ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dell’utilità per la Corte di giustizia della priorità dell’incidente di costituzionalità. In margine alla sentenza del 2 febbraio 2021 sul diritto al silenzio nei procedimenti volti all’irrogazione di sanzioni amministrative punitive (Corte di giustizia, Grande Sezione, C-481-19, DB c. Consob)
di Giorgio Repetto
Sommario: 1. Il “doppio verso” del nuovo corso sulla priorità dell’incidente di costituzionalità dopo la sent. n. 269 del 2017. – 2. Una questione di interpretazione o di validità? – 3. Lussemburgo introduce un “nuovo diritto”: basta la sola via dell’interpretazione conforme? – 4. Un caso diverso dagli altri: un nuovo protocollo decisionale. – 5. Un annullamento con effetti erga omnes al servizio (anche) della Corte di giustizia
1. Il “doppio verso” del nuovo corso sulla priorità dell’incidente di costituzionalità dopo la sent. n. 269 del 2017
Era legittimo ritenere, all’indomani della svolta implicata dalle “precisazioni” contenute nella sentenza n. 269 del 2017, che il nuovo corso dei rapporti tra giudici comuni e Corte di giustizia, segnato dal rientro in scena della Corte costituzionale, potesse preludere a una almeno parziale repatriation delle questioni sui diritti fondamentali.
A distanza di tempo e alla prova dell’esperienza, si può comprendere oggi quanto quel cambio di giurisprudenza fosse tuttavia legato a trasformazioni più profonde, che investivano sicuramente alcuni dati di struttura del sindacato della Corte costituzionale (in primis, il suo tendenziale impoverimento sul terreno dei diritti fondamentali a vantaggio del circuito esistente tra giudici comuni e Corte di giustizia), ma che riflettevano anche i più ampi mutamenti del modo in cui era chiamata ad operare la tutela dei diritti fondamentali assicurata dalla Corte di giustizia stessa nei suoi rapporti con i giudici nazionali.
Sul primo fronte, è spettato proprio alla Corte costituzionale, con le pronunce successive alla capostipite del 2017 (n. 20, n. 63, n. 112 e n. 117 del 2019; n. 182 del 2020) definire con maggiore chiarezza i propri margini di intervento in materia di doppia pregiudizialità, stabilendo in modo via via più netto come tra i due percorsi a disposizione del giudice comune in casi del genere (quello che instrada la questione verso la Corte costituzionale e quello che lo porta a sollevare di fronte alla Corte di giustizia un quesito pregiudiziale) non ci sia una rigida alternativa, ma una complementarietà che si traduce in “un concorso di rimedi giurisdizionali, [che] arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione” (così, la sentenza n. 20 del 2019).
A ulteriore dimostrazione di ciò, nella recente sentenza n. 254 del 2020 la Corte costituzionale è giunta poi a dare ingresso a una questione sollevata dal giudice rimettente contemporaneamente di fronte alle due corti, osservando come ciò, in linea di principio, non sia in contraddizione con “un sistema integrato di garanzie [che] ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni”. Un sistema, aggiunge la stessa sentenza n. 254, che trova un punto di emersione nell’art. 19, par. 1, TUE, dove il ruolo della Corte di giustizia viene preso in esame unitamente a quello delle giurisdizioni nazionali, tutte ugualmente “depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione»”.
Mai, però (e passo al secondo fronte prima evocato), vi era stata la possibilità di verificare in concreto quanto il nuovo corso aperto nel 2017 potesse risultare funzionale anche alla definizione dei compiti della stessa Corte di giustizia e, in prospettiva, al consolidamento della tutela dei diritti contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Una prima, significativa, testimonianza su questo fronte è venuta dalla sentenza del 2 febbraio 2021, resa dalla Grande Sezione della Corte di giustizia nella causa C-481/19 (DB), in risposta al rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 2019 in tema di diritto al silenzio nei procedimenti volti all’irrogazione di sanzioni amministrative punitive svoltisi di fronte alla CONSOB[1].
La risposta della Corte di giustizia non solo avalla, per quanto indirettamente, il meccanismo della “precedenza funzionale” dell’incidente di costituzionalità, ma si serve del quesito posto dalla Corte costituzionale per depotenziare un possibile conflitto di sistema con essa, oltre che (ed è il punto più rilevante) per introdurre nel sistema della Carta un diritto in precedenza ritenuto estraneo al sistema delle garanzie dell’Unione come il diritto a non incolpare sé stessi[2].
2. Una questione di interpretazione o di validità?
È necessario, innanzi tutto, ricostruire brevemente l’antefatto della pronuncia della Corte di giustizia e riassumerne i principali passaggi, anche per cogliere le implicazioni di sistema che da essa discendono sui rapporti tra questa e la Corte costituzionale (oltre che, evidentemente, con i giudici comuni).
La questione ha origine da un’ordinanza della Corte di cassazione, con cui questa investì la Corte costituzionale del compito di stabilire, tra l’altro, la conformità agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione, per quanto qui più interessa, agli artt. 6 CEDU e 47 della CDFUE) dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, “nella parte in cui sanziona la mancata ottemperanza nei termini alle richieste della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), ovvero la causazione di un ritardo nell’esercizio delle sue funzioni, «anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle proprie funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate»”. La questione veniva sollevata (stando a quanto riferisce la stessa ord. n. 117 del 2019) nel presupposto che ove la Corte costituzionale avesse ritenuto infondati i dubbi di costituzionalità prospettati, alla loro soluzione la Corte di cassazione sarebbe pervenuta comunque sollevando rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, anche in considerazione del fatto che, come organo giurisdizionale di ultima istanza, ciò avrebbe costituito in ogni caso per essa un dovere scaturente dall’art. 267, par. 3, TFUE.
Tale circostanza, che di per sé parrebbe consustanziale alla logica della precedenza funzionale dell’incidente di costituzionalità quando a sollevare una questione sia un giudice di ultima istanza[3], assume nel caso di specie una rilevanza ulteriore se solo si considera che i termini del contrasto che la Corte di cassazione prospettò tra la norma che escludeva il diritto al silenzio per il soggetto sottoposto ad un’audizione della CONSOB (il richiamato art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998) e l’art. 47 della CDFUE delineavano i contorni di un rinvio pregiudiziale che investiva, accanto alla interpretazione del diritto UE, la sua stessa validità.
L’art. 187-quinquiesdecies citato, infatti, costituisce l’attuazione di uno specifico obbligo discendente, in un ambito del diritto dell’UE completamente armonizzato, prima dalla direttiva 2003/6/CE (art. 14) e, successivamente all’abrogazione di quest’ultima, dall’art. 30, par. 1, lett. b), del Regolamento (UE) n. 596/2014, che impone agli Stati membri di provvedere “affinché le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate” in relazione alla violazione di “omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta disposte di cui all’art. 23, par. 2” del medesimo Reg. 596/2014.
Tale ultima previsione è, poi, quella che attribuisce alle autorità chiamate a procedere in materia di repressione degli abusi di mercato il potere di “richiedere o esigere informazioni da chiunque, inclusi coloro che, successivamente, partecipano alla trasmissione di ordini o all’esecuzione delle operazioni di cui trattasi, nonché i loro superiori e, laddove opportuno, convocarli allo scopo di ottenere delle informazioni”.
Dal combinato disposto di tali previsioni si ricava pianamente che il legislatore nazionale è vincolato in tutto e per tutto nell’an del loro recepimento e nell’individuazione del loro ambito di applicazione, potendo godere di una certa discrezionalità unicamente in relazione ad aspetti di minore rilevanza, come ad es. sul terreno della commisurazione del quantum sanzionatorio. Di conseguenza, nel momento in cui veniva dedotto il contrasto tra la disposizione nazionale che ha recepito tale obbligo e gli articoli della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE da cui si ricava il diritto dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione, di fatto – per il tramite della questione di costituzionalità – si stava ponendo anche (e, probabilmente, prima di altro) un problema di validità della norma del Reg. 596/2014 che stabilisce quell’obbligo, presidiato da sanzioni particolarmente afflittive, di incondizionata cooperazione a carico degli individui coinvolti in tali procedimenti.
A partire da qui, come la dottrina più attenta non ha mancato per tempo di rilevare[4], la questione di cui era investita la Corte costituzionale finiva per essere congegnata nei termini di una verifica sul contrasto con un principio costituzionale (nemo tenetur se ipsum accusare) di una disposizione nazionale in tutto e per tutto vincolata da una norma UE, che inevitabilmente si poneva – pertanto – come il vero oggetto del controllo.
Alla luce di ciò, non stupisce che la Corte costituzionale abbia rilevato allora che l’obbligo contenuto nell’art. 30, par. 1, lett. b), del Reg. 596/2014 “potrebbe risultare di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 CDFUE, i quali pure sembrano riconoscere un diritto fondamentale dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, nei medesimi limiti desumibili dall’art. 6 CEDU e dall’art. 24 della Costituzione italiana”.
Di conseguenza, i due quesiti posti dalla Corte costituzionale prefiguravano una scansione dell’esame demandato alla Corte di giustizia tale per cui la richiesta di chiarimento interpretativo della disposizione che non contempla il diritto al silenzio dell’individuo precede e si collega alla richiesta di verifica sulla validità di tale disposizione, in quanto di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 della Carta, oltre che con l’art. 6 CEDU e con le tradizioni costituzionali comuni (il cui punto di emersione è rappresentato, nella vicenda in esame, dall’art. 24 della Costituzione). La saldatura tra i due profili emergeva chiaramente nell’ordinanza n. 117 del 2019, soprattutto nel momento in cui la Corte costituzionale rilevava che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies “rischierebbe di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione”, e in particolare con l’obbligo che discende dal richiamato art. 30, par. 1, lett. b), del Reg. 596/2014, “obbligo di cui il menzionato art. 187-quinquiesdecies costituisce attuazione”.
L’ord. n. 117 del 2019, in altre parole, mirava a offrire alla Corte di giustizia le condizioni per svuotare di portata precettiva l’art. 30 cit. Reg. 596/2014, riconoscendo il diritto al silenzio dei singoli come un diritto riconducibile ai parametri ora richiamati, così da lasciarsi alle spalle una giurisprudenza che tale diritto era invece incline a escluderlo, anche se in riferimento, prevalentemente, alle sole persone giuridiche.
Solo ove tale strada non fosse risultata percorribile, veniva posto chiaramente, con il secondo quesito, un problema di validità delle disposizioni di diritto dell’UE che sanzionano il rifiuto dell’individuo di rispondere a domande che possano contribuire alla sua incolpazione, così – nella sostanza – responsabilizzando la Corte di giustizia rispetto all’eventualità di una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma interna di attuazione vincolata di una disposizione di diritto dell’UE[5].
3. Lussemburgo introduce un “nuovo diritto”: basta la sola via dell’interpretazione conforme?
La risposta della Corte di giustizia, preceduta dalle convergenti conclusioni dell’AG Pikamäe, è andata nel senso di un’adesione piena alle prospettazioni della Corte costituzionale.
Il presupposto del ragionamento seguito dalla sentenza è rivolto a differenziare il regime applicabile ai procedimenti sanzionatori rivolti contro le persone giuridiche, per le quali la possibilità di avvalersi del diritto al silenzio è tradizionalmente esclusa dalla Corte di giustizia a partire dal celebre caso Orkem, da quelli (come avveniva nel giudizio a quo) riguardanti invece le persone fisiche, rispetto alle quali i contenuti di tutela promananti dagli artt. 47 e 48 CDFUE devono essere interpretati alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che costantemente annovera il diritto al silenzio degli individui tra le posizioni protette dall’art. 6 CEDU.
Questo punto, sviluppato nella sentenza ai parr. 36-40, spinge la Corte di giustizia a precisare i termini di quello che a tutti gli effetti si configura ora come un “nuovo diritto” nel sistema della Carta, i cui presupposti applicativi sono:
a) esso non può giustificare qualsiasi omessa collaborazione con le autorità nazionali competente “qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa” (par. 41);
b) esso trova applicazione in procedure che conducono all’irrogazione di sanzioni amministrative aventi carattere penale, come desumibile dalla qualificazione giuridica dell’illecito, dalla natura di quest’ultimo e dal grado di severità della sanzione che l’interessato rischia di subire (par. 42);
c) in ogni caso, il diritto al silenzio deve essere riconosciuto allorché l’individuo è chiamato a fornire risposte “che potrebbero far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale” (par. 45).
Il punto maggiormente controverso della pronuncia, e forse anche più significativo in vista della riassunzione del giudizio di fronte alla Corte costituzionale, riguarda la strada scelta dalla Corte di giustizia per “calare” questi nuovi principi nel sistema normativo di cui ai richiamati artt. 14 della dir. 2003/6 e 30, par. 1, lett. b) del Reg. 596/2014.
La Corte aggira infatti il problema che avrebbe rappresentato una pronuncia di invalidità avente ad oggetto queste disposizioni (e in particolare la seconda) optando per una loro interpretazione conforme agli artt. 47 e 48 della Carta che ne determina, tuttavia, una significativa e incisiva rilettura.
Ritenere, infatti, che quelle disposizioni debbano essere ora interpretate nel senso che esse non prevedono necessariamente l’inflizione di sanzioni a persone fisiche che rifiutano di prestare informazioni nei procedimenti sopra menzionati, infatti, determina un indubbio rivolgimento dei loro significati per come finora pacificamente acquisiti. Significati che convergevano nel senso di escludere, per il singolo, la possibilità di godere del diritto al silenzio in procedimenti volti all’irrogazione di sanzioni amministrative punitive e che ora vengono espunti dal perimetro applicativo delle disposizioni sopra richiamate, poiché l’esigenza di una loro interpretazione conforme agli artt. 47 e 48 della CDFUE impone di considerare prioritariamente che la sanzionabilità di tali comportamenti, pur se non esclusa, non è al tempo stesso imposta dal tenore letterale degli artt. 14 della dir. 2003/6 e 30, par. 1, lett. b) del Reg. 596/2014.
L’interpretazione conforme patrocinata dalla Corte di giustizia assume quindi, almeno in parte, i tratti di un’interpretatio abrogans, tesa a rimodellare i contorni del regime sanzionatorio operante in tali procedimenti e dei diritti invocabili dalle persone fisiche ad essi sottoposti anche al di là dei significati acquisiti da tali disposizioni nel sistema europeo e in quelli nazionali, così da scongiurare le conseguenze di una dichiarazione di invalidità.
L’effetto, ad ogni modo, è quello di un ampliamento degli spazi di discrezionalità degli Stati membri, i quali, pur avendo a che fare con l’obbligo di dare attuazione a disposizioni a contenuto sostanzialmente vincolato, sono chiamati ora a disciplinare i rispettivi procedimenti e il relativo regime sanzionatorio nel senso di attribuire un diritto al silenzio alle persone fisiche nei procedimenti e alle condizioni prima richiamati (par. 57).
