ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La funzione nomofilattica della Corte di cassazione e l’indipendenza funzionale del giudice
di Aniello Nappi
Nel novembre del 2019 l’Università degli studi di Milano ospitò un seminario sull’indipendenza della magistratura oggi, che affrontò anche il tema della nomofilachia, sollecitando in particolare una verifica dell'ipotesi che ci possa essere una contraddizione o quanto meno un rapporto dialettico tra la nomofilachia e l'indipendenza funzionale del giudice.
Ripropongo qui il testo della mia relazione, già pubblicata con gli atti del seminario.
Ci si domandò dunque quale indipendenza del giudice possa esserci di fronte alla nomofilachia; e quale nomofilachia possa esserci nei confronti di un giudice indipendente.
Tuttavia si constatò che, se consideriamo l'evoluzione storica dell’idea di nomofilachia, la prospettiva muta significativamente.
In realtà la nomofilachia nasce come strumento di sanzione contro la ribellione del giudice alla legge[1], in un contesto culturale nel quale si bandisce l'interpretazione, vietata dalla rivoluzione francese[2]. In un contesto del genere intendere la nomofilachia come orientamento della giurisprudenza sarebbe stata una contraddizione in termini. Lo sguardo non si volgeva affatto al futuro, cui si guarda oggi quando si parla di nomofilachia. In quel contesto la nomofilachia ha solo lo scopo di sanzionare il giudice che oltrepassa i limiti della legge, perché tutto ciò che c'è da dire è detto già nella legge; e il giudice non deve dire nient'altro che quello che c'è scritto nella legge.
Questa idea di nomofilachia si avvia a un superamento quando si comincia a riconoscere il ruolo dell'interpretazione, perché si afferma allora l’idea della nomofilachia come orientamento della giurisprudenza, di una giurisprudenza che è il risultato dell’interpretazione della legge da parte del giudice. Infatti l’interpretazione della legge, oltre che dei fatti, è la principale manifestazione dell’indipendenza del giudice.
Allora non mi pare che si possa oggi parlare di tendenziale incompatibilità, ma si debba piuttosto parlare di implicazione tra nomofilachia e indipendenza, perché nessuno ha mai pensato che le corti supreme abbiano il monopolio dell'interpretazione.
Orientare la giurisprudenza significa dunque proporre interpretazioni attendibili, riconoscibili come tali da qualunque giudice legittimato a interpretare. Sicché nel momento in cui si affida alla Corte di cassazione il compito di orientare la giurisprudenza, si riconosce un ruolo anche all’interpretazione dei giudici del merito. Ne è dimostrazione il fatto che in Francia l’adunanza plenaria della Corte di Cassazione, che è equivalente alle nostre sezioni unite, può intervenire per risolvere i contrasti anche tra la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione e la giurisprudenza dei giudici del merito[3].
Ne risulta un'idea di giurisprudenza come discorso pubblico fondato sul confronto degli argomenti e aperto all’apporto anche della dottrina, perché ciò che conta sono appunto gli argomenti proposti da ciascun interprete; e anche la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione si fonda sugli argomenti che può esibire.
Si tratta allora di un confronto libero da condizionamenti esterni o gerarchici, diversamente da quanto avveniva un tempo, quando la nostra Corte di cassazione esercitava un controllo sulla carriera dei magistrati, determinandone una dipendenza istituzionale, destinata a favorire conformismo di atteggiamenti piuttosto che uniformità della giurisprudenza.
L’uniformità della giurisprudenza si ottiene con la condivisione degli argomenti proponibili a sostegno di un orientamento interpretativo. E questo, come vedremo, è nella natura stessa della giurisdizione.
A questa costruzione della giurisprudenza come discorso pubblico, fondato sul confronto degli argomenti, si potrebbe obiettare che è incompatibile con i sistemi di common law, nei quali i precedenti sono vincolanti. Ma come hanno dimostrato gli studi di Gino Gorla e Michele Taruffo, anche questo è un mito da ridimensionare[4]. Innanzitutto perché il precedente di common law è cosa ben diversa dalla nostra giurisprudenza per principi di diritto. Quel precedente si riferisce a un caso concreto e il giudice inglese, nel momento in cui deve riconoscere l'identità o quanto meno l'analogia tra i due casi posti a confronto, ha molte possibilità di distinguerli, assegnando rilevanza a determinati aspetti del suo caso che lo legittimano a non uniformarsi al caso già deciso. Come chiarisce Taruffo, è il secondo giudice che crea il precedente, non il primo, quello che pronuncia la sentenza che si candida a fare da modello.
Del resto negli Stati Uniti è riconosciuta la discrezionalità del giudice nel rapportarsi ai precedenti, cui si uniforma solo quando non è in grado di esibire ragioni per discostarsene.
