ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il fine vita e il legislatore pensante
4. Il punto di vista dei civilisti
Considerazioni di Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano
Introduzione di Mirzia Bianca
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli)]
Introduzione
Mirzia Bianca
L'iniziativa di Giustizia insieme, volta a raccogliere il coro delle posizioni della dottrina di varie estrazioni disciplinari, indica, in temi delicati come quello del fine vita, un percorso metodologico di dialogo con il legislatore che restituisce all'interprete una funzione attiva nella costruzione di un diritto più giusto, perchè modellato sui diritti fondamentali dell'uomo, fine ultimo dell'ordinamento. Nella consapevolezza della indispensabilità di una visione interdisciplinare di insieme, il gruppo dei civilisti che ho avuto il piacere di coordinare, ha cercato di evidenziare i punti nevralgici di un dibattito che faticosamente cerca di trovare un equilibrio tra il valore supremo della vita umana e il valore della dignità e dell'autodeterminazione. In questo che sembra essere un ossimoro assiologico, le domande del gruppo dei civilisti riguardano sia questioni di metodo, come quella relativa a se e come immaginare un futuro intervento del legislatore, fuori o entro il perimetro indicato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 242 del 2019, sia questioni di contenuto, di più sicuro interesse civilistico, come quelle relative alle condizioni e alla individuazione dei soggetti che potrebbero essere abilitati dal legislatore ad esprimere il consenso, nonché il contenuto e la forma che deve rivestire tale consenso. In particolare si è posto il problema, alla luce del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, della estensione ai malati oncologici e ai soggetti non autonomi, ipotesi quest'ultima che porterebbe a sconfinare nella fattispecie penalistica dell'omicidio del consenziente. Uno spazio particolare è stato riservato al problema del consenso del soggetto minore di età. Altro spazio è stato dedicato ad individuare soggetti e procedure che possano rendere effettiva questa scelta, anche nel caso di obiezione di coscienza del medico. La risposta a questi quesiti individua due possibili strade da percorrere: una prima scelta minimalista che si limita a tradurre in norma la soluzione indicata dalla Corte costituzionale per il caso Cappato. Una soluzione più ampia che, partendo dal caso Cappato, cerchi di individuare le linee di confine di una eccezionale ipotesi di interruzione della vita umana. L'individuazione dei paletti e quindi della distinzione tra un suicidio assistito medicalizzato, dettato dalla situazione di intollerabilità della sofferenza e della irreversibilità della malattia e scelte eutanasiche è la sfida che si pone all'interprete in una scelta che è doveroso includere tra quelle “tragiche”.
Il gruppo è composto da:
Professoressa Gilda Ferrando, già Professore Ordinario di Diritto Privato, presso l'Università degli Studi di Genova, esperta da tempo di diritto delle persone vulnerabili e autrice di un recente commento alla decisione della Corte costituzionale
Professoressa Teresa Pasquino, Professore Ordinario di Diritto Privato presso l'Università degli Studi di Trento, che al tema del fine vita ha dedicato vari scritti, tra cui un'opera monografica.
Professore Stefano Troiano, Ordinario di Diritto Privato e Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Verona, esperto dei diritti della persona e del tema della vulnerabilità.
Gilda Ferrando circoscrive l'intervento del legislatore ad una legge ad hoc la quale, sempre nel rispetto del dettato costituzionale, dovrebbe avere un perimetro più ampio di quello indicato dalla Corte Costituzionale nella decisione n. 242 del 2019, ma entro i limiti di una situazione medicalizzata. In particolare Gilda Ferrando propone di estendere la fattispecie del suicidio assistito anche ai malati oncologici e ai malati che non siano in grado autonomamente di attivare una procedura di interruzione della vita, sottolineando che quest'ultima ipotesi dovrebbe essere inquadrata nell'ambito della fattispecie dell'omicidio del consenziente. Sul consenso, Gilda Ferrando rileva che il problema non attiene tanto alla forma ma alla natura dell'atto del consenso. Sul presupposto della considerazione di questa scelta quale una scelta personalissima che non può essere delegata ad altre persone, si è evidenziato il profilo di libertà e di revocabilità del consenso, circoscrivendo l'intervento di soggetti terzi, soprattutto dei comitati etici territoriali, i quali allo stato attuale sarebbero privi di una competenza specifica. In un'ottica volta ad evitare la burocratizzazione della procedura, Gilda Ferrando propone che la richiesta possa essere rivolta anche al medico di fiducia, sia in forma scritta che nella forma videoregistrata e inserita poi nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Medesima soluzione personalistica è stata prospettata per il soggetto minore di età, restringendo le ipotesi di intervento da parte dei genitori o da parte di rappresentanti legali. Inoltre, alla tradizionale regola della maggiore età si è scelta la più moderna regola della consapevolezza e della capacità di discernimento. Si propone che i medici coinvolti in questa delicata procedura non siano unicamente quelli di una struttura pubblica, ma anche di una struttura privata, come hospices e anche il medico di fiducia. Alla classe medica è stato riservato esclusivamente il ruolo di stabilire le condizioni soggettive ed oggettive per dar corso alla volontà del paziente, attraverso una commissione interdisciplinare.
Teresa Pasquino circoscrive l'intervento del legislatore ad una legge ad hoc che si coordini con la legge n. 219 del 2017 sulle Dat e sul consenso informato, pur mantenendo una sua autonomia. Il suo perimetro dovrebbe essere più ampio delle ipotesi indicate dalla Corte costituzionale nella citata decisione ma circoscritto alla situazione di patologia medicalizzata, ivi compresa l'ipotesi di soggetto affetto da malattia irreversibile e incapace di attivare personalmente la procedura di interruzione della vita, ipotesi non più inquadrabile nell'ambito del suicidio assistito ma dell'omicidio del consenziente. Per la procedura di prestazione del consenso, Teresa Pasquino assegna alla classe medica un ruolo importante di supporto della volontà, ma limitatamente ai medici appartenenti ad una struttura pubblica, sia al fine di evitare situazioni di abuso, sia al fine di consentire un trattamento uniforme in tutto il territorio nazionale. Ai familiari viene attribuito una ruolo meramente consultivo. Ai comitati etici territoriali si guarda con un certo scetticismo. Quanto alla forma del consenso, si suggerisce di adottare la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017 sulle Dat e il consenso informato, ferma restando la garanzia della revocabilità fino all'ultimo istante dell'avvio della procedura. Con riferimento ai soggetti minori, al tradizionale concetto della capacità di agire si preferisce il moderno concetto di capacità di discernimento, prevedendosi, in caso di mancanza di discernimento, un intervento dei genitori in qualità di rappresentanti legali, e in caso di confitto, l'intervento del giudice. Si propone una regolamentazione dell'obiezione di coscienza sul modello della legge sull'aborto. Alle cure palliative si affida una particolare funzione di garanzia di cura affidata ai medici, al fine di prevenire la scelta di interrompere la vita.
Stefano Troiano propone un intervento del legislatore attraverso una legge ad hoc la quale dovrebbe avere un perimetro più ampio di quello indicato dalla già citata decisione della Corte costituzionale ma circoscritto alle situazioni di patologia irreversibile medicalizzata, includendovi, in conformità al principio di uguaglianza e di ragionevolezza, sia i malati oncologici che i malati che, a causa di una patologia, non sono più autonomi e non possono provvedere personalmente alla interruzione della vita. Particolarmente interessante è l'indicazione di scegliere un lessico che eviti la parola “eutanasia”, proprio al fine di evidenziare la delimitazione dell'intervento del legislatore. La scelta di una legge ad hoc, anziché un'opera di intervento e di modifica della legge n. 219 del 2017, che astrattamente sarebbe più idonea a collocare la fattispecie nell'ambito della della relazione medico-paziente, viene giustificata dall'esigenza di non sovrapporre l'ipotesi del suicidio medicalizzato, volto ad accelerare il processo letale in caso di malattia irreversibile rispetto al rifiuto di trattamenti di supporto vitale, volto ad assecondare il processo naturale della malattia terminale secondo dignità, ipotesi regolata dalla legge n. 219 del 2017. Per le stesse ragioni, Stefano Troiano ritiene che l'ipotesi del suicidio assistito non possa essere oggetto di DAT, data la rilevata distinzione tra le due fattispecie e la necessità che il consenso al primo sia attuale, rinnovato e sempre revocabile. Con riferimento al contenuto e alla forma del consenso, proprio in ragione della delicatezza della scelta e della solitudine di chi deve prenderla, si evidenzia la necessità di attuare una procedimentalizzazione che coinvolga un'équipe di medici e di psicologi che possa controllare i presupposti e verificare la libertà e l'attualità del consenso, proponendo che il consenso sia nuovamente rinnovato in prossimità dell'interruzione della vita. Con riferimento al soggetto minore di età, viene rilevata l'inadeguatezza di coinvolgerlo in una scelta che presuppone la consapevolezza della morte e che quindi non è comparabile ad altre scelte che riguardano la sua crescita. La scelta di non coinvolgere il minore viene confermata dall'esperienza comparatistica e in particolare dalle recenti leggi spagnola e portoghese. Quanto all'intervento di soggetti terzi, pur rilevando l'incompetenza attuale dei comitati etici territoriali, si segnala l'esperienza virtuosa di alcuni Comuni e la sfida per estenderla in tutto il territorio nazionale.
1. Si reputa necessario un intervento del legislatore e in quale forma? Una legge ad hoc o una modifica della legge n. 219 del 2017 sul consenso informato e le DAT?
Prof.ssa Gilda Ferrando
L’intervento del legislatore sul tema del fine vita costituisce un atto dovuto in risposta alle richieste che la Corte costituzionale gli ha rivolto sia nell’ordinanza 207/2018, sia nella sentenza 242/2019. Quest’ultima si chiude ribadendo “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore conformemente ai principi precedentemente enunciati”. Quindi, sì: reputo necessario l’intervento del legislatore.
Le considerazioni svolte nel rispondere alla prima domanda rendono più agevole individuare i modi di tale intervento.
Intanto dobbiamo escludere che sia sufficiente una modifica degli artt. 579, 580 c.p., perché il legislatore non può limitarsi a escludere la punibilità di un certo tipo di condotta ma deve disciplinare le condizioni che giustificano l’aiuto prestato dal medico e la procedura da seguire. Questo non esclude che una modifica del codice penale possa essere necessaria. Ad esempio, per distinguere l’aiuto al suicidio dall’istigazione, o per chiarire che in ogni caso non costituisce aiuto al suicidio una condotta “neutra”, che non abbia concorso direttamente a provocare la morte.
Poiché la fattispecie che stiamo considerando non corrisponde al suicidio vero e proprio e all’aiuto al suicidio tradizionale, mi pare opportuno sottolineare questa differenza anche con l’uso di una terminologia appropriata, esigenza avvertita dalla stessa Corte costituzionale quando fa riferimento alla “decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri” o di “modalità di congedarsi dalla vita”. La questione su cui il Parlamento è chiamato a legiferare è infatti quella dell’“Aiuto medico a morire”. Potrebbe essere questo il titolo della nuova legge, in analogia con la “Legge sulla morte medicalmente assistita” di recente approvata dal Parlamento portoghese (e in attesa di essere promulgata).
Ritengo preferibile una nuova legge piuttosto che una modifica della legge n. 219/2017. Si tratterebbe, infatti, di una legge che disciplina un aspetto della relazione medico-paziente distinto rispetto a quelli considerati dal legislatore del 2017, riguardo al quale sussistono specifiche esigenze di protezione del malato (e più in generale dei soggetti deboli), e quindi occorre individuare specifiche condizioni oggettive e soggettive e specifiche procedure di verifica della loro esistenza. La legge 219 volutamente non contempla l’assistenza del medico al morire, né nella forma dell’eutanasia vera e propria né in quella dell’aiuto a porre termine alla propria vita. Con la legge attesa, il legislatore, sollecitato dalla Corte costituzionale, fa un passo ulteriore prevedendo una specifica disciplina. Anche la disciplina delle cure palliative (l. n. 38/2010), è autonoma rispetto alla l. 219, per quanto ispirata ad analoghi principi. Avremo dunque una costellazione di leggi distinte ma coordinate tra di loro e tutte ispirate ai medesimi principi costituzionali.
Dal punto di vista operativo, poi, la presentazione di una legge autonoma eviterebbe il pericolo di rimettere in discussione la l. 219, limitandone la portata (come fa, ad esempio, la proposta Pagano a proposito di nutrizione e idratazione artificiali). Senza contare che si finirebbe in tal modo per dilatare di molto i tempi della discussione parlamentare.
In definitiva sarei favorevole ad una legge ad hoc, avente come oggetto l’aiuto medico a morire.
Prof.ssa Teresa Pasquino
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, ha dovuto ovviare al mancato accoglimento da parte del Legislatore dell’invito a provvedere nella materia del c.d. aiuto a morire, invito già presente, peraltro, anche nell’ordinanza della Consulta n. 207 del 16 novembre 2018.
Com’è noto, con la sentenza sopra citata la Consulta, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui «non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente», ha esplicitamente suggerito i parametri entro i quali Legislatore dovrà muoversi per evitare che una materia così delicata come quella dell’aiuto a morire venga disciplinata senza la giusta ponderazione di tutti i principi fondamentali coinvolti, primo fra tutti quello della dignità della persona.
Conviene subito mettere in evidenza che un intervento normativo che si limitasse solo a circoscrivere l’area applicativa dei reati di cui all’art. 580 c.p., introducendo in esso una causa di non punibilità, lascerebbe la materia per molti aspetti affidata ad una “terra di nessuno”, priva di regole e norme di legge; una materia dove il contemperamento di interessi essenziali, tutti connessi alla vita delle persone, verrebbe a pesare esclusivamente sull’attività di valutazione dei giudici e sarebbe amministrata solo sulla base delle norme di deontologia professionale.
Sarebbe, invece, preferibile elaborare una disciplina speciale ad hoc che contempli in tutte le sue variegate sfaccettature il delicato fenomeno dell’aiuto a morire, mantenendo integri sia il contenuto dell’attuale art. 580 c.p. per le fattispecie diverse da quella giunta all’attenzione della Consulta, sia l’impianto complessivo della legge n. 219 del 22 dicembre 2017, dettata in materia di consenso informato ai trattamenti sanitari e di decisioni anticipate sui trattamenti, in cui si era ipotizzato come auspicabile un intervento anche dalla stessa Corte costituzionale. E’ presente, infatti, nella l. n. 219 del 2017 il principio per cui, per il combinato disposto degli artt. 1 e 2, il paziente ha il diritto al pieno rispetto della sua dignità nella fase finale della sua vita, diritto cui corrisponde il dovere del medico di garantirgli tutte le terapie adeguate ad alleviare le sue sofferenze.
E, tuttavia, un tale intervento potrebbe essere alquanto rischioso dal momento che potrebbe, da un lato, indebolire l’impianto generale della legge n. 219 del 2017 - la quale deve, invece, essere in toto salvaguardata essendo essa la sede in cui è stato sancito e ben disciplinato il diritto all’autodeterminazione del paziente sui trattamenti sanitari in generale, persino su quei trattamenti di sostentamento vitale quali l’idratazione e la nutrizione artificiali - e, dall’altro, creare una commistione tra trattamenti diversi, tutti compatibili con la fase del fine vita ma diversi l’uno dall’altro (ad es. sedazione palliativa, da una parte e suicidio medicalmente assistito o eutanasia, dall’altra).
Dovrebbe trattarsi, in buona sostanza, di una legge interamente dedicata alla materia dell’aiuto medico a morire, fondata sul già esistente inquadramento nel sistema del tema de quo nel contesto del concetto di “tempo di cura”, ormai recepito come contenuto essenziale del rapporto medico-paziente inteso come
“alleanza terapeutica”. Una novella disciplina che, lasciando la l. n. 219 del 2017 totalmente integra nel suo impianto, fosse coordinata ed integrata con essa, prendendola come punto di riferimento e sede privilegiata del giusto contemperamento tra il principio di autodeterminazione del paziente e il ruolo del medico quale garante in alleanza terapeutica e specificando le necessarie differenziazioni tra le speciali fattispecie che si possono concepire come aiuto medico a morire.
Il coordinamento della novella sarebbe, altresì necessario anche con la disciplina penalistica, laddove la tipicità delle fattispecie è imposta dal sistema e dove le norme di cui agli artt. 579 e 580 andrebbero opportunamente adeguate con la contemplazione di un sostanziale esonero da responsabilità di chi supporta il malato nel processo medicalizzato della morte.
Prof. Stefano Troiano
L’intervento del legislatore in questa materia non soltanto è necessario ma è anche non ulteriormente procrastinabile. Già con l’ord. n. 207 del 2018 la Corte costituzionale aveva formulato un invito al legislatore a regolare la materia in conformità alle esigenze di tutela dalla stessa individuate, fissando una nuova discussione delle questioni ad una successiva udienza proprio al fine di consentirgli di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità. Con la sent. n. 242 del 2019 la Corte, preso atto della mancata sopravvenienza di una legge regolatrice (essendo rimasti privi di seguito i numerosi d.d.l. presentati in argomento), si è risolta per un intervento teso a “ricavare dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato”, e quindi delineando essa stessa i tratti essenziali di una disciplina immediatamente applicabile. Anche la sentenza si conclude, però con una pressante sollecitazione al legislatore, al quale si rinnova “con vigore” l’invito a regolamentare la materia provvedendo ad una “sollecita e compiuta disciplina”, esercitando la propria discrezionalità conformemente ai principi enunciati dalla Corte.
Questo invito non può essere disatteso.
È indubbio, infatti, che i principi e le regole enunciati in termini generali dalla Corte, pur immediatamente applicabili, esigono una risposta del legislatore, che deve offrire il quadro normativo analitico indispensabile a dare certezza nell’applicazione di una materia altamente sensibile, che investe diritti personalissimi. L’assenza di un intervento legislativo perpetuerebbe le non trascurabili incertezze applicative che si nascondono nella trama a maglie molto larghe intessuta dalla Corte e rischierebbe di lasciare in tutto o in parte privo di tutela il diritto fondamentale così enucleato. Vi sono, infatti, alcuni aspetti specifici dell’aiuto a morire, come la previsione analitica dei requisiti di accesso, i ruoli di medici e strutture sanitarie nella procedura e i tempi della stessa, i confini dell’obiezione di coscienza, che lasciano numerose aree d’ombra, le quali non possono essere lasciate prive di regolamentazione. Solo il legislatore può inoltre valutare appieno l’inserimento armonico di una disciplina dell’aiuto a morire nel sistema, verificandone l’esatto ambito di applicazione e ponderandone l’opportunità di estensione a fattispecie analoghe, in ossequio ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché individuando le norme applicabili ai fatti pregressi rispetto all’entrata in vigore della legge.
Da queste premesse discende anche che l’intervento del legislatore, oltre che necessario, non potrà essere minimale, ma dovrà avere un’ampiezza di dettaglio tale da rimuovere ogni possibile “zona grigia”. Insufficiente sarebbe, in particolare, un intervento limitato soltanto all’introduzione, nell’art. 580 c.p., di una specifica causa di non punibilità, in linea con quanto stabilito al riguardo dalla Corte costituzionale.