4. Un caso diverso dagli altri: un nuovo protocollo decisionale
Proprio tale ultimo aspetto merita di essere messo in evidenza per sottolineare la novità del caso rispetto ai precedenti episodi di dialogo, per il tramite del rinvio pregiudiziale, tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, e per veder confermata l’efficace strategia seguita dalla prima all’atto della sollevazione del rinvio, anche alla luce delle variabili che si porranno nell’immediato futuro nel momento in cui questa, all’atto della riassunzione del giudizio, sarà chiamata a pronunciarsi sulle questioni sollevate dalla Corte di cassazione.
Quanto al primo aspetto, l’evocazione di uno spazio di adeguamento discrezionale per gli Stati in relazione a regole vincolanti contenute in regolamenti UE non è certo nuova, mentre ciò che merita attenzione è il fatto che a ciò si sia giunti muovendo, come si diceva sopra, da un rinvio pregiudiziale incentrato prevalentemente su un problema di validità più che di interpretazione. In questo modo, l’impressione è che la Corte di giustizia, nel momento in cui esclude una dichiarazione di invalidità, abbia inteso rivolgere un messaggio preciso proprio alla Corte costituzionale, individuando in quest’organo – siccome investito di una funzione di garanzia sistemica dei diritti fondamentali e titolare di un potere di annullamento con effetti erga omnes del diritto interno – quello tenuto prima e più utilmente di altri a esercitare quel potere discrezionale in senso conforme al combinato disposto dei diritti contenuti nella Costituzione e nella Carta DFUE (oltre che nella stessa CEDU).
Per il fatto che il rinvio pregiudiziale proveniva proprio dalla Corte costituzionale e che questo sottintendeva, al fondo e malgrado le opportune cautele contenute nell’ord. n. 117 del 2019, una pregiudiziale di validità, è legittimo ritenere che la Corte di giustizia abbia evitato lo scoglio dell’invalidità perché, a livello interno, l’esito da essa predicato (e riguardante, evidentemente, il diritto interno di attuazione, e segnatamente l’art. 187-quinquiesdecies cit.) può essere adeguatamente ed efficacemente conseguito dalla Corte costituzionale nell’ambito dell’esercizio delle sue attribuzioni.
Se questo scenario è plausibile, se ne dovrebbe ricavare che, in questa vicenda, la leale cooperazione tra le due corti abbia dato luogo a un protocollo operativo particolarmente stringente e in larga parte inedito, nel senso che il giudice costituzionale stimola la Corte di giustizia a introdurre un nuovo diritto fondamentale nel sistema dell’Unione[6], la cui attuazione e tutela a livello interno – proprio per il sovrapporsi delle garanzie interne ed europee – sono demandate in prima battuta, a valle della pronuncia europea, al medesimo giudice di costituzionalità, in quanto organo deputato a valutare come quel diritto/principio di nuova introduzione debba inserirsi, dall’alto di una prospettiva di tutela sistemica dei diritti fondamentali, all’interno dell’ordinamento.
5. Un annullamento con effetti erga omnes al servizio (anche) della Corte di giustizia
Due osservazioni, in conclusione, rispetto agli scenari che si aprono a seguito di questa pronuncia e del modulo decisionale che essa pare convalidare.
A livello generale e, per dir così, di sistema, un simile protocollo collaborativo implica una consacrazione della svolta operata dalla sent. n. 269 del 2017 e, contestualmente, dall’abbandono ad opera della Corte di giustizia (avutosi con i casi Melki e A.B.) del principio per cui l’obbligo di disapplicazione del giudice nazionale non può mai essere preceduto dallo scrutinio di costituzionalità. Non si tratta, però, necessariamente di una partita vinta per le corti costituzionali, perché tale esito le attrae inevitabilmente e definitivamente, seppur da una posizione differenziata e qualificata, nell’opera di adeguamento del diritto interno al diritto dell’UE[7].
Questa attrazione implica anche, come il par. 55 della sentenza Melki già lasciava chiaramente intendere[8], che quando una corte costituzionale (così come qualsiasi altro giudice nazionale di ultima istanza) si ponga un problema di validità di una norma nazionale di attuazione vincolata del diritto dell’UE, questa è obbligata, ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, a sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Guardando al caso in discussione, ciò impone di ritenere che la Corte costituzionale, sollevando il rinvio con l’ord. n. 117 del 2019, abbia fatto valere non solo la sua posizione apicale nel senso di veicolare alla Corte di giustizia una prospettiva qualificata dal suo essere garante della Costituzione e dei diritti fondamentali in essa contenuti. Essa, infatti, pare aver espresso l’ulteriore consapevolezza che quando dal giudizio di costituzionalità può discendere l’esito di una caducazione di una norma interna che costituisca attuazione di una regola di diritto dell’UE che non lascia margini di discrezionalità nel suo recepimento, questa sia tenuta – prima di pronunciarsi – a rivolgersi alla Corte di giustizia. In casi del genere, infatti, l’eliminazione della norma interna rappresenterebbe, sia pur indirettamente, una menomazione del potere esclusivo della Corte di giustizia di pronunciarsi sulla validità di una regola del diritto dell’UE.
Quanto alle prospettive immediate, pare inevitabile chiedersi quali strade si aprano ora nel momento in cui la Corte costituzionale sarà chiamata a decidere sulle questioni sollevate dalla Corte di cassazione.
Sul punto, potrebbe infatti immaginarsi che l’esito di adeguamento interpretativo cui è giunta la Corte di giustizia possa essere a sua volta fatto proprio dalla Corte costituzionale, trasferendo il significato scaturente dall’interpretazione conforme dell’art. 30, par. 2, lett. b), Reg. 596/2014 agli artt. 47 e 48 CDFUE all’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998. Si tratterebbe di un esito sicuramente coerente con la lettera della sentenza resa dalla Corte di giustizia ma, alla luce di quanto detto, forse non del tutto convincente.
In tal senso depone, innanzi tutto, il tenore letterale dell’art. 187-quinquiesdecies che, per la sua formulazione particolarmente ampia[9], rende non agevole (seppur astrattamente non impossibile) una delimitazione della sua portata alle condotte del singolo che oggi sono coperte dal diritto al silenzio.
Ma a rivelarsi, forse, dirimente nel senso dell’esclusione di un rigetto interpretativo, è il senso e lo scopo del compito richiesto alla Corte costituzionale dalla sentenza in discussione, che parrebbe quello di essere conseguente rispetto alla rivendicazione di una maggiore centralità del suo ruolo rispetto alla tutela dei diritti negli ambiti coperti dal diritto dell’UE per il tramite di una dichiarazione di incostituzionalità destinata a spiegare effetti erga omnes. Oltre a fondamentali ragioni di certezza nell’applicazione di misure in ogni caso fortemente afflittive, a spingere nel senso di un accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione potrebbe essere il fatto che, nella logica di rapporti sempre più serrati tra Corte di giustizia, giudici nazionali e Corte costituzionale, a quest’ultima spetti necessariamente il ruolo e la funzione di organo chiamato, lì dove è richiesto (come in questo caso), a svolgere un apprezzamento sulla compatibilità di sistema tra le regole nazionali di attuazione del diritto UE e la tutela dei diritti fondamentali nazionali ed europei, da declinare necessariamente in termini unitari.
[1] Su questa pronuncia v. già, in questa Rivista, M. Baldari, La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob (Nota a CGUE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19) (3 marzo 2021)
[2] A. Anzon Demmig, Interazione tra le Corti e riconoscimento di un nuovo diritto nell’ordinamento europeo, in Diritti comparati (9 febbraio 2021).
[3] Soprattutto alla luce dei temperamenti che sono stati apportati all’originario protocollo sulla doppia pregiudizialità di cui alla sent. n. 269 del 2017 dalla sentenza n. 20 del 2019 e dalle successive pronunce sopra citate.
[4] A. Anzon Demmig, Applicazioni virtuose della nuova “dottrina” sulla “doppia pregiudizialità” in tema di diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/2019), in Rivista AIC, 6/2019, p. 186, secondo la quale le disposizioni europee richiamate “pur non negando espressamente il ‘diritto al silenzio’ dell’indagato, impon[gono] specificamente agli Stati membri l’obbligo di sanzionare l’omessa collaborazione alle indagini dell’autorità competente”.
[5] Con la conseguenza che, come è stato detto, “nella forma processuale di un rinvio pregiudiziale si cela la sostanza di un preannunciato ‘controlimite’”, che porrebbe la Corte di giustizia “in una rigida, non confortevole, alternativa: accogliere un’interpretazione della normativa europea armonizzata con la tradizione costituzionale italiana; oppure prestare il fianco all’inevitabile attivazione di un controlimite costituzionale”: così G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, in Rivista AIC, 6/2019, p. 170.
[6] Servendosi, nel far ciò, di una lettura convergente delle garanzie contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, nella CEDU e nella Costituzione: enfatizza opportunamente questo profilo A. Ruggeri, Ancora un passo avanti della Consulta lungo la via del “dialogo” con le Corti europee e i giudici nazionali (a margine di Corte cost. n. 117 del 2019), in Consulta online, Studi, II/2019, p. 245.
[7] Senza peraltro escludere, come testimonia il caso in discussione, anche l’esito opposto, vale a dire un adeguamento del diritto UE a un contenuto scaturente da una specifica tradizione costituzionale, peraltro convalidata dalla CEDU. Proprio tale elemento di reciproca dipendenza funzionale che si viene a creare tra Corte di giustizia e corti costituzionali mi sembra, tra tutti, il fattore idoneo a superare le meditate perplessità sulla tenuta dell’attuale configurazione della doppia pregiudizialità, come quelle espresse da ultimo da A. Ruggeri, Il giudice e la “doppia pregiudizialità”: istruzioni per l’uso, in Federalismi (24 febbraio 2021).
[8] Sentenza 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli: “Qualora, infatti, il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale si concluda con l’abrogazione di una legge nazionale che si limita a recepire le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione, a causa della contrarietà di detta legge alla Costituzione nazionale, la Corte potrebbe, in pratica, essere privata della possibilità di procedere, su domanda dei giudici del merito dello Stato membro interessato, al controllo della validità di detta direttiva con riguardo agli stessi motivi relativi alle esigenze del diritto primario, segnatamente dei diritti riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla quale l’art. 6 TFUE conferisce lo stesso valore giuridico che riconosce ai Trattati”.
[9] “Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse”. Un adeguamento interpretativo era, peraltro, escluso dalla medesima ordinanza di rimessione della Corte di cassazione.
La Corte edu interviene sul diritto della persona offesa a un equo processo nelle ipotesi di irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte edu, Petrella c. Italia)
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Premessa: la tutela dei diritti della persona offesa e la ragionevole durata del processo penale – 2. Il contesto sistematico nel quale si inserisce l’affaire “Petrella contro Italia” – 3. La vicenda giurisdizionale da cui trae origine la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – 4. Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’affaire “Petrella contro Italia” – 4.1. Le statuizioni relative alla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – 4.1.2. La violazione dell’art. 6 CEDU, l’imputabilità dell’inerzia processuale all’autorità giudiziaria procedente e l’omessa tutela della persona offesa – 5. L’art. 13 CEDU e l’inapplicabilità dei rimedi giurisdizionali previsti dalla legge 24 marzo 2011, n. 89 – 6. Le opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Raffaele Sabato e Krzysztof Wojtyczek – 7. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia” e la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 12.
1. Premessa: la tutela dei diritti della persona offesa e la ragionevole durata del processo penale
Il tema di cui mi occuperò in questo intervento riguarda la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Petrella contro Italia”[1], con cui sono stati precisati i contorni del diritto della persona offesa a un equo processo “entro un termine ragionevole”[2], così come prefigurato dall’art. 6, par. 1, CEDU, nelle ipotesi in cui le sue pretese risarcitorie vengono frustrate dall’eccessiva durata delle indagini preliminari.
In conseguenza di tale pronuncia e della rivisitazione del diritto a un processo equo della persona offesa dal reato che ne conseguiva – che traeva origine dal ricorso proposto davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da Vincenzo Petrella –, lo Stato italiano, con una decisione emessa all’unanimità dei componenti del collegio, veniva condannato per la violazione degli artt. 6 e 13 CEDU. Tale violazione derivava dall’eccessiva durata del procedimento penale instaurato dal ricorrente quale persona offesa del reato di diffamazione, che si concludeva con la declaratoria di prescrizione pronunciata dal giudice per le indagini preliminari il 17 gennaio 2007.
Lo Stato italiano, inoltre, veniva condannato, con il dissenso di due dei componenti del collegio giudicante, per l’ulteriore violazione dell’art. 6 CEDU, relativa al pregiudizio subito dal ricorrente per il mancato accesso a un’autorità giudiziaria, collegato all’esito del procedimento penale che lo riguardava.
Si tratta, come si dirà, di una pronuncia le cui conseguenze sistematiche non sono facilmente preventivabili, pur collocandosi tale decisione in un contesto interpretativo consolidato, atteso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è costante nell’affermare che il riconoscimento delle pretese risarcitorie della vittima del reato deriva dalla previsione dell’art. 6, par. 1, CEDU; riconoscimento da cui discendono le garanzie a un processo equo, rispetto alle quali, come affermato dalla stessa Corte[3], la persona offesa del reato deve ritenersi una parte processuale a tutti gli effetti, godendo del diritto a un processo che sia celebrato “entro termine ragionevole”.
2. Il contesto sistematico nel quale si inserisce l’affaire “Petrella contro Italia”
Come si è detto, la decisione del caso “Petrella contro Italia” affronta il tema della ragionevole durata delle indagini preliminari svolte nell’ambito di un procedimento penale instaurato da una, presunta, vittima del reato di diffamazione. Questo tema viene esaminato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in correlazione alla questione dei rimedi riconosciuti nel nostro ordinamento alla persona offesa per tutelare le sue pretese risarcitorie nelle ipotesi di decorso dei termini prescrizionali.
In questa cornice, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo muoveva da un dato cronologico, osservando che le indagini preliminari conseguenti alla querela presentata dalla persona offesa erano durate cinque anni e sei mesi e che, in conseguenza di tale decorso, erano spirati i termini di prescrizione del reato di diffamazione denunciato dalla vittima, Vincenzo Petrella.
Ne era derivata la mancata soddisfazione delle pretese risarcitorie della persona offesa, esclusivamente dovuta all’eccessiva durata dei tempi del procedimento penale, che risultavano incongrui rispetto ai parametri di ragionevolezza prescritti dall’art. 6, par. 1, CEDU[4]. Tale irragionevole durata delle indagini preliminari, dunque, aveva determinato la violazione delle garanzie di equità processuale collegate alla celebrazione del procedimento penale, recepite nel nostro ordinamento dalla previsione dell’art. 111, comma secondo, Cost., assicurate tanto al soggetto attivo quanto al soggetto passivo del reato.
