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica», pur «con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte». Salvo poi di fatto discostarsi da questo quadro teorico.
E non vale dire che l’ordinanza del 2018 aveva proprio l’obiettivo di far decidere il Parlamento, rimasto colpevolmente inerte: in primo luogo, perché l’ordinanza conteneva già una decisione politica, poi confermata dalla sentenza, e si chiedeva al Parlamento di ratificarla, o al più di dettagliarla; e poi perché, come detto, una scelta sul fine-vita il legislatore l’aveva da poco compiuta con la legge del 2017. Neppure vale dire che era in questione un “diritto fondamentale” che non poteva essere lasciato privo di protezione, perché, in realtà neppure la Corte osa poi chiamare l’aiuto al suicidio medicalmente assistito “diritto” né apprestare le necessarie tutele che un diritto fondamentale esigerebbe a garanzia della sua effettività.
3. A pochi anni dall’approvazione della legge n. 219 del 2017, quali margini ha il legislatore rispetto alle coordinate fissate dal Giudice delle leggi e quali nodi è chiamato a sciogliere?
Prof. Stefano Agosta
Già ad una superficiale lettura, non pochi né secondari appaiono invero i semi variamente sparsi dalla giurisprudenza costituzionale in esame che il legislatore potrebbe decidere di far germogliare, fino a mettere utilmente a frutto, per il futuro.
In disparte l’ovvia considerazione per cui quelle fatte oggetto di censura non siano state norme qualsiasi bensì incriminatrici penali (con tutto quello che ne consegue in termini di variabile ampiezza del sindacato di legittimità costituzionale) e che, lungi dall’essere aggiornate alla luce del più recente progresso tecnico-scientifico, esse apparissero già assai usurate ed obsolescenti – e, in quanto tali, bisognose di un dibattito pubblico ed un successivo intervento legislativo che potesse così ri-nobilitare lo stesso Parlamento (il quale avrebbe potuto, ad esempio, non limitarsi ad intervenire sul solo aiuto al suicidio ma spingersi a ripensare l’intero ambito del fine-vita) – è pur sempre al legislatore che incombe la decisione ultima sul se adoperarsi e sul come farlo: in astratto anche decidere di non decidere, come si usa dire, rappresentando un naturale esercizio di discrezionalità legislativa (oltre che dimostrarsi in linea con talune indicazioni deontologiche e legislative in tema di responsabilità medica).
In concreto tuttavia – nonostante l’auspicio che il mantenimento di questo contegno normativo in materia possa in qualche misura rafforzare la «‘sovranità’ del sofferente» (così, S. PRISCO, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in Biolaw Journal, n. 3/2018, 169) – il rischio è piuttosto che un legislatore non legiferante finisca solo per consolidare il ruolo di supplenza dei giudici comuni, «sollecitati a produrre le regole richieste dal principio (…) somministrato dalla Corte» (in tal senso, A. RUGGERI, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit., 573). Qualora dovesse invece risolversi a colmare quel vuoto di tutela (già ex se costituzionalmente dannoso) conseguente all’incostituzionalità dell’art. 580 cit., sempre al Parlamento spetterebbe, poi, di definire quale sia l’ordine di priorità dei lavori da cui cominciare: se, cioè, dare finalmente avvio ad un vero e proprio processo riformatore dell’intero settore – a partire, ad esempio, dalla mancata (o largamente incompleta…) attuazione della l. n. 38/2010, Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore – ovvero semplicemente accontentarsi di un circoscritto atto più o meno formalmente ossequioso delle linee-guida tracciate dalla Consulta intorno ai «casi, i presupposti e le modalità di accertamento della validità della richiesta di aiuto al suicidio» [così, U. ADAMO, In tema di aiuto al suicidio la Corte intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare, in www.diritticomparati.it (23 novembre 2018), 3] (non troppo dissimilmente dalla pregressa esperienza dell’interruzione volontaria della gravidanza, ad esempio, introducendo una sorta di “scriminante procedurale”, il rispetto delle cui condizioni delimiterebbe l’ambito del penalmente consentito).
Dott.ssa Lucia Busatta
A mio avviso sarà necessaria una legge ad hoc, autonoma rispetto alla legge n. 219 del 2017.
La legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, infatti, è stata pensata come una legge di carattere generale, volta a regolare molteplici profili del consenso all’atto medico. Diversamente da quanto comunemente molti credono, la legge n. 219 del 2017 non si occupa solo di fine-vita. Certo, essa prende in considerazione anche i casi e le circostanze nelle quali la persona non desideri intraprendere un determinato trattamento oppure lo voglia rifiutare e, necessariamente, disciplina tutte le relative conseguenze, inclusa l’ipotesi in cui dal rifiuto possa derivare la morte della persona. Il consenso viene, poi, declinato anche nella dimensione temporale, ossia per un (più o meno) eventuale momento futuro in cui la persona, per un evento accidentale o a causa di una malattia già nota, perda la capacità di manifestare validamente e contestualmente la propria volontà.
Il perno della legge n. 219 è, dunque, il consenso, cardine della relazione di cura che si costruisce tra medico e paziente.
Differente è, invece, la natura giuridica dell’assistenza medica al morire. Si tratta, infatti, di una particolare tipologia di prestazione che, in linea con alcuni profili enucleati dalla Corte costituzionale stessa, dovrà essere ancorata ad un forte ruolo di controllo sia sulle condizioni di ammissione che sulle modalità di attuazione alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale.
Al legislatore restano molti nodi da sciogliere, a cominciare dalla decisione o meno di definire l’assistenza medica a morire come trattamento sanitario, in carico al Sistema sanitario nazionale, in via esclusiva o meno. Questa scelta necessariamente preliminare condizionerà, di conseguenza, l’intero impianto di una futura legge. A me pare, però, che questo sia il contenuto costituzionalmente vincolato che la Corte attribuisce ad una necessaria disciplina normativa della materia. Il giudice costituzionale, infatti, sottolinea ripetutamente che l’assistenza medica a morire può essere richiesta solo da una persona che, rientrando nelle condizioni cliniche e soggettive già richiamate, potrebbe esercitare il proprio diritto al rifiuto secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017. A motivo delle condizioni in cui la persona versa, però, un mero rifiuto non sarebbe sufficiente a realizzare l’autodeterminazione terapeutica e si rende, invece, necessario un ulteriore intervento esterno che non può che qualificarsi come intervento di carattere medico.
Questa strada, a mio avviso, è l’unica che può aiutare il legislatore a costruire una regolazione ragionevole e costituzionalmente rispettosa di tutti i molteplici valori coinvolti. Non è un percorso, però, scevro da ostacoli: come si è avuto modo di sostenere in altra sede, infatti, anche la medicina è in qualche modo costretta a rivedere il proprio statuto ontologico, dando maggiore rilievo al progetto di vita della persona e non solo al dato biologico.
Gli altri nodi che il legislatore dovrà sciogliere, poi, seguono tutti a grappolo il grosso problema definitorio di cui si è già detto e sono stati in larga parte già individuati dal giudice delle leggi. Il primo di essi consiste nello stabilire se riservare in via esclusiva o meno al sistema sanitario tali interventi, anche se ad avviso di chi scrive, così come con l’interruzione volontaria di gravidanza, deve essere preservato il ruolo del servizio pubblico per salvaguardare l’eguaglianza e l’universalità nell’accesso ad un trattamento per propria natura delicatissimo. Tutto il procedimento da seguire, poi, si presenta come un fitto groviglio, con interrogativi non di poco conto: a chi affidare l’incarico di verificare la sussistenza dei requisiti; se definirli diversamente rispetto a quelli indicati dalla Corte (il caso Trentini, da questo punto di vista, è significativo); quanti medici coinvolgere; se e come disciplinare l’obiezione di coscienza; se prevedere il ruolo obbligatorio o facoltativo di organismi collegiali, quali i comitati etici, e, nel caso, entro quali limiti; se disciplinare una procedura d’urgenza, e così via.
Un lavoro scritto da un gruppo interdisciplinare di medici e giuristi, pubblicato pochi mesi prima della sentenza n. 242 cerca di affrontare in modo bilanciato alcuni di questi interrogativi.
Prof. Carlo Casonato
In termini generali, il mio giudizio sulla legge n. 219 è certamente positivo. Ciò non toglie che ci siano alcuni aspetti che la normativa non ha previsto, e che andrebbero aggiunti; e altri che, invece, sono stati disciplinati ma in termini migliorabili. Fra le prime, va detto che la legge si occupa del diritto di esprimere le proprie volontà anticipate con strumenti molto efficaci, come le DAT (art. 4 ) e, ancor di più, la pianificazione condivisa delle cure (art. 5). La legge tace, però, sulla disciplina relativa alla prosecuzione dei trattamenti per malati che siano caduti in uno stato di incapacità senza aver lasciato alcuna disposizione al riguardo. Su questo punto, la legge potrebbe essere integrata, ad esempio, con quella che in Francia è definita la procedura collegiale, che precisa il percorso da intraprendere per ricostruire la volontà dell’incapace o per considerare la futilità o meno (ostinazione irragionevole) dei trattamenti.
Fra le parti che potrebbero essere migliorate, a mio giudizio, stanno la disciplina delle volontà dei minori, che a differenza di altri Stati europei è in Italia ancora solamente presa in considerazione, rimanendo però il consenso informato “espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale”, oltre che un concetto di capacità tuttora ancorato a categorie giuridiche fisse e poco adattabili alle mille sfumature che la realtà delle malattie neurodegenerative o delle demenze, ad esempio, presenta. La clausola di invarianza finanziaria (art. 7) è inoltre del tutto inadeguata, attesi, ad esempio, i compiti di formazione dei professionisti e di sensibilizzazione della società civile che la legge stessa presuppone.
Per quanto più da vicino riguarda le vicende del fine-vita, e la sentenza n. 242 in particolare, ritengo che il Parlamento dovrebbe intervenire ad eliminare il requisito della presenza dei trattamenti di sostegno vitale. Tale condizione è una conseguenza della logica adottata dalla Corte che, più che basarsi sul diritto all’autodeterminazione individuale, ha preferito poggiarsi sul principio di eguaglianza e, in particolare, sull’equiparazione fra i malati che potrebbero chiedere l’interruzione delle cure e quelli per cui tale interruzione provocherebbe, come nel caso di Fabiano Antoniani, una agonia considerata contraria alla propria dignità. D’altro canto, però, imporre tale condizione produce risultati paradossali. Alcuni malati, ad esempio, potrebbero non voler essere ventilati meccanicamente o idratati artificialmente, e richiedere l’aiuto nel porre fine alla propria vita proprio per evitare tali interventi. Costringerli a subire questi trattamenti al solo scopo di rientrare nelle condizioni per essere assistiti nel suicidio sarebbe irragionevole; e potrebbe rivelarsi incostituzionale in quanto lesivo del «rispetto della persona umana» che rinforza la riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, sui trattamenti sanitari obbligatori. Le condizioni cliniche di altri malati, inoltre, potrebbero non essere compatibili con una tracheostomia o una PEG, ad esempio, privandoli, così, dell’assistenza richiesta per motivi del tutto casuali. Procedendo nel solco della decisione adottata per il caso di Davide Trentini dalla Corte d’assise di Massa Carrara (27 luglio 2020), e andando oltre, sarebbe quindi utile – ritengo – sganciarsi da tale requisito, il quale, non a caso, non appare all’interno dell’ormai ampio panorama offerto dal diritto comparato.