Ferma la necessità di un intervento non minimale, le modalità concrete di questo rientrano, però, nella discrezionalità del legislatore, al quale si aprono due strade: l’inserimento della disciplina relativa all’aiuto a morire nel contesto di una legge già esistente oppure l’approvazione di una legge ad hoc, esclusivamente dedicata all’aiuto a morire.
Con riguardo alla prima ipotesi, la principale candidata è la legge n. 219 del 2017. Si tratterebbe di una soluzione coerente con l’impianto motivazionale della pronuncia della Corte, la quale, al fine di affermare un diritto fondamentale del malato terminale a ricevere assistenza nel realizzare il proposito di anticipare la morte per garantire che essa avvenga con dignità, ha individuato proprio nella legge n. 219 del 2017 il “punto di riferimento già presente nel sistema” utilizzabile al fine di colmare il vuoto legislativo, nelle more dell’intervento del Parlamento. La Corte ha infatti tratto principalmente argomento dal diritto sancito nella l. n. 219 del 2017 a rifiutare il consenso al trattamento sanitario, ancorché necessario alla sopravvivenza del paziente (v. art. 1, comma 5, che espressamente considera quali trattamenti sanitari rifiutabili anche la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale). Il successivo art. 2 menziona, d’altronde, in modo espresso il diritto del paziente alla “dignità nella fase finale della vita”, collegandolo alla alleviazione delle sofferenze, e ponendo a carico del medico il dovere di adoperarsi in tal senso, garantendo “un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l'erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38”.
L’inserimento della nuova disciplina nella legge n. 219 del 2017 sarebbe, inoltre, coerente con la finalità della nuova normativa, in quanto porterebbe a collocare la fattispecie nel contesto della disciplina della relazione medico-paziente, evidenziando come anche l’aiuto al morire possa concepirsi solo nel quadro delle regole generali che governano i trattamenti sanitari (e il relativo consenso), nel contesto della c.d. alleanza medico-paziente e con le garanzie proprie di un procedimento medicalizzato, in cui il medico, ai sensi dell’art. 1, comma 5, l. n. 219 del 2017, deve, “qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, prospettare “al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove[re] ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. Questi aspetti erano, peraltro, evidenziati già nell’ord. n. 207 del 2018, lì dove si evocava espressamente (in luogo di “una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen.”) l’ipotesi di inserire “la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima”.
La soluzione della novellazione della legge n. 219 del 2017, pur coerente con le sollecitazioni della Corte costituzionale e senz’altro legittimamente percorribile dal legislatore (si tratta, peraltro, dell’opzione preferita da ben tre delle sei proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento; si tratta, in particolare, dei d.d.l. C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan e C. 1888 Pagano), non è, però, priva di insidie.
Essa presuppone, infatti, che il legislatore sia effettivamente capace di inserire la nuova disciplina in modo armonico all’interno dell’impianto della legge n. 219 del 2017. Ciò significa, da un lato, che l’intervento non si potrebbe limitare ad aggiungere una o più disposizioni a quella legge, ma dovrebbe anche preoccuparsi di coordinare in modo coerente le nuove disposizioni con le altre, evitando contraddizioni interne o di snaturare quelle che già vi sono. È necessario, dunque, un intervento molto ben ponderato, sorvegliato e, anche, prudente, che non introduca elementi spuri né ponga nel nulla le acquisizioni contenute nella legge n. 219 del 2017 (nel complesso espressione di un intervento legislativo più che equilibrato).
Vi è, infine, un terzo aspetto da considerare, che è, però, decisivo.
Sebbene sia corretto ricostruire l’aiuto a morire come uno sviluppo ulteriore del diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, quando i trattamenti oggetto del rifiuto si risolvano in strumenti di supporto vitale necessario, ciò non deve portare ad ignorare le differenze che intercorrono tra le due ipotesi: la prima consiste in una scelta che, al fine di garantire la dignità del fine vita, asseconda il processo naturale della malattia terminale verso il suo inevitabile esito letale, senza incidere però sui tempi del processo (che potrebbero anche essere molto lunghi); la seconda si risolve invece in una decisione che, pur rispondendo alla stessa esigenza, tronca anticipatamente questo processo, portando alla morte immediata. La natura drastica, radicale e irreversibile di questa seconda scelta impone di accompagnarne la previsione normativa ad una somma di cautele che nel primo caso non sono invece necessarie, e impone altresì di delimitarne accuratamente l’ambito di applicazione, al fine di evitare pericolose fughe in avanti in sede di interpretazione.
In particolare, mi pare opportuno che la normativa sull’aiuto a morire: delinei con grande cura, e con indicazioni precise, le fattispecie in cui tale diritto è riconosciuto, differenziandole da quelle contemplate nella legge n. 219 del 2017; di massima non includa i minori di età tra i soggetti legittimati a ricevere l’aiuto a morire o, in alternativa, preveda limiti molto stringenti al riguardo (mentre, com’è noto, la legge 219 del 2017, contempla la possibilità che il rifiuto dei trattamenti salvavita sia espresso dagli esercenti la responsabilità genitoriale, però “tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”); dia adeguato valore all’esigenza di attualità e immediatezza del consenso dell’avente diritto, escludendo, dunque, che il relativo consenso sia prestato anticipatamente nella forma di DAT o in altra forma.
La semplice novellazione della legge n. 219 del 2017 espone, pertanto, ad un’acritica estensione del suo impianto normativo alla nuova fattispecie dell’aiuto a morire, con il rischio di annullare le differenze e creare indebite sovrapposizioni tra le due.
Per tutte queste ragioni, si ritiene preferibile l’adozione di un provvedimento dedicato, che, oltre al vantaggio della maggiore semplicità di intervento, presenta minori rischi per quanto riguarda il pericolo di alterare l’impianto normativo della l. n. 219/2017 e consente di adeguare la disciplina alle peculiarità della nuova fattispecie. La previsione di una legge ad hoc non esimerebbe in ogni caso il legislatore dalla necessità di operare un adeguato coordinamento con le norme della l. n. 219 del 2017 e, si può aggiungere, anche con quelle della precedente legge del 2010 sulla terapia del dolore e le cure palliative. È in ogni caso indispensabile che la legge incida anche sul codice penale, e in particolare sugli artt. 579 e 580 c.p., chiarendo senza equivoci la qualificazione penale delle fattispecie coperte dalla nuova legge (causa di non punibilità o esclusione dal reato) e l’assenza di conseguenze sul piano della responsabilità civile.
Si può aggiungere, a tutto questo, un quesito di tipo terminologico, riguardo a come potrà essere denominato, sul piano lessicale, l’istituto regolato (e quindi quale intitolazione dovrebbe avere una eventuale legge ad hoc in materia).
Andrebbe preferibilmente evitato il riferimento al concetto di “eutanasia” (buona morte), che, oltre ad attribuire inopportunamente alla morte (anche nel modo in cui potrebbe essere percepita nell’immaginario collettivo) una connotazione positiva, non consente di mettere in evidenza i connotati fondamentali della fattispecie che il legislatore è chiamato a regolare, e che ne evidenziano la peculiarità, ossia che si tratti di un aiuto prestato da soggetti terzi (in un contesto di assistenza sanitaria) rispetto all’esecuzione di un proposito di accelerazione del naturale esito letale, proposito liberamente e consapevolmente maturato dalla persona affetta da una malattia terminale che gli arreca gravissime e intollerabili sofferenze e che, in assenza di trattamenti sanitari di supporto vitale, lo porterebbe comunque alla morte. Per riassumere tutti questi aspetti in una formula di sintesi, ci pare più efficace il ricorso al concetto di “aiuto a morire in dignità” oppure, semplicemente, “aiuto a morire” o anche “aiuto all’anticipazione della morte” (opportunamente sottolineando, perlomeno nell’articolato, che l’aiuto avviene mediante il ricorso a procedure medicalmente assistite di anticipazione volontaria dell’esito letale di una malattia irreversibile), ovvero, in alternativa, l’uso di una terminologia simile a quella che si ritrova nella recentissima legge portoghese sulla antecipação da morte medicamente assistida [approvata a fine gennaio e in attesa di promulgazione], ossia discorrere di “anticipazione volontaria e medicalmente assistita della morte”.
2. Si reputano le condizioni indicate dalla Corte Costituzionale tassative o è possibile ipotizzare una estensione ai malati affetti da malattia irreversibile e affetti da sofferenze non sopportabili che tuttavia non rientrano nella fattispecie del caso Cappato?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Per dare una risposta a questa domanda occorre mettere a fuoco la portata della decisione della Corte costituzionale e l’ambito di applicazione delle regole che ne risultano.La Corte d’Assise di Milano aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione … a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”.
Contrariamente a quanto sostenuto dal remittente, la Corte “ha escluso che … l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima sia, di per sé incompatibile con la Costituzione”.
Pur ritenendo non incostituzionale l’incriminazione dell’aiuto al suicidio in quanto tale (art. 580 c.p.), la Corte ha poi individuato un’area circoscritta di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa delimitata dalla presenza di quattro circostanze: che si tratti di una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Una pronuncia meramente ablativa avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi».
La decisione della nostra Corte costituzionale si distingue nettamente da quella della Corte costituzionale federale tedesca 26 febbraio 2020, 2 BvR 2347/15 la quale ha dichiarato incostituzionale il § 217 del StGB che punisce la c.d. “agevolazione commerciale del suicidio”. La Corte tedesca, muovendo dal diritto costituzionale al libero sviluppo della propria personalità, ha configurato un “diritto alla morte autodeterminata” esercitabile sia per mano propria, sia con l’intervento di altri, riconoscendo un pieno diritto di autodeterminazione non sindacabile da terzi. Secondo la Corte tedesca, “la decisione autoresponsabile circa la fine della propria vita non necessita di alcun ulteriore fondamento o giustificazione” e, quindi, “non resta limitata al sussistere di condizioni di malattia grave o insanabili né a determinate fasi della vita o della malattia”. Su questi presupposti, la persona ha “anche la libertà di ricercare aiuto, per tale fine, presso terzi, come pure di recepire simile aiuto, ove sia stato offerto”.
La nostra Corte costituzionale, invece, in modo più prudente, si è mossa sul piano dell’autodeterminazione terapeutica, cioè dell’autodeterminazione del malato nella gestione del decorso della malattia. E’ solo il malato affetto da una patologia irreversibile che gli provoca sofferenze intollerabili, e sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, a poter chiedere l’aiuto a terminare la vita.
La necessità di sottrarre i casi che ricadono entro quest’area all’incriminazione prevista dall’art. 580 c.p. deriva dal fatto che si tratta di situazioni diverse da quelle considerate dal legislatore del 1930, «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta», rese possibili «dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». Quando la Corte parla di “modalità in cui congedarsi dalla vita” per indicare la scelta del malato di por fine alle proprie sofferenze si comprende come sia distante la “circoscritta area” individuata dalla Corte dal suicidio a cui guardava il codice penale, quello motivato, ad esempio, da ragioni economiche, affettive, esistenziali (mi tolgo la vita perché sono rovinato, ho perso la persona che amo, la mia vita è priva di significato).
Se dal punto di vista naturalistico la vita del malato si spegne in seguito all’assunzione del farmaco letale preparato dal medico, la causa effettiva della morte è la malattia, essendo ormai in moto un processo irreversibile del morire che l’assunzione del farmaco anticipa nella sua fine ma non determina nelle sue cause prime. Nella medicina tecnologica la morte sempre più raramente costituisce un evento istantaneo, e sempre più di frequente giunge al termine di un processo di cui le tecniche consentono di dilatare i tempi, e rendere indefiniti gli esiti.
Di questo dato di fatto aveva già tenuto conto il legislatore quando, nella l. n. 219/2017, aveva riconosciuto il diritto del malato di rifiutare le cure e di chiedere la sospensione o interruzione dei trattamenti che lo tengono in vita.
Con la sentenza n. 242 la Corte sviluppa ulteriormente questi principi. “Se, infatti” - fa notare la Corte - “il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Viene in tal modo riconosciuto al malato un diritto costituzionale a “dire basta” che deve essere rispettato dalla legge e dalle strutture sanitarie.
La sentenza della Corte è motivata in stretta aderenza con il caso di Fabiano Antoniani e Marco Cappato. Essa si articola in due momenti, una pars destruens, con cui dichiara l’illegittimità costituzionale di una “parte ideale” dell’art. 580 c.p., e una pars construens con cui individua i criteri di liceità della condotta, necessari per evitare pericolosi vuoti normativi.
In assenza dell’intervento del legislatore invocato dall’ordinanza n. 207, nella sentenza n. 242 la Corte provvede ad elaborare condizioni e procedure “ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”.
Nella cornice dei principi costituzionali vi sono spazi di discrezionalità entro cui il Parlamento potrà esercitare i suoi poteri normativi che la Corte non intende vincolare, consapevole che la tutela delle persone in situazione di vulnerabilità “è suscettibile …di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali”.
Se ne deduce quindi che: 1) criteri di riempimento sono “costituzionalmente necessari”; 2) il loro contenuto, così come individuato dalla Corte, non è “costituzionalmente vincolato”; 3) i criteri fissati dalla Corte valgono fino a quando il Parlamento non intervenga in modo eventualmente anche non coincidente con quanto stabilito in motivazione; 4) la legge, in ogni caso, deve inscriversi nel quadro dei principi costituzionali di eguaglianza, rispetto dell’autodeterminazione, diritto alla salute (artt. 2, 3,13, 32 Cost.), così come interpretati dalla giurisprudenza ed attuati dal legislatore (l. n. 219/2017).
Chiarito, dunque, che la disciplina della materia è affidata alla discrezionalità del legislatore, ritengo che in aderenza con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione, di solidarietà (declinata anche nel senso della “compassione”) la richiesta del malato vada accolta non solo nel caso in cui la sua sopravvivenza dipenda dall’utilizzo di dispositivi di sostegno vitale ma ogni volta in cui sia mantenuto in vita da trattamenti medici di qualsiasi tipo, anche farmacologici. Si pensi al malato oncologico terminale o ad altre situazioni, come quella in cui versava Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla terminale che gli provocava dolori insopportabili. Proprio con riguardo a questo caso, va appena precisato che l’esito del procedimento in corso nei confronti di Marco Cappato e Mina Welby – assolti dalla Corte d’Assise di Massa con sentenza 20 luglio 2020, impugnata in appello – non è influente sulla scelta legislativa, dovendo il giudice interpretare e applicare il diritto vigente al momento della decisione ed il legislatore scrivere una nuova legge.
In secondo luogo, ritengo che il malato possa chiedere l’aiuto del medico per terminare la vita anche in quei casi, ancora più disperati, in cui non sia in grado di assumere personalmente il farmaco letale e sia il medico a dover somministrare direttamente i farmaci per porre termine alla vita del paziente. A favore di questa soluzione depone la considerazione che, in caso contrario, verrebbero esclusi dalla possibilità di porre fine a sofferenze non più tollerabili proprio i malati più gravi o sfortunati. A ciò si aggiunga il fatto che il malato terminale che non possa contare sull’aiuto eutanasico potrebbe essere indotto ad anticipare il momento della fine nel timore di arrivare ad un punto in cui venga meno la propria capacità materiale di assumere direttamente il farmaco ed in tal modo gli sia impedita quella morte dignitosa che lui desidera. Anche in questo caso si tratterebbe, per usare le parole della Corte, di una richiesta di “concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri”. E la Corte non definisce il tipo di “aiuto” necessario.
Va tenuto presente che in questi casi la condotta del medico è attualmente imputabile sulla base non dell’art. 580 c.p. (“Istigazione o aiuto al suicidio”), ma dell’art. 579 c.p. (“Omicidio del consenziente”). Con la nuova legge l’art. 579 c.p. non sarebbe più applicabile nel caso di richiesta proveniente da persona capace di determinarsi in modo libero e consapevole, affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili. Riterrei peraltro opportuno che la legge espressamente escluda la responsabilità penale e civile del medico che soddisfi la richiesta del malato.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Con riguardo a questo argomento, occorre considerare che, per i principi fondamentali di uguaglianza e di ragionevolezza delle norme, non si potrebbe fare a meno di mettere sullo stesso piano sia le persone che, seppur malate, hanno la possibilità di realizzare in totale autonomia il processo che le conduce alla morte, sia le persone che non possono farlo autonomamente e devono ricorrere all’aiuto di terzi.
Violerebbe il principio della parità di trattamento la disciplina che escludesse talune categorie di persone che, seppure affette da malattie irreversibili e sottoposte a sofferenze insopportabili, venissero escluse da questa possibilità per il fatto di non rientrare nella fattispecie sottoposta alla Consulta, la quale – è bene ricordarlo – non si è occupata della fattispecie del c.d. omicidio del consenziente (ex art. 579 c.p.) che presuppone un aiuto da parte di un terzo al momento dell’atto finale della morte.
Naturalmente, per questi casi, la legge dovrebbe prevedere e contemplare anzitutto una nozione ben chiara e definita di “malattia irreversibile”, ovviamente, con il supporto di un comitato scientifico ad hoc; in secondo luogo, dovrebbe individuare percorsi sanitari ed assistenziali ben definiti, delineati da precise linee guida, che garantiscano un controllo ed una valutazione costanti, posto che lo stesso concetto di “malattia irreversibile” è senza dubbio per sua stessa natura in costante evoluzione, dunque, suscettibile di aprire diversi scenari magari ignoti al momento dell’assunzione della fatale decisione. A tal fine, potrebbero svolgere una funzione essenziale i luoghi in cui si somministrano le cure palliative e si gestiscono le terapie del dolore; luoghi in cui, seppure assunta la tragica decisione da parte del paziente, questi, volendo, abbia la possibilità di trascorrere buona parte del “tempo di cura”, con la somministrazione delle terapie conosciute e dedicate alla malattia che lo ha colpito, e dove, all’esito o all’andamento delle stesse, poter verificare la ineluttabilità della sua decisione in maniera più consapevole ed informata, attualizzando così costantemente la sua volontà.
Prof. Stefano Troiano
La Corte Costituzionale si è occupata unicamente del caso di persona affetta da malattia irreversibile e colpita da sofferenze non sopportabili che sia però in condizione di avviare autonomamente il processo che lo condurrà alla morte prima del tempo. È solo rispetto a questa ipotesi che si è posto il problema di individuare una condizione di non punibilità rispetto alla fattispecie di reato dell’aiuto al suicidio. L’atto ultimo che interrompe la vita è infatti, tecnicamente, compiuto dall’interessato, sebbene con l’assistenza di terzi che lo agevolano nell’attuare il suo proposito. Ove l’atto finale interruttivo del processo vitale fosse invece compiuto da un terzo, si verrebbe a configurare il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), di cui la Corte costituzionale non si è invero occupata.
È indubbio che vi sono, però, casi in cui la stessa malattia irreversibile che affligge la persona è tale, per la sua gravità, da impedire a quest’ultima qualsiasi, anche minima, facoltà di movimento, ponendola dunque nella impossibilità fisica di portare a compimento, seppur con l’aiuto di altri, il proposito di concludere anticipatamente la propria vita.