La Corte di Strasburgo, al contempo, evidenziava che il pregiudizio subito dal ricorrente era dovuto al ritardo ingiustificato dell’autorità giudiziaria nazionale presso la quale era transitata la querela presentata dal ricorrente nei confronti dei soggetti che lo avevano diffamato su un quotidiano. Era, infatti, incontroverso che il decorso di cinque anni e sei mesi dalla presentazione della querela di Petrella, senza il compimento di atti d’indagine, aveva determinato lo spirare dei termini di prescrizione del reato, asseritamente, commesso nei suoi confronti, impedendogli di tutelare le sue prerogative risarcitorie[5].
Ne discendeva che il comportamento inerte dell’autorità giudiziaria aveva privato il ricorrente della possibilità di tutelare le sue pretese risarcitorie, che non potevano essere altrimenti garantite, nell’ambito della giurisdizione penale, sulla base delle regole vigenti. Né assumeva alcun rilievo giustificativo del comportamento inerte dell’autorità giudiziaria nazionale la circostanza che la persona offesa avrebbe potuto tutelare la sua posizione davanti al giudice civile, atteso che tale opzione – a prescindere dalla sua astratta praticabilità – non poteva incidere negativamente sulle prerogative di cui la, presunta, vittima disponeva nel processo penale, alle quali doveva essere riconosciuta una tutela autonoma rispetto ai rimedi processuali extra-penali[6].
A tali considerazioni, occorreva aggiungere che il ricorrente non poteva nemmeno avvantaggiarsi dei benefici previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, convenzionalmente nota come “legge Pinto”, la cui applicazione postulava che il danneggiato si fosse costituito parte civile nel processo penale. Tutto questo rendeva ulteriormente evidente la carenza di adeguati strumenti di tutela della persona offesa, alla quale, nell’ordinamento italiano, non erano riconosciuti idonei poteri di sollecitazione della trattazione della sua vicenda giurisdizionale entro un “tempo ragionevole”[7].
3. La vicenda giurisdizionale da cui trae origine la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Occorre, a questo punto, occuparsi della vicenda giurisdizionale da cui traeva origine la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, evidenziando che il ricorrente, Vicenzo Petrella, è un professionista italiano residente a Caserta, che, all’epoca dei fatti di cui si discute, presiedeva la squadra di calcio cittadina, denominata “Casertana”.
Tra il 22 e il 25 luglio 2001, un quotidiano locale, il “Corriere di Caserta”, pubblicava alcuni articoli corredati da riproduzioni fotografiche di Vincenzo Petrella, accusandolo di frode e corruzione finanziaria.
Il ricorrente, pertanto, il 28 luglio 2011, ritenendo che gli articoli pubblicati sul “Corriere di Caserta” costituivano un’offesa per il suo onore e per la sua reputazione, presentava una denuncia all’autorità giudiziaria per diffamazione aggravata, effettuata mediante comunicazioni sulla stampa periodica. Nella sua denuncia, la persona offesa precisava che, nell’eventuale procedimento penale instaurato a seguito della sua querela, intendeva costituirsi parte civile, richiedendo la condanna dei soggetti denunciati al risarcimento dei danni che le erano stati provocati, quantificati in dieci miliardi di lire dell’epoca.
A seguito della querela presentata da Vincenzo Petrella, il 10 settembre 2001, il procedimento veniva incardinato davanti all’ufficio requirente competente, dove rimaneva pendente nella fase delle indagini preliminari fino alla data del 9 novembre 2006, quando il pubblico ministero assegnatario del fascicolo processuale ne chiedeva l’archiviazione per l’intervenuta prescrizione del reato. In conformità della richiesta presentata, il 17 gennaio 2007, il giudice delle indagini preliminari disponeva l’archiviazione del procedimento incardinato da Petrella.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infine, evidenziava che l’archiviazione del procedimento lasciava il denunciante sprovvisto di tutela, atteso il disposto dell’art. 79 cod. proc. pen., a tenore del quale la costituzione di parte civile può avvenire fino all’udienza preliminare e, dopo la sua celebrazione, fino al compimento degli adempimenti previsti dall’art. 484 cod. proc. pen.[8]
4. Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’affaire “Petrella contro Italia”
Nella cornice descritta nei paragrafi precedenti, allo scopo di inquadrare le linee ermeneutiche del percorso argomentativo seguito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si ritiene indispensabile distinguere i vari segmenti della decisione oggetto di vaglio, che riguardano le previsioni degli artt. 6, par. 1, e 13 CEDU.
4.1. Le statuizioni relative alla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU
Cominciamo, allora, con l’osservare che la valutazione delle censure difensive postulava l’individuazione della data da cui fare decorrere il termine per verificare l’eventuale inerzia dell’autorità giudiziaria italiana, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo individuava in quella del 28 luglio 2001.
Questo termine, a sua volta, doveva essere correlato alla data di emissione del decreto di archiviazione, pronunciato dal Giudice per le indagini preliminari il 17 gennaio 2007, in conseguenza del quale si ritenevano irrimediabilmente pregiudicate le prerogative processuali di Vincenzo Petrella[9].
L’arco temporale al quale occorreva fare riferimento per valutare le pretese di Petrella, dunque, riguardava una frazione cronologica di cinque anni e sei mesi, durante i quali il procedimento instaurato a seguito della denuncia della persona offesa era rimasto fermo nella fase delle indagini preliminari, senza il compimento di atti d’indagine, fino a quando non era intervenuto il decreto di archiviazione che concludeva la vicenda processuale, pronunciato, come detto, il 17 gennaio 2007.
Si consideri, ulteriormente, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si limitava a valutare acriticamente i dati cronologici richiamati, atteso che effettuava un esame del merito della vicenda giurisdizionale, evidenziando che il caso sottoposto all’attenzione dell’autorità requirente non era “particolarmente complesso”[10] e, tuttavia, nonostante l’assenza di connotazioni di complessità, non era stata compiuta alcuna attività processuale nel corso delle indagini preliminari.
Né tantomeno il Governo italiano, nel giudizio celebrato davanti alla Corte di Strasburgo, aveva fornito indicazioni utili a giustificare la notevole durata delle indagini preliminari e il mancato compimento di atti processuali dell’ufficio requirente durante tale frazione temporale pluriennale[11].
Sulla scorta di tale ricostruzione della vicenda processuale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo affermava che, nel caso di specie, si era concretizzata una violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, ritenendo pacifico che l’eccessiva durata delle indagini preliminari aveva determinato l’elusione dei parametri di ragionevolezza prescritti da tale disposizione, che impone la celebrazione di un processo “entro un termine ragionevole”[12].
4.1.2. La violazione dell’art. 6 CEDU, l’imputabilità dell’inerzia processuale all’autorità giudiziaria procedente e l’omessa tutela della persona offesa
Deve, al contempo, rilevarsi che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo inseriva le sue statuizioni sulla violazione dell’art. 6 CEDU in un più ampio contesto ermeneutico, relativo alla ricorrenza di condizioni che imponevano di ritenere imputabile all’autorità giudiziaria italiana l’inerzia che aveva determinato la lesione delle prerogative processuali di Vincenzo Petrella, quale persona offesa dal reato[13].
Si evidenziava, in proposito, che era incontroverso che il pregiudizio patito dal ricorrente conseguiva al decorso dei termini di prescrizione del reato di diffamazione denunciato dalla persona offesa; ed era parimenti incontroverso che allo spirare dei termini prescrizionali non si era accompagnata alcuna attività d’indagine che consentisse di ritenere giustificato l’atteggiamento di inerzia assunto dall’ufficio requirente procedente.
Da tali dati, come detto, incontroversi, doveva farsi discendere l’ulteriore conseguenza dell’imputabilità dell’inerzia giurisdizionale all’autorità giudiziaria italiana, che aveva vanificato la denuncia presentata da Vincenzo Petrella. Infatti, in conseguenza dell’atteggiamento inerte dell’ufficio requirente correttamente attivato, al ricorrente era stata preclusa la possibilità di richiedere al giudice penale il risarcimento dei danni civili patiti per effetto delle, presunte, condotte diffamatorie di cui si doleva.
Si ribadiva, pertanto, che il comportamento illegittimo da parte dell’autorità giudiziaria italiana aveva concretizzato una violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, producendo l’effetto di privare la persona offesa del diritto di soddisfare le sue pretese risarcitorie, a garanzia delle quali aveva attivato rimedi processuali legittimamente previsti dall’ordinamento interno.
Né si riteneva possibile giustificare l’inerzia dell’autorità giudiziaria nazionale richiamando la possibilità di attivare un percorso parallelo di tutela davanti al giudice civile dopo la declaratoria di prescrizione. Infatti, l’instaurazione del procedimento civile, inevitabilmente, implicava la necessità di acquisire nuove prove, della cui produzione era onerato il ricorrente, comportando l’aggravamento delle condizioni di tutela della sua posizione, rese ulteriormente problematiche dal lasso di tempo trascorso dalla verificazione degli accadimenti.
Veniva, in questo modo, definitivamente ribadita la giurisprudenza sovranazionale consolidata in tema di tutela delle pretese risarcitorie della persona offesa nel processo penale, come conseguenza diretta del riconoscimento a tale soggetto dei diritti riconosciuti alle parti processuali dall’art. 6, par. 1, CEDU[14].
5. L’art. 13 CEDU e l’inapplicabilità dei rimedi giurisdizionali previsti dalla legge 24 marzo 2011, n. 89
Occorre, infine, evidenziare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rilevava che i pregiudizi subiti da Vincenzo Petrella, in conseguenza dell’inerzia dell’autorità giudiziaria italiana, erano aggravati dall’inapplicabilità dei parametri normativi della legge 24 marzo 2001, n. 89, recante «Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile», ritenuti inutilizzabili nei confronti della persona offesa che non ha assunto la qualità di parte civile in un procedimento penale.
Secondo la Corte di Strasburgo, l’inapplicabilità delle previsioni della legge 24 marzo 2001, n. 89 – definita «loi Pinto» – finiva per determinare l’esistenza di un vuoto di tutela normativa della persona offesa, censurata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ex art. 13 CEDU, non sussistendo nell’ordinamento giuridico italiano – nelle ipotesi di procedimenti penali instaurati da un soggetto passivo del reato – uno strumento idoneo a sollecitare l’intervento del giudice italiano “entro un termine ragionevole”, compatibile con la previsione dell’art. 6, par. 1, CEDU.
6. Le opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Raffaele Sabato e Krzysztof Wojtyczek
Restano da considerare, per una completa disamina della sentenza relativa all’affaire “Petrella contro Italia”, le ragioni che inducevano i giudici Krzysztof Wojtyczek e Raffaele Sabato a esprimere opinioni parzialmente dissenzienti rispetto alla maggioranza dei componenti del collegio.
Di queste opinioni parzialmente dissenzienti occorre occuparsi separatamente.
Quanto, in particolare, all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Krzysztof Wojtyczek, le ragioni del suo dissenso si fondavano su due ordini di argomenti, che venivano esposti con esemplare chiarezza.
Si evidenziava, innanzitutto, che non era condivisibile l’assunto ermeneutico della decisione in esame secondo cui costituiva una limitazione alle prerogative processuali della persona offesa, rilevante ex art. 6, par. 1, CEDU, la possibilità di ricorrere al solo giudice civile nelle ipotesi in cui il procedimento attivato dalla vittima si concludeva per l’intervenuta prescrizione del reato.
Si evidenziava, al contempo, che la decisione adottata, coinvolgendo contestualmente le esigenze di tutela della reputazione del soggetto passivo del reato e la libertà di espressione dei giornalisti, finiva per incentivare, quantomeno implicitamente, l’accesso alla giurisdizione penale per tutelare le vittime di condotte diffamatorie, esprimendo un approccio ermeneutico problematico, sotto il profilo delle conseguenze ipertrofiche che ne potevano derivare.
Quanto, invece, all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Raffaele Sabato, il suo dissenso si fondava sulla ritenuta sovrapposizione dei due piani valutativi esaminati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tra loro, non del tutto armonici: il primo era quello della violazione del diritto di accesso all’autorità giudiziaria, rilevante ex art. 13 CEDU, che postulava una questione di esistenza della giurisdizione, alla quale la vittima poteva ricorrere; il secondo era quello del diritto a una durata ragionevole del procedimento penale, rilevante ex art. 6, par. 1, CEDU, che postulava una questione, differente, di efficienza della giurisdizione.
Secondo il giudice dissenziente, questa sovrapposizione dei piani valutativi, relativi all’esistenza e all’efficienza della giurisdizione penale, nelle ipotesi in cui il procedimento attivato dalla vittima si concludeva per l’intervenuta prescrizione del reato, se consentiva di assicurare alla vittima una protezione dei diritti umani più ampia ed efficace di quella attuale, non soddisfaceva le esigenze di chiarificazione ermeneutica proprie della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, determinando un problematico overruling giurisprudenziale.
Tale eterogeneità, al contempo, finiva per attenuare l’efficienza complessiva dei sistemi di compensazione nazionale relativi alla durata eccessiva dei procedimenti penali, atteso che richiedeva ai ricorrenti verifiche particolarmente complesse – afferenti ai due piani valutativi sopra richiamati – prima di attivare gli strumenti di tutela giurisdizionale riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
7. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia” e la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 12
Nell’avviarci a concludere queste brevi riflessioni sulla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia”, non ci si può esimere dal rilevare come tale pronuncia comporti la necessità di rielaborare la linea ermeneutica prefigurata in tema di tutela della persona offesa dalla giurisprudenza costituzionale nostrana, soprattutto rappresentata dalla sentenza della Corte costituzionale 12 gennaio 2016, n. 12.
Com’è noto, con tale sentenza veniva dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 538 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Con questa pronunzia costituzionale, in particolare, si ribadiva che la violazione del principio di ragionevole durata del processo consacrato nell’art. 111, comma secondo, Cost., si concretizzava in quelle sole ipotesi in cui si determinava un pregiudizio nei confronti delle parti processuali per effetto di «una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza»[15].
La Corte costituzionale, dunque, si occupava della tutela della persona offesa nelle ipotesi di durata del processo penale incompatibile con i tempi ragionevoli prefigurati dall’art. 6, par. 1, CEDU e dell’art. 111, comma secondo, Cost., evidenziando che non poteva ipotizzarsi un pregiudizio nei suoi confronti quando la tutela degli interessi civili veniva procrastinata per l’introduzione di legittime varianti procedimentali. Secondo il Giudice delle leggi, infatti, la «preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa […] se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione, come già rimarcato, nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico […] alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti […]»[16].