Un ultimo elemento critico della sentenza n. 242 che ritengo debba essere precisato dal Parlamento – che auspico intervenga in tempi non lunghissimi – si riferisce all’intervento contestuale delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale e di un Comitato etico.
Prof. Giacomo D’Amico
I margini di manovra del legislatore sono, per definizione, ampi e lo sono in modo particolare nel caso di specie. La legge n. 219 del 2017, che pure costituisce una straordinaria conquista di civiltà, è pur sempre limitata al consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento. Sul primo versante, la legge afferma «che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1). Sul secondo fronte, si stabilisce che «[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (art. 4).
Al di fuori dei casi anzidetti e in assenza dei presupposti sopra indicati esiste a tutt’oggi un vuoto normativo. Al riguardo, la stessa Corte nella sent. n. 242 del 2019 precisa che «[l]a declaratoria di incostituzionalità attiene […] in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge [n. 219 del 2017]» (punto 5 cons. dir.).
In particolare, è evidente che manca nel quadro normativo una disciplina relativa ai comportamenti attivi (diversi, quindi, dalla mera rinuncia a trattamenti vitali) volti a porre termine alla propria esistenza in condizioni di particolare sofferenza, come quelle di Davide Trentini. In questa prospettiva le coordinate fissate dalla Corte costituzionale nelle due decisioni sul caso Cappato costituiscono un punto di partenza, non un punto di arrivo. Restano infatti da definire le condizioni generali per porre fine alla propria esistenza, valevoli in astratto e non ritagliate sui singoli casi. Sia chiaro, non vi è una soluzione obbligata ma non si può negare che la strada tracciata dalla Corte abbia definito i confini di una decisione legislativa conforme ai principi costituzionali dell’autodeterminazione della persona, della dignità dell’individuo, ma anche del sostegno dei soggetti particolarmente vulnerabili. Muovendo da queste premesse i nodi principali da sciogliere sono – come dicevo sopra – quelli della definizione delle condizioni in presenza delle quali il singolo individuo può essere “sostenuto” e “accompagnato” nella sua scelta di porre fine alla propria esistenza.
Su un piano diverso, resta poi il grande problema dell’effettività dell’offerta di cure palliative e di terapia del dolore che, se pure regolato a livello legislativo, sconta «molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie» (così la Corte nella sent. n. 242 riprendendo il parere del 18 luglio 2019 «Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito» del Comitato nazionale per la bioetica). Anche su questo punto, forse, un intervento del legislatore statale, oltre che un’iniziativa coordinata in sede di Conferenza Stato-Regioni, potrebbe contribuire ad assicurare quel “sostegno” di cui sopra si è detto.
Prof.ssa Chiara Tripodina
Nel dettare la disciplina del suicidio medicalmente assistito, la Corte dichiara più volte che essa è valida «nelle more dell’intervento del legislatore» [sent. 242/2019]. Quella della Corte è dunque sì un’opera di supplenza, ma sub condicione; una sorta di sentenze self executing, «fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento».
La Corte ha tuttavia posto dei paletti stringenti, rispetto ai quali il Parlamento non avrebbe margini di discostamento in caso di intervento, a meno di non volere innescare un conflitto istituzionale: nelle ultime parole della sent. del 2019, la Corte, se da un lato ribadisce «l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore», dall’altro conclude «conformemente ai principi precedentemente enunciati».
I paletti sono, in primis, il riconoscimento della libertà di autodeterminare la propria morte con suicidio medicalmente assistito per le persone si trovino nelle condizioni delineata dalla Corte.
«Dalle coordinate del sistema vigente» - e in particolare dagli artt. 1 e 2 della l. 219/2017 - la Corte ricava, poi, le «modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa chiedere aiuto [al suicidio]»: la necessità che la persona sia «capace di agire»; che la sua volontà sia acquisita «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente» e documentata «in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare»; che sia sempre assicurata «la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà». Sempre dalla legge si ricava che il medico deve prospettare al paziente «le conseguenze» della sua decisione «e le possibili alternative», tra le quali il coinvolgimento in un percorso di cure palliative, giacché, dice la Corte, proprio «l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta […] a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita».
Alle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale la Corte riserva «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio» e la verifica delle «relative modalità di esecuzione», che dovranno essere «tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». A un organo collegiale terzo - che nelle more dell’intervento del legislatore la Corte individua nei comitati etici territorialmente competenti – è riservata la «tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità».
Infine la Corte, discostandosi in ciò dalla legge 219/2017, riconosce al medico l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza.
Oltre questi paletti, restano comunque margini di discrezionalità al legislatore: se difficilmente egli potrebbe tornare indietro rispetto all’apertura tracciata dalla Corte, pena un conflitto istituzionale, potrebbe però andare avanti nel solco già tracciato.
Potrebbe, ad esempio, decidere di riconoscere la libertà (o questa volta il diritto) di determinare il proprio modus moriendi anche a persone che si trovino in condizioni diverse da quelle individuate dalla Corte costituzionale: anche alle persone che, pur affette da patologia irreversibile, in preda a sofferenze intollerabili, capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, non vedano tuttavia la loro vita dipendere da trattamenti di sostegno vitale; oppure anche alle persone che, versando in condizioni tali per cui è loro precluso anche quel barlume di autosufficienza che consentirebbe di darsi la morte premendo con le labbra lo stantuffo di una siringa (i locked-in), chiedono non di essere aiutate nel suicidio, ma di essere direttamente uccise (omicidio del consenziente, ex art. 579 c.p.). Come la Costituzione non impone il riconoscimento dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente, infatti, neppure lo vieta. Semplicemente non dice.
Il punto più estremo potrebbe essere il riconoscimento dell’esistenza di un diritto universale a morire nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire. Una volta fatto saltare il tabù del “non aiutare a morire” e in definitiva del “non uccidere” in ragione dei parametri dell’autodeterminazione, della dignità umana e dell’uguaglianza, infatti, tutti gli argini volti a strettamente circoscrivere l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio potrebbero poi saltare.
Resterebbe, in ogni caso, il vincolo costituzionale dato dai principi di solidarietà e autodeterminazione, che impone che sia garantita la certezza che la scelta della morte sia compiuta da persone autenticamente libere nella volontà e coscienza, e non costrette dalla percezione che la morte è l’unica via d’uscita a una situazione di sofferenza fisica e morale, alla quale la Repubblica (ciascuno incluso) non sa dare alternative dignitose.
4. Quale ruolo sono chiamati a svolgere i comitati etici, anche rispetto alle ipotesi che giustificano il ricorso all’aiuto al suicidio?
Prof. Stefano Agosta
Premessa la peculiare parabola cui sembra andato incontro l’innesto di un organo di consulenza indipendente (solo eventualmente previsto nell’ord. n. 207 cit. per poi essere ritenuto indispensabile nella successiva sent. n. 242 cit.) all’interno della procedura di suicidio medicalmente assistito, affatto scontato invero è che esso debba poi finire interamente per coincidere col comitato etico competente per territorio. Qualora, poi, la scelta dovesse ricadere proprio su quest’ultimo, ad ogni modo, di perplessità non ne mancherebbero. E, ciò, non tanto – o non solo – sotto il profilo dell’attitudine in astratto di tale organo «a garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità» [così, sent. n. 242 cit. (punto 5 cons. dir., dodicesimo cpv)] quanto, piuttosto, su quello della sua idoneità in concreto.
Se, difatti, può seriamente non discutersi – per così dire, in vitro – l’importanza del parere reso da quest’organo intorno ai presupposti di liceità dell’aiuto al suicidio assistito così come alle sue modalità esecutive (seppure originariamente immaginato per la sperimentazione di tipo farmacologico e clinico e solo successivamente integrato con funzioni di consulenza squisitamente etica), non altrettanto potrebbe dirsi della sua effettiva capacità nel vivo dell’esperienza: vale a dire una volta che si siano attentamente vagliate una serie di non trascurabili variabili spazianti dalla vincolatività o meno del parere eventualmente reso alla potenziale diversità di esiti cui potrebbero approdare comitati tendenzialmente frazionati sul territorio, passando attraverso la composizione assai eterogenea che tradizionalmente connota tale comitato (in quanto tale, non propriamente calibrata sulla valutazione di condizioni ex se più clinico-mediche che non semplicemente etiche).
Dott.ssa Lucia Busatta
Il ruolo dei comitati etici, come enucleato nella sentenza n. 242, è – a mio avviso – il punto più critico dell’intera vicenda. La Corte li ha indicati quali organismi privilegiati per tutelare le persone vulnerabili da eventuali abusi, ma non specifica (né, a rigore, avrebbe potuto farlo) come esattamente essi vengano coinvolti nel procedimento. Rimane, poi, aperto il nodo della competenza dei Comitati etici per la sperimentazione clinica, che sono gli organismi cui le norme di legge che la Corte cita fanno precipuo riferimento, che sono distinti dai Comitati etici per la pratica clinica. Questi ultimi, sia per composizione che per funzioni, parrebbero più adeguati a svolgere il compito di tutela che il giudice costituzionale vorrebbe ad essi attribuire. Laddove presenti, poi, non si può nemmeno escludere che possano pronunciarsi entrambi: il primo sull’utilizzo della sostanza da somministrare; il secondo sui profili più strettamente attinenti alla relazione di cura.
Il problema, però, oggi sta a monte: difficilmente un’azienda sanitaria si prende la responsabilità di avviare l’intera procedura, sebbene i contorni della legittimità dell’agire per l’assistenza medica al morire siano accuratamente cesellati dalla Corte. Un caso riportato nei giorni scorsi dagli organi di stampa (cfr. V. Zagrebelsky, Suicidio assistito, la legge negata, in La Stampa, 24 febbraio 2021, sulla lettera di Mario C.) lo dimostra chiaramente: prima di pensare a quale ruolo dovrebbero o potrebbero avere i Comitati etici, dobbiamo ragionare su come concretamente si può avviare il procedimento disegnato dal giudice costituzionale ormai più di un anno fa, in attesa che il legislatore intervenga a colmare evidenti vuoti di effettività. In questo senso, la Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana, con il parere 2/2020, prendendo atto degli esiti della decisione, ha cercato di affrontare le immediate ripercussioni della sentenza costituzionale sull’organizzazione sanitaria regionale.
Prof. Carlo Casonato
La Corte affida alle strutture del SSN il compito di verificare la concreta presenza delle quattro condizioni menzionate e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio, che dovranno essere tali “da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”. Inoltre, vista la delicatezza dei valori in gioco, la Consulta richiede “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. Tale organo dovrebbe essere rappresentato dai comitati etici per l’etica clinica di cui alcune, ma non tutte le realtà territoriali, dispongono; in loro assenza, tale responsabilità è affidata ai comitati etici per la sperimentazione clinica.
Come anticipato, tali compiti non possono essere disattesi a pena di non contraddire il disegno tracciato dalla Corte e, quindi, di instaurare una situazione non compatibile con il quadro costituzionale. Su queste basi, le strutture del SSN e i comitati etici devono attivarsi per prendere in carico ogni richiesta di aiuto.