Non sembra, tuttavia, possibile scorgere alcuna ragione che possa giustificare per questa ipotesi un trattamento diverso da quello riservato dalla Corte costituzionale all’ipotesi dalla stessa trattata. La ratio che rende non punibile l’aiuto a morire rispetto alle altre ipotesi di assistenza al suicidio – ovvero l’esigenza di tutelare il diritto fondamentale ad un fine vita degno in presenza di circostanze di fatto (la malattia irreversibile che comporta sofferenze insopportabili) che azzerano tale condizione di dignità – ricorre, infatti, in identico modo anche nella ipotesi in cui la morte anticipata della persona che si trovi in queste stesse condizioni di fatto possa essere procurata solo con la partecipazione di un terzo (il medico) al compimento dell’atto finale interruttivo. Rimane peraltro fermo che il medico interverrebbe solo al fine di attivare fisicamente il processo che porta alla morte, come mero esecutore materiale del proposito liberamente e consapevolmente maturato dal paziente.
Data l’identità di ratio, l’eventuale mancata previsione di tale causa di non punibilità nella disciplina dell’omicidio del consenziente rappresenterebbe un possibile motivo di illegittimità costituzionale, per violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, della disposizione di cui all’art. 579 c.p. in ipotesi non riformata.
La soluzione estensiva si impone a più forte ragione se si considera che nelle ipotesi ora esemplificate il paziente si trova in una situazione ancora più grave di quella espressamente contemplata dalla Corte costituzionale, sicché sarebbe del tutto irragionevole un trattamento più severo proprio per il caso in cui il paziente evidenzia una condizione di massima vulnerabilità e sofferenza, e reclama dunque il massimo di tutela.
Oltre a quella appena indicata, vi è una seconda fattispecie a cui può essere opportuno che il legislatore estenda espressamente la tutela prevista.
L’ipotesi considerata dalla Corte costituzionale è, occorre ricordarlo, quella di persona affetta da una malattia irreversibile, che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è esposta a sofferenze insopportabili. Nel caso di specie, si trattava di dispositivi meccanici che consentivano il mantenimento del paziente in vita (permettendone la costante idratazione ed alimentazione) e la cui disattivazione lo avrebbe inesorabilmente portato alla morte. Ciò premesso, non si vedono ostacoli ad ammettere l’estensione dell’aiuto a morire anche al caso in cui il trattamento di sostegno vitale necessario non abbia natura meccanica ma puramente farmacologica, come nel diverso caso che ha formato oggetto di attenzione in una successiva pronuncia della Corte d’Assise di Massa del 20 luglio 2020, se le altre condizioni sono comunque soddisfatte.
Altre estensioni non sembrano invece possibili né opportune.
In particolare, ritengo che non sia possibile estendere l’aiuto al morire a pazienti che siano affetti da patologie che, pur gravissime e tali da comportare sofferenze insopportabili, siano ancora reversibili, essendo evidente che la reversibilità, anche remota, della malattia impone di dare la precedenza al diritto alla vita e di esplorare ogni strada per interrompere l’incedere della patologia, lasciando semmai massimo spazio a cure palliative e a terapie dirette ad alleviare il dolore.
Il concetto di “malattia irreversibile” deve inoltre essere accuratamente delimitato dal legislatore, esplicitando ciò che nella sentenza della Corte costituzionale è tra le righe, ossia che l’aiuto a morire deve riferirsi ai soli casi di malattia il cui esito non arrestabile è la morte, che abbia quindi carattere letale e sia ad uno stadio terminale di avanzamento. La ratio della decisione della Corte non sta infatti nel consentire al paziente di morire, semplicemente per evitare gravi sofferenze, ma di accelerare e rendere immediato un processo letale che, proprio per effetto della malattia da cui il paziente è affetto, si verificherebbe comunque anche se in tempi più lunghi (una volta interrotto, beninteso, il trattamento di sostegno vitale), ridando quindi alla persona il diritto decidere il momento in cui morire con dignità. Non sembra invece opportuna l’estensione (pur prospettata in alcuni d.d.l.) dell’aiuto a morire anche ai pazienti affetti da una malattia inguaribile (e, quindi, in questo senso irreversibile) ma, di per sé, non letale; in questo caso, aiutare il paziente a morire significherebbe non già anticipare compassionevolmente un esito letale comunque riferibile alla malattia, bensì procurare la morte al solo scopo di annullare le sofferenze. Impossibile sarebbe, in questo caso, riscontrare quella continuità con il diritto di rifiutare trattamenti salvavita che costituisce la base per fondare un autonomo diritto ad essere assistito nella realizzazione del proposito di terminare in via anticipata la propria esistenza.
È semmai da chiedersi se il legislatore debba ulteriormente precisare questi presupposti, ad esempio selezionando tra i malati che versano in uno stato terminale solo quelli per i quali sia stata formulata una prognosi infausta con una proiezione temporale determinata e particolarmente breve, come si suggerisce in alcuni dei disegni di legge sin qui presentati al Parlamento (ad es., nei d.d.l. C. 1586 Cecconi e C. 1655 Rostan si richiede una prognosi infausta inferiore a diciotto mesi). Una indicazione temporale rigida rischia, tuttavia, di essere eccessivamente limitativa e dare luogo a ingiustificate disparità di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente assimilabili.
3. Quali sono gli attori che devono essere coinvolti nella procedura? Solo il malato che decide, il singolo medico o una equipe medica? Anche i familiari e soggetti terzi (es. comitati etici territoriali)? Quale è la forma che deve essere adottata per raccogliere la volontà del soggetto? E chi sono i soggetti legittimati a raccogliere tale volontà?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Solo il malato può decidere di porre fine alla propria vita, trattandosi di decisione personalissima che ha a che fare con il significato ultimo dell’esistenza.
Per quanto riguarda la forma, la questione andrebbe, a mio parere impostata tenendo conto della natura del consenso. Non siamo qui in presenza di un atto a contenuto patrimoniale che trasferisce un diritto o genera un’obbligazione. Si tratta invece dell’esercizio di un diritto personalissimo, di un consenso che costituisce il perdurante sostegno della relazione terapeutica. Il problema non è la forma come requisito di validità dell’atto, è invece quello di accertare, nell’interesse del malato e del medico, che si sia formato un consenso libero, consapevole, informato, che perdura fino al termine della procedura. Il che si ottiene attraverso un procedimento appropriato e adeguatamente documentato.
La richiesta del malato dovrebbe essere rivolta al medico curante (medico di medicina generale, medico ospedaliero, medico dell’hospice o qualunque altro medico di fiducia). Come nel caso di rifiuto di trattamento medico (art., 1, c. 4, l. 219), ritengo che la richiesta vada formulata nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e vada documentata in forma scritta, o attraverso videoregistrazione o attraverso altri strumenti che consentono alla persona disabile di comunicare. La richiesta, in qualunque forma espressa, viene inserita, a cura del medico curante che la ha ricevuta, nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento ed in qualsiasi forma.
Il medico ha l’obbligo di dare tutte le informazioni necessarie perché il malato possa esprimere un consenso informato e consapevole, prospettandogli la prevedibile evoluzione della patologia, le conseguenze della sua scelta, le alternative possibili, con particolare riguardo alle cure palliative, fino alla sedazione terminale profonda. Può essere opportuno assegnare al malato un periodo di riflessione, decorso il quale rinnovare la richiesta. Ove richiesto dal paziente, il medico informerà anche i familiari o le altre persone di riferimento che potranno essere coinvolte nella procedura su richiesta dell’interessato.
Può essere opportuna la valutazione da parte di una commissione medica interdisciplinare, specie ove sorgano dubbi sulla determinazione della volontà. La commissione, che dovrà pronunciarsi con la sollecitudine richiesta dalla gravità delle circostanze, ha il compito di verificare - avvalendosi delle competenze degli specialisti che la compongono, in particolare un medico specialista nella patologia da cui è affetto il malato e, se occorre, un neuropsichiatra - la sussistenza di tutte le condizioni soggettive ed oggettive necessarie per dare corso alla richiesta con particolare riguardo alla libertà e consapevolezza del consenso.
Esprimo molti dubbi sull’opportunità dell’intervento di “Comitati etici” sia perché finirebbero per essere un duplicato della commissione medica interdisciplinare, sia perché al momento i Comitati etici previsti dal d.l. n. 158/2012, e relativo regolamento ministeriale, sono quelli per la sperimentazione clinica dei farmaci e dei dispositivi medici, mentre manca una compiuta disciplina dei Comitati etici per la pratica clinica istituiti in alcune Regioni ma non in tutte.
Prof.ssa Teresa Pasquino
È, questo, un profilo assai delicato ed estremamente importante.
Non vi è alcun dubbio che l’aiuto a morire debba essere concepito solo ed esclusivamente con la presenza, assistenza e supervisione di un medico, il quale deve seguire tutta la fase in cui può articolarsi il percorso decisionale : dal momento dell’assunzione della decisione da parte del paziente al momento della somministrazione del farmaco e dell’accertamento della morte.
La funzione del medico può e forse dovrebbe essere rappresentata anche da una équipe di medici, in taluni casi determinante per evitare, ad esempio, grazie alle diversificate professionalità che entrerebbero in giuoco, sofferenze psico-fisiche del paziente e per condividere la pratica attuazione della procedura di accompagnamento verso la morte con maggior garanzia del rispetto della persona.
In questo ambito della materia de qua, potrebbero comunque porsi problemi e questioni di raccordo con la disciplina generale del Servizio sanitario nazionale, dovendosi stabilire sia il luogo dove tali procedure dovrebbero attuarsi, sia a carico di chi dovrebbe cadere il costo della terapia farmacologica da somministrare.
Una questione di non poco conto è quella che pone il problema di stabilire se tali procedure possano essere eseguite a domicilio oppure debbano, invece, essere affidate a strutture pubbliche o private convenzionate. Inoltre, per rispettare la parità di trattamento e non creare situazioni diversificate sul territorio nazionale, occorrerebbe, altresì, stabilire che tali procedure dovrebbero essere assicurate in modo uniforme proprio dal Servizio sanitario pubblico.
In ordine alla prima questione, qualora si optasse nel senso di prevedere la somministrazione a domicilio dell’aiuto medico a morire, proprio per maggiore garanzia del paziente, non si potrebbe fare a meno di approntare strumenti di tutela della persona del malato per prevenire possibili abusi nel ricorso a tali pratiche. E’ la ragione per cui più consono e garantista sarebbe affidare il percorso decisionale ed operativo in seno alle strutture pubbliche o convenzionate (e in tale affermazione è contenuta anche la risposta in ordine alla necessità che le procedure venissero assicurate in modo uniforme dal Servizio sanitario pubblico); in tale direzione, ritengo che le strutture già concepite per la somministrazione delle cure palliative e delle terapie del dolore ben si presterebbero allo scopo.
Circa la partecipazione di familiari o soggetti terzi nella decisione e nell’attuazione della procedura, ferma restando che la volontà è quella del paziente capace di discernimento, tuttavia, pare possibile contemplare una loro partecipazione in funzione meramente consultiva; mentre, in ordine al coinvolgimento di comitati etici, diversi da quelli eventualmente previsti all’interno delle strutture sanitarie che si occupano delle procedure, guarderei alla loro partecipazione con un po' di scetticismo per l’eccessiva burocratizzazione della procedura che potrebbe derivarne.
Quanto alla forma che dovrebbe rivestire l’atto con cui il paziente dovesse decidere per l’aiuto medico a morire, in considerazione della rilevanza che ha una simile decisione, prenderei come riferimento quanto disposto dall’art. 4 della l. n. 219 del 2017 il quale prescrive per le DAT la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata ovvero consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie. Deve, comunque, sempre essere garantita la possibilità di attualizzare e/o revocare la decisione in ogni momento, anche fino all’ultimo istante prima dell’avvio della procedura, e, in tal caso, senza alcun vincolo di forma.
Prof. Stefano Troiano
La delicatezza estrema della scelta del malato in questa materia e la necessità che la decisione medesima sia compiuta da persona che sia in possesso della piena capacità di discernimento in merito alle conseguenze della propria scelta, impongono di accompagnare la maturazione della decisione di ricorrere all’aiuto a morire da un massimo livello di cautele, anche sul piano procedimentale. Occorre in aggiunta considerare che il malato che si trova nelle condizioni per l’accesso all’aiuto a morire versa, di regola, in uno stato di forte solitudine, quanto meno psicologica, non avendo la possibilità fisica di condurre una normale vita di relazione. Per questa ragione, è da evitare una disciplina che accentui la solitudine del malato, lasciandolo solo nel compiere e nel realizzare l’intento di porre fine alla propria vita. È da ritenere dunque indispensabile in ogni momento l’assistenza medica, che deve accompagnare l’intero procedimento dalla fase di verifica dei presupposti al momento dell’assunzione della decisione fino a quello conclusivo di attuazione materiale della stessa.
Data la complessità della decisione, ma anche della sua realizzazione, nonché l’indefettibilità di un supporto anche psicologico, è preferibile il coinvolgimento non di un singolo medico ma di una équipe più ampia, che possa raccogliere e coordinare le esperienze di più professionisti, inclusi psicologi, e provvedere alla consultazione dei familiari più stretti.
È opportuno, inoltre, che la decisione, una volta assunta dal paziente e recepita dall’équipe medica, sia sottoposta al vaglio di una commissione che dovrebbe comprendere al suo interno anche competenze giuridiche ed etiche.
La Corte costituzionale richiama, al riguardo, la necessità del coinvolgimento dei comitati etici regionali. Si tratta di una indicazione che ha sollevato qualche legittima perplessità, posto che i comitati etici sono essenzialmente preposti, almeno fino ad oggi, alla valutazione sul piano etico delle pratiche di sperimentazione clinica, ed operano pertanto con esperienza in un ambito molto diverso da quello del controllo sulla somministrazione dell’aiuto a morire. Va tuttavia evidenziato che esistono, sul territorio nazionale, pure esperienze diverse, di Regioni e Province che hanno ampliato la competenza dei comitati etici anche nella direzione della consulenza relativa alla pratica clinica, ovvero hanno costituito appositi comitati etici dedicati esclusivamente alla pratica o all’etica clinica (ad es., Veneto, Friuli Venezia Giulia). Normalmente questi comitati comprendono al loro interno anche psicologi e giuristi. Lo stesso DM 8 febbraio 2013, che definisce i criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici, prevede che i Comitati etici possano svolgere «[...] anche funzioni consultive in relazione a questioni etiche connesse con le attività scientifiche e assistenziali, allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona».
Una nuova disciplina dell’aiuto a morire potrebbe, dunque, costituire l’occasione per riformare i comitati etici ampliandone e consolidandone le funzioni di consulenza per la pratica e l’etica clinica.
Data la necessità di ricorrere ad un procedimento medicalizzato, assistito da idonee garanzie, la sede preferibile per la somministrazione dell’aiuto a morire dovrebbero essere le strutture del servizio sanitario nazionale, pubbliche o private convenzionate. La possibilità che queste procedure possano essere seguite a domicilio dovrebbe essere invece esclusa o vagliata con grande cautela.
Il consenso del paziente alla procedura dovrebbe essere espresso in una forma particolarmente rigorosa che consenta sia di sensibilizzare il dichiarante rispetto all’importanza dell’atto che sta compiendo sia permettere a chi la riceve o a chi successivamente dovesse controllarla di accertare senza margine di incertezza il contenuto e la serietà dell’espressione di volontà, nonché il fatto che essa sia stata preceduta dalla necessaria informazione. Ritengo che il requisito di forma debba essere più severo di quello normalmente previsto per il consenso o il rifiuto del consenso ad un trattamento sanitario (anche salvavita) dall’art. 1, comma 4, della legge n. 219 del 2017 (“Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”). I requisiti di forma prescritti, ad esempio, dal d.d.l. n. 1875 Sarli sembrano nel complesso adeguati, così come appropriate risultano essere le garanzie procedurali che questo d.d.l. introduce al fine di verificare che il consenso del paziente perduri per tutta la durata del procedimento e fino all’ultimo momento. Potrebbe, però, essere opportuno prevedere che la volontà debba essere rinnovata immediatamente prima della somministrazione dei farmaci letali.
Ferma la revocabilità in ogni momento della volontà già manifestata, è opportuno che la revoca possa essere effettuata senza alcun vincolo di forma e con ogni mezzo.
4. Quale ruolo deve essere assegnato alle sofferenze psicologiche? Sono integrative di quelle fisiche o alternative?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Al riguardo, va ricordato che le “sofferenze fisiche o psicologiche, che (il malato) trova assolutamente intollerabili” costituiscono una delle condizioni perché possa essere richiesto l’aiuto del medico a porre termine alla vita in aggiunta (e non in sostituzione) rispetto alla esistenza di “una patologia irreversibile”.
La valutazione delle sofferenze non può che essere rimessa al soggettivo apprezzamento del malato (come lascia intendere anche la Corte quando parla di “sofferenze che” (il malato) “trova assolutamente intollerabili”).
Esiste un limite alla propria personale capacità di sopportazione del dolore, il limite oltre il quale insistere nelle cure non è più accettabile, che solo l’interessato può stabilire e riguardo la quale non mi sembra possa aver rilievo la distinzione tra sofferenze fisiche o psicologiche. Concordo con Gabriella Luccioli: “Nessuna autorità può erigersi a giudice della quantità e qualità delle sofferenze che un soggetto malato e inguaribile può essere disposto a tollerare”.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Vi è da sottolineare sul punto che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 290 del 2019, ha espressamente qualificato le sofferenze che possono essere intollerabili per il malato, precisando che sono tali anche quelle psicologiche oltre che quelle fisiche; del resto, che lo stato psichico della persona sofferente debba ritenersi entrato a far parte del concetto di “salute” lo si era già stabilito ed accolto da tempo anche in sede giurisprudenziale.
Dal punto di vista del medico curante, non vi è dubbio che lo stesso medico sa quanto sia necessario considerare come passaggio essenziale nelle valutazioni da compiere anche lo stato psicologico del suo paziente; tanto soprattutto quando, dovendo soppesare l’efficacia di un determinato trattamento in ordine alle sofferenze patite con i risultati che si ambisce raggiungere, si dovesse rischiare di superare il limite dell’accanimento terapeutico a tutto svantaggio del paziente. In tali circostanze, le sofferenze psicologiche – che solo il paziente può misurare di fronte a sé stesso – assumono grande rilevanza al fine di decidere se accogliere la sua eventuale richiesta di interrompere il trattamento rivelatosi inefficace, refrattario e, dunque, inutile.
Diversamente, al di fuori di casi di accanimento terapeutico, la sofferenza psicologica in sé, non accompagnata da uno stato fisico intollerabile ed irreversibile, per la difficoltà di una valutazione oggettiva, stabile e immutabile, mal si presta ad essere ridotta a “malattia irreversibile”; sfugge ad una qualificazione fissa e muta col mutare dello stato d’animo del paziente. In queste condizioni, sarebbe inadeguato assecondare la richiesta di un aiuto a morire legalizzata.
Prof. Stefano Troiano
La sentenza n. 290 del 2019 della Corte costituzionale dà pari rilievo alle sofferenze fisiche e alle sofferenze psicologiche del malato, purché raggiungano la soglia della intollerabilità (soggettivamente percepita dal malato): le due tipologie di sofferenze si possono dunque cumulare tra loro, ma possono anche assumere rilievo autonomo (v. l’impiego della disgiuntiva “o”).