Né potrebbe essere diversamente, costituendo espressione di un orientamento ermeneutico consolidato il principio secondo cui non assume rilievo, in quanto tale, l’omesso vaglio delle pretese risarcitorie della parte civile, laddove il procedimento penale si chiude con un provvedimento diverso dalla condanna dell’imputato, quanto, piuttosto, il mancato soddisfacimento di tali istanze, dovuto all’inerzia dell’autorità giudiziaria. La mancata soddisfazione delle pretese della persona offesa, quindi, di per sé stessa, non è contrastante con le garanzie convenzionali, assumendo rilievo solo quando la vittima del reato non fruisca di altri rimedi, accessibili ed efficaci, per fare valere le sue pretese e quando – analogamente a quanto riscontrabile per la posizione di Vincenzo Petrella – il concreto «funzionamento del meccanismo frustri indebitamente le legittime aspettative del danneggiato, come nel caso in cui la prescrizione della responsabilità penale dell’autore del reato, impeditiva dell’esame della domanda civile, sia imputabile a ingiustificati ritardi delle autorità giudiziarie nella conduzione del procedimento penale»[17].
Tale approdo ermeneutico, del resto, appare confermato dalla successiva sentenza della Corte costituzionale 4 novembre 2020, n. 249[18], in cui si evidenziava che il sistema processuale, nelle ipotesi in cui il procedimento penale segua un percorso fisiologico, prevede che le prerogative della persona offesa vengano garantite da una pluralità di strumenti processuali, tra cui la facoltà di proporre querela; la possibilità di indicare elementi di prova a sostegno delle sue accuse; il potere di interloquire sulla proroga delle indagini o sulla richiesta di archiviazione[19].
A differenti conclusioni, invece, deve giungersi nelle ipotesi in cui la frustrazione delle pretese risarcitorie della persona offesa discenda dall’inerzia dell’autorità giudiziaria, che costituisce un’anomalia del processo penale – ancorché riferita dalla Corte costituzionale a un’area estranea all’alveo applicativo dell’art. 6, par. 1, CEDU, a differenza di quanto affermato nella decisione nel caso “Petrella contro Italia” –, che trova «appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi, i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti»[20].
In questa cornice, resta aperta la questione della violazione dell’art. 13 CEDU, relativamente alla preclusione applicativa prefigurata dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, su cui non sono possibili previsioni ragionevoli sugli sviluppi ermeneutici imposti dalla decisione della Corte di Strasburgo, che sancisce l’esistenza di un vuoto normativo, che sembra colmabile solo con un intervento legislativo, peraltro di non facile realizzazione.
Né è agevole esprimersi sulle possibili soluzioni ermeneutiche di tale questione, attese il non del tutto esaustivo passaggio dedicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al tema dell’applicazione dell’art. 13 CEDU alla legge 24 marzo 2001, n. 89, nonostante la notevole rilevanza di tale passaggio della decisione per il nostro ordinamento giuridico.
[1] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia.
[2] Il riferimento all’espressione “entro un termine ragionevole, utilizzata nel testo e in alcune parti di questo intervento, è espressamente prevista dall’art. 6, par. 1, CEDU, che stabilisce: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».
[3] Si veda Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2004, Perez contro Francia.
[4] Vedi supra, nota 2.
[5] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit., che non lascia spazio per dubitare della responsabilità dell’autorità giudiziaria italiana, tra l’altro, affermata nel passaggio decisionale in cui si afferma «c’est exclusivement en raison du retard des autorités de poursuite […]».
[6] Su questo punto, si veda anche, infra, il paragrafo 6.
[7] L’uso delle virgolette impiegato nel testo, a mio parere, dà fedelmente conto della volontà decisoria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, utilizza l’espressione “délai raisonnable”.
[8] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.
[9] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.
[10] L’uso delle virgolette impiegato nel testo, a mio parere, dà fedelmente conto della volontà decisoria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, utilizza l’espressione “spécialement complexe”.
[11] Occorre precisare che il riferimento all’inerzia del Governo italiano viene espressamente menzionato nella pronuncia in esame, che così riporta l’atteggiamento dei rappresentanti istituzionali del nostro Paese: «Le Gouvernement n’a pas fourni d’arguments pour justifier la nécessité d’une telle durée pour des investigations préliminaires».
[12] Si veda Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2004, Perez contro Francia, cit.
[13] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.
[14] Si muovono in questa direzione, tra le altre, le pronunzie Corte EDU, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema e altri contro Romania; Corte EDU, Grande Camera, 20 marzo 2009, Gorou contro Grecia.
[15] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12.
[16] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12, cit., dove, in linea con quanto affermato nel testo, si affermava ulteriormente che «l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile […]».
[17] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12, cit.
[18] Si veda C. cost., 4 novembre 2020, n. 249.
[19]Si veda Grande Camera, 2 ottobre 2008, Atanasova contro Bulgaria.
[20] Si veda C. cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
La proposta di Direttiva COM(2020) 314: i nuovi obblighi di comunicazione in capo ai gestori delle piattaforme digitali
di Valentina Di Marcantonio
Sommario: 1. Introduzione: le questioni fiscali connesse alla digital economy - 2. La cooperazione amministrativa nel settore fiscale: la Direttiva 2011/16/UE - 3. La proposta di Direttiva COM(2020) 314 final della Commissione europea - 4. Conclusioni.
1. Introduzione: le questioni fiscali connesse della digital economy
L’avvento della c.d. digital economy ha comportato una serie di problematiche di carattere fiscale dovute alla difficoltà di applicare regole e criteri impositivi elaborati in un contesto di c.d. old economy e, pertanto, plasmati su una concezione dell’attività di impresa che ne postula indefettibilmente lo svolgimento mediante una presenza “fisica” nel territorio dello Stato[1].
Invero, le principali caratteristiche dell’economia digitale - quali l’utilizzo di intangibles, l’uso massiccio di dati e l’adozione di modelli di business c.d. multilaterali - consentono alle imprese che operano nel settore del digitale di smaterializzare la propria attività e di destrutturare le proprie funzioni, che un tempo venivano considerate principali, in attività meramente ausiliarie e, pertanto, inidonee a configurare una presenza fiscalmente rilevante sub specie di “stabile organizzazione”.
Secondo le regole “tradizionali”, uno Stato è legittimato ad esercitare la propria potestà impositiva nei confronti dei contribuenti che presentino un collegamento con il territorio dello Stato di tipo “personale” o di tipo “reale” se si tratta di soggetti non residenti nel territorio dello Stato; ove si tratti di imprese non residenti, il criterio di collegamento reale è rappresentato dall’esistenza di una di presenza nel territorio tale da configurare una stabile organizzazione materiale o personale.
La capacità delle imprese del digitale di operare a distanza senza disporre di una presenza fisica nel c.d. market jurisdiction determina, spesso, una divergenza tra lo Stato in cui è sostanzialmente localizzato il business dell’impresa ed il luogo in cui il reddito generato da tale business viene formalmente conseguito ed assoggettato ad imposizione, stante l’inoperatività tanto del criterio di connessione personale, non essendo i soggetti fiscalmente residenti nello Stato, quanto di quello reale, non disponendo l’impresa di una soglia di presenza tale da integrare una stabile organizzazione.
Tale circostanza ha reso necessario l’intervento sia delle Istituzioni sovranazionali - tra le quali, ma non solo[2], l’OCSE[3] e l’Unione Europea - sia dei singoli Stati, volto a realizzare un’imposizione più equa attraverso tanto un ripensamento dei criteri di collegamento con il territorio del c.d. Stato della fonte, quanto il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione e assistenza tra gli Stati.
Sotto il primo profilo, le soluzioni finora prospettate si muovono lungo due grandi linee direttrici: la creazione di nuovi criteri volti ad istituire un nexus con lo Stato nel quale l’impresa opera e produce reddito[4] e la revisione dell’attuale criterio della stabile organizzazione con l’introduzione di concetti come quelli di “presenza digitale significativa” o di “presenza economica significativa”.
Peraltro, stante la difficoltà di raggiungere una soluzione condivisa a livello internazionale in ordine alle soluzioni appena prospettate, numerosi Stati hanno provveduto ad “autotutelare” la base imponibile di propria spettanza attraverso l’introduzione in via unilaterale di fattispecie impositive o antielusive destinate ad operare finché non intervenga un accordo a livello sovranazionale. Alcune di queste fattispecie riguardano specificamente le imprese che operano nel settore del digitale (si pensi alla c.d. digital service tax o alla c.d. equalisation levy), mentre altre hanno un ambito applicativo più esteso, tale da ricomprendere le multinazionali in generale (si pensi alla c.d. diverted profits tax).
Anche l’Unione Europea, prendendo atto della difficoltà di raggiungere una soluzione condivisa in ambito OCSE, ha avvertito l’esigenza di intervenire per scongiurare le ripercussioni negative che l’assunzione di iniziative unilaterali da parte degli Stati membri ha sul mercato unico.
In particolare, le proposte elaborate finora dall’Unione Europea sono destinate ad operare tanto sul piano del diritto sostanziale, mediante l’introduzione di una digital service tax comune agli Stati Membri[5] e della nozione di “presenza digitale significativa” quale ulteriore ipotesi di stabile organizzazione[6], quanto sul piano procedimentale, mediante il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione tra gli Stati membri e l’imposizione di obblighi di trasparenza in capo agli operatori.
2. La cooperazione amministrativa nel settore fiscale: la Direttiva 2011/16/UE
Prima di esaminare la proposta di Direttiva sulla trasparenza per le piattaforme digitali, giova soffermarsi brevemente sul contesto nel quale essa è destinata ad inserirsi in caso di approvazione.
La globalizzazione dell’economia, con il conseguente avvento di contribuenti multinazionali ed il proliferare di operazioni transfrontaliere, ha reso sempre più necessari gli interventi che già da diversi decenni le Istituzioni sovranazionali hanno cominciato ad attuare per rafforzare la cooperazione tra le amministrazioni degli Stati, stante la difficoltà che le autorità fiscali nazionali incontrano nell’accertare l’ammontare delle imposte dovute senza disporre di adeguate informazioni.
Nel corso del tempo, la suddetta esigenza di assicurare efficaci meccanismi di collaborazione e di assistenza è stata avvertita sia in ambito OCSE sia a livello convenzionale sia a livello europeo[7].
Per quanto concerne in particolare l’Unione Europea, il quadro normativo di riferimento è rappresentato da una serie di atti normativi che disciplinano lo scambio di informazioni tra le amministrazioni finanziarie degli Stati membri e l’attività di assistenza che ciascuno Stato Membro è tenuto a prestare al fine di agevolare il recupero dei crediti tributari vantati da altro Stato Membro.
Per quanto riguarda l’IVA, le dogane e le accise (ossia i tributi c.d. armonizzati), gli atti normativi di riferimento sono rappresentati, rispettivamente, dal Regolamento (UE) 7 ottobre 2010 n. 904 del Consiglio in materia di cooperazione amministrativa e lotta contro la frode IVA, dal Regolamento 515/1997/CE e dal Regolamento (UE) n. 389 del 2 maggio 2012.
Al di fuori delle suddette fattispecie impositive, la materia della cooperazione tra gli Stati Membri è disciplinata dalla Direttiva 2011/16/UE, relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, che abroga la precedente Direttiva 77/799/CE e si allinea agli standard informativi delineati dall’OCSE; tale Direttiva è stata attuata in Italia con il Dlgs. n. 29 del 2014.
In particolare, per quanto riguarda l’ambito oggettivo di operatività, tale Direttiva si applica “alle imposte di qualsiasi tipo riscosse da o per conto di uno Stato Membro o delle ripartizioni territoriali o amministrative di uno Stato Membro, comprese le autorità locali”, ad eccezione delle fattispecie espressamente menzionate dal secondo paragrafo dell’art. 2 della Direttiva stessa[8].
Per quanto concerne le modalità di scambio delle informazioni tra le amministrazioni finanziarie degli Stati Membri, la Direttiva riprende la tradizionale tripartizione tra: a) lo scambio su richiesta, che opera quando l’autorità di uno Stato Membro richiede all’autorità di un altro Stato Membro informazioni che siano “prevedibilmente pertinenti per l’amministrazione e l’applicazione della legge nazionale”; b) lo scambio automatico obbligatorio, previsto in relazione ad una serie di categorie reddituali e progressivamente esteso ai ruling preventivi transfrontalieri, agli accordi preventivi in materia di prezzi di trasferimento ed al country-by-country reporting e sul quale incide la proposta di Direttiva COM(2020) 341 final della Commissione europea (v. infra); c) lo scambio spontaneo tra le autorità delle informazioni che siano “prevedibilmente pertinenti per l’amministrazione e l’applicazione della legge nazionale” al ricorrere di talune situazioni.
3. La proposta di Direttiva COM(2020) 314 final della Commissione europea
Facendo seguito alle indicazioni del Consiglio del 29 maggio 2020, nel luglio 2020 la Commissione ha presentato la proposta di Direttiva COM(2020) 314 final volta ad apportare ulteriori emendamenti alla Direttiva 2011/16/UE con effetto a partire dal 1° gennaio 2023; tale proposta è stata in seguito modificata ed integrata ad opera del Consiglio Ecofin del 25 novembre 2020.
In particolare, la suddetta proposta mira, da un lato, a migliorare le disposizioni già esistenti in materia di cooperazione tra le amministrazioni nazionali e, dall’altro, ad estendere l’ambito di operatività dello scambio automatico a talune informazioni fornite dai gestori di piattaforme digitali, nel rispetto del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 5 TFUE e del principio di proporzionalità.
Sotto il primo profilo, essa contempla: l’introduzione di un nuovo art. 5 bis, volto a definire meglio il concetto di “prevedibile rilevanza” delle informazioni richieste dalle autorità; l’introduzione di un apposito paragrafo del predetto art. 5 bis, dedicato alle richieste collettive concernenti gruppi di contribuenti; l’integrazione degli art. 8 e 8 bis della Direttiva 2011/16/UE, mediante l’estensione dello scambio automatico di informazioni ai canoni e l’ampliamento del novero delle informazioni da trasmettere; infine, il rafforzamento della cooperazione amministrativa tra le autorità degli Stati Membri mediante la previsione di audit congiunti disciplinati dal nuovo art. 12 bis.
Sotto il secondo profilo, la proposta prevede che i “gestori di piattaforme con obbligo di comunicazione”[9] raccolgano una pluralità di informazioni concernenti i “venditori oggetto di comunicazione”, che sono definiti come “gli utenti registrati di una piattaforma che durante il periodo oggetto di comunicazione svolgono una delle “attività pertinenti”[10] e soddisfano talune condizioni”[11].