Da un punto di vista procedurale, sarebbe peraltro utile, pur nelle more della legge invocata dalla Corte, un decreto ministeriale o forse anche una circolare, che precisasse alcuni passaggi necessari, come i tempi (necessariamente rapidi) da rispettare e il carattere (presumibilmente obbligatorio ma non vincolante) del parere del comitato. Pur in assenza di una normativa nazionale di riferimento per la costituzione dei comitati etici per l’etica clinica, inoltre, sarebbe molto utile che tutte le realtà territoriali si attivassero per la loro costituzione, a motivo del fatto che i comitati etici per la sperimentazione, per composizione e per attività ordinariamente esercitata, non appaiono i più adatti a svolgere l’assegnato compito di verifica delle situazioni di vulnerabilità.
Prof. Giacomo D’Amico
Com’è noto, la Corte costituzionale, nella sent. n. 242 del 2019 (ma non anche nell’ord. n. 207 del 2018) si è fatta carico, «[n]elle more dell’intervento del legislatore», dell’onere di “costruire” una «procedura medicalizzata» analoga a quella prevista nella legge n. 219 del 2017. In questa procedura trovano spazio i comitati etici territorialmente competenti, il cui intervento si giustifica – nella prospettiva del Giudice delle leggi – sia per la loro composizione (la Corte discute di «un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità»), sia per le loro attribuzioni («[t]ali comitati – quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria – sono, infatti, investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici»).
In questa prospettiva, i comitati etici costituiscono uno strumento per salvaguardare la posizione dei «soggetti vulnerabili». Invero, il riferimento a questi organi risulta non privo di un certo tasso di creatività, specie se si considera che l’attività di questi comitati è a tutt’oggi caratterizzata da forti ambiguità. Si allude ad ambiguità che investono sia la loro reale indipendenza dall’amministrazione sanitaria presso cui sono incardinati sia la loro stessa mission; in altre parole, essi ampliano o restringono il dibattito pubblico sulle questioni etiche? (su questi aspetti E. Furlan, Comitati etici in sanità. Storia, funzioni, questioni filosofiche, Milano 2015, spec. 34 ss.).
A ciò si aggiunga il carattere di precarietà che li contraddistingue e che certamente non favorisce la loro autonomia e indipendenza, riconosciuto dallo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica (I Comitati per l’etica nella clinica, 31 marzo 2017, 3), che già in passato ne aveva sottolineato gli aspetti problematici (I Comitati etici, 27 febbraio 1992; I Comitati etici in Italia: problematiche recenti, 18 aprile 1997; Orientamenti per i Comitati etici in Italia, 13 luglio 2001).
Come si vede, dunque, il riferimento ai Comitati etici risulta alquanto audace, non potendosi, in base al quadro normativo vigente, immaginare il loro intervento al di fuori delle ipotesi espressamente indicate dalla stessa Corte, vale a dire «al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante “Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”)».
5. La Corte costituzionale ha riconosciuto ai sanitari la possibilità di opporsi all’aiuto al suicidio per ragioni di coscienza. L’obiezione di coscienza ha lo stesso rango costituzionale del diritto all’autodeterminazione terapeutica? Entro quali coordinate essa può essere riconosciuta ed esercitata?
Prof. Stefano Agosta
Singolare, innanzitutto, è che all’obiezione di coscienza del personale sanitario il giudice delle leggi pare aver voluto dedicare uno spazio (quantitativo) ed un approfondimento (qualitativo) inversamente proporzionale all’importanza che ad essa invece dovrebbe comprensibilmente spettare in un campo talmente delicato come quello in discussione (a meno di non volersi rassegnare all’idea dell’ennesimo diritto proclamato ma non praticato e, per ciò, malinconicamente relegato nel cono d’ombra di una sostanziale ineffettività): la natura bifronte di ogni diritto – ivi (se non soprattutto) compreso proprio quello del ammalato a vedersi somministrati farmaci con proprietà abbrevianti della vita – dovendo necessariamente convertirsi, d’altro canto, nella imposizione, anche “mite”, di un frontistante dovere altrui.
Mentre, ad ogni modo, ci si può ancora confrontare sull’esistenza per il singolo medico in concreto di un vero e proprio obbligo oppure di una mera facoltà di dare seguito alla richiesta del malato – a seconda se sia, ad esempio, possibile intravedere una continuità ovvero una discontinuità con quanto già disposto in tal senso dalla l. n. 219 cit. (ovvero che si vogliano o meno sottovalutare le esiziali ricadute che un siffatto dovere potrebbe provocare per la professionalità dell’intera categoria medica) – non ugualmente può certo dirsi in capo al sistema sanitario nel suo complesso interamente considerato. Con l’inevitabile corollario, insomma, che ogni struttura pubblica di riferimento dovrà costantemente garantire la presenza e la disponibilità di almeno un medico non obiettore.
Dott.ssa Lucia Busatta
Allo stato attuale, non possiamo parlare di un vero e proprio diritto all’obiezione di coscienza per i medici, poiché la Corte non crea in capo ad essi un obbligo giuridico. Se si presenterà il caso, dunque, i medici potranno eventualmente richiamarsi alla clausola di coscienza prevista all’art. 22 del loro codice di deontologia medica.
In assenza di una legge che definisca il procedimento da seguire e le modalità per realizzare un intervento di assistenza al morire, a mio avviso, è difficile individuare precisamente i confini dell’obbligo di intervento del medico e la sua possibilità di sottrarsi ad esso. Anche per questo serve una legge: per chiarire ai medici (anche a quelli che vorrebbero poter aiutare persone nelle condizioni di Fabiano Antoniani o di Davide Trentini a trovare una morte dignitosa, non solo a quelli che non vorrebbero farlo) quali sono i termini del loro obbligo professionale.
L’intervento legislativo, dunque, è dovuto non solo per i pazienti, ma anche e soprattutto per i professionisti della salute che scelgono di dedicare la propria vita alla cura e alla salute degli altri e che per svolgere al meglio la propria professione devono potersi muovere entro un terreno giuridico chiaro e certo.
Prof. Carlo Casonato
In realtà la sentenza si limita a “escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”. In questo senso, non è necessario attivare in termini propri l’istituto dell’obiezione di coscienza, con i relativi limiti, tempistiche, procedure ecc., come ad esempio previsto per la legge n. 194 del 1978 in riferimento all’interruzione volontaria di gravidanza. In termini concreti, così, ogni professionista può decidere del tutto liberamente la propria disponibilità o meno all’aiuto al suicidio. Anche a motivo dell’incertezza che questo assetto potrebbe provocare, tale profilo dovrebbe essere affrontato specificamente nella legge che il Parlamento – mi auguro – non tarderà troppo ad approvare.
Prof. Giacomo D’Amico
Quanto alla possibile obiezione di coscienza dei medici, la sua previsione nella «procedura medicalizzata» costruita dalla Corte, pur apparendo in una certa misura scontata, non è priva di venature problematiche. Se è vero, infatti, che lo stesso Giudice delle leggi si fa carico di precisare che dalla declaratoria di incostituzionalità non deriva «alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici», restando affidato «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (sent. n. 242 del 2019, punto 6 cons. dir.), è altrettanto vero che l’obiezione di coscienza non può avere lo stesso rango del diritto all’autodeterminazione terapeutica.
Utili sono al riguardo le considerazioni svolte dalla Corte, in alcune risalenti pronunce, in relazione a due vicende tra loro profondamente differenti: l’obiezione di coscienza all’aborto e quella al servizio militare. In particolare, si segnalano, per la loro pertinenza rispetto al tema del quesito, la sent. n. 467 del 1991 e la sent. n. 43 del 1997, entrambe relative all’obiezione al servizio militare.
Nella prima, la Corte ha affermato che «la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico». In questa prospettiva «la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana».
Ciò nondimeno, la Corte ha precisato che «la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili», «se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale».
Dunque, non di un diritto assoluto si deve discutere, ben potendo il legislatore bilanciare la previsione di esenzione dall’assolvimento di doveri pubblici con l’esigenza di tutela di doveri o beni di rilievo costituzionale.
Ancora più esplicita è la Corte nella sent. n. 43 del 1997, nella quale si puntualizza che la protezione dei c.d. diritti della coscienza «non può ritenersi illimitata e incondizionata». Spetta, infatti, «al legislatore stabilire il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà ch’essa reclama, da un lato, e i complessivi, inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale che la Costituzione (art. 2) impone, dall’altro, affinché l’ordinato vivere comune sia salvaguardato e i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi».
Se dunque, da un punto di vista teorico, è chiaro il carattere “non illimitato” e “non incondizionato” del diritto all’obiezione di coscienza, non altrettanto semplice è definire in concreto le coordinate entro le quali essa può essere esercitata nell’ambito delle ipotesi (rese dall’intervento della Corte) lecite di aiuto al suicidio. La difficoltà nasce dalla fondamentale constatazione che l’obiezione di coscienza non è stata qui configurata dal legislatore, delineandone magari presupposti e condizioni, bensì dalla Corte in un passaggio abbastanza sbrigativo della pronuncia.
Più che definire le coordinate, si può dunque tentare di delineare i confini di questa ipotesi di obiezione di coscienza: innanzitutto, non deve avere carattere pretestuoso (come emblematicamente avvenuto nel caso di recente deciso dalla Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 9-15 febbraio 2021, n. 3780, a proposito dell’asserita obiezione di coscienza di un magistrato in relazione al ricorso all’aborto da parte di una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare); in secondo luogo, l’obiezione di coscienza del medico in relazione a condotte di aiuto al suicidio non può determinare la sostanziale vanificazione del diritto del paziente, gravando quindi sui responsabili delle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale (espressamente individuate nella sent. n. 242 del 2019) la responsabilità di assicurare la presenza di medici non obiettori.
È dunque sul versante del bilanciamento «con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale» che si può configurare un diritto del medico all’obiezione di coscienza.
In conclusione, vale la pena ricordare che analoghi problemi sono stati affrontati dal Bundesverfassunsgericht nella sentenza del 26 febbraio 2020, nella quale, pur riconoscendo un diritto alla morte autodecisa, il Tribunale costituzionale tedesco ha precisato che «il singolo deve, fondamentalmente, sopportare la mancanza di disponibilità medica individuale all’aiuto al suicidio come decisione tutelata dalla libertà di coscienza della persona che gli sta di fronte. Dal diritto alla morte autodecisa non deriva alcuna pretesa nei confronti di terzi ad essere sostenuti nella propria decisione a suicidarsi».
Prof.ssa Chiara Tripodina
Nella sentenza del 2019 la Corte afferma che «resta affidato […] alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato», giacché la sentenza stessa «si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Questo passaggio è cruciale, sia perché la Corte si discosta dal «preciso punto di riferimento» normativo che essa stessa aveva assunto, ossia la l. 219/2017, che non prevede alcuno spazio per l’obiezione di coscienza dei medici in caso di rifiuto o rinuncia a trattamento sanitario anche salva vita; sia perché l’«impellente esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore», che la Corte assume a ragione giustificativa della sua sentenza, mostra di non essere davvero tale, se i supposti “diritti fondamentali” vengono poi degradati a mere “richieste”: come più sopra detto, se sui medici non ricade alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio richiesto dal paziente, questi non può dirsi titolare di alcun diritto, meno che mai fondamentale.