La soluzione è condivisibile, posto che l’incidenza della sofferenza intollerabile sulla percezione della propria dignità umana è un dato che deve comprendere la totalità della sfera personale del soggetto, inclusiva anche del profilo puramente psichico dell’esistenza.
D’altronde, entra qui in gioco anche lo spazio che deve essere riservato alle cure palliative. Alleviare il dolore arrecato dalla malattia potrebbe portare, in ipotesi, anche ad azzerare le sofferenze fisiche, ma senza incidere su quelle psicologiche, ad esempio perché queste siano legate alla stessa irreversibilità della malattia, e quindi alla certezza dell’approssimarsi della morte.
Naturalmente, non si deve confondere la natura (fisica o psichica) della sofferenza con la natura della malattia che la determina: la malattia deve essere caratterizzata dalla irreversibilità sul piano naturalistico, ossia dal fatto che si tratti di malattia che porterà inesorabilmente alla morte.
Un altro aspetto da considerare con attenzione è quanto la sofferenza, in particolare psicologica, sia in grado di incidere sulla capacità di discernimento del malato, compromettendola o azzerandola. Pur dovendosi riconoscere che una grave sofferenza psicologica è più facilmente in grado di tradursi a sua volta in una patologia psichica capace di onnubilare le facoltà di discernimento dell’interessato, sta ad una valutazione attenta del medico verificare se ciò accada in concreto.
5. Si reputa opportuno lasciare una decisione così tragica al soggetto minore di età? Quali soluzioni occorre prendere in caso di conflitto tra i genitori e in caso di conflitto tra il minore e i genitori, quali rappresentanti legali?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Per quanto riguarda la salute, la legislazione vigente in diverse occasioni riconosce al minore autonomia nelle relative decisioni. Si pensi alle leggi sull’aborto, sulle tossicodipendenze, sui consultori che ammettono il minore ad accedere direttamente ai servizi socio-sanitari. Alla capacità di discernimento del minore viene inoltre attribuita rilevanza quando si tratta di prendere decisioni di tipo familiare (adozione, riconoscimento, ecc.). Anche la legge n. 219 all’art. 3 stabilisce obblighi di informazione nei confronti del minore la cui volontà deve essere tenuta in considerazione dai genitori, ai quali tuttavia è riservato il potere di esprimere o rifiutare il consenso al trattamento medico.
La decisione di porre termine alla vita è troppo personale perché possa essere lasciata a soggetti diversi dall’interessato (genitori o altre figure di rappresentanti legali). Personalmente ritengo che in questo campo il discrimine non debba essere tra maggiore o minore età, ma tra capacità /incapacità di discernimento. La malattia e la sofferenza spesso rendono un ragazzo molto più maturo e più adulto di chi ha superato la maggiore età senza dover affrontare nessuna difficoltà od ostacolo. E potrebbe sembrare ingiustificato privare un giovane – solo perché minore di 18 anni - della possibilità di porre fine a sofferenze che reputa intollerabili.
Ritengo perciò che la richiesta di aiuto medico a terminare la vita possa provenire anche da un minore capace di discernimento. Tale capacità deve essere accertata dalla commissione medica che deve verificare anche la libertà del consenso - per evitare influenze indebite da parte dei genitori o di terzi - e la piena consapevolezza della portata e delle conseguenze della decisione.
Ritengo tuttavia che i genitori non debbano essere esclusi dal processo decisionale privando il figlio del sostegno che sono in grado di offrirgli. In caso di contrasto può essere utile l’intervento del giudice, non tanto per decidere al posto del minore, ma per verificare, tenuto conto del parere espresso dalla commissione medica, la sussistenza delle condizioni di legge, la capacità di intendere e di volere, la libertà e consapevolezza del consenso.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Sul punto, già con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale, aveva ribadito la centralità e l’indisponibilità del diritto alla vita, e, tra le altre circostanze che devono concorrere per il riconoscimento di un diritto a porre fine alla propria esistenza, la Consulta aveva precisato che «il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare»; e che «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.».
È piuttosto evidente come la mancanza di capacità, cui si riferisce la Corte, non dovrebbe avere nulla a che fare con le forme di incapacità tradizionali conosciute dal codice civile; e come essa, semmai si avvicini piuttosto al modello di capacità naturale, la quale meglio si presta ad essere declinata alla luce delle nuove esigenze di specificazione della capacità di intendere e di volere. Ciò accade già in alcuni luoghi dello stesso codice civile, dove, ad esempio, nella disciplina dettata in materia di amministrazione di sostegno si precisa che il beneficiario mantiene la sua capacità per l’esercizio dei suoi diritti personalissimi; o nei casi di risoluzione delle crisi coniugali, laddove è previsto un diritto del minore ad essere ascoltato così che il giudice possa eventualmente assumere la sua decisione anche sulla base delle dichiarazioni del minore, valutata la sua capacità di discernimento; in tutti quei casi in cui, secondo quanto previsto anche dalle Convenzioni internazionali, il minore è parte in giudizio per la tutela dei diritti afferenti alla sua sfera personalissima.
In relazione alle decisioni pro futuro sul proprio stato di salute, infatti, rispetto al tradizionale concetto di legale capacità di agire, si è sempre più accreditato quello di capacità di discernimento ovvero di stato di consapevolezza : in tal modo, si potrebbe sempre più dare rilievo ad una forma di capacità che, basandosi sulla verifica caso per caso e con la cura ed il supporto professionale di una équipe medica del reale stato di consapevolezza e di maturità della persona, prescinda dal concetto di capacità legale ed includa, dunque, tra le persone aventi diritto all’autodeterminazione eventualmente anche gli incapaci legali.
Quanto al profilo inerente alla eventuale necessità di intervento di un rappresentante legale (genitori; curatore speciale; amministrazione di sostegno) nell’assunzione della decisione di aiuto a morire, essa può e deve essere contemplata a supporto dell’incapace, dovendosi distinguere il ruolo dei genitori – che devono essere comunque sempre partecipi in qualunque forma di assistenza sia concepibile - e quello degli altri rappresentanti che non abbiano tale status, i quali potrebbero prendere parte alla decisione qualora nel minore non si sia riconosciuta la giusta capacità di “discernimento”; peraltro, sempre avendo cura di dover opportunamente distinguere la fattispecie da quella contemplata nell’art. 579 c.p. (Omicidio del consenziente) che, per il caso di minori ed incapaci, prevede l’assimilazione del reato all’omicidio.
In caso di conflitto tra rappresentanti ed incapace, sarà il giudice, opportunamente consigliato da una equipe medica, che dovrà valutare il miglior interesse della persona bilanciando i diversi diritti che entrano in giuoco in simili circostanze.
Prof. Stefano Troiano
Non v’è dubbio che, nel richiedere che il paziente che decide di ricorrere all’aiuto a morire debba essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli, la Corte costituzionale intenda riferirsi innanzitutto alla concreta capacità di discernimento, e non alla capacità legale. Dovrebbe infatti, essere, di regola, la capacità di discernimento a governare le decisioni relative all’esercizio di diritti fondamentali della persona, indipendentemente dallo stato di capacità legale di chi le compie. Questo porta a ritenere che, in linea generale, l’accesso all’aiuto a morire in dignità possa essere riconosciuto anche a persone legalmente incapaci, purché ne sia accertata la concreta capacità di discernimento.
Si deve però ricordare che l’accertamento della capacità di discernimento presuppone una valutazione complessa che rapporta la pienezza ed intensità della consapevolezza richiesta anche all’importanza della scelta da compiere e alla portata delle sue conseguenze sulla sfera di esistenza della persona che la compie.
In questa valutazione non può allora non rilevarsi come, rispetto alla posizione di un adulto legalmente incapace ma capace di discernimento, in posizione affatto diversa si ponga il minore di età chiamato ad una decisione, qual è quella di cui qui si tratta, che porta a porre fine alla propria vita sulla base di una soggettiva valutazione della definitiva compromissione della propria dignità.
La peculiarità è duplice.
È, innanzitutto, da considerare che la scelta di cui si tratta riguarda la più difficile ed angosciosa tra tutte le decisioni personali che si possano ipotizzare, ed implica una percezione attenta da parte del soggetto del senso intimo della vita, dall’altro, e delle implicazioni profonde della morte. L’esperienza dimostra come sia difficile convincersi del fatto che un soggetto ancora in formazione possa avere già acquisito una adeguata consapevolezza del significato della morte. Numerosi sono gli studi psicologici che attestano la difficoltà, soprattutto in età adolescenziale, quindi con riguardo proprio a quei c.d. grandi minori a cui più facilmente si è disposti a riconoscere la capacità di discernimento nel compimento di scelte esistenziali, ad accettare la morte e a percepirne (ed elaborarne correttamente) il significato. Non si deve poi trascurare l’attrazione o il fascino che talora la morte esercita su alcuni adolescenti, che la vivono come una sfida ovvero, all’opposto, come una facile soluzione al proprio comune disagio adolescenziale. È un dato che il suicidio costituisca una delle principali cause di morte negli adolescenti.
In secondo luogo, l’anticipazione rispetto alla maggiore età della capacità di assumere decisioni personalissime – anche di grande importanza e portata (ad esempio, in tema di riconoscimento del figlio, adozione, trattamento dei dati personali, ecc.) – si giustifica in ragione del fatto che precludere al minore di assumere personalmente simili decisioni si tradurrebbe non solo in una compressione della sua personalità ma anche, e soprattutto, in un impedimento alla sua crescita personale, che passa anche attraverso l’assunzione di scelte personali di questa natura. In altre parole, essa è strettamente funzionale alla maturazione progressiva della personalità del minore fino al suo consolidamento nell’età adulta. È tuttavia paradossale che si consenta al minore di compiere una scelta che è invece, tutt’all’opposto, diretta a troncare la futura ulteriore crescita della sua persona, avendo l’effetto di interromperne irreversibilmente lo stesso percorso vitale. È da chiedersi fino a che punto un soggetto in formazione possa decidere consapevolmente della interruzione dello stesso processo di formazione che sta vivendo, quando è solo il compiuto perfezionamento di questo che potrà offrirgli la possibilità di conoscere fino in fondo quel bene a cui sta per rinunciare – la vita (residua) – e apprezzarne in modo pieno la (residua) dignità.
Per le ragioni indicate, ritengo preferibile che il legislatore si orienti per limitare l’accesso all’aiuto a morire al raggiungimento della maggiore età e non opti per una semplice estensione, a questa fattispecie, delle previsioni della legge n. 219 del 2017 che riguardano il minore di età (v. art. 3, comma 2 e 5), posta anche la differenza che, come si è già evidenziata, intercorre tra l’aiuto a morire e il rifiuto del consenso al trattamento sanitario (anche di supporto vitale). Solo in subordine si potrebbe valutare di stabilire un limite di età più basso, comunque non inferiore a sedici anni, ferma, in entrambi i casi, la verifica in concreto della capacità di discernimento.
Merita al riguardo evidenziare che la gran parte delle proposte di legge in discussione in Parlamento che regolano l’aiuto a morire escludono il minore di età dall’accesso alle pratiche di suicidio assistito o di trattamento eutanasico, prevedendolo solo per le persone maggiorenni. È il caso delle proposte C 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli.
Analoghe indicazioni si possono trarre anche dalla comparazione con altri ordinamenti, in particolare con le realtà più vicine, per sensibilità e per cultura, a quella italiana. Più precisamente, la recente normativa spagnola in corso di approvazione ammette esclusivamente i maggiori di età e lo stesso è a dirsi per la legge portoghese, approvata a fine gennaio del 2021 e in attesa di promulgazione.
6. Quale soluzione occorre prendere per contemperare l'obiezione di coscienza del medico con l'attuazione della volontà del paziente?
Prof.ssa Gilda Ferrando
In attesa dell’intervento del legislatore, la Corte affida l’accertamento dei presupposti che legittimano l’aiuto del medico a terminare la vita al servizio sanitario nazionale (v. già, per le diagnosi preimpianto Corte cost. n. 96/2015; n. 229/2015). Al SSN viene affidato anche il compito di “verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”.
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza è stata la Corte a precisare che la sentenza si limita ad escludere la punibilità della condotta, ma non impone alcun obbligo. La Corte aggiunge che, nel rispetto dei principi fondamentali di salvaguardia della dignità e dell’autodeterminazione terapeutica del malato, la disciplina della materia è affidata alla discrezionalità del legislatore.
Questi aspetti – ruolo del SSN e obiezione di coscienza – sono molto delicati. A me pare che sia opportuno riservare al SSN l’accertamento delle condizioni oggettive e soggettive. Questo al fine di “evitare abusi a danno di persone vulnerabili”, di “garantire la dignità del paziente” ed “evitare al medesimo sofferenze”. Riterrei, invece, che l’esecuzione della procedura non debba necessariamente avvenire in una struttura pubblica. Il malato può infatti essere ricoverato in una struttura ospedaliera, ma il più delle volte è assistito a casa, in un hospice, o altrove. L’importante è garantire l’assenza di qualsiasi scopo di lucro da parte del professionista e/o della struttura che aiutano il malato a realizzare il proprio intento. Potrebbe essere utile redigere elenchi di strutture non lucrative convenzionate che possiedano i requisiti di idoneità necessari.
Al personale sanitario deve essere garantita l’obiezione di coscienza. A mio parere l’obiezione può riguardare l’esecuzione materiale della procedura, non invece la partecipazione alla commissione medica chiamata a valutare l’esistenza delle condizioni soggettive e oggettive del malato. In questo caso, infatti, la commissione (ed il personale sanitario che la compone) si limita a verificare la genuinità della volontà del malato, a formulare una diagnosi sulla gravità della malattia e delle sofferenze che provoca e una prognosi sul suo decorso, senza partecipare in alcun modo alla scelta che resta un atto personalissimo del malato. Mi pare utile richiamare in proposito la decisione della Corte costituzionale sulla legittimità della mancata previsione dell’obiezione di coscienza del giudice tutelare in caso di aborto della minorenne (Corte cost. 15 marzo 1996, n. 76).
In caso di obiezione di coscienza del personale sanitario, il SSN deve comunque garantire che il malato possa essere assistito da personale non obiettore, eventualmente anche in convenzione.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Appare auspicabile che de iure condendo venga prevista espressamente la tutela dell’obiezione di coscienza del personale sanitario che voglia sottrarsi alla pratica della procedura di aiuto a morire.
In tale materia, il Legislatore dovrebbe, tuttavia, provvedere in modo tale che il diritto all’obiezione di coscienza non diventi un modo per aggirare l’applicazione della eventuale normativa che dovesse essere dettata per l’aiuto a morire e che al paziente venga comunque assicurata l’attuazione della richiesta di aiuto medico a terminare la sua esistenza.
Analoga previsione esiste già nella legge n. 194 del 22 maggio 1978, in materia di interruzione volontaria della gravidanza, e potrebbe essere mutuata anche in una nuova disciplina sull’aiuto medico a morire.
Prof. Stefano Troiano
Analogamente a quanto previsto dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 in materia di interruzione volontaria della gravidanza, l’obiezione di coscienza dovrebbe essere consentita ma regolata in modo tale da consentire al paziente di vedere comunque attuata la propria volontà.
Le modalità per contemperare l’obiezione di coscienza del medico con l’attuazione della volontà del paziente potrebbero essere, dunque, mutuate dalla legge n. 194 del 1978, in particolare per quanto attiene all’art. 9, commi 3 e 4, ai sensi dei quali “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all'intervento” e “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8”, altresì imponendosi alla Regione il compito di controllarne e garantirne l’attuazione “anche attraverso la mobilità del personale”.
È necessario che questo si traduca in una organizzazione degli enti ospedalieri tale da consentire l’attuazione delle richieste di aiuto a morire anche in presenza di medici obiettori.
7. Si ritiene che le cure palliative debbano essere una scelta vincolante al fine di indirizzare o eventualmente evitare una scelta così tragica?
Prof.ssa Gilda Ferrando
La terapia del dolore e le cure palliative costituiscono una pratica clinica cui il paziente ha diritto quando siano necessarie per alleviare le sue sofferenze. Sono disciplinate dalla l. 15 marzo 2010, n. 38 e richiamate dall’art. 2 della l. n. 219/2017 il quale comprende tra i doveri del medico quello di alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario, garantendo un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione di cure palliative. I compiti di cura del paziente, infatti, non si esauriscono quando la cura della malattia risulti impossibile ma comprendono ogni trattamento idoneo a favorire una migliore qualità della vita residua e in situazioni estreme anche l’eliminazione del dolore terminale mediante la sedazione palliativa profonda (art. 2, c. 2,3, l. n. 219).
Purtroppo, la loro diffusione non è omogenea su tutto il territorio nazionale, cosicché si assiste a disparità di trattamento che dovranno essere eliminate quanto prima anche favorendo una cultura ispirata ad una più attuale concezione dei doveri di cura.
Al paziente, dunque, devono essere offerte le cure palliative, spiegando significato e conseguenze di quelle appropriate al caso specifico. Ovviamente la loro applicazione presuppone il consenso del paziente che potrebbe avere le sue ragioni per rifiutarle (si pensi, ed esempio, al padre che voglia essere pienamente vigile alla nascita del figlio, anche se questo gli costerà sofferenze che la medicina potrebbe alleviare).
Si può anche supporre che il ricorso alle cure palliative possa talvolta distogliere dal proposito di anticipare la fine della propria vita, ma non è sempre così ed il caso di Fabiano Antoniani ne è un esempio, dato che il rifiuto della sedazione terminale profonda e la scelta del “suicidio assistito” in Svizzera sono stati motivati anche con il desiderio di evitare ai suoi cari la sofferenza di assisterlo nel periodo di tempo intercorrente tra sedazione profonda e morte.
In definitiva, solo il malato può prendere la decisione che ritiene buona per sé dopo aver valutato le diverse alternative ed essere stato accompagnato nel decorso della malattia e nelle fasi finali della sua esistenza.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Da qualche tempo, occupandomi della materia delle cure palliative, vado sempre più convincendomi che essa sia stata trascurata ed alquanto sminuita nelle sue potenzialità; tanto non solo in termini di effetti che tali cure potrebbero produrre sulle decisioni, a volte drammatiche, dei pazienti ma anche per i risvolti che esse potrebbero avere sull’assetto familiare che costituisce il contesto in cui molte scelte tragiche vengono assunte.
Com’è noto, la materia delle cure palliative è disciplinata dalla l. n. 38 del 15 marzo 2010; non è di poco rilievo il fatto che tale disciplina sia sta richiamata espressamente sia dal Legislatore della l. n. 219 del 2017 sia dalla Corte costituzionale nella materia che ci occupa.