In particolare, i suddetti gestori, dopo aver raccolto le informazioni indicate dall’Allegato V, le devono verificare avvalendosi di tutte le informazioni e i documenti a loro disposizioni presenti nei loro registri, nonché in qualsiasi interfaccia elettronica messa a disposizione da uno Stato Membro o dall’Unione a titolo gratuito per accertare la validità del NIF o del numero di partita IVA.
I gestori delle piattaforme devono completare le procedure di due diligence previste dalla Sezione II del suddetto Allegato V entro il 31 dicembre del periodo di riferimento.
Da ultimo, i gestori devono comunicare le suddette informazioni non oltre il 31 gennaio dell’anno successivo all’anno solare in cui il venditore è stato identificato come “venditore oggetto di comunicazione”. Per alleviare gli oneri amministrativi gravanti sui gestori, la proposta stabilisce che tale comunicazione vada effettuata nel solo Stato Membro in cui il gestore soddisfa le condizioni di cui al paragrafo A (4) della Sezione I dell’Allegato V; se il gestore soddisfa tali condizioni in più Stati Membri, la comunicazione va effettuata nello Stato Membro scelto dal gestore stesso.
Una volta adempiuti gli obblighi di comunicazione posti a carico dei gestori delle piattaforme. si prevede l’operatività del meccanismo dello scambio automatico di informazioni tra gli Stati membri interessati. In particolare, le informazioni comunicate dal gestore di cui al paragrafo 2 dell’art. 8 bis quater devono essere trasmesse dalle autorità fiscali dello Stato Membro in cui è avvenuta la comunicazione agli Stati membri in cui il venditore oggetto di comunicazione si considera residente in base alla Sezione II dell’Allegato V e/o dello Stato Membro in cui è localizzato il bene immobile locato dal venditore. Tale trasmissione deve avvenire entro i due mesi successivi alla fine del periodo oggetto di comunicazione a cui si riferiscono gli obblighi di comunicazione del gestore.
Nel quadro così delineato dalla normativa UE spetterebbe ai singoli Stai membri stabilire le misure necessarie per imporre ai gestori delle piattaforme con obbligo di comunicazione di adempiere gli obblighi di due diligence in materia fiscale e gli obblighi di comunicazione, nonché la definizione delle norme in base alle quali i gestori possono scegliere di registrarsi presso le autorità competenti.
L’obiettivo delle descritte innovazioni è quello di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale consentendo alle amministrazioni nazionali di conseguire le informazioni necessarie per accertare correttamente i redditi prodotti nel territorio dello Stato Membro attraverso l’esercizio di talune attività che si avvalgono dell’intermediazione di piattaforme digitali; tali informazioni dovrebbero essere fornite alle autorità competenti prima che queste diano inizio alle attività di accertamento.
Al contempo, la proposta mira anche a semplificare gli oneri amministrativi gravanti sui gestori delle piattaforme, i quali, in assenza di uno standard comune di reporting obligation, sono chiamati a fornire informazioni alle singole autorità accertatrici e/o a conformarsi gli obblighi di comunicazione previsti da una moltitudine di legislazioni nazionali differenti.
Un profilo interessante attiene al rapporto tra la raccolta delle informazioni e la normativa in materia di protezione dei dati personali di fonte unionale. Tale rapporto ha formato oggetto della Opinion n. 6 del 28 ottobre 2020, con la quale il Garante Europeo per la Protezione dei Dati Personali ha formulato talune raccomandazioni volte a bilanciare l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi fiscali con l’interesse degli operatori alla privacy ed alla protezione dei dati personali[12].
4. Conclusioni
Come già rilevato, le novità attinenti agli obblighi informativi posti a carico dei gestori delle piattaforme digitali si inseriscono nell’ambito della politica in materia di imposizione della digital economy già da tempo intrapresa dall’Unione Europea, essendo le regole auspicate dalla Commissione europea destinate a completare - sul versante procedimentale - gli interventi già intrapresi dalla stessa Commissione - sul piano del diritto sostanziale - con la proposta di una digital service tax comune e della “presenza digitale significativa” quale forma di stabile organizzazione.
Sul punto, occorre peraltro rilevare che la necessità di realizzare un’imposizione fiscale più equa con l’introduzione di nuove regole impositive e quella di rafforzare gli strumenti di cooperazione tra le amministrazioni finanziarie sono state rese ancora più stringenti dalla recente emergenza epidemiologica. Quest’ultima, infatti, da un lato ha favorito il business delle piattaforme digitali rispetto a quello delle imprese “tradizionali” e, dall’altro, ha incrementato il bisogno degli Stati di reperire risorse finanziarie per contenere l’impatto economico negativo della pandemia di Covid-19[13].
Perciò, l’assunzione di iniziative legislative da parte della Commissione europea nell’attesa che si giunga ad una soluzione condivisa in ambito OCSE è certamente da guardare con favore.
Tuttavia, anche le proposte avanzate a livello unionale scontano difficoltà e lungaggini dovute alla regola dell’unanimità richiesta dagli artt. 113 e 115 TFUE nei processi decisionali attinenti ad alcuni settori della politica fiscale; di tali criticità hanno fortunatamente preso atto le Istituzioni europee, che da tempo auspicano il passaggio alla regola della maggioranza qualificata in diversi ambiti, tra i quali quello della imposizione sull’economia digitale e della cooperazione tra gli Stati[14].
[1] Per un’analisi sistematica dell’impatto della digital economy sulle regole impositive v. R. Succio, Digital economy, digital enterprise e imposizione tributarie: alcune considerazioni sistematiche, in Dir. Prat. Trib. n. 6 del 2020 pag. 2363.
[2] Anche altre organizzazioni internazionali sono intervenute sul tema della tassazione della digital economy (si veda, ad esempio, la proposta avanzata dall’ONU, consultabile al seguente link: https://news.bloombergtax.com/daily-tax-report-international/insight-united-nations-proposal-on-taxing-the-digital-economy).
[3] In ambito OCSE, le iniziative in materia di imposizione della digital economy si inseriscono nell’ambito del c.d. progetto BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”), la cui Action 1 è denominata “Tax Challenges arising from digitalisation”.
[4] V. il documento “Statement by the OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS on the Two-Pillar Approach to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy”, OCSE, gennaio 2020, consultabile al seguente indirizzo: https://www.oecd.org/tax/beps/statement-by-the-oecd-g20-inclusive-framework-on-beps-january-2020.pdf.
[5] V. la proposta di Direttiva n. n. 2018/0073 (COM (2018) 148 final).
[6] V. la proposta di Direttiva n. 2018/072 (COM(2018) 147 final).
[7] Per una ricostruzione dell’evoluzione registratasi in materia di cooperazione e scambio di informazioni v. G. Melis, Manuale di diritto tributario, 1° ed., Torino, Giappichelli, 2020, pp. 120 e ss.
[8] Ai sensi dell’art. 2, par. 2, della Dir. 2011/16/UE “(…) la direttiva non si applica all’imposta sul valore aggiunto e ai dazi doganali o alle accise contemplate da altre normative dell’Unione in materia di cooperazione amministrativa fra Stati membri. La presente direttiva non si applica inoltre ai contributi previdenziali obbligatori dovuti allo Stato Membro o a una ripartizione dello stesso o agli organismi di previdenza sociale di diritto pubblico”.
[9] Con il termine “piattaforma” si intende ogni software, inclusi i siti web e le applicazioni mobili, accessibile agli utenti e anche consenta ai venditori di connettersi agli altri utenti al fine di svolgere in modo diretto o indiretto una “attività pertinente” (v. infra) destinata a tali utenti, mentre l’espressione “gestore della piattaforma” indica l’entità che stipula un contratto con i venditori per mettere loro a disposizione l’intera piattaforma o parte di essa. Tali gestori sono gravati dagli obblighi di comunicazione previsti dalla Direttiva se hanno la residenza fiscale in uno Stato Membro o sono costituiti secondo le leggi di uno Stato Membro o hanno la propria sede di gestione o una stabile organizzazione in uno Stato Membro. L’ambito soggettivo di applicazione della Direttiva comprenderebbe, peraltro, anche i gestori di piattaforme che pur non soddisfando alcuna di queste condizioni facilitano lo svolgimento di determinate attività (c.d. attività pertinenti) da parte dei venditori oggetto di comunicazione che sono residenti ai fini della Direttiva in uno Stato Membro.
[10] La nozione di “attività pertinente” comprende le attività svolte a titolo oneroso e che consistono nella locazione di un bene immobile, in un servizio personale, nella vendita di beni e nel noleggio di qualsiasi mezzo di trasporto.
[11] Si considerano oggetto di comunicazione i venditori, diversi da quelli esclusi, che durante il periodo oggetto della comunicazione svolgono un’attività pertinente (o conseguono una remunerazione in considerazione dello svolgimento di un’attività pertinente) e sono residenti in uno Stato Membro o hanno in affitto un immobile situato in uno Stato Membro.
[12] L’Opinion del Garante Europeo per la Protezione dei Dati Personali è consultabile al seguente indirizzo: https://edps.europa.eu/sites/default/files/publication/20-10-29_opinion_proposal_amendment_council_directive_2011-16-eu_signed_en.pdf. Sul tema v. M. Manca, DAC 7; pronta una nuova proposta per rafforzare la cooperazione amministrativa tra le autorità fiscali UE, in Riv. Dir. Trib. supplemento online, del 22 febbraio 2021.
[13] Sull’impatto del Covid-19 sulla fiscalità della digital economy v. F. Roccatagliata, Crisi da COVID-19: con la tassazione dell’economia digitale la spinta giusta verso una vera “fiscalità europea”?, Fisco n. 38 del 2020, pag. 1-3607; anche F. Gallo, Quali interventi postpandemia attuare in materia fiscale e riparto di competenze fra Stato e Regioni?, in Rass. Trib. n. 3 del 2020, pag. 595, propende per una “robusta lotta all’evasione e all’economia sommersa fondata sull’uso dello strumento digitale con l’alleggerimento della pressione tributaria sulle famiglie, sui lavoratori e sulle imprese”, essendo questi ultimi i soggetti più pregiudicati dalla crisi di liquidità e dall’incertezza prodotta dalla pandemia.
[14] V. la Comunicazione consultabile al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_225.
Dante e il diritto
Giustizia Insieme, nel settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, ha chiesto al prof. Justin Steinberg, professore di Letteratura italiana alla University of Chicago, direttore della rivista "Dante Studies” ed esponente di spicco, a livello internazionale, della letteratura dantesca, di dedicarci alcuni suoi approfondimenti già editi sul tema “Dante e il diritto”.
Nel ringraziarLo di cuore, iniziamo a pubblicare il primo intervento dedicato a “Dante e l’eccezione”, la cui traduzione è stata gentilmente curata da Sara Menzinger.
1. Dante e l’eccezione
di Justin Steinberg*
L’opera e il pensiero di Dante poggiano su un’impalcatura di matrice legale.[1] La centralità del diritto si avverte soprattutto nella Commedia: Dante immagina l’aldilà come una struttura amministrativa fortemente regolata, dotata di una complessa rete di leggi locali, giurisdizioni gerarchiche, punizioni e ricompense ben calcolate. La costruzione normativa dell’oltremondo dantesco continua a suggestionare l’immaginario collettivo, tanto che se oggi si pensa alla dannazione non basta più alludere semplicemente all’Inferno, bisogna anche definire lo specifico girone.
A differenza del suo contemporaneo Cino da Pistoia, che fu poeta e giurista, Dante probabilmente non ebbe una vera e propria formazione nel campo del diritto civile e canonico. È raro che faccia riferimento a specifici testi legali – e in ogni caso questo accade soprattutto in opere dottrinali come il Convivio e la Monarchia -. È anche vero però che Dante, prima come funzionario pubblico e poi come condannato, fu immerso nella cultura giuridica del suo tempo, e la Commedia è permeata di rituali giuridici che regolavano la vita quotidiana: privilegi speciali, concessioni, immunità, amnistie e assoluzioni, giuramenti e patti. Più che le citazioni dei testi legali, sono queste forme del diritto a esprimere la posizione del poeta nei confronti della legge e della giustizia.[2]
Nella concezione dantesca della giustizia divina i casi limite svolgono un ruolo centrale. Può sembrare paradossale, ma se Dante crea un’elaborata geografia normativa è proprio perché vuole esplorarne le eccezioni. Le regole del gioco vengono velocemente assimilate dai lettori, per essere poi altrettanto velocemente infrante: i pagani sono salvati, i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite. Lo stesso racconto del viaggio può essere considerato un’eccezione, il privilegio personale accordato a Dante di attraversare l’altro mondo, rimanendo tuttavia immune dalle leggi che egli stesso ha ideato.
Così come oggi analizziamo le opere d’arte del passato tenendo in considerazione l’immaginario estetico del tempo, allo stesso modo dovremmo storicizzare anche i riflessi condizionati che l’opera di Dante provocava nei lettori della sua epoca, soprattutto in materia di norme ed eccezioni. Prima che l’autorità legislativa venisse concentrata nel moderno Stato centralizzato, la possibilità di sospendere una certa norma, o meglio di derogarvi, era considerata organica al sistema giuridico. Anche quando i rescritti imperiali o le dispense papali erano contra ius – violavano cioè il diritto positivo – si presupponeva che rispettassero comunque un sistema superiore di norme, cioè i principi fondanti, “costituzionali”, dello ius commune e i precetti del diritto naturale. Queste eccezioni regolate servivano a bilanciare le necessità della giustizia con l’autorità della legge, rendendo adattabile il sistema giuridico e assicurandogli una portata universale. In questa prospettiva, l’eccezione garantiva al diritto una continuità applicativa, sottraendolo al rischio di sclerotizzarsi in lettera morta davanti a casi non previsti.[3]
La principale differenza tra il moderno concetto di eccezione e quello medievale è che il primo ha carattere politico, mentre il secondo giurisprudenziale. Se lo Stato sovrano è minacciato, le istituzioni possono oggi invocare l’eccezione e sospendere l’ordine legale. Nel sistema giuridico medievale, che era governato da un corpo di giuristi professionisti, l’eccezione esprimeva invece la persistenza dell’ordine legale. Per questi giuristi – che si consideravano “oracoli” della legge e il cui status e sostentamento dipendevano dalla legittimità dell’ordine giuridico – sarebbe stato inconcepibile sospendere quell’ordine per andare incontro a una necessità politica. Non si trattava di uno “stato di eccezione”,[4] ma di un sistema di singole eccezioni che permettevano di conciliare la validità del corpus normativo con le contingenze del quotidiano.