Neppure si può dire che, se il singolo medico è libero, le strutture pubbliche del servizio sanitario sono invece vincolate a garantire il suicidio medicalmente assistito, trovando altro medico a ciò disposto: in capo ad esse la Corte pone solo oneri di verifica delle condizioni del paziente e delle modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio, non anche di esecuzione dello stesso.
Nelle mani del paziente che si trovi nelle condizioni indicate dalla Corte, resta dunque solo la libertà di richiedere l’aiuto al suicidio, che il medico ha la libertà di accogliere oppure rifiutare. Due libertà che si fronteggiano: possono incontrarsi e fondersi, oppure restare su binari separati e paralleli. Nessun diritto, nessun dovere. Questa costruzione è il chiaro sintomo della fragilità del fondamento costituzionale del supposto diritto all’aiuto al suicidio. All’opposto, il rifiuto o la rinuncia di trattamenti terapeutici, anche salva-vita, gode del solido fondamento dell’articolo 32.2 Cost., ed è questa la ragione per la quale correttamente la legge del 2017 non consente alcuna obiezione di coscienza al medico.
6. Quali soluzioni hanno individuato gli altri ordinamenti (in special modo europei)? Quali suggerimenti potrebbe cogliere il legislatore da queste esperienze?
Prof. Stefano Agosta
Il sempre maggiore rilievo che la comparazione giuridica è andata nel corso degli ultimi anni acquistando, tanto nelle esperienze di giustizia costituzionale che in quelle di normazione, è dato, ormai, di comune riconoscimento – al punto che non metterebbe quasi conto evidenziarlo [non poche volte ne ha, tra gli altri, discorso A. RUGGERI, ad esempio, nei suoi Comparazione giuridica e certezza del diritto costituzionale, in www.diritticomparati.it (28 luglio 2015); Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie e La garanzia dei diritti costituzionali tra certezze e incertezze del diritto, entrambi in www.giurcost.org, rispettivamente, 18 dicembre 2019, part. 719 ss., e 26 marzo 2020, spec. 172 ss.] – ed anche la materia che oggi ci occupa non fa invero eccezione.
Lasciando per il momento da parte il versante, per così dire, processuale della comparazione – con riferimento, cioè, a quelle tecniche decisorie (adottate non solo in Gran Bretagna e Canada ma, pure, in Germania) cui il nostro Tribunale costituzionale dimostra di aver guardato nella conduzione del proprio processo costituzionale – per soffermarci adesso sul solo profilo sostanziale, non vi è dubbio che molteplici potrebbero essere le soluzioni astrattamente prospettabili al legislatore italiano. Nella perdurante assenza della maturazione di un sufficiente grado di consensus europeo sul punto, assai esemplificativi potrebbero così rivelarsi i modelli di disciplina assunti da taluni paesi a noi più vicini come Belgio, Olanda e Svizzera (ad oggi ancora alla ribalta delle cronache nostrane, nondimeno, più per il cospicuo flusso di turismo c.d. eutanasico che li interessa che non quale fruttuoso esempio di buona normazione cui eventualmente ispirarsi).
A prescindere dall’oggettiva esiguità dei modelli comparati di disciplina attualmente disponibili quindi per il Parlamento – e volendo momentaneamente accantonare il merito delle misure in concreto importabili nel nostro paese – è pur vero che, nel metodo, quel paventato rischio rappresentato da normative che per attendere ad una singola, drammatica ed eccezionale, vicenda hanno finito radicalmente per mutare lo stesso approccio medico-culturale di un’intera nazione alla sofferenza ed alla dignità della vita dei soggetti più vulnerabili non dovrebbe mai essere perso di vista nemmeno dal nostro legislatore.
Non meno vero, tuttavia, è che tale pericolo neppure troppo dovrebbe essere però enfatizzato, se non si voglia del tutto sopprimere sul nascere qualsivoglia tentativo – per quanto laborioso e difficile possa in concreto rivelarsi – di riforma della materia in commento.
Dott.ssa Lucia Busatta
Le soluzioni in campo sono molte e fra loro assai differenti: ci sono ordinamenti che hanno valorizzato la dimensione di autonomia individuale del paziente, riducendo quindi molto il ruolo del medico (Oregon e California, ad esempio). Ci sono altri Stati il perno è costituito dalla procedura da seguire (Paesi Bassi, Belgio).
La strada da fare, per molti Paesi, è ancora tanta, come dimostrano le recenti sentenze in Austria e in Germania, mentre altri sono recentemente giunti all’approvazione di testi legislativi, che ora saranno passeranno alla prova dei fatti (v. Spagna e Portogallo).
A mio avviso, anche sulla scorta di ciò che l’esperienza pandemica ci sta insegnando, va salvaguardata la centralità del sistema sanitario nazionale, al fine di garantire a tutti in maniera eguale sul territorio nazionale tale possibilità di compiere questa scelta, con tutte le tutele dovute. In questo senso, la struttura pubblicistica e articolata del nostro Sistema sanitario è insostituibile per svolgere questo necessario ruolo di garanzia.
L’esperienza che, sopra a tutte, a mio avviso il legislatore dovrebbe seguire è, però, interna ed è quella del dialogo e del «paziente lavoro di confronto e di ricerca di soluzioni concrete» che ha portato, infine, all’approvazione della legge n. 219 del 2017 (le parole citate sono di Donata Lenzi, relatrice della legge alla Camera): un testo attento, equilibrato e inclusivo, capace cioè di abbracciare i diversi orientamenti valoriali individuali e di salvaguardare il ruolo della professione medica. Su questa strada dovrebbe, a mio parere, muoversi con celerità un legislatore consapevole e volenteroso di dar seguito alla leale collaborazione istituzionale invocata dalla Corte stessa.
Prof. Carlo Casonato
Il panorama di diritto comparato sul fine-vita è molto ampio e variegato. In termini generali, tuttavia, colgo una crescente tendenza all’ampliamento del ruolo riconosciuto alla volontà della persona; ampliamento che dal consenso informato sta transitando verso una più comprensiva tutela dell’autodeterminazione individuale. Mi spiego.
Le origini storiche del consenso informato possono essere ricercate nel diritto al rifiuto, il quale si riferisce non tanto ad un principio complessivo di autodeterminazione della persona, quanto, più semplicemente, al diritto di non essere sottoposti a trattamenti medici contro la propria volontà (right to refuse). Tale diritto trova negli Stati Uniti dei primi del ’900 i suoi primi riconoscimenti (sent. Mohr v. Williams, 104 N.W. 12, Minn. 1905, della Corte Suprema del Minnesota). Il principio dell’informed consent, così, si riferisce al diritto del paziente di autorizzare i medici a procedere con un intervento che altrimenti avrebbe costituito un reato contro l’integrità fisica del malato. Si trattava, quindi, dell’autorizzazione a intervenire con procedure invasive sul corpo del malato; autorizzazione che escludeva il carattere altrimenti illecito delle stesse. In questo modo, si vennero a fissare le coordinate di un principio che si riferiva strettamente alla tutela della dimensione fisica, corporale della persona (“bodily integrity” e “immunity from physical interference”, nelle parole della Corte).
Con il passare degli anni e con i progressi della medicina e della sensibilità sociale e giuridica, i limiti di questa impostazione, tutta e solo fisica, sono divenuti troppo stretti. Sono quindi ormai moltissimi i casi, da DJ Fabo e Davide Trentini a Gloria Taylor (Canada), da Daniel James (Regno Unito) a Vincent Lambert e Chantal Sébire (Francia), da Ramón Sampedro e María José Carrasco (Spagna) a Timothy Quill, Harold Glucksberg, Robert Baxter e Brittany Mainard (USA), in cui non si chiede una tutela della dimensione corporale, ma il rispetto di una ben più ampia autodeterminazione e di un complessivo orizzonte di valori: di una precisa e consapevole idea di sé e delle proprie prospettive esistenziali. Tali considerazioni portano a ridefinire la natura del consenso che, anziché avere come oggetto la mera dimensione fisica e come fine la sua integrità, si espande verso un più ampio concetto di autodeterminazione individuale, giungendo ad avere per oggetto l’identità personale (la struttura, in senso lato morale, della persona) e per obiettivo il suo rispetto e la sua promozione.
Tale tendenza mi pare ormai largamente affermata a livello comparato, anche se sono diversi, in ogni Stato, il grado di avanzamento, le forme e le modalità con cui si presenta. Così, solo per fare qualche esempio, il Regno Unito mantiene il reato di assistenza al suicidio, ma ne limita la perseguibilità concreta grazie alla prosecutorial discretion e alle direttive impartite dal Director of Public Prosecutions, mentre la Spagna adotterà a breve una legge che apre decisamente tanto all’assistenza al suicidio quanto all’eutanasia. Il Canada ha ormai da anni una normativa sull’aiuto al morire (Medical Assistance in Dying, 2016) e si accinge ora ad espanderne i termini di applicazione, mentre la Germania ha visto una sentenza del secondo senato del Bundesverfassungsgericht (26 febbraio 2020) che radica all’interno dei concetti costituzionali di libertà e dignità un amplissimo diritto all’autodeterminazione nel morire. “L’art. 1 del Grundgesetz” secondo le parole dei giudici tedeschi “garantisce la libertà dell’uomo, per come egli stesso si concepisce nella propria individualità […]. Elemento determinante è la volontà del suo titolare, che si sottrae a qualsiasi apprezzamento svolto alla stregua di valori generalmente accettati, di precetti religiosi, di modelli socialmente acquisiti sulla vita e sulla morte […]. La decisione del singolo, di porre fine alla propria vita sulla base della propria concezione della qualità della vita e del senso della propria esistenza, è nel momento finale un atto frutto di un’autonoma determinazione che lo Stato e la società devono rispettare”. E ancora: “[i]l diritto di uccidersi non può essere negato sostenendo che il suicida si privi della propria dignità, poiché egli contemporaneamente rinuncia al presupposto della sua autodeterminazione e con ciò alla sua soggettività [..] È vero che la vita è la base fondamentale della dignità umana. […] Da ciò, tuttavia, non si può dedurre che il suicidio compiuto sulla base di una volontà libera sia un atto contrario alla dignità umana […] La libera ed autonoma disposizione della propria vita è, al contrario, diretta espressione dell’idea – insita nella dignità – del libero sviluppo della personalità. Essa è, per quanto l’ultima, un’espressione di dignità. […] La dignità dell’uomo è, dunque, non un limite all’autodeterminazione della persona, ma piuttosto il suo fondamento”.
Con queste parole, la giustizia costituzionale comparata del fine-vita si è arricchita di una posizione robusta e coerente che, riecheggiando alcuni profili di una risalente pronuncia colombiana (C-239/1997), mi pare costringa ogni Stato di derivazione liberale ad un franco confronto con la sua logica stringente.