Per attuare il diritto alle cure palliative ed alla terapia del dolore previsto in questa legge l’operatore medico-sanitario che si prende cura del malato terminale, oltre alla professionalità che gli è propria, deve aver acquisito particolari competenze, passando attraverso un percorso di formazione personale, espressamente prescritto dalla l. n. 38 del 2010. Infatti, a norma del 2° co., art. 8, l. n. 38 del 2010, sono previsti programmi obbligatori di formazione in medicina, riguardo ai quali una Commissione nazionale per la formazione continua, costituita ex art. 2, co. 357, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, prevede che l'aggiornamento periodico del personale medico, sanitario e socio-sanitario, impegnato nella terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative e nell'assistenza nel settore delle cure palliative, (in particolare, medici ospedalieri, medici specialisti ambulatoriali territoriali, medici di medicina generale e di continuità assistenziale e pediatri di libera scelta), si realizzi attraverso il conseguimento di una formazione volta a perfezionare i livelli assistenziali su percorsi multidisciplinari e multi-professionali; tanto, avendo, altresì, cura di individuare i contenuti dei percorsi formativi obbligatori ai fini dello svolgimento di attività professionale presso le strutture sanitarie pubbliche e private e nelle organizzazioni senza scopo di lucro operanti proprio nell'ambito delle due reti per le cure palliative e per la terapia del dolore, con periodi di tirocinio obbligatorio presso le strutture in esse presenti.
Alla luce di tali possibilità, anche l’eventuale decisione - assunta dal malato avviato verso il ricorso ad una procedura di aiuto a morire magari per un senso di angoscia per l’irreversibilità della sofferenza o di abbandono terapeutico o per non rappresentare un fardello sulla famiglia - potrebbe mutare proprio ad opera del contesto medico nel quale la percezione della cura, dell’attenzione e della somministrazione di terapie più adeguate, potrebbero generare nel paziente decisioni diverse o valutazioni più adeguate perché più informate ed idonee a metterlo in condizione anche di cambiare decisione prima di assumere scelte più tragiche sull’ultimo segmento della sua vita .
In questa ottica, in alternativa, deve essere meglio precisata quella funzione di garanzia che sembra dover connotare l’attività del medico e gli operatori sanitari in questo settore e che implicherebbe che questi si adoperino per garantire ed alleviare gli ultimi istanti di vita e non già per agevolare la morte; si tratta di un vero e proprio obbligo di garanzia, che non può né deve essere garanzia di vita, quanto piuttosto garanzia di cura, intesa come alleviazione della sofferenza, e di adeguata informazione sullo stato di salute; sulle terapie farmacologiche e sull’uso delle tecnologie che si pensa di adoperare, per lenire il dolore ed evitare sofferenze inutili.
Della volontà del paziente conseguentemente espressa non si potrebbe non tener conto in termini di vincolatività magari mutando persino la richiesta di azione finalizzata alla morte.
Prof. Stefano Troiano
Com’è noto, le cure palliative sono regolate dalla l. 15 marzo 2010, n. 38 e richiamate dall’art. 2 della l. n. 219/2017, secondo il quale il medico deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario, e deve essere garantita un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge n. 38, ossia cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita del malato in fase terminale (e dei suoi familiari).
È indubbio che la terapia del dolore e il miglioramento della qualità della vita del paziente tramite cure palliative possono talora essere fondamentali anche nel distogliere il malato dal proposito di porre termine anticipatamente alla propria esistenza. Le cure palliative devono dunque essere un passaggio necessario per l’accesso alla procedura di aiuto a morire. Già l’ordinanza n. 207 del 2018, richiamata dalla successiva sentenza del 2019, osservava che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire “un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.
A tal fine, il legislatore potrebbe limitarsi a richiamare le norme della l. n. 38 del 2010 e della l. n. 219/2017. Preferibilmente, però, la nuova disciplina dell’aiuto a morire potrebbe anche rappresentare l’occasione per rendere pienamente operativa la l. n. 38 del 2010, che ha enormi potenzialità ma ha trovato sino ad oggi un’attuazione del tutto imperfetta.
Ferma dunque la necessità che il medico offra e renda concretamente accessibile la terapia del dolore e le cure palliative al paziente, la scelta di avvalersene è, però, una decisione insindacabile del paziente. Al riguardo non si può tuttavia non considerare che le sofferenze, soprattutto quando siano estreme e insopportabili, possono essere esse stesse un motivo di compromissione della capacità di discernimento. Non si può pertanto escludere che il rifiuto di sottoporsi a cure palliative e alla terapia del dolore possa incidere, nei casi più estremi, sul riconoscimento della piena capacità decisionale che è richiesta per l’esercizio del diritto all’aiuto a morire.
Va in ogni caso raccolto con forza l’invito espresso dal Comitato nazionale per la bioetica nel parere del 18 luglio 2019, lì dove ha sottolineato all’unanimità che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” – dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”.
8. A quale domanda, diversa da quelle formulate, avrebbe voluto rispondere sul tema caleidoscopico qui esaminato?
Prof.ssa Teresa Pasquino
Alla domanda sulla solitudine di chi soffre. Credo che, in fatto di decisione verso l’aiuto medico a morire, tutto parta da questo stato esistenziale : solitudine perché mancano le persone che possano stare vicine al paziente; solitudine che, pur essendoci le persone vicine, si percepisce ugualmente a livello più interiore; solitudine generata dall’impotenza di sottrarsi a quello stato di disagio che si può provare nel sentirsi dipendenti da altri.
Ma questa è una domanda che implicherebbe una risposta assai complessa, che ci costringerebbe ineludibilmente a domandarci, infine, quale sia il senso della vita : domanda troppo unisoggettiva per essere svolta in termini astratti e generali, la cui risposta non può certo essere affidata alla Legge.
Prof. Stefano Troiano
Alla domanda se il legislatore debba prevedere che il diritto di ricevere l’aiuto a morire possa essere esercitato, e la relativa volontà essere espressa, anche in forma anticipata, ossia con disposizioni assunte dall’interessato in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, in particolare mediante lo strumento delle Disposizioni anticipate di trattamento di cui all’art. 5 della l. n. 219 del 2017, che al riguardo consente anche la nomina di un fiduciario.
La sentenza della Corte costituzionale del 2019 non si occupa di questa ipotesi, innanzitutto perché non pertinente rispetto al caso concreto sottoposto alla sua attenzione. Alcuni dei d.d.l. in discussione in Parlamento aprono a questa possibilità.
Ritengo, però, che l’importanza massima della decisione sull’anticipazione della morte, che si presenta in termini non del tutto sovrapponibili a quella consistente nel rifiuto del consenso al trattamento sanitario, anche salvavita (la quale si limita ad assecondare il decorso naturale di una malattia letale), richieda un consenso necessariamente attuale, revocabile fino all’ultimo momento e, di massima, da rinnovare nel momento immediatamente antecedente a quello in cui si dà inizio al processo di assunzione o somministrazione dei farmaci che condurranno il paziente, in conformità al suo proposito, alla morte.
Modesta proposta per la giustizia civile
(Contra oratores)
di David Cerri *
Il titolo (di sapore swiftiano, ma sperabilmente meno truce) ed il sottotitolo (pretenzioso e ciceroniano) di questo breve intervento sembrano tradire predilezioni letterarie, ma nascono dalla costituzione della Commissione per la Giustizia Civile nominata dalla ministra Cartabia, che dovrà in tempi molto brevi concludere i suoi lavori, appena iniziati; e si traducono semplicemente in un incoraggiamento a passi forse controcorrente, con una conseguente garbata critica ai fautori dell’oralità del processo civile ora, sempre e subito.
La ministra sembra avere le idee chiare: nelle Linee programmatiche di recente presentate e discusse in Commissione Giustizia del Senato, nel settore della giustizia civile l’accento è posto sulla rivalutazione delle procedure alternative di risoluzione delle controversie, e sulla scelta da compiere tra il mantenimento dei due modelli attuali (rito ordinario e rito sommario di cognizione) o l’introduzione di un nuovo rito semplificato. Molto correttamente nelle Linee programmatiche si legge che il successo delle ADR deve avere una corrispondenza nella efficienza della giurisdizione, conclusione alla quale da molto tempo erano arrivati gli studiosi, in particolar modo quelli di ordinamenti che ben prima del nostro conoscevano tali forme alternative. Se si può solo accennare ad un modesto dissenso, è sulla valutazione del rito sommario così come lo conosciamo come “un rito molto efficace ed apprezzato“… ciò che non mi sembra appartenga al notorio né alle statistiche degli uffici. Il tutto in un quadro che, come si legge, non consente di “coltivare illusorie ambizioni di riforme di sistema non praticabili nelle condizioni date”, doverosa, realistica ed anche saggia considerazione.
Un altro importante riferimento è fatto all’esigenza di regolamentare e incentivare la sinteticità degli atti, riferimento che ai fini di questo commento interessa in modo speciale. L’oculata scelta dei componenti della commissione, ad iniziare dal presidente Francesco Luiso e dal vicepresidente Filippo Danovi, offre ampie garanzie (e per restare ai soli processualcivilisti, altrettanto si può certamente dire di Paolo Biavati e Antonio Carratta, mentre sarà certamente rilevante l’apporto di Paola Lucarelli sul profilo delle procedure alternative).
La considerazione da cui partire è in primo luogo quella che, volenti o nolenti, il processo civile italiano è fondamentalmente un processo scritto. La farraginosa storia delle novelle al codice del 1940 non ha mai registrato novità essenziali su tale struttura, anzi. Di recente abbiamo poi conosciuto una sorta di esasperazione (benvenuta, peraltro, perché ha impedito la totale paralisi del settore) con l’introduzione nella fase emergenziale della “trattazione scritta“ dei procedimenti (ed a parere di chi scrive, come meglio si coglierà più avanti, dovrebbe sfruttarsi l’occasione di consolidare alcune nuove esperienze maturate in questo pur difficile contesto). L’oralità è ristretta a determinate oasi, in particolare – oltre ovviamente all’istruttoria orale - laddove si usa il termine discussione; non c’è dubbio però che le decisioni vengano poi effettuate sulla base della lettura ed esame di atti scritti.
Dovremmo aggiungere una considerazione preliminare, di notevole sostanza: lo scopo del processo civile - per parafrasare il noto aneddoto riportato da Dworkin in epigrafe al suo Giustizia in toga (lo scambio di battute tra Oliver Wendell Holmes e Learned Hand) - è fare giustizia, o applicare la legge ? [1] Si tratta probabilmente di fare giustizia, applicando la legge.
Se ci poniamo in quest’ottica, una considerazione importante riguarda il momento della decisione: esser consapevoli degli inevitabili, naturali biases cognitivi (certamente presenti sia in un provvedimento reso dopo un processo condotto prevalentemente in forma orale, che in uno che segua una riflessione su soli, o quantitativamente prevalenti, atti scritti) valutando se il rischio di soccombervi sia maggiore nell’una o nell’altra ipotesi.
Parlare quindi di prevalenza della forma scritta, non è certamente voler tornare a forme antiquate e prolisse di esposizione degli argomenti; è, al contrario e piuttosto, spingersi in avanti, nella considerazione che l’introduzione di efficaci stimoli a chiarezza e concisione nella redazione degli atti (sia degli avvocati che dei giudici) possa costituire la soluzione migliore, l’antidoto più efficace alle degenerazioni di una scrittura che tende a tradursi in scartoffie.
Il momento dell’oralità presenta infatti diverse insidie: sono i neuroscienziati a dirci come le caratteristiche del nostro cervello comportino determinate conseguenze, per esempio, per quanto riguarda la ritenzione dei dati sensoriali nella memoria a breve termine (MBT); Bona e Rumiati tra gli altri ci hanno ricordato in modo esemplare, a proposito dei limiti fisiologici del nostro organismo, e proprio trattando della MBT, che “La consapevolezza circa questi limiti e i correlati riflessi sui processi di pensiero non può che comportare l’utilizzo, specie da parte degli avvocati, di strategie adeguate. Lo intuivano già i retori classici. L’invito, ripetuto allo sfinimento da parte dei grandi retori, a essere concisi, chiari e verosimili nell’esposizione dei propri argomenti”, citando Quintiliano [2].
Il pericolo, credo evidente nell’esperienza del giurista pratico, è quindi che una decisione in momenti non secondari del processo possa risentire eccessivamente di tale modalità di trattazione. Senza voler invadere un campo che non mi compete, ma prendendo (ancora) in prestito le parole di Carlo Bona, che il giudice non ragioni “secondo gli schemi di una razionalità “olimpica”, bensì secondo quelli di una razionalità alternativa, compatibile con i limiti del nostro sistema cognitivo”[3] mi parrebbe una conclusione consolidata, alla quale aggiungere la considerazione delle emozioni, momento “forte” di una discussione nella quale l’abile oratore sappia suscitarle [4].
Utile invece, e raccomandabile, una discussione che giunga al termine del processo, in una sorta di riepilogo delle argomentazioni essenziali, riviste alla luce dell’istruttoria, e di fronte ad un giudice perfettamente a conoscenza della causa, che potrebbe vedere un modello negli articoli 281 quinquies (e sexies) c.p.c.; quindi un punto di arrivo e conclusione, non una scorciatoia [5].
L’oralità - guarda caso - ha invece un ruolo determinante nelle procedure alternative, dove l’intervento personale delle parti e l’osservanza del principio di riservatezza costituiscono gli elementi che la presuppongono e favoriscono, principalmente in virtù del fatto, da rimarcare, che non vi è nessuna decisione da prendere.
Non è vero, in conclusione, che la trattazione scritta del processo sia una delle principali cause del malessere del sistema della giustizia civile; senza voler entrare nei temi (in realtà decisivi) delle risorse umane e materiali disponibili, e della formazione degli operatori (come ricordato, a cominciare dalla ministra si è tutti a malincuore consapevoli che per riforme “epocali” non è questa la stagione) lo sforzo riformatore potrebbe trarre spunti anche da qualche sommessa indicazione:
- razionalizzazione del percorso giudiziale, eliminando udienze inutili; nella realtà che conoscono i giuristi pratici, quale degli adempimenti richiesti agli avvocati di cui all’art.183 c.p.c. non potrebbe essere sostituito da una nota scritta ? Perché, analogamente, imporre una presenza ai fini del conferimento dell’incarico al consulente tecnico ? O per la precisazione delle conclusioni ? In tutti i casi, beninteso, facendo salva la richiesta delle parti, o l’autonoma decisione del giudice, di tenere l’udienza;
- potenziamento dell’intervento del giudice (auspicabilmente quello “vero” che deciderà la causa, non il delegato…) nell’istruttoria, con un più esplicito affidamento di poteri conciliativi. Qui però occorre esser chiari: la prospettiva è certamente valida ma a patto però di dotarlo istituzionalmente – ancora la formazione… - delle capacità richieste per la gestione di tali poteri, che non si improvvisano e per le quali non è sufficiente la sola esperienza pratica; senza questa garanzia per il cittadino, meglio allora ed intanto un maggiore ricorso alla mediazione delegata, della quale il giudice, spogliatosi del procedimento, raccolga gli esiti (se ne parla nelle Linee programmatiche);
- deciso ingresso anche nel processo civile di tutte le indicazioni verso la redazione di atti chiari e concisi, magari attingendo a quelle iniziative di soft law nate dalla collaborazione tra avvocatura e magistratura, come ad esempio il Protocollo del 2015 per i ricorsi in materia civile concordato tra C.N.F., le Linee Guida del 2017 degli Osservatori sulla giustizia civile, e il Protocollo C.S.M.- C.N.F. del 2018 sulla redazione degli atti e provvedimenti in appello [6], senza contare i numerosi altri strumenti creati sul territorio. Oltre – va detto – alla comparazione con l’esperienza di quegli ordinamenti che da tempo hanno arato questo campo, in primis quello statunitense e quelli delle corti europee;
- sotto l’ultimo profilo, contemporanea attenzione a non ripetere esperienze negative, dove le prescrizioni formali sono state talvolta intese come “trappole” per sfoltire i ricorsi…nel primo dei Protocolli ricordati – ad esempio – vi è la previsione che il superamento dei limiti dimensionali degli atti non possa mai comportarne l’automatica inammissibilità. Per esser più chiari, la vicenda del processo amministrativo (con l’introduzione dell’art.13 ter n.att. ed in particolare del comma 5, che prevede la mera facoltà del giudice di esaminare le questioni trattate oltre quei limiti, senza possibilità di impugnazione) non è un modello da seguire tout court ( anche senza considerare la delega ad una fonte di rango secondario – il decreto del presidente del Consiglio di Stato - di previsioni che comunque incidono sulla difesa). Probabilmente, invece, una valutazione potrebbe essere condotta in termini di liquidazione delle spese, e forse anche in senso premiale oltre che punitivo, visto che ad integrare il criterio del “pregio dell’attività prestata” di cui al c.1 dell’art.4 del D.M. 55/2014 sui parametri forensi starebbe proprio, tra gli altri, il rispetto di quelle indicazioni; e non soltanto, a mente dell’introduzione nel medesimo articolo del c.1 bis che consente l’aumento fino al 30% dei compensi per gli atti, depositati in forma telematica ,“navigabili”;
- simile attenzione da porre ai filtri delle impugnazioni, anch’essi mai da interpretare come meri strumenti deflattivi, tentazione che il nostro legislatore ha spesso avuto, giungendo talvolta a stravolgere a tal fine (il caso della mediazione obbligatoria prima maniera) la genuina ispirazione delle indicazioni eurounitarie;
- infine, oralità sì, ma non univoca riduzione ad essa del processo; piuttosto, concentrazione di tale momento nella fase conclusiva, in veste di riepilogo e discussione finale dei suoi temi essenziali: un modello, come già ricordato, potrebbe essere tratto dall’art.281 quinques, 2 c., dove il giudice ha già avuto modo di studiare compiutamente le difese (scritte) delle parti. Sempre salva la facoltà di parti e giudice di dar sfogo al confronto verbale in ogni fase del processo. Così facendo si restituirebbero a tale modalità un senso ed una efficacia veri, senza limitarsi a lodarne tralaticiamente l’ispirazione chiovendiana.
Una sola chiosa finale: volutamente non ho accennato al tema ancora attuale dell’udienza “da remoto”, perché per l’impostazione di questo intervento non vi era motivo di distinguere la trattazione online da quella in presenza, per la comune diversità rispetto alla forma scritta [7]. Volendo però comunque considerare la nuova possibilità per il futuro, nello specifico campo dell’istruttoria orale, la trattazione da remoto potrebbe ancora essere prevista in quei casi dove – ad esempio - il pregiudizio dello spostamento dei soggetti interessati superi il vantaggio dell’immediatezza (si è avuto il caso generale della pandemia, ma ci potrebbero essere impedimenti del singolo processo, come quando vi siano testi impossibilitati a trasferimenti anche modesti: e non mi si dica che esiste la previsione dell’art.255, 2 c., ed in particolare della prova delegata…): anziché fare un tabù della trattazione in presenza sarebbe assai meglio regolare da un lato le prassi poco virtuose del sistematico affidamento dell’istruttoria a giudici onorari (a giudici che, in altre parole, poco sanno di quel procedimento prima, e null’altro sapranno poi: caratteristiche del resto proprie anche dell’organo delegato) e, dall’altro, pensare seriamente alla videoregistrazione, considerato anche il (previsto) fallimento dell’art.257 bis c.p.c.[8]
*Avvocato, Università di Pisa
[1] “Una volta Oliver Wendell Holmes, mentre andava in carrozza alla Corte Suprema di cui era giudice associato, dette un passaggio al giovane Learned Hand. Questi scese alla propria destinazione e, salutando la carrozza che ripartiva, urlò allegramente: «Fa' giustizia, giudice!». Holmes fermò la vettura, fece invertire la marcia al conducente, e tornò indietro verso il sorpreso Hand. «Non è quello il mio lavoro!» disse, sporgendosi dal finestrino. Poi la carrozza girò e ripartì, portando Holmes al suo lavoro: presumibilmente, quello di non fare giustizia.” R.DWORKIN, La giustizia in toga (2006), Roma-Bari, Laterza, 2010, p.10.