In linea con la prospettiva giuridica medievale, Dante inserisce volutamente alcuni elementi incongrui all’interno del suo sistema di premi e punizioni, proprio per mettere in rilievo quei “sistemi di eccezione”.[5] Secoli di commenti hanno però finito per indebolire la vitalità di simili sfide interpretative. Quando gli studiosi si imbattono in anomalie che cozzano con le leggi dell’opera letteraria dantesca – per esempio l’assoluzione di un pagano suicida come Catone – tendono a cercare giustificazioni dottrinarie che salvaguardino e riconfermino la coerenza del testo. Appellandosi a un documento storico, a un precedente letterario o a un principio teologico, spiegano – o meglio neutralizzano – ogni apparente contraddizione. L’anomalia viene così riassorbita all’interno di leggi razionali e onnicomprensive. Questo atteggiamento di chiusura nei confronti delle eccezioni deriva in ultima analisi da una concezione post-illuministica del diritto. Secondo questa prospettiva, il diritto è sinonimo di legislazione, e così è ritenuto illecito qualsiasi fenomeno che contrasti con un determinato codice di leggi. Inconsciamente guidata da un simile approccio legalistico, la moderna critica letteraria si affanna a rintracciare dei precedenti per i casi problematici, cercando di renderli familiari e di addomesticarli.
Di fronte a un nodo interpretativo, i moderni commenti della Commedia offrono così due sole possibilità a chi legge: ricondurre l’apparente anomalia alle regole dell’aldilà, oppure chiamare in causa l’onnipotenza divina. Riducendo l’interpretazione a una scelta tra procedura ordinaria o stato di eccezione, questo approccio critico riduce al minimo la libertà di giudizio del lettore. Eppure Dante è un profondo sostenitore dell’importanza del giudizio, sia nella sfera del diritto che in quella dell’arte. Per lui il potere divino non è del tutto svincolato dalle leggi dell’ordine costituito: l’eccezione può essere ancorata a un sistema di regole e il diritto può tollerare l’eccezione. Confidando nella capacità di valutazione soggettiva, il poema incoraggia i lettori a riflettere su queste singole eccezioni che, anziché essere delegate a un’amorfa decisione sovrana, vengono affidate a un’esplorazione collettiva condivisa.
Prendiamo come esempio il caso dei diavoli che sbarrano le porte di Dite e che impediscono a Dante e Virgilio di accedere alla città infernale. I commenti moderni ci informano che si tratta di un contrattempo momentaneo (utile tra l’altro per mostrare un cedimento della fede nel personaggio di Dante) e ci dicono subito che l’impasse avrà una soluzione – e su quella noi ci concentriamo. Ma se Dante si dilunga per ben due canti (Inf. VIII-IX) sullo sbarramento delle porte di Dite, lo fa per attirare la nostra attenzione sulla serietà del problema. Abituati alle ambiguità derivanti da giurisdizioni multiple e in concorrenza tra loro, i lettori medievali avrebbero senz’altro riconosciuto la drammaticità di una scena in cui veniva messa in discussione l’autorità di un salvacondotto per un viaggio extraterritoriale. Tensioni di questo genere, trattate in forma narrativa, possono ancora contribuire alla vitalità estetica dell’opera, ma solo se distogliamo lo sguardo dalle note e rivendichiamo la nostra libertà di giudizio.
Ci sono molti modi di intendere i confini del diritto. Innanzitutto, il diritto impone dei limiti alle azioni umane e punisce chi non li rispetta: così è per il «folle volo» di Ulisse (Inf. XXVI, 108) e per il «trapassar del segno» di Adamo ed Eva (Par. XXVI, 117). Ma cosa accade se a violare i limiti sono proprio quelle autorità pubbliche che dovrebbero farli rispettare? Nel descrivere la mercificazione dei sacramenti da parte di Bonifacio VIII e il mancato rispetto del diritto naturale da parte di Filippo il Bello di Francia, Dante mostra la vulnerabilità che affligge un sistema di vincoli quando le cariche deputate a farli rispettare non vengono più trattate, dai rispettivi detentori, come sacrosante.
Ma anche queste manifestazioni di illegittimità tirannica rappresentavano per Dante il sintomo di un problema, e non la sua causa. Dante collocava altrove la minaccia principale all’ordine legale: nella disintegrazione del tessuto culturale che aveva a lungo sostenuto il diritto. I conflitti giurisdizionali tra Chiesa e Impero e le guerre che flagellavano la penisola italiana avevano gravemente compromesso la fiducia dei cittadini. L’opinione pubblica era stata contaminata dalla politica di fazione, gli ufficiali corrotti avevano eroso la fiducia collettiva, i privilegi del clero e della nobiltà erano stati mercificati, e tradizionali modelli di comportamento economico avevano smesso di essere rispettati: il corso ordinario del diritto positivo aveva così finito per diventare solo un’altra forma di violenza legittimata.
Separato da un’etica politico-culturale condivisa, il diritto rivelava tutti i suoi limiti. Quando, nel VI canto del Purgatorio, Dante paragona Firenze a una donna malata disposta a cambiare «legge, moneta, officio e costume» (Purg. VI, 146) ogni volta che si rigira nel letto, non punta il dito contro la sospensione arbitraria della legge, ma contro l’arbitrarietà delle leggi stesse.[6]
Con la Commedia Dante cerca di restaurare quei valori comuni, quei racconti esemplari e quei modelli educativi situati ai confini del diritto. Il poema si prefigge di occupare gli interstizi tra diritto e vita, di fornire le precondizioni morali ed estetiche necessarie al diritto per prosperare. Questa «poetica dell’emergenza» costituisce il tessuto culturale dispiegato al di sotto, al di là, al di sopra e a lato del diritto. Vuole incoraggiare un sentimento di attaccamento alla legge, che resiste anche dove la legge non viene concretamente applicata. In un’ottica simile, liquidare – come fanno i critici moderni – la fedeltà di Dante al Sacro Romano Impero come nostalgica e avulsa dalla realtà storica non fa altro che rivelare i nostri limiti. Per Dante, infatti, la conformità al diritto non dipendeva tanto da un’effettiva coercizione, quanto dalla fedeltà verso l’ideale di un imperatore universale che «in tutte parti impera» (Inf. I, 127).
La nostra comprensione dell’intreccio tra finzione letteraria e giuridica deve ancora molto ai brillanti studi di Ernst Kantorowicz su questo tema. In particolare, la ripresa di interesse per la teologia politica ha spinto alcuni studiosi a un fruttuoso riesame del suo fondamentale lavoro I due corpi del Re.[7] I nuovi studi si sono principalmente concentrati sull’analisi condotta da Kantorowicz su Shakespeare,[8] ma era in realtà con un capitolo su Dante che l’autore concludeva la sua dimostrazione dell’importanza delle fonti teologiche e giuridiche medievali per le idee astratte di Stato. Per Kantorowicz, l’importanza di Dante come teorico della teologia politica eguaglia quella di Shakespeare; a suo parere, la concezione dantesca della «regalità antropocentrica» anticipa l’attrazione esercitata dalla «dignità di Uomo» sugli intellettuali del Rinascimento, come si avverte in particolare nel XXVII canto del Purgatorio, quando il poeta è incoronato da Virgilio signore di sé stesso, acquisendo così uno «status sovrano».[9]
È eloquente il fatto che gli studiosi contemporanei si siano concentrati più sulla lettura di Shakespeare da parte di Kantorowicz, che su quella di Dante. Benché Kantorowicz cerchi di trasformare quest’ultimo in un precursore dell’età moderna, sovvertendo la cronologia letteraria, Dante ostinatamente resiste a tale caratterizzazione. Come i medievisti sostengono da tempo,[10] la principale debolezza della tesi di Kantorowicz sulle origini teologiche dello Stato moderno sta nel suo concentrarsi in modo anacronistico sulla sovranità, incluso il ricorso alla modernità shakespeariana per interpretare Dante e il diritto medievale. Che si appuntino sull’opzione assolutista o costituzionalista della teologia politica di Kantorowicz, i critici letterari tendono di fatto a riprodurre questa prospettiva genealogica tendenziosa.[11]
A prescindere della questione delle origini, le rappresentazioni della giustizia in Dante vanno esaminate per cercare di capire il ruolo svolto dalle personificazioni del potere prima della nascita dello Stato moderno. Insistendo sulla validità dello ius commune in assenza di un imperatore o di un sovrano nazionale, Dante e i giuristi crearono finzioni che da molti punti di vista rappresentavano l’unico corpo del re. Mentre Kantorowicz vede in quelle finzioni giuridiche un modo per legittimare la figura regia della prima età moderna, all’epoca di Dante era la finzione del sovrano in quanto lex animata a legittimare la creatività del diritto. Non sorprende, dunque, che Dante immagini il poeta non come un sovrano al di sopra della legge,[12] ma come un giudice militante che ingegnosamente si sforza di adattare il diritto per mantenerlo in vita.
Come Kantorowicz, anche Carl Schmitt, interpreta l’influenza della teologia sulla politica moderna come un processo di secolarizzazione, in cui sia il pensiero che la pratica religiosi vengono trasformati nel fondamento metafisico del governo. Per esempio, quando Schmitt vede nel miracolo divino un modello per il diritto del sovrano di sospendere la legge, si sposta dalla prima età moderna all’Illuminismo, dal teismo al deismo, dalla monarchia alla democrazia liberale, dal decisionismo al proceduralismo, dalla religione alla politica.[13] Questa prospettiva genealogica presume che le convinzioni teologiche rimangano stabili e lineari tra il medioevo e la prima età moderna.
In realtà, più che agire da modello per la politica, è la stessa metafora del miracolo a essere sempre stata politicizzata. Come vedremo meglio in un prossimo intervento per questa stessa rivista, la visione monarchica del miracolo, per cui Dio interviene sulle leggi da lui stesso create, rappresenta uno sviluppo tardo del pensiero medievale. Nata dal volontarismo teologico, la prospettiva “assolutista” del miracolo si scontrava con una più comune interpretazione “costituzionalista”, condivisa da teologi come Tommaso d’Aquino. Secondo questa visione, benché fosse indubbiamente un evento straordinario, il miracolo restava imbrigliato dai principi di un universo ordinato dalla natura e dalla grazia. Le diverse letture dell’intervento divino avevano implicazioni concrete per la legittimazione della plentitudo potestatis pontificia, soprattutto nel caso in cui il papa concedeva “miracolosamente” privilegi contra ius. Assumendo una prospettiva del genere, non basta evocare l’onnipotenza divina per spiegare la discesa miracolosa dell’angelo che viene in aiuto di Dante e Virgilio alle porte della città di Dite. Dobbiamo capire precisamente quale tipo di potere divino si concretizza nell’intervento angelico; solo così saremo in grado di svelare le implicazioni di ciò che Dante vedeva come il rapporto tra un governante (divino o secolare) e le sue leggi.[14]
Nella Commedia, politica e teologia si trovano così in un rapporto di interdipendenza dinamica. Prima di cominciare a esplorare il legame tra Dante e il diritto, desidero però fare una precisazione: non intendo “umanizzare” l’aldilà dantesco, rappresentandolo come fallace o eterodosso. È necessario tenere a mente che esiste sempre una differenza tra la giustizia divina e quella umana. Allo stesso tempo, come spiega Beatrice nel IV canto del Paradiso, le cose divine non possono essere comunicate all’intelletto umano se non per analogia. Dante non può che ispirarsi alla giustizia terrena per modellare il suo aldilà, né può svincolare la sua creazione dalle ambiguità giuridiche presenti nelle strutture che prende a prestito. La natura dialettica del poema e la sua funzione di quaestio letteraria derivano proprio da questa negoziazione tra punti di vista differenti. È naturale, d’altronde, che un viaggio attraverso il territorio giuridico generi una serie di quesiti sui fondamenti del diritto e sull’autorità politica. In altre parole, la suprema ortodossia teologica del poema non esclude la presenza di una serie di ambiguità giuridiche nel testo narrativo. La mia tesi poggia pertanto sulla convinzione che la giustizia riservata alle anime debba essere intesa in senso dialettico, o persino critico, e che comunichi con manifestazioni concrete della giustizia terrena. Vorrei essere chiaro soprattutto su un punto: non è corretto liquidare semplicemente come spietato l’atteggiamento nei confronti dei dannati, magari ascrivendolo ai caratteri della giustizia medievale o dantesca, come fanno alcuni critici moderni. Una concezione del genere potrebbe essere adeguata per il realismo sardonico dei diavoli, ma non certo per la giustizia tesa e inquisitrice della Commedia nel suo complesso. In fin dei conti è ampiamente condivisa l’idea che la topografia e la struttura amministrativa dell’Inferno restituiscano una visione perversa e surreale di una città italiana corrotta. Perché mai questa città infernale non dovrebbe essere governata da un ordine giuridico altrettanto infernale? È la «rigida giustizia» (Inf. XXX, 70), ovvero l’interpretazione inflessibile della legge e l’incapacità di concepire l’eccezione, che rendono terribile e paurosa la giustizia infernale. Sfidando il lettore a confrontarsi con una serie di casi spinosi, Dante ci invita ad affiancarlo nel ruolo di giudice – e nessuno può sottrarsi alla responsabilità di giudicare.
*Professore di Letteratura italiana presso il Department of Romance Languages and Literatures della University of Chicago e Editor-in-chief della rivista Dante Studies.
[1] Per il testo della Divina Commedia: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Le Lettere, 1994. Per le citazioni del Digesto: Digesta Iustiniani Augusti, a cura di Th. Mommsen, rev. di P. Krüger, Berolini, apud Weidmannos, 1870.
[2] Non esiste uno studio complessivo sul rapporto tra Dante e il diritto. Su Dante e la giustizia si vedano tuttavia, tra i contributi di maggiore interesse, A.K. Cassell, Dante’s Fearful Art of Justice, Toronto-Buffalo, University of Toronto Press, 1984; A.H. Gilbert, Dante’s Conception of Justice, Durham (NC), Duke University Press, 1925; G. Mazzotta, Metaphor and Justice, in Dante’s Vision and the Circle of Knowledge, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1993, pp. 75-95. Per gli interventi di Dante nei conflitti giuridici tra Chiesa e Impero, cfr. Ch. Till Davis, Dante and the Idea of Rome, Oxford, Clarendon Press, 1957; M. Maccarrone, Teologia e diritto canonico nella Monarchia III, 3, in «Rivista di storia della Chiesa», 5 (1951), pp. 7-42, e l’introduzione di B. Nardi a Dante Alighieri, Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, vol. 2, pp. 241-269. Sul rapporto tra Dante e il diritto sembra tuttavia registrarsi un’inversione di tendenza; si vedano, per es., i seguenti contributi recenti: C. Di Fonzo, Dante tra diritto, letteratura e politica, in «Forum Italicum», 41, 1 (2007), pp. 5-22; S. Ferrara, Tra pena giuridica e diritto morale: l’esilio di Dante nelle Epistole, in «L’Alighieri», 40 (2012), pp. 45-65; S. Grossvogel, Justinian’s Jus and Justificatio in Paradiso 6.10-27, in «Modern Language Notes», 127 (2012), supplemento, pp. 130-137; L.M. Valterza, Infernal Retainers: Dante and the Juridical Tradition, PhD Dissertation, Rutgers University, 2011.