Prof. Giacomo D’Amico
La comparazione giuridica con altri ordinamenti costituisce senza dubbio uno degli argomenti che fa più presa sui giudici chiamati a risolvere questioni eticamente controverse. Al contempo, però, essa si rivela estremamente problematica, dovendosi “tarare” le argomentazioni “importate” sulla base delle peculiarità degli ordinamenti presi in considerazione. Pur con queste avvertenze, non v’è dubbio che la circolazione delle argomentazioni delle Corti (genericamente intese) costituisce un fattore formidabile di quella tendenza alla formazione di un diritto comune europeo in materia di tutela dei diritti (G. Silvestri, Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali, in Quad. cost., 1/2006, 7 ss.), se non di un diritto globale o, quantomeno, di un linguaggio comune globale.
Nella specifica tematica di cui si discute in questa sede, non può non balzare agli occhi l’esplicito richiamo, compiuto dalla Corte nell’ord. n. 207 del 2018, alla decisione della Corte Suprema del Canada del 6 febbraio 2015. In particolare, è significativo che il nostro Giudice delle leggi abbia tratto ispirazione da questa pronunzia per la scelta della tecnica decisoria da adottare. Nel caso Carter contro Canada (nel quale veniva in rilievo una normativa analoga a quella dell’art. 580 c.p.), infatti, «i supremi giudici canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l’efficacia della decisione stessa, proprio per dare l’opportunità al parlamento di elaborare una complessiva legislazione in materia, evitando la situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in conseguenza della decisione». In senso analogo si era espressa poco meno di un anno prima la Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri.
Ma, tornando alla vicenda canadese, di particolare importanza è il fatto che a quella pronunzia della Corte Suprema ha fatto seguito l’adozione della legge 16 luglio 2017 sulla c.d. aide médicale à mourir che ha novellato il Code criminel prevedendo una procedura medicalizzata molto simile a quella delineata dalla nostra Corte. In sintesi, si prevede che la persona debba essere affetta da problemi di salute grave e incurabili tali da causargli sofferenze fisiche o psicologiche persistenti e insopportabili, che la sua richiesta di aiuto medico a morire sia stata formulata per iscritto, in modo chiaro e dopo che l’interessato sia stato informato della possibilità di avvalersi di cure palliative. Si prevede, altresì, la possibilità che la richiesta di aiuto medico a morire sia formulata da persona incapace di esprimere la propria volontà.
Guardando, invece, al vecchio continente, particolarmente interessante è la vicenda del decreto dell’Assemblea della Repubblica portoghese, che regula as condições em que a morte medicamente assistida não è punível e altera o Código Penal. Questo decreto, approvato con un’ampia maggioranza il 29 gennaio 2021, è stato però impugnato in via preventiva dal Presidente della Repubblica portoghese (in data 18 febbraio 2021) sull’assunto del carattere indefinito delle condizioni di non punibilità individuate dal legislatore.
In particolare, le censure del Presidente portoghese si sono appuntate sui concetti di «situação de sofrimento intolerável» e di «lesão definitiva de gravidade extrema de acordo com o consenso cientifico», dovendosi, al contempo, escludere che l’insufficiente definizione legislativa possa essere corretta in sede di attuazione della stessa.
Il Tribunale costituzionale, con l’acórdão n. 123 del 15 marzo 2021, ha ritenuto che il primo concetto («situação de sofrimento intolerável») sia comunque determinabile nei casi concreti, ma che la nozione di «lesão definitiva de gravidade extrema de acordo com o consenso cientifico» non delimiti con sufficiente rigore le situazioni che possono giustificare la depenalizzazione della morte medicalmente assistita. Pertanto, con una decisione assunta a maggioranza (sette favorevoli e cinque contrari, peraltro con sei opinioni concorrenti e quattro dissenzienti), il Tribunale costituzionale ha ritenuto incostituzionale la norma in questione e, di conseguenza, il decreto, dopo il veto del Capo dello Stato, è ritornato all’esame dell’Assemblea della Repubblica.
Il decreto in parola aveva novellato alcuni articoli del Código Penal prevedendo una serie di condizioni per l’avvio del procedimento di morte medicalmente assistita (la volontà doveva essere attuale e reiterata, seria, libera e chiara). La richiesta doveva essere presentata a un medico scelto dall’interessato ma doveva essere sottoposta a un medico specialista e a uno psichiatra. Di particolare interesse era la previsione del parere favorevole della Comissão de Verificação e Avaliação, composta da due giuristi, da un medico, da un infermiere e da uno specialista di bioetica. Tutti i soggetti e organi coinvolti avrebbero dovuto esprimere parere favorevole, perché altrimenti il procedimento si sarebbe arrestato.
La normativa portoghese prevedeva, inoltre, il diritto all’obiezione di coscienza a favore dei medici e sanitari coinvolti nel procedimento.
La decisione del Tribunal constitucional – che richiama le due decisioni della Corte costituzionale sul caso Cappato, oltre a un’intervista de Il Fatto Quotidiano a G. Zagrebelsky – non sembra però preclusiva di un nuovo intervento legislativo. I giudici costituzionali si sono infatti preoccupati di precisare che non è preclusa al legislatore la possibilità di disciplinare l’anticipazione della morte tramite assistenza medica; devono, però, essere rispettati alcuni limiti, come la volontarietà della collaborazione dei terzi chiamati a intervenire e la piena autodeterminazione della persona interessata (punto 33: «No entanto, na conformação de tal regulação, o legislador tem de observar limites, designadamente os que decorrem dos deveres de proteção dos direitos fundamentais que estão em causa na antecipação da morte medicamente assistida a pedido da própria pessoa. Para além da salvaguarda da voluntariedade da colaboração dos terceiros, maxime a possibilidade de os mesmos invocarem objeção de consciência, impõe-se a proteção da autonomia e da vida da própria pessoa que pretende antecipar a sua morte. Esta encontra-se numa posição vulnerável, razão acrescida por que deve ser defendida contra atuações precipitadas ou determinadas por pressões sociais, familiares ou outras. Está em causa a adoção de uma decisão cuja concretização se traduz num resultado definitivo e irreversível, pelo que a mesma só deve ser atendida desde que existam garantias suficientes de se tratar de uma genuína expressão da autodeterminação esclarecida de quem a toma. Ora, é no quadro da definição de tais garantias que assume relevância a importância objetiva do bem vida»).
Di particolare interesse è proprio l’ultima affermazione del passo sopra riportato in cui il Tribunale costituzionale precisa che, (solo) alla luce della definizione di queste garanzie, il bene vita assume una rilevanza oggettiva.
Un’altra iniziativa interessante in tema di legalizzazione dell’eutanasia si registra, di recente, in Spagna, con l’approvazione della legge organica n. 3 del 24 marzo 2021, che ha disciplinato l’eutanasia modificando l’art. 143 del Codice penale. Questa legge prevede che l’eutanasia possa essere richiesta dalle persone con infermità grave e incurabile o con infermità grave, cronica e invalidante, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psichiche. È previsto che la richiesta debba essere scritta, assunta in piena coscienza dall’interessato e confermata più volte nel corso del procedimento. La verifica della sussistenza delle condizioni è rimessa a una commissione di garanzia interna al Sistema sanitario nazionale (Comisión de Garantía y Evaluación). Anche nei confronti di questa legge sono già preannunciati ricorsi al Tribunale costituzionale (soprattutto da parte del Partito popolare e di Vox).
Come si vede da questa rapida panoramica, alcuni punti fermi sembrano ormai acquisiti: la necessaria procedimentalizzazione dell’iter con il pieno coinvolgimento di specialisti, non solo dell’ambito medico di pertinenza in base alla malattia di cui è affetta la persona interessata, ma anche di bioeticisti e di giuristi; in secondo luogo, il carattere reiterato della richiesta che deve essere più volte confermata e la conseguente revocabilità della stessa in qualsiasi momento; infine, l’individuazione di un organo terzo e dotato al proprio interno delle competenze necessarie per la verifica della sussistenza delle condizioni richieste.
Anche con queste indicazioni – oltre che con quelle della nostra Corte costituzionale – il legislatore italiano si dovrà confrontare se non vorrà incorrere in un’altra esperienza fallimentare come quella che tuttora connota la normativa in materia di procreazione medicalmente assistita. Dunque, quanto mai opportuno è l’auspicio di un intervento da parte di un «legislatore pensante» (secondo quell’espressione che dà il titolo a questa rubrica). Utili mi sembrano sul punto le conclusioni formulate da Cass. R. Sunstein ormai più di venti anni fa: «It is not the Supreme Court but these other arenas – state legislatures, prosecutor’s office, hospitals, and private homes – that should decide whether, when, and how to legitimate a “right to die”» [The Right to Die, 106 Yale Law Journal (1997), 1163].
Questa frase non reca una semplice devoluzione di ogni “responsabilità” al legislatore, anzi tutt’altro!
In essa sono racchiuse tutte le istanze che in questi casi devono essere tenute in considerazione e da queste è difficile prescindere.
La responsabilità del datore di lavoro per Covid-19 tra tutele di sistema e normativa emergenziale.
La ricostruzione critica di un giuspositivista
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Fabrizio Amendola
«Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro – ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia». Un libro, piccolo, ma intenso, pubblicato, nel mese di febbraio 2021, per i tipi di Cacucci Editore (nella prestigiosa Collana “Biblioteca di cultura giuridica”, diretta da Pietro Curzio, serie Breviter et dilucide) che analizza il tema della responsabilità, civile e penale, del datore di lavoro, con riferimento al contagio da Covid-19, delineandone i confini nello stretto perimetro del diritto positivo, di sistema e speciale, senza le emozioni e i facili condizionamenti indotti dalla drammatica situazione emergenziale che da oltre un anno stiamo vivendo.
«Si darà corso ad una cronaca degli avvenimenti, con l’occhio di un osservatore minore ed uso all’analisi del diritto positivo per obbligo professionale, cogliendo anche l’opportunità per una riflessione più generale sugli intricati rapporti tra danni alla persona del lavoratore e responsabilità del datore di lavoro»: è questo il percorso dell’analisi dell’Autore (che di professione fa il Magistrato giuslavorista di Cassazione), con il quale, in questo dialogo, affrontiamo i temi più rilevanti ben sintetizzati dal titolo del libro, con una lettura sistematica delle tutele del lavoratore.
1. Innanzitutto il riferimento al “metodo giuridico”: lo ritroviamo nelle pagine finali del libro e nell’epigrafe che riporta il pensiero di Luigi Mengoni tratto dal suo importante saggio «Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico», Jus, 1976, p. 3 e ss., qui pp.46-47). «La scienza giuridica non è una scienza pratica nello stesso senso in cui lo sono la politica, l’economia o l’etica (quando non sia fondata su basi teologiche). Essa fa riferimento a comportamenti umani, ma il suo compito non è di spiegare o elaborare criteri di agire corretto, bensì di comprendere il significato di testi normativi autoritativamente predisposti per dettare regola ai rapporti sociali. La scienza giuridica è essenzialmente una scienza ermeneutica come tale dominata dal primato del testo».