[2] C.BONA-P.RUMIATI, Psicologia cognitiva per il diritto, Bologna, Il Mulino, 2013, p.51.
[3] C.BONA, Sentenze imperfette, Bologna, Il Mulino, 2010, p.199.
[4] V. i saggi raccolti nel recentissimo Studies on Argumentation & Legal Philosophy / 4. Ragioni ed emozioni nella decisione giudiziale - (a cura di M. MANZIN, -F. PUPPO - S. TOMASI (2021) (Università di Trento, open access: http://hdl.handle.net/11572/296052)
[5] Sul sito della Corte suprema U.S.A. si legge, a proposito dell’ oral argument: “The Court holds oral argument in about 70-80 cases each year. The arguments are an opportunity for the Justices to ask questions directly of the attorneys representing the parties to the case, and for the attorneys to highlight arguments that they view as particularly important”, e “An attorney for each side of a case will have an opportunity to make a presentation to the Court and answer questions posed by the Justices. Prior to the argument each side has submitted a legal brief—a written legal argument outlining each party’s points of law. The Justices have read these briefs prior to argument and are thoroughly familiar with the case, its facts, and the legal positions that each party is advocating” (mie sottolineature).
[6] Spiace rimandare ad interventi di chi scrive…rispettivamente: La scrittura degli atti processuali ed il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi (2016) , Le Linee Guida 2017 degli Osservatori sulla Giustizia Civile sulla redazione degli atti in maniera chiara e sintetica (2017), , e Il Protocollo C.S.M. – C.N.F. del 19 luglio 2018 su – tra l’altro… – chiarezza e sinteticità nella redazione degli atti e provvedimenti in appello, tutti in www.judicium.it .
[7] Ne ha scritto con acutezza P.SPAZIANI, Chiovenda ed il computer. Il processo “da remoto” e la teoria dell’azione, in questa Rivista (18.09.2020).
[8] Norma anche questa suscettibile di interventi, tesi sia a scioglierla dal necessario accordo delle parti, sia a munirla di una esplicita sanzione, in termini di specifico illecito disciplinare dell’avvocato che si presti ad “operazioni” sospette.
COVID 19 SRL - SICUREZZA A RESPONSABILITA' LIMITATA
La temporanea sospensione del vaccino Astrazeneca e l'apertura di varie indagini penali, con annessa eco mediatica, per gli eventi avversi temporalmente collegati alla sua somministrazione hanno fatto riemergere il rischio di un significativo pregiudizio al percorso di vaccinazione, già intrapreso tra molte difficoltà e - di fatto - unica via d'uscita dalla situazione emergenziale.
La vicenda ha suscitato forti preoccupazioni – in punto di sicurezza e di responsabilità – tanto nella popolazione sollecitata a vaccinarsi, quanto nel personale sanitario chiamato ad effettuare la somministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo, si ripropone, con urgenza, il tema della responsabilità sanitaria (già affrontato dal CeSDirSan in vari incontri (tra gli altri, 22 giugno 2020 e 29 gennaio 2021). Si sta infatti ampliando il consenso - anche politico - sulla necessità di un intervento normativo che provi ad arginare questa nuova 'variabile' della medicina difensiva, declinata oggi nella fase vaccinale: una normativa che in qualche modo riesca a ricondurre a margini di ragionevolezza la responsabilità penale degli operatori sanitari nell'ambito della fase emergenziale pandemica, con particolare riferimento proprio ai recentissimi eventi avversi verificatisi (non solo in Italia) nel pieno della campagna vaccinale.
La prof.ssa Maria Alessandra Sandulli, Direttore del CeSDirSan e il prof. Cristiano Cupelli (coordinatore del Comitato di Ricerca del Centro) ne discutono con l'on. avv. Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia, da sempre attento studioso della responsabilità in ambito sanitario e penalista sensibile alla tutela delle garanzie.
Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi? (nota alla requisitoria del sost. Procuratore generale della Corte di Cassazione Stanislao De Matteis, 9-2-2021 RG 30853)
di Paola Filippi
Sommario: 1. Premessa: gli articoli del codice della crisi in vigore dal 30 marzo 2019. - 2. La competenza del tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese. - 3. Il regolamento di competenza tra Tribunale del capoluogo e il Tribunale nel cui circondario l’impresa di grandi dimensioni ha il COMI.
1. Premessa: gli articoli del codice della crisi in vigore dal 30 marzo 2019.
Il codice della crisi, entrerà in vigore a settembre, essendo stata prorogata, dall’art. 5, primo co., d.l. n. 23/80, convertito in legge n. 40/20, al 1° settembre 2021 la data dell’agognato all’allineamento della disciplina nazionale a quella europea[1]. Sono comunque entrati in vigore il 30 marzo 2019 uno sparuto numero di articoli, ovvero quelli indicati al primo comma dell’art. 339 CCI.
Si tratta di disposizioni in materia di competenza per materia e per territorio (art. 21, primo comma, CCI) e delle conseguenti modifiche in materia di amministrazione straordinaria (art. 350 CCI) relative all' articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 270/99 (legge Prodi bis) , ove le parole «del luogo in cui essa ha la sede principale» sono sostituite con «competente ai sensi dell'articolo 27, comma 1, del codice della crisi e dell'insolvenza» e relative all’art. 2, comma 1, d.l. n. 347/2003 (legge Marzano) ove le parole «del luogo in cui ha la sede principale» sono sostituite con «competente ai sensi dell'articolo 27, comma 1, del codice della crisi e dell'insolvenza».
Sono entrati in vigore gli articoli in materia di costituzione degli albi degli incaricati alle procedure, del sito web presso il Ministero, delle certificazioni tributarie, previdenziali e assicurative. Le modifiche del codice civile riguardanti gli assetti organizzativi dell'impresa relativi, in particolare, al dovere dell'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale; alla responsabilità degli amministratori per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale nonché alle disposizioni riguardanti gli organi di controllo e i rapporti di lavoro.
Sono infine entrate in vigore significative modifiche al decreto legislativo n. 122 del 2005, contenenti garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire.
2. La competenza del tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese.
Le modifiche dell’art. 3 della legge Prodi bis e dell’art. 2 della legge Marzano di cui all’art. 350 CCI operano sulla competenza con riferimento alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese (imprese con i requisiti dimensionali di cui all’art. 2 d.lgs. 270/99 ovvero un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno e debiti per un ammontare complessivo non inferiore ai due terzi tanto del totale dell'attivo dello stato patrimoniale che dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell'ultimo esercizio) nonché alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandissime imprese (le imprese che presentano i requisiti di cui all’art. 1 d. lgs. n. 347/03 ovvero lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiori a cinquecento da almeno un anno e debiti, inclusi quelli derivanti da garanzie rilasciate, per un ammontare complessivo non inferiore a trecento milioni di euro). Per effetto di dette modifiche la competenza è stata trasferita dal Tribunale nel cui circondario l’impresa ha il COMI al tribunale sede della sezione specializzata in materia di impresa, sempre con riferimento al COMI.
L’art. 27, primo comma, CCI, della cui interpretazione si discute, si riferisce ai procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e delle controversie collegate alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevanti dimensioni.
La legge n. 155/2017 ha delegato il governo a operare in tema di competenza in materia concorsuale con le direttive di cui all’art. 2 lett. n).
L’art. 2 lett. n) della legge n. 155/2017, contenente la delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza, al fine di garantire la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, al punto 1 ha conferito al governo la delega ad attribuire ai tribunali sede delle sezioni specializzate in materia di impresa la competenza sulle procedure concorsuali e sulle cause che da esse derivano, relative alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione. Al punto 2 ha conferito delega a mantenere i criteri di attribuzione della competenza per le procedure di crisi o insolvenza del consumatore, del professionista e del piccolo imprenditore. Al punto 3 ha conferito delega a individuare tra i tribunali esistenti, quelli competenti alla trattazione delle procedure concorsuali relative alle imprese diverse da quelle di cui ai numeri 1) e 2), sulla base di criteri oggettivi e omogenei basati su una serie di indicatori previsti dal medesimo punto della legge delega. La legge delega ha trovato attuazione solo quanto al punto 1 e 2 – quella al punto 2 della direttiva a non modificare- ovvero con riguardo alla competenza dei tribunali sede delle sezioni specializzate in materia procedure concorsuali e cause che da esse derivano, relative alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione e per il resto, come attualmente previso all’art. 9 l.fall., lasciando senza distinzione della dimensione del debitore la competenza al tribunale nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali.
L’art. 27, comma 1, ha riprodotto il riferimento alle imprese “in amministrazione straordinaria” contenuto nella delega modificando il richiamo alle procedure concorsuali solo sotto un profilo lessicale mutando l’indicazione procedure concorsuali con quella ai procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza.
La disposizione di cui all’art. 27, comma 1, CCI, quindi, in coerenza con la delega, fa espresso riferimento alle imprese in amministrazione straordinaria, così, all’apparenza, delimitando la competenza del tribunale sede della sezione specializzate alle sole grandi imprese in relazione alle quali la procedura di amministrazione straordinaria è stata aperta.
L’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, dal tenore letterale, non sembrerebbe invece prevista con riferimento ai gruppi di rilevanti dimensioni.
L’interpretazione secondo brocardo “lex ubi voluit disxit” – come ritiene il Tribunale di Bologna- indurrebbe a concludere nel senso che le imprese devono trovarsi “in amministrazione straordinaria”. Se il legislatore avesse voluto introdurre una deroga di competenza per materia con riferimento ad imprese di grandi o grandissime dimensioni avrebbe scritto non “in” bensì “assoggettabili” o avrebbe fatto cenno alle dimensioni, come d’altro canto sembra fare con i gruppi di imprese in relazione ai quali fa riferimento alle dimensioni che richiede siano “rilevanti”.
La rivisitazione della competenza in seno sia alla prima che alla seconda Commissione Rordorf ha determinato comprensibili divergenze di vedute in tema di competenza per cui sembrerebbe ardito non tener conto della preposizione “in” che precede la locuzione “amministrazione straordinaria”.
L’interpretazione del Tribunale di Bologna – sostenuta nel decreto con il quale rimette alla Cassazione il regolamento di competenza- sembrerebbe dunque logico e coerente.
L’effetto dell’interpretazione coerente con la valorizzazione di detta preposizione è dunque che per le procedure di regolazione della crisi alle quali volessero accedere imprese di grandi o grandissime la competenza è quella orinaria - il tribunale nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali- , mentre per l’apertura dell’amministrazione straordinaria è competente il Tribunale sede della sezione specializzata; per le regolazioni successive all’apertura della procedura di amministrazione straordinaria ad. es.: dichiarazione di fallimento ex art. 30 d.lgs. n. 270/99 (dal 1° settembre liquidazione giudiziali) o concordati ex artt. 78 e 79 d.lgs. n. 270/99 la competenza rimane radicata presso il Tribunale sede della sezione specializzata. In base a tele orientamento interpretativo l’art. 27, primo comma, CCI estende la competenza ai fini della continuità di trattazione.
Ma a parte le considerazioni della Corte di appello di Bologna con riguardo alla sistematicità che deporrebbe per l’interpretazione è nel senso di quell’ “in” come assoggettabilità [2] l’interpretazione del Tribunale di Bologna si interrompe nella sua linearità logica nel momento in cui si cerca nella legge delega la direttiva sottostante alle modifiche introdotte con l’art. 350 CCI.
Non si rinviene nella legge n. 155/17 alcuna disposizione che espressamente deleghi alla modifica della competenza con riferimento all’apertura delle procedure di amministrazione straordinaria
Qual è la direttiva di legge delega in base alla quale il legislatore delegato ha introdotto la deroga alla competenza ordinaria, di cui all’art. 3 d.lgs. n. 270/99 e all’art. 2 n. d.l. 347/03.
L’unica direttiva che può avere facoltizzato il legislatore delegato ad operare sulla competenza in tema di amministrazione straordinaria è la disposizione di cui all’art. 2 lett. n) n. 1, se è detta diposizione che ha investito il legislatore delegato del potere di derogare alla competenza in materia di amministrazione straordinaria, allora l’improprio utilizzo dell’in è da attribuire al legislatore delegante -che detta improprietà ha trasmesso al delegato- e la voluntas legis è da intendersi nel senso che il riferimento riguarda le imprese aventi i requisiti per essere assoggettate all’amministrazione straordinaria e non le imprese già in amministrazione straordinaria.
Diversamente argomentando l’art. 350 CCI sarebbe stato scritto in eccesso di delega e peraltro l’art. 27, primo comma, sarebbe privo di giustificazione.
3. Il regolamento di competenza tra Tribunale del capoluogo e il Tribunale nel cui circondario l’impresa di grandi dimensioni ha il COMI.
Sull’ interpretazione dell’art. 27, primo comma, CCI e sulla competenza dei Tribunali sede delle sezioni specializzate di cui all’art. 1 d.lgs. n. 168/2003 in materia di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle grandi imprese in crisi è in procinto di pronunciarsi la VI sezione Civile della Cassazione, investita dalla richiesta formulata, ex artt. 9 bis l. fall., 45 e ss c.p.c., del Tribunale di Bologna con decreto del 10.11.2020 di regolamento di competenza ex art. 48 c.p.c.
Secondo il Tribunale di Bologna, sede della sezione specializzata, l’interpretazione della disposizione di cui all’art. 27, comma 1,CCI è che “in” anteposto a “amministrazione straordinaria” non può che essere letto nel senso che la competenza si riferisce alle imprese con riferimento alle quali la procedura è stata già aperta, se l’impresa chiede di essere ammessa a concordato preventivo è competente dunque il tribunale individuato ai sensi dell’art. 9 l.f..
La competenza si sposterà, in caso di ammissione dell’impresa alla procedura di amministrazione straordinaria, davanti al Tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese, per ivi rimanere in caso, ad esempio, di dichiarazione di fallimento ex art. 30 d.lgs. n. 270/99 o concordato ex art. 78 d.lgs. n. 270/99.
Di diverso avviso la Corte di appello di Bologna che, con decreto del 13-20/10/20202, che ha deciso su reclamo avverso il decreto di ammissione al concordato con riserva del Tribunale di Reggio Emilia, indicando la competenza del Tribunale di Bologna sede della sezione specializzata delle imprese, in base a ragioni di ordine “letterale”, “sistematico” e “funzionale” , come sintetizzate nella requisitoria del sost. Procuratore generale della Cassazione che, in linea con le conclusioni della Corte di appello, ha concluso per la competenza del Tribunale sede della sezione specializzata in materia di imprese.
[1] Il decreto legge 8 aprile 2020 n. 23. Come ci si salva dalla crisi economica da pandemia: il rinvio del codice della crisi e altri rimedi
[2] Nel senso che per “in amministrazione straordinaria” debba intendersi “procedure di regolazione relative a imprese aventi i requisiti per l’assoggettabilità alle procedure di amministrazione straordinaria” alcune decisioni della giurisprudenza di merito: il Tribunale di Bergamo 8 luglio 2002 in Il fallimento 11/2020, 1486; il Tribunale di Bergamo 25 giugno 2020, in www.injuris.it , il Tribunale di Torino 4 febbraio 2020 inedita.
Protocollo n.16 al bivio. A margine di un recente libro - E. Albanesi, Corte costituzionale e parere della Corte EDU tra questioni di principio e concretezza del giudizio costituzionale - di Roberto Conti
Sommario: 1. Il protocollo del dialogo …interrotto. - 2.Qualche ulteriore considerazione sparsa sul tema, a proposito del ruolo della Corte di Cassazione. - 3.Qual è la posta in gioco? - 4. La Corte costituzionale, la sovranità e il Protocollo n.16. - 5. A mo’ di conclusioni, nella speranza che il Governo e le forze politiche riaprano il cantiere in Parlamento si riapra davvero.
1. Il protocollo del dialogo…interrotto
Si torna sul tema della mancata ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU questa volta grazie alvolume dedicato al tema fresco di stampa - E. Albanesi, Corte costituzionale e parere della Corte EDU tra questioni di principio e concretezza del giudizio costituzionale, Giappichelli, 2021 - al quale ha lavorato il suo Autore, costituzionalista della scuola genovese.
Nell’impianto dell’opera, che alla parte dedicata all’inquadramento generale del tema all’interno del piano convenzionale e di quello costituzionale, segue la ricca e densa parte II, al cui interno il capitolo 4 è quello dedicato al cuore della questione, appunto rappresentata dalle ragioni che hanno fin qui indotto il Parlamento a mettere temporaneamente da parte il tema della ratifica del Protocollo n.16. Un approfondimento particolare viene poi dedicato alle questioni che coinvolgono direttamente il tema della legittimazione della Corte costituzionale a promuovere la richiesta di parare preventivo ed alle modalità di proposizione della richiesta da parte del giudice costituzionale( cap.5 e 6).
Il contesto nel quale si inserisce il volume è quello che trova nel 23 settembre 2020 la data in cui si arenò innanzi alle Commissioni riunite II e III della Camera dei Deputati il progetto di legge relativo alla ratifica del Protocollo n.16.
Il rinvio della ratifica del Protocollo n.16 era stato determinato, pendendo a prestito le espressioni utilizzate dalla relatrice del testo esaminato dall’assemblea della Camera dopo lo stralcio, dai “… profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento.”
Nel silenzio più totale dell’Accademia, dei gruppi associativi della magistratura e dell’Avvocatura Giustizia Insieme segnalava, con un editoriale, le ripercussioni negative che quella decisione parlamentare avrebbe provocato sul ruolo delle Alte Corti nazionali italiane, private della possibilità di richiedere, se ritenuto necessario rispetto al giudizio pendente, un parere non vincolante alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ed invitava ad accendere i riflettori sul tema ed a riaprire il dibattito nell'Accademia e nelle giurisdizioni.
Alla vivacità del dialogo a distanza sviluppatosi fra studiosi prestigiosi provenienti da diversi settori dell’Accademia - costituzionalisti, processualcivilisti, filosofi del diritto, internazionalisti e comunitaristi, nelle autorevoli espressioni di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo?, Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16, Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, Bruno Nascimbene - La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, Marina Castellaneta - Ratificato il Protocollo n. 15 ...aspettando il Prot. 16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo - e Andreana Esposito - La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu- si aggiunge, ora, quasi ad ideale chiusura di una fase riflessiva sull’attuale fase, il saggio monografico di Albanesi. Saggio che, a fronte degli interventi singoli sopra enunciati, ha il vantaggio - ed il pregio - di porsi in una prospettiva più sistematica che al lettore alla ricerca di un quadro d'insieme indubbiamente serve.
Ecco, dunque, il “contesto” nel quale si inserisce il completo, approfondito e per certi versi “coraggioso” libro di Enrico Albanesi.