[3] Sul pluralismo dell’ordine giuridico medievale, cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1991.
[4] Sullo stato d’eccezione, cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; Id., Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1972.
[5] Per il diritto medievale come sistema di eccezioni, cfr. i saggi raccolti da M. Vallerani, Sistemi di eccezione, in «Quaderni storici», 131 (2009), con particolare riferimento ai saggi di M. Meccarelli, Paradigma dell’eccezione nella parabola della modernità penale: una prospettiva storico-giuridica, pp. 493-521; S. Menzinger, Pareri eccezionali: procedure decisionali ordinarie e straordinarie nella politica comunale del XIII secolo, pp. 399-410; G. Milani, Legge ed eccezione nei comuni di Popolo del XIII secolo (Bologna, Perugia, Pisa), pp. 377-398; M. Vallerani, Premessa, pp. 299-312. Cfr. anche M. Vallerani, Paradigmi dell’eccezione nel tardo medioevo, in «Storia del pensiero politico», 2 (2012), pp. 3-30. Parzialmente in contraddizione con la sua descrizione del bando medievale in Homo sacer, Agamben dichiara, in Stato di eccezione (p. 37), che «l’idea che una sospensione del diritto possa essere necessaria al bene comune è estranea al mondo medievale».
[6] La condanna di Dante si configura, dopo tutto, perfettamente legale da un punto di vista procedurale.
[7] E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989.
[8] Cfr., recentemente, S. Greenblatt, Shakespeare’s Freedom, Chicago, University of Chicago Press, 2010; L. Hutson, The Invention of Suspicion: Law and Mimesis in Shakespeare and Renaissance Drama, Oxford, Oxford University Press, 2007; Ead., Imagining Justice: Kantorowicz and Shakespeare, in «Representations», 106 (2009), pp. 118-142; V. Kahn, Political Theology and Fiction in The King’s Two Bodies, in «Representations», 106 (2009), pp. 77-101; J.R. Lupton, Citizen-Saints: Shakespeare and Political Theology, Chicago, University of Chicago Press, 2005; E.L. Santner, The Royal Remains: The People’s Two Bodies and the Endgames of Sovereignty, Chicago, University of Chicago Press, 2011.
[9] Cfr., in particolare, Kantorowicz, I due corpi del Re, pp. 423-424.
[10] Cfr. la disamina delle diverse prospettive critiche recensite da B. Jussen, The King’s Two Bodies Today, in «Representations», 106 (2009), pp. 102-117.
[11] Per il secondo orientamento, cfr. in particolare Kahn, Political Theology and Fiction, e J. Rust, Political Theologies of the Corpus Mysticum: Schmitt, Kantorowicz, and de Lubac, in Political Theology and Early Modernity, a cura di G. Hammill e J.R. Lupton, Chicago, University of Chicago Press, 2012, pp. 102-123.
[12] E.H. Kantorowicz, La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 17-38.
[13] Cfr., in particolare, Schmitt, Le categorie del politico, p. 61: «Infatti l’idea del moderno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento diretto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente. Il razionalismo dell’illuminismo ripudiò il caso di eccezione in ogni sua forma».
[14] Per un esempio moderno di politicizzazione del miracolo, cfr. B. Honig, Emergency Politics: Paradox, Law, Democracy, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2009, pp. 87-111.
Giudizio cautelare e principio di sinteticità degli atti processuali (nota a CGARS ord.36/2021 e decr. 31/2021)
di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. Due decisioni cautelari sul principio di sinteticità- 2. Introduzione al principio di sinteticità degli atti del processo amministrativo- 3. L’ordinanza 15 gennaio 2021, n. 36 di C.G.A.R.S.: l’inutilizzabilità delle note di udienza prolisse- 4. L’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali nel decreto presidenziale n. 31/2021 del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
1. Due decisioni cautelari sul principio di sinteticità.
Due recenti decisioni cautelari del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana stimolano la riflessione intorno ad estensione e portata del principio di sinteticità degli atti del processo amministrativo, oggetto di attenzione normativa ed ermeneutica crescente a partire dalla sua considerazione nel Codice del processo amministrativo.
L’ordinanza cautelare n. 36 del 2021 del giudice siciliano mette infatti in risalto, quantomeno a prima vista, il tema dell’estensione dell’ambito di applicazione del principio, che arriva a coinvolgere le cd. note di udienza, depositate dalla parte avvalendosi della facoltà concessa dall’articolo 4 del decreto legge n. 28 del 2020. La stessa, al contempo, sembra però parlarci anche della portata del principio di sinteticità, laddove approfondisce il tema delle conseguenze giuridiche della violazione del canone, affermando l’inammissibilità e conseguente inutilizzabilità delle note eccezionalmente prolisse.
Sotto altro ma connesso profilo, il decreto presidenziale n. 31 del 2021 stimola l’attenzione intorno agli strumenti predisposti dall’ordinamento a garanzia dell’effettività del principio di sinteticità, specie laddove respinge l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali avanzata dalla parte appellata in relazione ad una memoria di costituzione e risposta depositata per la fase cautelare del giudizio, in quanto atto inidoneo ad ospitare la riproposizione di motivi non esaminati dall’ordinanza cautelare appellata che ha accolto la domanda di sospensione in primo grado.
2. Introduzione al principio di sinteticità degli atti del processo amministrativo
Il canone di sinteticità degli atti caratterizza il processo amministrativo a partire dal decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (“Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici”). Il testo, nel definire un regime speciale per le controversie in tema di appalti pubblici, prevedeva infatti (articolo 2-undecies) che “tutti gli atti di parte devono essere sintetici e la sentenza che decide il ricorso è redatta ordinariamente in forma semplificata”.
Da regola peculiare del contenzioso sull’evidenza pubblica, la vocazione alla sintesi, nel breve volgere di qualche mese, è assurta tuttavia al “rango di vero e proprio principio generale del processo amministrativo”[1]. Esplicita, in questo senso, la previsione del secondo comma dell’articolo 3 del Codice del processo amministrativo[2], a tenore della quale: “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Rispetto alla disposizione del diritto processuale delle commesse pubbliche, la norma di generalizzazione peraltro evidenziava un salto di qualità, accompagnando al canone della sinteticità quello della chiarezza degli atti, nell’ambito di un processo di emersione di un complessivo modo di essere dell’intera produzione documentale processuale, che oggi vede i due principi sovente quanto atecnicamente intesi quasi in termini di endiadi.
La vocazione alla sintesi degli atti di causa, nel nostro ordinamento processuale amministrativo, è rimasta nondimeno affermazione generale, di evidente rilevanza simbolica ed ermeneutica, ma sprovvista di strumenti sanzionatori all’uopo dedicati fino al 2012, allorché il secondo correttivo al Codice del processo amministrativo (d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160), non ha modificato l’art. 26 del testo, inserendo (al comma 1) un ultimo periodo inteso a stabilire che la decisione sulle spese di giudizio debba tener conto anche della accertata violazione dei principi di chiarezza e sinteticità di cui dall’art. 3, comma 2, dello stesso Codice. In questi termini, la previsione, recepiva l’orientamento che la giurisprudenza era venuta maturando successivamente all’entrata in vigore del Codice e proiettato verso la necessaria non sottovalutazione dei precetti di chiarezza e sinteticità degli atti processuali ai fini della costruzione di un efficace ed efficiente sistema di giustizia[3].
Restava sul tavolo, in ogni caso, il problema della definizione dei parametri dimensionali degli atti processuali rispettosi del canone della sintesi, compito che il legislatore, con due successivi interventi normativi[4], ha affidato ad uno specifico decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Attualmente in vigore è pertanto il Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 22 dicembre 2016[5], il quale definisce i criteri di redazione degli atti processuali di parte e i relativi limiti dimensionali, restituendo al canone di sinteticità strumenti di misurazione che pure corrono sul filo della possibile confusione dell’istanza della sintesi con la diversa regola della brevità[6].
Il decreto, peraltro, completa il sistema disciplinando l’istituto dell’autorizzazione del Presidente dell’organo giurisdizionale adito (Consiglio di Stato o Tribunale amministrativo regionale) al superamento dei limiti dimensionali fissati nel decreto, da richiedersi con apposita istanza.
Il quadro normativo che si è venuto strutturando nello scorso decennio ha restituito dunque al principio di sinteticità una duplice dimensione: di affermazione generale e di effettività. Come principio generale del processo amministrativo, la sinteticità è dalla giurisprudenza connessa strumentalmente all’istanza della ragionevole durata del processo, a sua volta corollario del canone costituzionale del giusto processo[7]. Sul piano dell’effettività, la garanzia del principio passa invece per l’enunciazione delle regole dimensionali definite dal richiamato decreto del Consiglio di Stato e, in chiave sanzionatoria, per l’operatività della previsione dell’articolo 26 del Codice del processo amministrativo, che rende la violazione dei canoni di sinteticità e chiarezza degli atti di causa parametro ulteriore cui possa attingere il giudice ai fini della determinazione sulle spese di giudizio[8].
Ma vi è di più, perché ulteriore presidio dell’effettività del principio di sinteticità è sicuramente rintracciabile nella previsione contenuta nel comma 5 dell’art. 13-ter dell’allegato 2 del c.p.a, laddove delimita lo spazio della cognizione per così dire “obbligatoria” del giudice amministrativo a “tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti” nei limiti dimensionali definiti nel decreto del Presidente del Consiglio di Stato e, al contempo, chiarisce che “l'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”. Una traccia che la giurisprudenza sviluppa comunemente nel senso del ritenere il superamento dei limiti dimensionali del ricorso circostanza che determini “il degradare della parte eccedentaria a contenuto che il giudice ha la mera facoltà di esaminare”[9].
Fin qui i dati espressi dalla normazione, rispetto ai quali tuttavia alcuni settori della giurisprudenza da tempo sembrano evidenziare altresì indirizzi tesi a ricavare dal principio di sinteticità conseguenze giuridiche non codificate ma più stringenti. Sono percorsi ermeneutici che alcuni giudici coltivano sin dalla prima applicazione del Codice del processo amministrativo e nell’ambito dei quali, pur con accenti e sfumature diversi[10], sembra fare eco l’ipotesi di una declaratoria di inammissibilità dei ricorsi prolissi, ovvero eccedenti i riferiti limiti dimensionali.
Si tratta, a dire il vero, di indirizzi nei quali il valore della sinteticità non sembra mai isolatamente considerato nella sua portata escludente la cognizione del giudice amministrativo. Lo stesso è piuttosto evocato in combinazione con il canone della chiarezza, richiamato nel medesimo contesto normativo di cui all’articolo 3, comma 2, c.p.a., esponendo ad esempio l’appellante alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già come conseguenza dell’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata[11].
Su di un piano generale, a rendere dunque inammissibile il ricorso non è il difetto di sinteticità che lo stesso reca, quanto piuttosto il difetto di intellegibilità che possa caratterizzarlo, eventualmente come mera scaturigine della mancanza di sintesi. In quest’ottica, il vulnus nei confronti del canone della sinteticità, in termini di travalicamento dei confini dimensionali normativamente imposti all’atto, può rappresentare tuttalpiù una spia della sua capacità di determinare una condizione di incertezza della domanda, lungi pertanto dal configurare l’onere di sintesi “un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto processuale”[12], tale da assurgere ad autonoma rilevanza nella prospettiva della declaratoria di inammissibilità del ricorso.
3. L’ordinanza 15 gennaio 2021, n. 36 di C.G.A.R.S.: l’inutilizzabilità delle note di udienza prolisse
In questo quadro si colloca, con elementi di singolarità, la decisione maturata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia che, con l’ordinanza 15 gennaio 2021, n. 36, come anticipato in apertura, ha dichiarato l’inammissibilità e conseguente inutilizzabilità delle cd. note di udienza, depositate dalla parte avvalendosi della facoltà concessa dall’articolo 4 del decreto legge n. 28 del 2020, quando le stesse non rispettino il principio di sinteticità espressamente enunciato al comma 2 dell’articolo 3 del c.p.a. laddove sottolinea che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”.
Il decreto legge 30 aprile 2020 n. 28, come è noto, ha dettato tra l’altro una serie di norme in materia di organizzazione ed erogazione del servizio di giustizia amministrativa nell’attuale contesto pandemico-emergenziale e l’articolo 4 dello stesso, nel testo modificato dalla legge di conversione (n. 70 del 2020), riconosce la facoltà delle parti di chiedere la discussione orale in modalità di videoconferenza, ovvero, in alternativa, l’opportunità di depositare note di udienza fino alle ore 12 del giorno antecedente ovvero richiesta di passaggio in decisione, precisando che il difensore che deposita tale richiesta è “considerato presente a ogni effetto in udienza”.
Le note di udienza intervengono dunque a ridosso dell’udienza e, insieme all’atto introduttivo del giudizio e alle memorie, completano il ventaglio dei documenti concessi alla parte per l’esercizio giudiziale del diritto di difesa. Di esse si occupano, in particolare, Linee guida del Presidente del Consiglio di Stato sull’applicazione dell’art. 4 D.L. 28/2020 e sulla discussione da remoto (del 25 maggio 2020), che le descrive come “un’ulteriore chance di trattazione cartolare, anche al fine di disincentivare radicali opposizioni alla discussione orale destinate a “scaricarsi” sulla economicità e celerità del processo”. Il documento ospita peraltro alcune indicazioni minime contenutistico-dimensionali, stabilendo “che le note: a) debbano essere “brevi”, ponendosi quale facoltà succedanea all’esposizione orale; b) debbono auspicabilmente essere depositate con anticipo rispetto al giorno dell’udienza, in modo da consentire alle controparti una replica informata; c) a mezzo di esse possano essere svolte tutte le considerazioni generalmente ammesse in udienza (ad esempio, dedurre un profilo in rito non soggetto a termini perché rilevabile d’ufficio)”.