La questione dell’interpretazione è da sempre al centro di ogni riflessione sul discorso giuridico e, con essa, il tema dei rapporti tra il giudice e la legge. Sappiamo che i giudici sono spesso accusati di sconfinare dal compito che sarebbe loro riservato e di utilizzare gli strumenti dell’interpretazione per andare oltre la legge. Nel brano di Luigi Mengoni che ho citato in esergo mi sembra sia mirabilmente condensato come al giurista non si addica elaborare canoni per stabilire in che modo ci si debba comportare, quanto piuttosto comprendere il significato delle disposizioni emanate da chi ha titolo per farlo: di qui l’esigenza di rispettare il testo normativo, al quale il Maestro significativamente attribuisce un ruolo di “primato” e dal quale la scienza ermeneutica è, con incisivo termine, “dominata”.
2. Quindi il giudice deve rispettare, prima di tutto, il vincolo della legge e il primato del testo, senza perdere di vista i «problemi»?
Che il giudice sia soggetto alla legge è ancora scritto nell’art. 101 della Costituzione. Quella legge che, nel nostro ordinamento democratico, è posta dal Parlamento in rappresentanza della sovranità popolare, anche quando quella sovranità si esprime con maggioranze non gradite. In nome di ciò che Massimo Luciani definisce “un sottile sentimento antipolitico, una sottile tentazione aristocratica”, mi pare siano state alimentate sofisticate dottrine della creatività giudiziale che hanno teorizzato la svalutazione dell’enunciato legislativo in favore di una “comunità interpretante” ritenuta più sapiente del legislatore, visto come incolto ed incapace di intuire i bisogni della collettività. I rischi di una giurisprudenza creativa, però, sono stati esposti, tra altri, da Luigi Ferrajoli, il quale ha evidenziato lucidamente come solo nella soggezione dei giudici alle leggi si fondi la legittimazione stessa del potere giudiziario. Senza questa “soggezione” non c’è legittimazione per esercitare il “terribile” potere che è dato dal giudicare i propri simili.
Questo non vuol dire che il giudice non debba costantemente misurarsi con le nuove questioni che si presentano in una realtà in repentina evoluzione. Anzi. Ma a mio parere deve farlo – raccogliendo il suggerimento di Nicolai Hartmann – mantenendosi “sistematicamente in contatto con i problemi”. Come ho cercato di dire nel libro, in tempi di trasformazioni imposte da complessi mutamenti sociali ed economici, così come dagli accidenti della pandemia, è lecito pretendere dai protagonisti della scienza giuridica “un diritto orientato sistematicamente”. Per sottrarsi alla frammentarietà del contingente, il giurista è chiamato a ricercare pazientemente la trama connettiva delle singole parti ed offrire soluzioni che tengano insieme il sistema, restituendo unitarietà all’ordinamento e garantendo una dose ragionevole di stabilità anche nelle trasformazioni.
Ma il sistema - ci ricorda ancora Mengoni – è quello che si ricava, con rigoroso metodo giuridico, per astrazione dall’analisi del contenuto delle norme positive.
3. Un sistema aperto, ma pur sempre un sistema e, quindi, un inquadramento logico-razionale d’insieme delle regole che governano la realtà. Ma non ritiene auspicabile, e giusta, l’apertura del giudizio ai valori e alle conseguenze pratiche delle regole giuridiche?
So che la risposta precedente può avere il sentore di una “legolatria” ottocentesca, contraria a ciò che Natalino Irti chiama il “brivido dei valori”, i quali – aggiunge - consentirebbero però all’interprete di “aggirare” le leggi e “di invocare più alta e nobile fondazione, sostituendo all’oggettività del testo normativo l’intuizionismo dei singoli”. Non credo si tratti di insensibilità al bisogno di giustizia che scaturisce da ogni caso concreto, perché ritengo che, per un giudice, i valori che contano non possano essere il frutto di personali opzioni o di precomprensioni militanti, ma piuttosto siano quelli inverati nei principi costituzionali o, nei limiti in cui la Costituzione lo consente, nelle fonti sovranazionali. Ma poiché i principi non son regole ed il loro contenuto ampio ed indeterminato si presta ad operazioni in cui l’interprete invoca gli stessi solo per trovare conferma ai propri soggettivi convincimenti, magari opposti agli intenti del legislatore, occorre chiedersi – come ha fatto con onestà intellettuale Antonio Ruggeri in una celebre intervista raccolta proprio da Giustizia Insieme – “quante volte questo o quel giudice abbia ammantato delle candide vesti dell’interpretazione conforme una sostanziale manipolazione dei dati normativi, invece di investire – come si sarebbe dovuto – la Consulta di una questione di legittimità costituzionale” [Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Intervista in tre domande, a cura di Roberto Giovanni Conti, a Antonio Ruggeri e Roberto Bin, in Giustizia Insieme, 10 aprile 2019, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/112-main/le-interviste-di-giustizia-insieme/623-giudice-o-giudici-nell-italia-postmoderna-le-conclusioni]. Quindi, se la domanda sottende che l’applicazione delle “regole giuridiche” può talvolta dare luogo a “conseguenze pratiche” che appaiono contrarie a sentimenti morali di giustizia sostanziale, concordo con Massimo Luciani nel dire che, nello Stato costituzionale di diritto, un giudice ha un’unica strada: “verificare se quei principi morali siano stati positivizzati (cioè, in senso proprio, se si siano fatti diritto positivo) in Costituzione e procedere, in caso affermativo, a promuovere un incidente di costituzionalità”.
4. Fatta questa doverosa premessa, una domanda è d’obbligo, tratta dal sottotitolo e dalle pagine introduttive del libro: quali sono le illusioni percettive (e cognitive) in tempo di pandemia che possono condizionare il discorso giuridico?
La psicologia sperimentale ha indagato quel particolare fenomeno per cui la mente umana talvolta raccoglie informazioni dall’esterno e le elabora in modo anomalo, causando un’illusione per la quale si resta convinti di ciò che non è corrispondente alla realtà. Comunemente si tratta di illusioni visive, ma più di recente si è scoperto, nell’ambito dei modelli teorici che analizzano i processi decisionali, che il fenomeno interessa anche i comportamenti, sia individuali che collettivi: i giudizi della mente, soprattutto quando influenzati da scelte intuitive rese in condizioni di urgenza e di incertezza, possono condurre ad errori di percezione e, quindi, di decisione. Mi è sembrato di cogliere tale fenomeno anche nella vicenda che, in occasione della pandemia, ha visto interventi del legislatore volti a disciplinare gli effetti sul rapporto di lavoro della malattia da coronavirus eventualmente contratta sul lavoro. Nel libro mi sono dunque chiesto in successione: se l’art. 42, co. 2, d.l. n. 18/2020, con cui l’INAIL è chiamato a garantire tutela ai casi accertati di infezione contratta in occasione di lavoro, fosse davvero indispensabile oppure se l’indennizzo potesse essere riconosciuto già in ragione delle norme preesistenti; in qual modo, poi, gli operatori del mondo del lavoro abbiano reagito a tale innovazione legislativa e se tale reazione potesse dirsi giustificata o piuttosto il frutto della errata percezione della realtà giuridica; infine, se il successivo art. 29 bis del d.l. n. 23/2020, evidentemente volto a contenere l’eventuale responsabilità dei datori di lavoro, abbia probabilità concrete di centrare l’obiettivo ovvero se anche ciò possa finire per tradursi in un’illusione.
5. L’esposizione del discorso giuridico, nello specifico, inizia con una completa, seppur sintetica, ricognizione degli assetti del diritto vivente in tema di obblighi datoriali correlati alla tutela della persona nei luoghi di lavoro e delle conseguenti responsabilità per inadempimento, nel perimetro dell’art. 32 Cost. Come opera, e con quali limiti, il bilanciamento del diritto alla salute con gli altri diritti costituzionalmente tutelati?
Per comprendere cosa sia mutato con i recenti interventi legislativi, ho pensato fosse utile una preliminare ricognizione dello status quo ante. A partire, ovviamente, dalla Costituzione e da quell’art. 32 che costruisce la salute come diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, immediatamente operante nei rapporti tra privati e, sicuramente, anche quale schermo protettivo nei luoghi di lavoro, dove assume espressione significativa la personalità individuale. Tuttavia la Corte costituzionale (sentenza n. 85 del 2013) ci ha detto che neppure il diritto alla salute assurge a diritto “tiranno”, gerarchicamente sovraordinato, considerato che pur esso è partecipe di un inevitabile bilanciamento con principi fondamentali di carattere sistemico (sentenza n. 264 del 2012). Spetta al legislatore il compito di trovare il necessario contemperamento ed alla Corte costituzionale poi verificare la compatibilità di tali scelte legislative con il dettato della Carta fondamentale.
6. Il sistema legislativo si basa, tuttora, sull’art. 2087 c.c., che ha un contenuto flessibile e opera in stretta connessione con la normativa speciale. Tuttavia la configurazione della responsabilità del datore di lavoro, anche in campo civilistico, non è mai oggettiva. Nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore come si realizza e prova e con quali rispettivi oneri delle parti?
La struttura aperta dell’art. 2087 c.c. ha consentito alla norma per decenni di adattarsi alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico, assolvendo la funzione di chiusura dell’intero sistema antinfortunistico. Tuttavia molti evidenziano il rischio che una norma “in bianco” così concepita presti il fianco ad addebiti di responsabilità secondo il senno del poi, per il solo fatto che l’evento lesivo si sia comunque verificato. La giurisprudenza di legittimità ha cercato di scongiurare tale pericolo affermando costantemente che la disposizione codicistica non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva. Dal dovere di prevenzione non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a colpa dell’imprenditore, per violazioni di obblighi di condotta imposti da norme tipizzate o suggeriti dalla tecnica, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della possibile conoscenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Inoltre incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno, l'onere di provare l'esistenza di esso, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altro, mentre spetta al datore di lavoro, per liberarsi dalla responsabilità avente natura contrattuale, dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno stesso.
7. Il perimetro costituzionale della tutela dei lavoratori è segnato anche dall’art. 38, co. 2, Cost., che realizza, ora, in termini solidaristici la sicurezza sociale.
Con l’art. 38, co. 2, Cost., si abbandona la logica chiusa della mutualità corporativa, e la conseguente forma privatistica della copertura assicurativa, in favore di un sistema di sicurezza sociale improntato alla solidarietà, con l’obiettivo di realizzare un interesse pubblico generale, ancorato non più a contribuzioni o premi versati quanto piuttosto ad istanze di maggiore giustizia sociale. Un tempo la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali era ispirata all’idea che il datore di lavoro, pagando il premio all’istituto previdenziale, fosse esonerato dalla responsabilità per l’evento dannoso cagionato come si trattasse di un’assicurazione privata. Con l’avvento della Costituzione l’assicurazione obbligatoria si distacca dal concetto statistico assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata, per approdare ad una interpretazione dell’art. 38, co. 2, Cost., coordinata con l’art. 32 Cost., che ha lo scopo di garantire con la massima efficacia la tutela fisica dei lavoratori e di liberare costoro rapidamente dallo stato di bisogno determinato dall’infortunio o dalla malattia.
8. Quali sono i principi che regolano il rapporto trilatero, con la presenza anche dell’Inail, sul piano contributivo-assicurativo e indennitario-risarcitorio?