Per spiegare dove sta ed in cosa consiste il coraggio dell’autore è bene ritornare al “clima” che si è respirato all’indomani dello stop parziale in sede parlamentare all’esame del ddl che aveva ad oggetto anche la ratifica del Protocollo n.16. Un clima, del resto, misurato nel corso delle audizioni innanzi alle Commissioni parlamentari, prevalentemente orientate – salvo qualche autorevole eccezione a descrivere non già le pubbliche virtù del Protocollo n.16, quanto il germe che in esso si annidava, capace di assestare alla sovranità dello Stato un colpo durissimo non solo al custode principe della Costituzione – il giudice costituzionale – ma anche all’autonomia della magistratura, per Costituzione soggetta soltanto alla legge (art.101, 1° co. Cost.).
Ora, Albanesi, dopo avere inquadrato il Protocollo n.16 nella sua dimensione convenzionale (cap.1) e offerto gli strumenti per cogliere l’attuale situazione dinamica dei rapporti della Corte costituzionale con le alte corti nazionali e sovranazionali (cap.2), smonta uno ad uno gli argomenti dei sostenitori della Linea governativa. E lo fa con puntiglio, analiticità ed una spiccata capacità di chiarezza, dedicando un intero capitolo agli “Argomenti contrari alla ratifica del Protocollo n.16 e loro confutazione”. Ciò fa approfondendo l’analisi non soltanto con l’occhio rivolto alla giurisdizione apicale “comune” ma anche, con la stessa acutezza di indagine, con riguardo al ruolo, alla funzione ed alle potenzialità dello strumento riguardato dal lato della Corte costituzionale. È proprio il capitolo 5 ad occuparsi di quest’ultimo argomento, prendendo le mosse dalla questione della riconducibilità della Corte costituzionale all’alveo delle Alte giurisdizioni alla quale accenna il Protocollo n.16, ma poi affrontando il nodo dei “rischi” che esso potrebbe rappresentare, sul piano interno, per effetto della concorrente utilizzazione da parte delle alte giurisdizioni comuni.
Le conclusioni che trae Albanesi appaiono rassicuranti almeno per quanti sono convinti che tale strumento, nelle mani della Corte costituzionale, potrebbe essere fecondo(tra questi anche l’attuale giudice della Corte edu in quota italiana, R. Sabato, Sulla ratifica dei Protocolli n. 15 e 16 alla CEDU, in www.sistemapenale.it e, più di recente, id.,L’impatto del protocollo n. 15 sulla Convenzione europea dei diritti umani: riflessioni a valle della ratifica italiana (e della mancata ratifica del protocollo n. 16) in Osserv.AIC, 1 giugno 2021, n.3/2021; v. anche M.Lipari - Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n.16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei dritti fondamentali davanti al giudice amministrativo).
Meno in linea, per converso, risulta l’intera trama argomentativa del volume rispetto alle opin ioni di ha invece autorevolmente insistito sulla pericolosità, superfluità ed inopportunità del Protocollo n.16 (soprattutto, M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, 26 novembre 2019, in www.SistemaPenale.it; G. Cerrina Ferroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 recanti emendamenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n.15 e16 alla CEDU, in Federalismi.it). Pessimisti che, occorre riconoscere con estrema franchezza, hanno fatto breccia nelle aule parlamentari tracciando una linea che ha trovato larga eco nel dibattito seguìto nelle Commissioni parlamentari ed in Aula, in occasione del varo finale del Protocollo n.15.
I cavalli di battaglia utilizzati per guardare al Protocollo 16 come (marginalizzazione della Corte costituzionale, allungamento dei tempi processuali, compressione di valori fondamentali per la giurisdizione nazionale, soggezione del giudice soltanto alla legge, limitazione della sovranità in pregiudizio della Consulta) sembrano trovare puntuale smentita nelle considerazioni espresse da Albanesi, in piena sintonia con gli studi apparsi su Giustizia Insieme ai quali si è fatto cenno sopra. Quello della irragionevole lunghezza dei processi che ne deriverebbe –v. R. Conti, Chi ha paura del protocollo n.16 -e perché?, in www.sistemapenale.it, 27 dicembre 2019 –.
2. Qualche ulteriore considerazione sparsa sul tema, a proposito del ruolo della Corte di Cassazione
Più volte è stato sottolineato come lo scopo del Protocollo n.16 fosse non già quello di sottrarre nicchie di sovranità e di potere giurisdizionale agli organi interni, quanto di favorire l’introduzione di uno strumento destinato a recuperare segmenti di certezza e prevedibilità al sistema di tutela dei diritti fondamentali, addirittura accentuando il ruolo di autonomia ed indipendenza delle giurisdizioni superiori nazionali, in un clima di cooperazione nella reciproca autonomia ed indipendenza delle Corti coinvolte.
La discrezionalità nel chiedere il parere e la piena autonomia nel disattenderne i contenuti ci erano parsi talmente evidenti e marcati da denotare in maniera inequivocabile i tratti caratterizzanti del meccanismo dialogico che sta alla base del Protocollo del dialogo, come ebbe a definirlo il Presidente della Corte edu Spielmann nel 2013 – Discorso del Presidente della Corte EDU Dean Spielmann alla 123a Sessione del Comitato dei Ministri, 16 maggio 2013, in www.echr.coe.int – tanto nella fase ascendente – al momento della richiesta, non obbligatoria, proveniente dal giudice nazionale – che in quella discendente – all’esito del parere eventualmente espresso dalla grande Camera della Corte edu – offrendo alle Alte Corti nazionali la possibilità di sfruttare a fondo il loro ruolo di protagonisti del sistema di garanzia a presidio dei diritti imposto dalla Costituzione. Né il giudice nazionale può ritenersi impedito, dopo il parere reso dalla Grande Camera, dal rivolgersi alla Corte costituzionale (E. Cannizzaro, cit.) – ove non sia convinto della conformità del suo contenuto all’assetto costituzionale dei valori.
Le considerazioni appena espresse si accentuano in modo particolare se si pensa al ruolo della Corte di Cassazione nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e alla sua centralità nell’applicazione uniforme del diritto.
Prospettiva, quella fissata dal tuttora vigente art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario che, riletto ed attualizzato alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione e della sua apertura alle fonti sovranazionali, agli obblighi internazionali ed alle limitazioni di sovranità finalizzate alla garanzia di pace e sicurezza – artt.2, 10, 11, 117 1^ c. Cost. – delinea in modo marcato la funzione di nomofilachia europea che la Corte di Cassazione (anche per effetto del controllo alla stessa affidato, per il tramite delle Sezioni Unite civili, al tema del riparto delle giurisdizioni (art.117, c.8 Cost.) è andata assumendo e che proprio grazie agli strumenti cooperativi sempre più utilizzati nell’adire la Corte costituzionale e la Corte dei Giustizia UE consente ad essa di essere rappresentata ed avvertita anche all’esterno come organo centrale nel sistema di protezione dei diritti( conf., di recente, G. Canzio, F. Fiecconi, Giustizia, Milano, 2021, 63, 168 e 171).
Con ciò non si intende in alcun modo rivendicare posizioni di primazia o di egemonia da parte della Corte di Cassazione nei confronti di altre giurisdizioni interne o della Corte costituzionale né di quelle sovranazionali. È infatti difficile comprendere come la vocazione universale del discorso sui diritti dell’uomo (e, dunque, la sua naturale inclinazione al dialogo comparatistico) possa costringersi entro i ristretti confini di una singola dimensione politica nazionale (Giabardo, cit.).
Ed allora, sono proprio le forme di dialogo con le istituzioni giudiziarie sovranazionali a rendere non solo più piana la strada di una cooperazione equiordinata fra le giurisdizioni nazionali e sovranazionali, ma anche ad implementare la centralità delle istituzioni giudiziarie nazionali medesime, senza in alcun modo impoverirle e/o eroderne l’autorevolezza, delineando un sempre crescente ruolo della sussidiarietà nei rapporti fra le Corti nazionali e la Corte edu.
Ciò che si pone in linea di continuità e contiguità con il Protocollo n.15 che, ancora di più, ha inteso approfondire la centralità delle istituzioni nazionali nel sistema di protezione dei diritti fondamentali.
In questa direzione, come ricordato in dottrina – M. Castellaneta, cit.– va ricordato il considerando al Preambolo aggiunto dal Protocollo n.15, nel quale si afferma che “spetta in primo luogo alle Alte parti contraenti, conformemente al principio di sussidiarietà, garantire il rispetto dei diritti e della libertà definiti” nella Convenzione e nei suoi Protocolli.”
Come, dunque, non cogliere da questo inciso un evidente rafforzamento del ruolo delle giurisdizioni nazionali che, senza il Protocollo n.16, rimangono totalmente prive di canali di collegamento con la Corte edu?
In altri termini, proprio il Protocollo n.16 implementa in maniera incisiva il ruolo delle Corti nazionali rispetto a quella di Strasburgo, all’interno di un canone di sussidiarietà che vede come protagonista crescente il giudice nazionale di ultima istanza, al punto che egli, per un verso, sarà quello più direttamente investito nella protezione dei diritti di matrice convenzionale ed all’interno di questo arricchito potere(con annessa assunzione di responsabilità) il potere di chiedere il parere preventivo alla Corte edu è, per l’appunto, riconoscimento di deferenza e attenzione nei confronti dei Paesi del Consiglio d’Europea e, soprattutto delle sue Alte giurisdizioni.
Né può tralasciarsi di considerare, tra i benefici che possono attendersi dal Prot. 16, gli effetti che si hanno nei confronti dell'attività svolta dalla Corte EDU in sede giurisdizionale, se si considera che proprio in sede di redazione dei pareri è possibile possono precisare meglio orientamenti manifestati in sede giurisdizionale ovvero essere modificati (così, Ruggeri, Ancora sul Prot. 16: verrà dai giudici la sollecitazione al legislatore per il suo recepimento in ambito interno?, in “itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti XXIV, studi dell’anno 2020, Torino, 2021, 739 ss.).
Anzi, questa opinione dottrinaria consente forse di fugare appieno le preoccupazioni che pure si ventilano in dottrina in ordine ad una mutazione genetica del ruolo della Corte edu per effetto dell’introduzione del parere preventivo.
L’attività resa dalla Corte edu in seno al parere non perde i connotati di giurisdizionalità che sono propri dell’organo che adotta il parere. Quel che si modifica, invero, è il valore giuridico che il Protocollo attribuisce al parere, tratteggiandolo in termini, come sappiamo, di non vincolatività - in questa direzione univocamente militando il Rapporto esplicativo al Protocollo – The proposal to extend the jurisdiction (corsivo aggiunto) of the European Court of Human Rights (the Court) to give advisory opinions was made in the report to the Committee of Ministers of the Group of Wise Persons…” –.
Proprio il punto 27 del citato rapporto esplicativo, sub art.5, non lascia margine a dubbio, laddove afferma che i pareri "... andranno a fare parte della giurisprudenza della Corte, insieme alle sentenze e alle decisioni. L’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli contenuta in tali pareri consultivi sarà analoga nei suoi effetti ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte nelle sentenze e nelle decisioni".(v. conf. E. Nalin, I protocolli n.15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Studi sull’integrazione europea, IX (2014), 143) Prospettiva che, del resto, lo stesso autore del libro che oggi si recensisce non ha mancato di caldeggiare in un saggio successivo - E.Albanesi, Un parere della Corte EDU ex Protocollo n.16 alla CEDU costituisce norma interposta per l’Italia, la quale non ha ratificato il Protocollo stesso?, in Consultaonline, 29 marzo 2021 - allorchè Albanesi qualifica il parare come “giurisprudenza” della Corte edu, pur assegnandone la forza vincolante - anche per i paesi non aderenti - se esso si inscriva nella giurisprudenza "consolidata" della quale parla la sentenza n.49/2015.
Il che ancora di più conferma che la funzione espletata dalla Grande Camera, pur nell’assoluta specialità del parere che essa rende, si inserisce in un circuito governato da garanzie partecipative previste per le parti e per i terzi, peraltro prevedendosi che i componenti dissenzienti dalla maggioranza possano esprimere le dissenting opinion. Ciò che, a ben considerare, ripropone un modulo speculare a quello previsto per i provvedimenti di contenuto decisorio da parte della Corte edu.
Si vuol dire, in definitiva e senza con ciò volersi impegnare in una ricostruzione della natura del parere sulla base di categorie proprie del diritto interno, che detto provvedimento è soggettivamente emanato dalla Corte edu, proviene dalla sua composizione più autorevole - la Grande Camera - è il frutto di un contraddittorio ed assume forme in buona parte sovrapponibili a quelle delle pronunzie decisorie, da queste però differenziandosi per il fatto che non ha, per l’appunto, carattere decisorio. Il che non ne elide affatto la portata e il valore all’interno del case law della Corte edu.
Ne consegue che privare dello strumento i giudici nazionali ha un effetto pernicioso per l’autorità giurisdizionale di ultima istanza domestica che subirà passivamente il formarsi di orientamenti che, si è visto sono poi espressi dalla successiva giurisprudenza della Corte edu, come si è visto per la vicenda del legame da proteggere fra minore nato da una gestazione per altri effettuata all’estero e madre intenzionale – v. Corte EDU, sezione quinta, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia rispetto al precedente parere consultivo reso il 10 aprile 2019 ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU ai sensi del Protocollo n. 16, dalla Corte EDU, grande camera, il 10 aprile 2019, relativo al riconoscimento nel diritto interno di un rapporto di filiazione tra un minore nato da una gestazione per altri effettuata all’estero e la madre intenzionale, richiesto dalla Corte di Cassazione francese –.
3. Qual è la posta in gioco?
Se si condividono le riflessioni appena espresse, ci si accorge, allora, che il vero bersaglio delle posizioni di chiusura al Protocollo n.16 non sia tanto la Corte edu, quanto chi in essa intravede un organo giurisdizionale pienamente legittimato a svolgere un ruolo centrale nella protezione dei diritti fondamentali, la cui matrice plurale, quanto a fonti e quanto a giurisdizioni, ha posto la Corte edu non già in posizione di supremazia, ma piuttosto all'interno di un recinto nel quale è chiamata continuamente a convivere e a confrontarsi con gli altri plessi giurisdizionali, nazionali e sovranazionali.
Le accuse di lesione alla sovranità attengono, piuttosto, se colte nella loro intrinseca essenza e nemmeno tanto celata prospettiva, al modo con il quale le Corti nazionali hanno favorito l’ingresso di quel diritto vivente, vissuto come una forte contrazione del diritto interno e del giudice naturalmente chiamato ad applicarlo.
La critica al Protocollo n.16 è dunque al “modo” con il quale si attinge alla giurisprudenza convenzionale, finendo con l’apparire strumentale ad un ragionare che intende porre in discussione l’architrave sulla quale si fondano i rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Ed in questo non è tanto l’autonomia – espressiva di sovranità interna – delle Istituzioni giudiziarie verso le quali sembrerebbero venire in difesa i critici del Protocollo n.16 a venire in discussione quanto, ancora una volta, il “modo” con il quale tale autonomia viene esercitata. Quel che non appare gradito, in termini ancora più chiari, non è la Corte edu, il suo Protocollo n.16 e la sua giurisprudenza, quanto l’uso che se ne fa nel diritto interno.
Un uso che qui va in invece vigorosamente protetto, almeno quando esso è operato con rigore, con completezza e pure senza pregiudizi, nell'un senso o nell'altro.
Si tratta, a ben considerare, di una prospettiva necessitata dal fatto che il diritto è sempre più affidato ai principi costituzionali interni, dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dunque collegato a tecniche di argomentazione giuridica che proprio attraverso il dialogo si costruiscono continuamente e progressivamente, in un ordine giuridico che non è più dato e fissamente orientato su scale gerarchiche ma si compone, seppur con accenti di complessità sicuramente elevati, anche grazie all’opera dei giudici interni e di quelli sovranazionali, entrambi parte attiva di un processo materialmente costituzionale nel quale il ruolo svolto dai garanti della legalità è espressione democratica dello Stato costituzionale. Un diritto sempre più scienza pratica che si crea in funzione del caso, attraverso vari tasselli che il giudice è chiamato ad unire in un processo, appunto, complesso, articolato, ricco.
La progressiva assimilazione del corretto ruolo della Cedu nel sistema interno e dei suoi rapporti con la Costituzione, dispiegatosi anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze gemelle del 2007 e poi via via con i vari seguiti -ai quali pure Albanesi dedica le sue riflessioni, enfatizzando forse eccessivamente il significato della sentenza n.49/2015- ha consentito di comprendere appieno le finalità e potenzialità della Convenzione europea dei diritti umani, anche grazie all’opera di conoscenza svolta dai protocolli informali conclusi fra le Corti nazionali e la Corte edu, anch’essi ispirati al “dialogo” fra i diversi plessi giurisdizionali.
E non può essere senza significato che sia stata la Cassazione italiana a concludere, seconda in Europa fra le Alte Corti, un protocollo d’intesa con la Corte edu nel dicembre del 2015, al quale hanno fatto seguito le altre Corti apicali italiane e la stessa Corte costituzionale nel gennaio 2019 (R. Conti, Protocolli d’intesa tra la Corte di Cassazione e la Corte dei diritti dell’uomo. Introduzione, in Riv. It. dir. lav., 2, 2016, 103; id., Il protocollo di dialogo fra le Alte corti italiane, Csm e Corte EDU a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla CEDU. Due prospettive forse inscindibili, in Questione Giustizia, 29 gennaio 2019). Un'esperienza, quella maturata attorno a un documento di soft law, che proprio quando il Protocollo n.16 non era ancora entrato in vigore, ad esso espressamente si ispirava contribuiendo, negli anni, a radicare nella giurisdizione di ultima istanza un sentire comune aperto alla conoscenza e comprensione del diritto di matrice convenzionale.
Non è anzi inutile ricordare le parole di Guido Calabresi tratte dal suo “Il mestiere del giudice” Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2013, quando, nel manifestare il rammarico circa il fatto negli Stati Uniti la cultura del dialogo fra le Corti non sia decollata, si esprime così: "…Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali.
Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, riaccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto".
In queste parole ed in altre che lo stesso Calabresi usa (pag.80) non vi è affatto la sopravvalutazione del dialogo fra le Corti, anzi. È lo stesso Calabresi a non nascondersi che quello europeo è un sistema "pieno di imperfezioni e incertezze", tuttavia evidenziando che la "rete dialogica tra le varie Corti costituzionali, tra le Corti di cassazione, tra le Corti in generale e la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Corte di giustizia" dovrebbe essere "importata dagli Stati Uniti" che resta, presegue il iurista italo-americano, un paese molto provinciale.
Ora, quella rete virtuosa di confronto alla pari si comprende non essere, oggi, tanto più di moda, in un periodo storico nel quale si assiste a processi di rinanzionalizzazione dei diritti fondamentali - G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia, cit., 36- e, per altro verso di "riaccentramento" del sindacato della Corte costituzionale- D. Tega, La Corte nel contesto, Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bologna, 2020 - ai quali fanno da pendant istante populiste e sovraniste che, indubbiamente, legittimano pienamente le scelte di non ratificare il Protocollo da un significativo numero di Paesi aderenti al Consiglio d'Europa e non creano un terreno fertile rispetto all'idea di base sottesa al Protocollo n.16.