Il tratto della brevità sembra dunque precipuamente caratterizzare l’istituto. Pur nel difetto di un’espressa presa di posizione del legislatore in ordine a contenuto e dimensioni delle note, è stato autorevolmente e opportunamente osservato che, ponendo l’attenzione “sulla collocazione delle note, è evidente che alle medesime va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi ma, invece, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza”[13]. La tesi, in particolare, fa perno sul carattere “articolato”[14] del contraddittorio scritto per come disciplinato dal Codice del processo amministrativo e che si sostanzia nella dialettica tra memorie e repliche, con le ultime che “debbono contenere soltanto la risposta alle argomentazioni sviluppate da controparte nella memoria e non possono introdurre elementi nuovi”[15]. Si tratta di uno schema nel quale, dunque, le note di udienza possono accogliere una “estrema sintesi degli argomenti già dibattuti oppure una contestazione di quanto controparte abbia illustrato in modo non corretto nella replica”[16].
Se questo è lo spazio vitale che l’interpretazione sistematica delle norme del processo amministrativo sembra riservare alle note di udienza, non sorprende allora la soluzione adottata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia con l’ordinanza in commento, laddove rileva l’inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità delle c.d. “note di udienza” di parte appellante, depositate, avvalendosi della facoltà concessa alla parte dall’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 “perché estese 42 pagine” e sull’assunto che le stesse non possano “assolvere alla funzione sostanziale della memoriacon una elusione del termine di deposito di quest’ultima, pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all’approfondimento collegiale della causa”.
Né sorprende che il giudice ritenga che le note, per quanto non utilizzabili in punto di contenuti, assumano rilevanza “come istanza di passaggio della causa in decisione al fine della fictio iuris della presenza del difensore in udienza”. Il modello che la normativa emergenziale descrive passa, infatti, per il riconoscimento di tre opzioni che danno accesso alla fase decisoria del giudizio: la discussione in videoconferenza; il deposito delle note di udienza; oppure, in alternativa a quest’ultima modalità, la presentazione di una richiesta di passaggio in decisione. Come spiegano le già richiamate Linee guida del Presidente del Consiglio di Stato sull’applicazione dell’art. 4 del d.l. 28/2020, la norma che contempla la richiesta di passaggio in decisione “rispecchia, com’è ragionevole che sia, la dinamica delle ordinarie udienze “in presenza”, in cui le parti si accordano, in via preliminare, per non discutere la causa non ravvisando profili che rendano utile o opportuna l’ulteriore trattazione orale, rispetto a quanto già dedotto e argomentato negli scritti. Trattasi di una facoltà (quello di richiedere senz’altro il passaggio in decisione) che dunque permane anche nel nuovo regime della fase emergenziale, ma che a differenza del regime ordinario può essere manifestata anche per iscritto”. In questo quadro, la considerazione delle note prolisse in termini di istanza di passaggio in decisione serve ad attribuire alle stesse una valenza funzionale minima, coerente con l’impianto descritto, che consente il passaggio della causa in decisione e, allo stesso tempo, la garantistica considerazione del difensore come “presente a ogni effetto in udienza” (articolo 4, decreto legge n. 28/2020).
Se dunque il dispositivo dell’ordinanza non sembra destare perplessità, qualche dubbio è lecito semmai insinuare proprio laddove il giudice connette la declaratoria di inammissibilità delle note di udienza all’asserita violazione del principio di sinteticità degli atti processuali. Quel principio, per quanto chiarito nel paragrafo precedente, ha ormai guadagnato una connotazione strutturata, che lo qualifica in termini di affermazione generale ma anche in punto di effettività. La dimensione di effettività, in particolare, come visto, passa per l’operatività dei limiti dimensionali di cui al riferito Decreto del Presidente del Consiglio di Stato e approda alle già evidenziate conseguenze giuridiche codificate: considerazione della violazione del canone della sintesi ai fini della decisione sulle spese di giudizio; facoltà per il giudice di omettere di pronunciarsi sulla parte del ricorso eccedente i citati limiti di dimensione.
Lo spazio per una rilevanza autonoma della violazione della regola della sintesi ai fini della dichiarazione di inammissibilità di specifici atti processuali, allo stato della legislazione, non sembra esserci e, peraltro, con specifico riguardo alla vicenda processuale evocata dall’ordinanza che ci occupa, anche volendo forzatamente spingersi oltre i riferiti dati normativi, non residuerebbe in ogni caso neppure lo spazio per la verifica della supposta condizione operativa che, in certo qual modo, certifichi la violazione del principio di sinteticità: il superamento dei limiti dimensionali. Per ovvie ragioni di successione cronologica, infatti, il decreto del Presidente del Consiglio di Stato che fissa quei limiti non contempla il recente istituto delle note di udienza, non consentendo l’individuazione di una misura che, rispetto alle stesse, possa eventualmente permettere di circostanziare una concreta lesione del canone della sintesi.
4. L’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali nel decreto n. 31/2021 del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana
Il consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, con il decreto presidenziale n. 31 del 2021 ha respinto l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali avanzata dalla parte appellata in relazione ad una memoria di costituzione e risposta depositata per la fase cautelare del giudizio.
In questo caso, il principio di sinteticità non è evocato in modo esplicito dalla decisione del giudice che, tuttavia, impatta sul funzionamento di un istituto (l’autorizzazione al superamento di limiti dimensionali) che abbiamo descritto quale strumento inteso a garantire l’effettività del canone medesimo.
La disciplina dell’istituto emerge dal combinato disposto degli articoli 5 e 6 del cd. decreto sinteticità (decreto del presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 2016, per come modificato dal decreto n. 127 del 2017), il primo dei quali individua le deroghe ammissibili rispetto ai limiti dimensionali ivi sanciti, laddove il secondo descrive il funzionamento del relativo procedimento autorizzatorio.
L’autorizzazione, in particolare, interviene con decreto del Presidente del tribunale o di un magistrato delegato, il quale valuta in ordine alla sussistenza dei presupposti di deroga di cui all’articolo 5 del richiamato decreto sinteticità. A tal fine, è previsto che il ricorrente, principale o incidentale, formuli un’istanza motivata, allegando, ove possibile, lo schema del ricorso e sulla quale l’organo competente si pronunci entro i successivi tre giorni. Le modalità di presentazione dell’istanza sono diverse da quelle previste dalla formulazione originaria della norma, secondo la quale l’istanza motivata dovesse essere presentata in calce al ricorso. Peraltro, tale previgente modalità resta valida, nel nuovo regime, esclusivamente per l’ipotesi di istanza formulata da una parte diversa dal ricorrente principale e limitatamente alla memoria di costituzione.
Nel caso di specie, in sede di appello proposto dal Ministero dell’interno avverso un’ordinanza cautelare di accoglimento della domanda di sospensione in primo grado relativa ad una interdittiva antimafia, il decreto presidenziale in commento ha respinto l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali depositata dalla parte appellata in relazione alla memoria di costituzione e risposta.
La decisione muove dal considerare “già di per sé molto ampi” i limiti dimensionali ordinari[17], tali da consentire “una difesa estesa e articolata” e giunge a ritenere che la memoria di costituzione della parte appellata per la fase cautelare, in caso di appello su ordinanza, possa limitarsi ad un sintetico richiamo del ricorso di primo grado. Infatti, la valutazione compiuta dal giudice dell’appello su ordinanza cautelare “è necessariamente sintetica e complessiva e, da un lato, non esige l’esame puntuale di tutti i motivi del ricorso di primo grado, mentre, dall’altro lato, va compiuta esaminando direttamente il fumus boni iuris e il periculum in mora in relazione al ricorso di primo grado valutato sinteticamente e complessivamente … a prescindere da una analitica riproposizione di tutti i motivi mediante memoria ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a”.
Nel ragionamento del giudice siciliano, l’ultimo aspetto è peraltro decisivo ai fini della reiezione dell’istanza di superamento dei limiti dimensionali, essendo la stessa per l’appunto motivata dall’asserita necessità di riproporre motivi non esaminati dall’ordinanza cautelare. Eppure, come chiarisce il decreto, “l’onere di riproposizione espressa di domande ed eccezioni di primo grado, da parte dell’appellato vittorioso in primo grado, ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a. riguarda il solo caso di appello su sentenza e non si estende al caso di appello su ordinanza cautelare, dove, proseguendo il giudizio in primo grado, nessuna decadenza consegue alla omessa riproposizione in appello con memoria di tutti i motivi del primo grado”.
La motivazione addotta nella decisione consente peraltro di inquadrare il potere di valutazione in concreto esercitato, in questa vicenda processuale, nel solco descritto dal più volte richiamato decreto sinteticità. Dalla lettura del testo emerge infatti un sistema di autorizzazione che fa perno sull’ampio potere del decisore “chiamato sia a valutare la sussistenza dei presupposti derogatori, sia a quantificare lo spazio aggiuntivo che può essere concesso per l’estrinsecazione dell’attività difensiva”[18].
Tale ambito di valutazione incontra nell’articolo 5 del decreto un vasto catalogo di parametri cui il giudice possa attingere ai fini della scelta autorizzatoria[19]. Un catalogo la cui valenza è espressamente definita come esemplificativa e nel quale, in ogni caso, si colloca quel riferimento alla “esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate” che trova eco nella decisione in commento e che offre prova del margine di responsabilità sotteso alle decisioni assunte nell’ambito dei riferiti procedimenti di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali, nei quali il canone di sinteticità postula evidentemente la continua e costante ricerca di un punto di equilibrio con le prioritarie esigenze del diritto di difesa[20].
***
[1] F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Diritto processuale amministrativo, 2018, 1, 133.
[2] Allegato 1 al d.lgs. 2 luglio 2012 n. 104.
[3] G. Ferrari, Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del Diritto www.treccani.it, 2013, che rinvia a C.G.A.R.S. 19 aprile 2012, n. 395 e Cass., S.U., 11 aprile 2012, n. 5698.
[4] Dapprima l’art. 40, comma 1, lett. A), del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 a modifica dell’art. 120, comma 6 del c.p.a.; successivamente l’articolo 7-bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), che ha abrogato il riferito comma 6 dell’art. 120 del c.p.a, introducendo a sua volta l’art. 13-ter nell’allegato 2 del c.p.a.. Tale ultima disposizione stabilisce quanto segue: 1. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i princìpi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti. 2. Nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi si tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. 3. Con il decreto di cui al comma 1 sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. 4. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, anche mediante audizione degli organi e delle associazioni di cui al comma 1, effettua un monitoraggio annuale al fine di verificare l'impatto e lo stato di attuazione del decreto di cui al comma 1 e di formulare eventuali proposte di modifica. Il decreto è soggetto ad aggiornamento con cadenza almeno biennale, con il medesimo procedimento di cui al comma 1. 5. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”.
[5] modificato dal decreto n. 127 del 16 ottobre 2017. La fonte attualmente in vigore, a sua volta, ha sostituito il previo decreto n. 40 del 25 maggio 2015, adottato in attuazione dell’articolo 120 del c.p.a., per come formulato anteriormente alla riferita riforma del 2016.
[6] Come sottolinea F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo, cit., 161: “Ciò che si deve evitare è di contrabbandare la regola della brevità come una declinazione necessaria del principio di sinteticità; il quale … non può ridursi al mero rispetto di un limite numerico di pagine, spazi e battute, ma fa necessariamente riferimento alla (giusta) proporzione tra questioni da trattare e le argomentazioni selezionate a tal fine”.
[7] Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2013, n. 6002, in Giurisprudenza italiana, 2014, 148, con nota di A. Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo.
[8] T.A.R. Lombardia – Milano, sez. II, 4 giugno 2019, n.1279: “il dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo, è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume esso una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica; tale impostazione è conforme alla considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in misura razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale. La violazione di tale dovere, se, da un lato, non si traduce in inammissibilità del ricorso, dall’altro, incide, certamente, sulla regolazione delle spese di giudizio”.
[9] T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. II, 8 luglio 2020, n. 1249, in Il Foro Amministrativo, 2020, 7-8, 1564.
[10] Singolare in questi termini la posizione di C.G.A.R.S, 15 settembre 2014, n. 536: “in presenza di un atto d’appello di centoventisette pagine (con circa ventotto/trenta righi per pagina), palesemente non proporzionato al livello di complessità della causa e con evidente abuso della funzione c.d. “copia e incolla”, alla luce del principio di chiarezza e sinteticità degli atti sancito dagli art. 3 e 26 c. proc. amm., l’appellante dovrà depositare, almeno quaranta giorni prima dell’udienza fissata per la decisione del merito della causa, una memoria riepilogativa orientativamente di non oltre venti pagine per un massimo di venticinque righi per pagina, su formato A4, facilmente leggibile e redatta solo su una faccia della pagina (recto e non recto verso), con testo scritto in caratteri di tipo corrente con interlinee e margini adeguati”.
[11] Cons. Stato, sez. IV, 1 dicembre 2020, n.7622.
[12] F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo, cit., 163.
[13] C.E. Gallo, La discussione scritta della causa nel processo amministrativo, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[14] C.E. Gallo, La discussione scritta, cit.
[15] C.E. Gallo, La discussione scritta, cit.
[16] C.E. Gallo, La discussione scritta, cit.
[17] 70.000 caratteri con esclusione di epigrafe, conclusioni e sintesi dei motivi, come chiarisce il decreto.
[18] M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Diritto processuale amministrativo, 2015, 1327.
[19] Si legge nell’articolo 5: “con il decreto di cui all’art. 6 possono essere autorizzati limiti dimensionali non superiori, nel massimo, a caratteri 50.000 (corrispondenti a circa 25 pagine nel formato di cui all’art. 8), e 100.000 (corrispondenti a circa 50 pagine nel formato di cui all’art. 8), per gli atti indicati all’art. 3, comma 1, e rispettivamente nei riti di cui all’art. 3, comma 1, lettere a) e b) e a caratteri 16.000 (corrispondenti a circa 8 pagine nel formato di cui all’art. 8) e 30.000 (corrispondenti a circa 15 pagine nel formato di cui all’art. 8), per gli atti indicati all’art. 3, commi 2 e 3, e rispettivamente nei riti di cui all’art. 3, comma 1, lettere a) e b), qualora la controversia presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico, politico e sociale, o alla tutela di diritti civili, sociali e politici; a tal fine vengono valutati, esemplificativamente, il valore della causa, ove comunque non inferiore a 50 milioni di euro nel rito appalti, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza gravata, l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori, l'avvenuto riconoscimento della presenza dei presupposti di cui al presente articolo nel precedente grado del giudizio, la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell'impresa; l'attinenza della causa, nel rito appalti, a taluna delle opere di cui all'art. 125 del codice del processo amministrativo”.
[20] A. Cassatella, L’inammissibilità dell’appello manifestamente prolisso, in Giornale di diritto amministrativo, 2017, 2, 241, sottolinea “un’intima contraddizione fra il riconoscimento costituzionale del diritto di difesa ed il contingentamento degli atti difensivi”. Analoghi accenti critici anche in E. Barbieri, L’abuso del “copia ed incolla” nel ricorso giurisdizionale amministrativo, in Rivista di diritto processuale, 2016, 1570.
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