I tre protagonisti così ripartiscono i rispettivi ruoli: da un lato, il datore di lavoro, su cui grava la parte più consistente di contributi, il quale, per contropartita, viene di regola esonerato dalla responsabilità civile conseguente all’infortunio; dall’altra, l’INAIL, che paga le rendite secondo un ammontare predeterminabile, con eventuale diritto di regresso verso il datore penalmente responsabile o di surroga verso i terzi; infine il lavoratore, il quale, con una ridotta partecipazione agli oneri contributivi, viene a fruire delle prestazioni fornite dall’Istituto in modo quasi automatico. Ne risulta un articolato meccanismo in cui la tutela indennitaria riconosciuta dall’istituto assicuratore pubblico concorre con la tutela risarcitoria dovuta dal datore per i danni patrimoniali e non.
9. C’è da considerare, poi, l’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, sull’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile in materia infortunistica, che è sempre punto di ricaduta di tensioni interpretative giurisprudenziali.
Mi pare che, negli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità abbia cercato di fornire una ricostruzione sistematica dei complessi rapporti di reciproca interferenza delle regole che presiedono il sistema di assicurazione obbligatoria con le azioni di risarcimento del danno promosse dal lavoratore, a partire da Cass. lav. n. 9166 del 2017, passando per Cass. n. 8580 e 9112 del 2019, per giungere alla recente Cass. lav. n. 12041 del 2020, con l’affermazione di principi utili per gli operatori di cui ho cercato di dare sinteticamente conto nel libro.
10. Con la finalità di prevenzione, anche per garantire la possibilità di continuare a mantenere aperte le attività economiche, produttive e sociali hanno assunto, sin dall’inizio, un’importanza fondamentale i «protocolli». Come giudica questa scelta del governo e, poi, del legislatore?
Sin dai primi giorni di marzo del 2020 i “protocolli di sicurezza anti-contagio” hanno contrassegnato la decretazione d’emergenza, sino a trovare menzione in fonti di rango legislativo che ne sanciscono, senza più equivoci, l’efficacia normativa generalizzata. Innanzitutto essi sono stati lo strumento utilizzato dall’autorità pubblica per consentire attività che risultavano pericolose per il solo fatto che, nell’esercizio di esse, venivano a contatto più persone; si subordinava quindi la loro prosecuzione all’adozione delle misure di contenimento previste dai protocolli condivisi, tanto che la violazione delle cautele ivi indicate determinava, come sanzione, la sospensione amministrativa dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. In tal modo si è agevolata la graduale ripresa delle attività produttive, garantendo livelli sufficienti di tutela. Non può negarsi, poi, la capacità dei protocolli di orientare le condotte dei datori di lavoro nell’assolvimento dell’obbligo di sicurezza, in un momento in cui anche la scienza ufficiale era in difficoltà nel fronteggiare un fenomeno del tutto inedito; da subito la dottrina ha rilevato che - in tempo di Covid-19 - il perimetro della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. doveva ragionevolmente dirsi contenuto nell’obbligo di diligente adempimento delle specifiche misure di sicurezza tempo per tempo definite dai protocolli, quali best practices secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico per la prevenzione del contagio negli ambienti di lavoro. Valuto positivamente anche l’immagine di sinergia offerta al Paese in un frangente drammatico, derivata dal fatto che le parti sociali si sono sedute allo stesso tavolo, su invito del Governo, per trovare il modo di condividere, in brevissimo tempo, ciò che c’era da fare.
10. Si arriva, quindi, alla previsione dell’art. 42, co. 2, del decreto-legge “Cura Italia” (d.l. n. 18/ 2020, conv. in l. n. 27/2020), che sin da subito ha sollevato, da più parti, contestazioni, anche a livello parlamentare, e allarmate proteste per l’assimilazione del contagio da Covid-19 all’infortunio sul lavoro. Tutto giustificato? Qual è l’esatta portata di questa disposizione ritenuta superflua in base al contesto normativo e amministrativo vigente?
Secondo la norma citata l’INAIL “assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato […] nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro” ed ho spiegato le ragioni per le quali non sarebbe stato possibile negare la tutela antinfortunistica, anche secondo le regole già vigenti in virtù del d.P.R. n. 1124 del 1965, al lavoratore che fosse stato contagiato “in occasione di lavoro”, sulla scorta di una giurisprudenza che accetta una nozione ampia di essa, rilevando solo che l’attività lavorativa sia svolta secondo il contratto di lavoro e rientrando nella protezione assicurativa qualsiasi attività riconducibile funzionalmente a questa. Sul fatto che la nuova disposizione non fosse indispensabile per garantire la copertura INAIL ha convenuto pressoché unanime dottrina, taluno evidenziando solo che la norma potesse essere utile per sgombrare il campo da eventuali dubbi interpretativi. Anche l’Istituto assicuratore, con due circolari in successione di aprile e maggio 2020, ha subito chiarito che l’art. 42 non presentava aspetti innovativi rispetto “all’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie”, perché l’INAIL, da sempre, tutela tali “affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro”, per cui occorreva ricondurre ad essi anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto. In definitiva l’art. 42 del “Cura Italia”, analizzato alla stregua del diritto positivo, è in larga parte riproduttivo di effetti che si sarebbero realizzati anche se non fosse stato emanato ed ha contenuti realmente innovativi davvero circoscritti e residuali, quali il mancato computo dell’infortunio eventualmente accertato ai fini del calcolo del premio aziendale (con aggravio della gestione assicurativa in favore delle imprese) e l’erogazione delle prestazioni anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare. In ogni caso l’art. 42 cit. interviene in un ambito che vale nel rapporto tra lavoratore ed INAIL, a fini indennitari, ed è estraneo ad ogni valutazione circa condotte eventualmente omissive del datore di lavoro che possano essere stata causa del contagio; la protezione assicurativa pubblica non è subordinata ad alcun accertamento di responsabilità datoriale, essendo sufficiente che l’evento si sia verificato in occasione di lavoro, a prescindere che l’imprenditore abbia o meno rispettato le misure prescritte, di modo che non possono essere confusi i presupposti per la responsabilità civile o penale del datore di lavoro con quelli previsti per l’erogazione di un indennizzo INAIL.
11. Nella Sua ricostruzione di questo aspetto della normativa emergenziale rilevo due punti critici. Innanzitutto la tendenza di alcuni interpreti ad accreditare una sorta di «socializzazione del rischio da contagio», per rendere più effettiva la tutela prevenzionistica.
Non mi ha convinto la tesi, pur autorevolmente sostenuta, che costruisce un sistema di presunzioni, anche assolute, le quali non ammetterebbero prova contraria circa l’origine professionale della patologia, in favore di chi si sia ammalato ed abbia comunque lavorato nei giorni precedenti la manifestazione del virus. Salvo ritenere che ogni incertezza circa il luogo ove si sia consumato l’evento contagiante debba sempre e in ogni caso porsi a carico della collettività; ma ciò avrebbe dovuto passare attraverso una chiara assunzione di responsabilità politica del legislatore che non mi pare emerga dalla lettura dell’art. 42 in commento.
12. In secondo luogo l’ipotizzata possibilità di stravolgere il compendio probatorio tipico delle cause previdenziali infortunistiche, con riferimento agli oneri di allegazione e di prova che fanno carico al lavoratore, per farne derivare una presunzione assoluta di indennizzabilità. È così?
Stante l’esigenza di armonizzare la nuova disciplina con i consolidati principi in materia, a mio avviso innanzi ai giudici opereranno le regole probatorie lungamente sperimentate dalla giurisprudenza che si è occupata dell’accertamento della sussistenza di un infortunio sul lavoro indennizzabile, senza teorizzare nuove regole in difetto di esplicite disposizioni che sovvertano quelle già vigenti. In generale, l’occasione di lavoro rappresenta un elemento costitutivo della domanda giudiziale volta ad ottenere le provvidenze da infortunio, con allegazione e prova incombente sul lavoratore che le richiede. Nella consapevolezza che per le malattie a trasmissione silente chi agisce può trovarsi nella difficoltà, se non nell’impossibilità, di stabilire ed allegare il momento contagiante, si è da sempre consentito un largo uso della dimostrazione fornita in giudizio mediante presunzioni semplici.
13. Eppure l’allarme sociale è stato enorme e da più parti è stata invocata la necessità anche di uno «scudo penale» per rendere effettivo l’esonero da ogni responsabilità del datore di lavoro, quanto meno in conseguenza del rispetto dei protocolli sottoscritti.
Nel paragrafo dedicato a “La cronaca degli eventi” racconto come l’art. 42 del “Cura Italia” – norma nuova solo in apparenza – abbia effettivamente suscitato reazioni allarmate. Sulle pagine dei giornali dell’epoca rappresentanti delle associazioni imprenditoriali invocavano garanzie e si prefiguravano indagini penali a tappeto che potessero investire la struttura produttiva del Paese; nella aule parlamentari si interpellava il Governo per sollecitarlo ad adottare “iniziative necessarie” al fine di scongiurare che la “equiparazione della malattia all’infortunio sul lavoro”, asseritamente realizzata dall’art. 42 del decreto legge n. 18/20, producesse conseguenze “gravissime” sui datori di lavoro, anche sul piano penale; i consulenti del lavoro formulavano ipotesi di “scudo penale” e le opposizioni proponevano che l’imprenditore che rispettasse i protocolli venisse esonerato “da ogni responsabilità connessa ad eventuali contagi”; la task-force di Colao poneva al primo punto del suo programma l’esclusione della contaminazione da coronavirus da ogni ipotesi di responsabilità civile e penale dei datori di lavoro.
Pur essendo chiaro a chiunque avesse voluto vedere che l’art. 42 non prefigurava alcuna nuova responsabilità civile, né, tanto meno, penale del datore di lavoro, il dato reale è stato così travisato – come sostengo nel libro – “per difetto di comprensione ovvero per le pressioni di interessi particolari, procurando all’opinione collettiva un’illusione cognitiva”. Questa ha generato una reazione che non corrisponde alla realtà del fenomeno giuridico ed ha innescato un successivo intervento legislativo che trae origine in quella svista percettiva.
14. Così è stata partorita la norma di cui all’art. 29 bis introdotto dalla l. n. 40/2020, in sede di conversione in legge del d. l. n. 23/2020, che definisce il perimetro della responsabilità datoriale nella situazione di contagio epidemiologico. Pensa che questa norma renda effettivo l’esonero da ogni responsabilità del datore di lavoro che rispetti i protocolli condivisi?
Secondo l’art. 29bis del c.d. “Decreto Liquidità”, che ha visto la luce su emendamento di matrice governativa ed in coincidenza con la ripresa dell’attività produttiva nella Fase 2, i datori di lavoro “adempiono all’obbligo” previsto dall’art. 2087 c.c. “mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute” nei protocolli indicati dalla stessa norma. È stato subito chiaro a tutti che l’obiettivo di fondo fosse quello di limitare la responsabilità datoriale per il rischio da Covid-19 negli ambienti di lavoro; si è cercato di conseguirlo elevando le misure contenute nei protocolli alla stregua di regole tipizzate da rispettare in tempo di pandemia. Ho riportato i primi commenti, soprattutto della dottrina penalistica, improntati a scetticismo – con toni anche aspri – circa la reale possibilità di centrare l’obiettivo. Ho provato, quindi, nel libro a rispondere all’interrogativo sul se l’adempimento delle prescrizioni contenute nei protocolli esaurisca gli obblighi gravanti sul datore di lavoro ovvero se residui ancora un margine per l’operatività dell’art. 2087 c.c.; in altre parole, se l’art. 29bis riesca a surrogarsi totalmente alla disposizione codicistica, così trasformandola da clausola aperta a contenitore che raccolga solo ed esclusivamente le misure prevenzionali indicate nei protocolli.