4. La Corte costituzionale, la sovranità e il Protocollo n.16
Un’ulteriore riflessione va, prima di avviarsi alla conclusione, riservata al ruolo della Corte costituzionale che Albanesi non manca di approfondire nel suo saggio, anche nella prospettiva volta a delineare la posizione di tale Istituzione sia nel quadro del diritto internazionale che in quello interno, rivolto a verificare rispetto a detta Corte le modalità di attuazione del Protocollo n.16.
Considerazioni che non possono non partire da un aspetto che potrebbe sembrare non marginale e che, per converso, sembra essere per certi versi paradossale. Ci si riferisce alla mancata audizione in sede di discussione del progetto di legge di ratifica, della allora Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia. Omissione davvero singolare se si considera la diversa attenzione riservata dal Parlamento alle cariche apicali delle giurisdizioni nazionali ed alla stessa alta considerazione riservata alle opinioni di chi ha ricoperto e ricopriva ruoli rilevanti nella Corte edu.
Le avvisaglie rispetto ad un “favor” della Corte costituzionale al varo del Protocollo n.16 erano, del resto, ben visibili e “pubbliche”.
Per un verso, va ricordato che proprio in occasione della firma del Protocollo fra Corte costituzionale e Corte edu al Palazzo della Consulta l’11 gennaio 2019 si auspicò la rapida ratifica del protocollo n.16 come emerge dal comunicato stampa della Corte costituzionale reso l’11 gennaio 2019 in cui si afferma testualmente che “…dalla discussione è emersa anzitutto la necessità che le Corti europee – in una fase storica di debolezza, in alcuni Paesi, dei diritti fondamentali – dialoghino tra loro per la piena tutela di questi diritti, anche assicurando l’armonizzazione delle rispettive giurisprudenze. A questo scopo è stata sottolineata l’urgenza dell’approvazione, da parte del Parlamento italiano, del Disegno di legge di ratifica e di attuazione del “Protocollo 16”, che consente un effettivo dialogo con la Corte di Strasburgo attraverso la richiesta di pareri sulle questioni oggetto di giudizio nelle Corti italiane”.
Posizione, quest’ultima, che del resto, non può essere marginalizzata attribuendole il significato e la portata di una mera comunicazione “politica” proveniente da un organo interno unicamente addetto alla comunicazione esterna.
È infatti sufficiente considerare, come Albanesi opportunamente fa anche nel saggio del 2021 già ricordato, quanto affermato in modo esplicito dalla Corte costituzionale nel suo campo di elezione, appunto la giurisprudenza costituzionale, allorché, nella sentenza n.49/2015, si chiarì che “…È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.” (corsivo aggiunto n.d.r.)
Il passaggio motivazionale da ultimo ricordato non è di secondo piano né di scarso peso, appunto collocandosi all’interno di una pronunzia della Consulta – la già ricordata n.49/2015- ormai passata alla storia per avere squadernato i canoni fissati dalle sentenze gemelle del 2007 in punto di vincolatività della giurisprudenza convenzionale nell’ordinamento interno, depotenziandola al punto da escluderne, come ricorda Albanesi, l’immediata operatività – ai fini della proposizione della questione di legittimità costituzionale – in caso di contrasto della stessa con la Costituzione.
Ecco che proprio il riferimento “mite” operato dalla sentenza n.49/2015 al Protocollo n.16 ed alla istanza di cooperazione dialogante allo stesso sottesa costituisce la migliore risposta agli scettici ed a chi intravede nel varo di tale strumento un attacco micidiale alla Corte costituzionale ed alla sovranità nazionale, mostrando quanto sia fallace la ricostruzione del Protocollo in termini di "pericolo" per lo Stato e quanto, tutto al contrario, detto Protocollo possa risultare “fruttuoso” sulla strada della costruzione del diritto fondata sul dialogo- cfr. E. Crivelli, Il contrastato recepimento in Italia del Protocollo n. 16 alla Cedu: cronaca di un rinvio, in Osserv.AIC, 2 marzo 2021 -.
Prospettiva che, dunque, incastona il parere in un momento di costruzione della decisione finale e che ne fa tassello da inserire in un impianto ricco, nel quale è “compresa la Corte costituzionale” per dirla sempre con la sentenza n. 49/2015.
Non si tratta, (Pinelli, cit.) allora, di depotenziare il ruolo della Corte costituzionale o di restringere la capacità interpretativa del giudice nazionale ma, al contrario, di dare piena attivazione al ruolo istituzionale della Convenzione edu che proprio la Corte costituzionale riconosce per prima, vale a dire quello dell’interpretazione della Convenzione, all’interno delle finalità proprie del Protocollo.
Ecco dimostrato quanto fragile risulti l’idea di assimilare chi si mostra a favore del Protocollo n.16 a chi intende aggredire e mettere a repentaglio la sovranità interna.
Ed è stato proprio Enzo Cannizzaro, nella sua recente conversazione sul tema della sovranità – Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità, in questa Rivista, 24 febbraio 2021– a dimostrare in termini adamantini l’ideologia che soffia contro il Protocollo, confutandone in radice i postulati e scolpendo gli effetti nefasti derivanti dalla sua mancata ratifica per lo Stato non aderente ed i suoi giudici; ciò, peraltro, sottolineando quanto sia stato attento il Protocollo n.16 nel garantire ogni possibile prerogativa difensiva allo Stato coinvolto nella richiesta di parere e quanto pernicioso sarebbe elidere la strada di dialogo per i giudizi per lo stesso Stato che non ratifica, potenzialmente “vittima” di quegli stessi parere formati in sua assenza.
5. A mo’ di conclusioni, nella speranza che il Governo e le forze politiche riaprano il cantiere in Parlamento si riapra davvero.
Esce dalla lettura del volume di Albanesi l’esigenza, forte, di cercare modalità operative e tecniche decisorie che, anche in ragione della pluralità di fonti che governano i diritti, tanto in chiave nazionale che in prospettiva sovranazionale, attenuino o riducano le possibilità di conflitti fra i diversi plessi giurisdizionali, proprio in una prospettiva che prima ancora di essere orientata all’alleggerimento del contenzioso da parte di un sistema giudiziario sempre più in crisi sul versante dei tempi, offra a chi ha a che fare con la giustizia risposte tendenzialmente prevedibili ed informate al rispetto dei diritti fondamentali proprio grazie alla conoscenza della posizione della Corte edu.
Che Albanesi fondi il proprio convincimento sull’utilità del Protocollo n.16 muovendosi all’interno del perimetro della Costituzione, di come essa è interpretata e dei valori che essa incarna e tutela, fra i quali anche quello della sovranità è testimoniato, del resto, dalla prima parte del volume, ampiamente dedicata al processo di trasformazione del ruolo della Corte costituzionale ed alla tendenza al riaccentramento delle funzioni di garanzia in capo a sé che va emergendo, sia pur con espressioni forse ancora troppo recenti per essere adeguatamente sistematizzate. Ciò che costituisce testimonianza adamantina del rigore metodologico seguito dall’Autore nel trattare del Protocollo n.16, ben lontano da quelli che potremmo definire fronti per così dire europeisti.Del resto, l'idea dalla quale Albanesi muove- quella che la giurisprudneza della Corte edu abbia efficacia vincolante solo se "consolidata" è sicuramente in linea con la giurisprudenza costituzionale, meno con quella di altri studiosi della materia. Il che, in definitiva, costituisce un ulteriore pregio del saggio di Albanesi proprio perchè incline a ricercare soluzioni che all'Autore appaiono ragionevoli e proporzionate.
Se, dunque, il meccanismo del ricorso individuale alla Corte di Strasburgo contro le decisioni dei giudici nazionali costituisce la valvola di sfogo finale consentita dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il Protocollo n.16 intende per parte sua prevenire quella possibile ulteriore lungaggine processuale alla quale sarebbe sottoposta la persona che reclama la protezione dei suoi diritti consentendo al giudice nazionale che, nell’esercizio delle sue prerogative dovesse ritenere rilevante un parametro convenzionale, di interloquire prima che l’eventuale conflitto fra le Corti diventi manifesto per effetto dell’accoglimento del ricorso da parte della Corte edu.
La posizione espressa dai Presidenti delle Corti di ultima istanza, dal già presidente della Corte edu Guido Raimondi e dal giudice Raffaele Sabato, costituisce la migliore testimonianza della scarsa consistenza dei timori che si sono agitati innanzi al Parlamento e che hanno così pesantemente condizionato l’iter di discussione del progetto di ratifica.
D’altra parte, la temuta maggior durata del processo in relazione all’attivazione del meccanismo non può costituire remora all’attuazione del Protocollo, risultando il tempo speso un assai utile tempo di giustizia e non tempo perso incidente sulla ragionevole durata del processo, al pari di quel che occorre quando si attiva il rinvio pregiudiziale o la questione di legittimità costituzionale.
La ipotesi di una doppia attivazione del rinvio alla Corte di Giustizia e alla Corte edu con la richiesta di parere preventivo (Nascimbene, cit.) e la particolare tempestività fin qui mostrata dalla Corte edu nell’esaminare la ritualità delle richieste di parere (limitandole alle sole questioni di principio) e nell’esitare con tempestività i pareri resi possono, sul piano pratico, contenere in ogni caso la durata dello spazio della sospensione. Senza dire della capacità di riduzione mediata che i pareri sono in grado di produrre sul piano interno rispetto alle decisioni della Corti nazionali che ad essi decidessero di uniformarsi, eliminando l’incertezza interpretativa e, dunque, il ricorso alla giustizia, con evidente indiretto influsso sui tempi dei processi.
Molti i vantaggi sottesi alla richiesta di parere preventivo.
Per l’un verso, la possibilità che esso offra preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo fatta propria, in parallelo, dalla Corte di Giustizia sia in linea con la CEDU e con la stessa Costituzione. È stato proprio A. Ruggeri a dimostrare quanto la pregiudizialità convenzionale sottesa al Protocollo n.16 possa tornare utile non soltanto al fine di avere lumi circa il significato degli enunciati della CEDU ma, per ciò stesso, anche per intendere nel modo giusto gli stessi enunciati della Costituzione, richiamando l’idea, già sottesa a Corte cost.n.388/1999- di recente testualmente ribadita da Corte cost. n.84/2021, per cui “le letture delle rispettive Carte fornite dalle Corti europee possono, opportunamente considerate, giovare ad alimentare incessantemente e in rilevante misura i processi interpretativi della nostra legge fondamentale in ambito interno, presso ogni sede istituzionale in cui s’impiantano e svolgono.” – cfr. A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, cit., par.4; id, –.
È poi la libertà di attivare o meno la richiesta di parere preventivo a costituire la differenza fra rinvio pregiudiziale e richiesta di parere preventivo (Biavati, cit.), pur non nascondendosi che la stessa preoccupazione che un troppo dilatato ricorso allo strumento del dialogo, che sembra emergere anche rispetto ai criteri Cilfit sul piano eurounitario – v. Concl. Avv. gen. Bobek, in causa C-561/19, depositate il 15 aprile 2021 – debba trovare adeguata ponderazione a proposito della richiesta di parere preventivo. La dialettica che sta alla base del Protocollo 16 è la stessa che anima il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e la questione di legittimità costituzionale.
Ed è stata proprio la Corte costituzionale, con la sentenza n.269/2017, a rinvigorire il tema delle relazioni fra giudice comune, Corte costituzionale e Corte di Giustizia aprendo nuovi fronti di discussione che lasciano inalterato, ed anzi rafforzano, il ruolo delle Corti.
Deve escludersi, poi, che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte (Pinelli, Bartole e Lamarque, citt.), se si considera, per un verso, la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della CEDU e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo 16 eroda i principi fondamentali dell' ordinamento, secondo un’ottica che nulla ha a che vedere con la salvaguardia della sovranità (Cannizzaro, cit.), invece inscrivendosi in quel poco commendevole sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei controlimiti. Troppo e troppo intensi risultano i benefici di un confronto in fase ascendente e discendente dall’attivazione del dialogo fra giudice nazionale e Corte edu (Pinelli, Lamarque) per mettere in soffitta il Protocollo n.16.
D’altra parte, è proprio la natura non vincolante del parere a “non togliere” sovranità allo Stato e ai suoi giudici, rappresentando piuttosto un complemento alla CEDU, la cui ratifica portò ad una rinunzia parziale alla sovranità in presenza di ragioni giustificatrici, rappresentate dapprima dall’art. 11 Cost. e, successivamente, dall’art. 117, 1°comma Cost.
Nessun rischio di marginalizzazione della Corte costituzionale dal Protocollo n.16 che, ci ricorda puntualmente Albanesi, si innesta in uno scenario ormai svezzato rispetto a quello descritto dalle remote sentenze gemelle quanto ai rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Privare le Corti italiane di ultima istanza dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU su istanza delle Corti dei paesi che lo hanno ratificato finisce col manifestare il reale intento sotteso alla mancata ratifica, appunto rivolto alla riacquisizione di un “primato” del diritto interno e dei suoi interpreti che si rafforza impedendo le contaminazioni, arginandone le possibilità di contatto, erigendo i muri, invece che costruendo ponti e porti capaci di accogliere i diversi naviganti.
Non tanto all’orizzonte si profila, così, il rischio di isolamento dell’ordinamento italiano e delle sue Alte Corti dal circuito di dialogo con la Corte edu che deriva dalla mancata ratifica è già palpabile, una volta che si è già da subito riconosciuta piena valenza ai pareri resi dalla Corte edu, anche da parte della Corte costituzionale (Corte cost., n.230/2020, par.6; v. Corte cost.n.33/2021). Rischio che, è appena il caso di ribadirlo, è proprio l’obiettivo primario di chi si oppone al Protocollo n.16.
In conclusione, le preoccupazioni che sono fin qui prevalse - dilatazione della durata del processo, creazione di una sorta di subordinazione del giudice nazionale di ultimo grado (“Alta giurisdizione”) alla Corte EDU, difficoltà di coordinamento con il rinvio pregiudiziale alla Corte UE, attacco alla sovranità statale – non sembrano dotate di una forza tale da giustificare la non ratifica se si bilanciano con gli indiscutibili vantaggi che il giudice nazionale, le parti, lo Stato e la stessa Carta costituzionale avrebbero indiscutibilmente dal parere preventivo in caso di dubbi interpretativi sulla portata della disposizione convenzionale.
Il libro, completo ed assai interessante di Albanesi, soprattutto nella parte in cui prende apertamente partito per un’idea di apertura al Protocollo, confutando le opinioni contrarie, costituisce per converso un punto di riferimento dal quale partire per indurre il Parlamento a ritornare sull’argomento con una visione più ampia, valutando le conseguenze negative che la chiusura al Protocollo 16 procura alla giurisdizione e ancor prima all’ordinamento italiano inteso nella sua complessità e pluralità.
La strada, ancora una volta, sarà dunque quella del dialogo costruttivo e della cooperazione anche tra soggetti istituzionali che sono distinti, hanno obiettivi diversi e godono di autonomia. Senza che i tratti distintivi debbano però leggersi come assoluta e netta separazione, invece dovendosi privilegiare sempre e comunque la strada del dialogo che proprio il “Protocollo del dialogo” intende perseguire e non far saltare.
Va, peraltro, messo in evidenza che indicare la prospettiva della ratifica del Protocollo non vuol dire in alcun modo prospettare una strada di trasposizione blindata di tale strumento ma, al contrario, prefigurare una ripresa parlamentare del disegno di legge, al cui interno dovranno essere le forze parlamentari a dare eventuale soluzione ad aspetti problematici per rendere rendere ancor più utile e proficuo lo strumento di cui qui si discute.
Non marginali sono i nodi che pure andrebbero sciolti in sede di ratifica e gli stessi accademici che hanno alimentato il dibattito ne hanno dato tangibile conto, offrendo le loro opzioni.
Senza velleità alcuna di completezza andrebbero esaminate le questioni circa la modalità interne alle Corti di ultima istanza per l’attivazione della richiesta di parere, eventualmente introducendo degli accorgimenti diretti a maggiormente responsabilizzare le Corti stesse all’attivazione della pregiudizialità convenzionale, al fine di evitare un uso indiscriminato dello strumento che finirebbe con il renderne ineffettiva la portata, affrontando altresì in modo attento i rapporti e le relazioni fra richiesta di parere, incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Ma queste problematiche non potranno che rappresentare la “fase due”, dopo la auspicabile riattivazione dell’iter parlamentare relativo alla ratifica del Protocollo 16, allo stato come si è visto posposto rispetto alla ratifica del Protocollo 15 per il quale si ponevano sì ragioni di maggiore urgenza temporale- essendo rimasto il nostro Paese buon ultimo nella ratifica di quel Protocollo – che avrebbero tuttavia dovuto giustificare l’esame parlamentare congiunto, per i tratti di continuità fra i due strumenti dei quali già si è detto.
Il filo dal quale ripartire per tornare a discutere sul Protocollo n.16 potrebbe e dovrebbe rinvenirsi nelle pieghe del dibattito parlamentare del quale si è dato conto.
Fu infatti la Commissione Politiche dell'Unione europea, che in sede di parere al testo del ddl emendato, pur approvandolo, ebbe ad invitare le Commissioni ad addivenire quanto prima anche alla ratifica del Protocollo n. 16, al fine di potersi avvalere di nuovi strumenti atti a favorire ulteriormente l'interazione e il dialogo tra i giudici nazionali e la Corte europea dei diritti dell'uomo, in coerenza con l'obiettivo di una maggiore armonizzazione ed efficacia nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali contemplati nella Convenzione e nei suoi Protocolli.
Il convegno che AreaDG Cassazione ha organizzato per il giorno 22 giugno 2021 -Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento,https://www.giustiziainsieme.it/it/news/92-main/costituzione-e-carte-dei-diritti-fondamentali/1775-protocollo-n-16-riaprire-il-cantiere-in-parlamento ( per l'accesso e registrazione https://attendee.gotowebinar.com/register/3987987362967379467)-, frutto di un intenso e proficuo confronto all'interno del gruppo di lavoro appositamente costituito intende mettere ad uno stesso tavolo la dottrina e le forze parlamentari per favorirne il confronto plurale e franco.
Proprio il fermento che in questo periodo coinvolge il settore della giustizia e la volontà del Governo e delle forze parlamentari di mettere mano a riforme strutturali sembrano costituire il naturale contenitore nel quale inserire l’entrata in vigore del Protocollo n.16.
Spetta dunque, oggi più che mai, al Governo che propose in origine il disegno di legge di ratifica ed alle forze politiche responsabili il compito e la responsabilità di raccogliersi attorno al ceppo dei diritti fondamentali - sempre più volano di forme di aggregazione delle varie istituzioni che attorno ad essi devono muoversi in armonia - per consentirne una più efficace, sicura e prevedibile protezione.
Una scelta che, appunto, dovrebbe collocarsi ben al di sopra del motto "ce lo chiede l'Europa" tanto in voga, piuttosto dando contenuti, precise indicazioni, linee operative concrete per realizzare davvero un sistema giudiziario che oltre a doversi informare a canoni dell'efficienza e dell'organizzazione, non perda di vista il proprio DNA e si offra al servizio di chi se ne avvale - id est, delle persone - come luogo sempre più qualificato e professionalmente attrezzato di tutela dei diritti fondamentali.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.