15. In questo contesto si colloca, con riferimento al contagio da Covid-19, la disputa tra rischio generico e rischio specifico che, sin dall’inizio, ha appassionato, e appassiona tuttora, gli interpreti e gli operatori di settore.
Vero. Da una parte coloro che hanno sostenuto la tesi secondo cui non si tratterebbe di rischio professionale cui il lavoratore è ordinariamente esposto in ragione della mansione espletata, bensì di rischio sanitario generico già valutato a monte dalle autorità pubbliche e da fronteggiare mediante le generali misure di igiene imposte all’intera popolazione. Dall’altra parte la dottrina che ha sottolineato come, sebbene il pericolo del contagio incomba sulla collettività intera, chi è chiamato a lavorare in presenza subisca un aggravamento del rischio rispetto a quello generale della comunità, già solo per l’aumento delle occasioni di contagio nei luoghi di lavoro e per recarsi presso di essi, e che, comunque, le modalità di organizzazione della prestazione possono costituire ex se un potenziale fattore di rischio. Tuttavia a me è parso che con l’art. 29bis il legislatore si sia reso conto che, al fine di accertare eventuali responsabilità datoriali, non importa tanto chiedersi se il rischio da Covid-19 sia generico o specifico oppure aggravato, quanto piuttosto identificare le condotte da adottare per prevenire il contagio, sulla banale considerazione che ogni luogo dove lavorano più persone diventa – per ciò stesso - occasione di propagazione del virus, il che rende doverosa l’applicazione di misure di cautela.
16. Resta, comunque, la necessità di aggiornare il documento di valutazione dei rischi, tenuto conto anche degli arresti giurisprudenziali.
Anche questo dibattito ha appassionato molto l’Accademia, ma, dal punto di vista pratico, ritengo sarà ben difficile che qualsiasi consulente d’impresa, al cospetto di una pandemia ad effetti duraturi che incide così profondamente sui modelli organizzativi, non suggerisca prudentemente di adeguare “lo strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”, piuttosto che esporre il cliente al rischio d’incorrere nella contravvenzione dell’art. 55, co. 1, lett. a) e co. 3 del Testo Unico. Tenuto altresì conto che per le Sezioni unite penali (cfr. sentenza n. 38343 del 2014) il datore di lavoro ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare “tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e all'esito deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi”.
17. Come giudica la tesi prospettata da una parte della dottrina (ad es. Arturo Maresca) sulla esaustività dei protocolli condivisi rispetto anche alla disposizione normativa generale di cui all’art. 2087 c.c., che risulterebbe superata?
Il Professor Maresca ha espresso l’opinione che, in base all’art. 29bis, il rispetto delle prescrizioni dei protocolli sarebbe idoneo ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, senza alcuno spazio per l’art. 2087 c.c., elidendo così vari effetti negativi, quali la carenza di uniformità delle misure di prevenzione del contagio, l’incertezza in ordine al loro contenuto, l’amplissima discrezionalità del giudice nell’accertamento della responsabilità datoriale che, al di là delle affermazioni di principio, sarebbe acclarata spesso con valutazioni ex post. Mi sono permesso di insinuare qualche dubbio sul fatto che questa netta ricostruzione, rassicurante per l’aspirazione datoriale ad una codificazione delle regole cautelari che renda giuridicamente “calcolabili” le conseguenze dell’attività d’impresa, possa trovare un sicuro successo nelle aule giudiziarie. È sufficiente scorrere i contenuti dei protocolli anti contagio per rendersi conto che ben pochi sono i comandi dal carattere univoco che si traducano in puntuali regole comportamentali, mentre la gran parte delle “prescrizioni” ha connotati elastici, per non dire orientativi. In molti casi sarà forse inevitabile un’opera di adattamento delle misure - in astratto delineate dai protocolli - al concreto assetto organizzativo della singola azienda, opera affidata all’imprenditore che conserva innegabili spazi di discrezionalità applicativa. E nel caso di evento dannoso sottoposto al controllo giudiziale, quale potrà essere mai il parametro normativo che la lente del giudice esaminerà per valutare se l’imprenditore, in detti margini operativi, abbia adottato le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, se non l’art. 2087 c.c.? Tanto più che da tempo il diritto vivente afferma che neppure il rispetto di ogni regola contenuta in una norma positiva che individui misure di prevenzione nell’ambiente di lavoro comporta l’automatica esclusione di profili di colpa valutabili ex art. 2087 c.c. In tal senso, un qualche presagio mi è sembrato di poter trarre - “per similitudine” - da quell’introduzione nel nostro ordinamento di norme dirette a delimitare la responsabilità medica, prima con la cd. Legge Balduzzi e poi con la cd. Legge Gelli-Bianco, le quali hanno fatto perno sulle linee guida accreditate nonché sulle buone pratiche clinico-assistenziali, che, se rispettate, possono escludere la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria. Le Sezioni Unite penali (sentenza n. 8770 del 21 dicembre 2017) hanno contenuto l’esonero da responsabilità, ove siano in gioco la vita e la salute delle persone, entro limiti assai ridimensionati, probabilmente tali da tradire le attese della cerchia dei professionisti interessati, che magari confidavano in ben più estese protezioni.
18. Quindi, l’art. 29bis non solo realizza la più volte denunciata illusione percettiva dell’esonero da responsabilità, ma addirittura alimenta la tanto deprecabile incertezza del diritto, come pure qualcuno ha paventato?
Potrebbe accadere. Basti pensare che la disposizione richiama plurimi protocolli di vario livello e ambito territoriale, dai quali scaturisce un vasto insieme di obblighi e/o raccomandazioni, per cui è agevole prevedere l’affanno degli interpreti nello sceverare dalla selva regolativa le misure applicabili – o che avrebbero dovuto essere applicate – in ciascuna azienda. Inoltre, ulteriore fattore di incertezza è il rinvio a previsioni protocollari dai contenuti, come si è detto, per lo più elastici o indeterminati, che necessitano di adattamento alla specificità del caso concreto, inevitabilmente demandato al datore di lavoro e, successivamente, al giudice che dovrà controllarne l’operato, probabilmente utilizzando ancora l’art. 2087 c.c. in via residuale. Vi è pure il rischio di alimentare l’impropria convinzione che basti rispettare i protocolli per andare esenti da responsabilità, suscitando incauti affidamenti. Tornando al tema di fondo, circa le illusioni cognitive che tendono a propagarsi velocemente in situazioni emergenziali, generando catene di inganni: “L’illusione del legislatore genera l’illusione di chi ha confidato nell’aver conquistato uno ‘scudo’ e si troverà, invece, la stessa protezione d’un tempo”.
19. Ma se, come Lei sostiene, opererà sempre e comunque in via sussidiaria, in una virtuosa integrazione reciproca delle fonti cautelari, il ricorso all’art. 2087 c.c. «onde preservare la sua funzione dinamica di norma di chiusura dell’intero sistema antinfortunistico, civile e penale», a cosa servono i protocolli condivisi?
Una volta disillusi che l’art. 29bis possa costituire la lama che scioglie ogni nodo, va ribadito che i protocolli, con la norma che li evoca, comunque servono. Servono ad indurre una maggiore responsabilizzazione dei datori di lavori sulla necessità di adottare tutte le misure di contenimento del contagio previste dai protocolli, anche in cambio di potenziali esoneri da responsabilità, orientandoli nell’apprestare le cautele ritenute convenzionalmente basilari, tanto più in un contesto scientifico dominato dall’incertezza. Ma ritengo sia positiva pure la spinta verso una delimitazione del novero delle condotte colpose addebitabili, quanto meno attenuando -come pure è stato scritto- “la tentazione di un pericoloso scivolamento verso la logica semplificatoria del giudizio ex post, per la quale – a posteriori – si può e si potrà sempre pretendere qualcosa in più da parte dei datori di lavoro”. In tale prospettiva le disposizioni del protocollo potrebbero rappresentare un imprescindibile punto di partenza per la verifica della misura oggettiva della colpa dell’agente modello, con conseguenze in punto di esclusione della responsabilità datoriale.
20. Il legislatore è intervenuto, quindi, offrendo una soluzione di mediazione, che non risolve il problema, ma lo sposta, inevitabilmente, nelle aule giudiziarie. È questa l’«astuzia compromissoria» di cui parla?
Sono persuaso che il testo dell’art. 29bis in discorso costituisca comunque l’elaborazione di una mente politicamente avveduta. In un momento delicato in cui si fronteggiavano, da una parte, i clamori della piazza che reclamava “scudi” penali e, d’altra parte, il timore di pregiudicare la tutela della salute dei lavoratori, il Governo ha optato per una formula di mediazione, in larga parte ricognitiva ma comunque rassicurante, perché anche le illusioni cognitive procurate sanno esserlo. Politicamente, in quella formula, ciascuno ha potuto vedere la parte di bicchiere pieno e, per l’intanto, sfumate le contrapposizioni, si è agevolata la graduale ripresa delle attività produttive, lasciando alla futura opera della giurisprudenza dire quali effetti avrà prodotto la scelta normativa.
21. Sgombrato il campo da «pretese aprioristiche di eccezionali garanzie d’immunità», come Lei scrive nell’ultimo capitolo del libro, quali sono le «salvaguardie di sistema», per evitare di accreditare la tesi che da ogni infortunio sul lavoro da Covid-19 possa derivare la responsabilità sia civile che penale del datore di lavoro?
Per evitare una piena discovery, lascerei alla curiosità del lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fin qui di scoprire nel libro quali siano quelle che ho definito “le salvaguardie di sistema”, intese come “mura di cinta […] idonee a preservare un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco”. Direi solo che ho cercato di argomentare perché, a mio avviso, “l’esatta visione del problema all’interno di principi consolidati dal sistema - e non al di fuori di esso - costituisce il vaccino idoneo a creare gli anticorpi sufficienti a proporre soluzioni adeguate pure in condizioni di emergenza pandemica”.
21. Grazie per il quadro d’insieme che ha saputo dare, non solo ai lettori di Giustizia Insieme, su temi così importanti e di stringente attualità.
Molte grazie alla Rivista Giustizia Insieme, e grazie a Lei, per avermi offerto l’opportunità di parlarne.
Possiamo concludere richiamando l’idea, dichiarata sin dall’esordio del libro: «che il racconto sviluppi una commedia degli inganni, dove la distorta percezione dei fenomeni giuridici, determinata da difetti di comprensione ma anche dagli umori dell’opinione pubblica tanto più variabili in situazioni emergenziali, procura illusioni alla mente collettiva, condizionandone pesantemente le valutazioni e le scelte; così come il pensiero intuitivo, influenzato dalle emozioni e dalle precomprensioni in condizioni di allarme e di incertezza, genera illusioni cognitive che condizionano i comportamenti individuali, indirizzandoli secondo ciò che loro falsamente appare».
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