Sicché, quand'anche volessimo per assurdo assimilare il ruolo del precedente vincolante al ruolo della legge, questo non risolverebbe il problema dell'interpretazione; non risolverebbe quella che Habermas chiama tensione tra la positività del diritto e l'indisponibilità dei valori: una tensione che è il fondamento del ruolo del giudice.
L’idea dell'uniformità della giurisprudenza come condivisione di argomenti è dunque un'idea che vale per i paesi di common law come per i paesi di civil law.
Sono pertanto convinto che non ci sia contraddizione ma piuttosto un rapporto di implicazione tra nomofilachia e indipendenza del giudice. Non ci può essere nomofilachia come orientamento della giurisprudenza se non c'è indipendenza del giudice, con il riconoscimento del suo ruolo di interprete.
La contraddizione tra nomofilachia e indipendenza c’è quando la nomofilachia opera come sanzione alla ribellione del giudice alla legge, in un contesto nel quale la legge dice tutto e il giudice non deve fare altro che ripeterlo.
Per concludere chiarirò quali sono le ragioni per cui a mio parere è nella natura stessa della giurisdizione che si manifesta questo rapporto di implicazione tra indipendenza e nomofilachia. Ma prima vorrei delimitare il campo della problematica del rapporto tra nomofilachia e indipendenza.
Innanzitutto, come ha chiarito la Corte costituzionale[5], non si pone un problema di nomofilachia né tanto meno di indipendenza nel caso della cassazione o dell'annullamento con rinvio con enunciazione del principio di diritto ai sensi dell'art. 384 c.p.c. o dell’art. 627 c.p.p., perché in questo caso si determina una preclusione a esaminare la questione decisa dalla Corte. Il giudice non è più legittimato a individuare il criterio di giudizio, in quanto quel criterio è già individuato, è già fissato per via processuale. Infatti, se il giudice del rinvio non si attiene al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, la sua sentenza non è censurabile per violazione della norma diritto sostanziale interpretata dalla Cassazione, ma è censurabile per violazione appunto degli art. 384 c.p.c. e 627 c.p.p. Non si pone quindi né un problema di nomofilachia, perché qui il vincolo non deriva da un precedente ma da una decisione assunta all’interno del medesimo processo; né si pone un problema di indipendenza del giudice, perché il giudice del rinvio è libero di decidere nell’ambito di quanto effettivamente devolutogli.
Un caso particolare è poi quello che ha affrontato il presidente Ernesto Lupo, quello che Taruffo chiama l'autoprecedente.
In realtà qualsiasi giudice, nel momento in cui decide una controversia secondo un certo criterio di giudizio, assume l'impegno anche morale ad adoperare il medesimo criterio in ogni caso analogo. E una Corte suprema che decidesse in modo difforme casi analoghi perderebbe di autorevolezza e di credibilità.
Tuttavia qui si tratta non di esercizio della nomofilachia ma di una condizione della nomofilachia, perché se una Corte suprema non è in grado di esprimersi con un indirizzo unitario e coerente, ovviamente non è in grado di esercitare la nomofilachia. Ma le corti supreme non esercitano la nomofilachia nei confronti di se stesse, perché le direttive interpretative in funzione nomofilattica sono quelle indirizzate ai giudici del merito.
La corte suprema deve esprimersi come ogni giudice in modo coerente innanzitutto per rispetto del principio di eguaglianza, ma questo non è esercizio della nomofilachia, anche se ne è condizione imprescindibile.
C'è quindi un’esigenza di credibilità delle corti supreme che induce a diffidare di cambiamenti inopinati di giurisprudenza.
Tuttavia fin dal 1966 la Corte Suprema inglese comunicò che non si sarebbe ritenuta necessariamente vincolata al rispetto dei suoi precedenti, benché operasse in un sistema a precedente vincolante. E negli Stati Uniti una delle ragioni che può giustificare la rimessione di un caso alla Corte Suprema è appunto l'esigenza di overruling, di un mutamento di giurisprudenza.
Una certa elasticità è dunque riconosciuta, per l'esigenza di adeguare la giurisprudenza ai mutamenti sociali e delle situazioni. Ma ovviamente rimane ferma l'esigenza che una Corte suprema, onerata di un ruolo di orientamento della giurisprudenza, abbia una prevedibile coerenza.
A questo scopo sono destinate le norme di cui ha parlato il presidente Lupo, che impongono alle sezioni semplici di investire le Sezioni unite quando dissentano dalla loro giurisprudenza.
Sono norme destinate a prevenire i contrasti, ma non hanno nulla a che vedere né con l'esercizio della nomofilachia, che non si esercita nei confronti della stessa corte, né con l'indipendenza del giudice, perché si tratta di norme sulla individuazione del collegio legittimato a pronunciarsi nell’ambito della stessa corte. Nessun giudice viene costretto a esprimere un'opinione diversa da quella che nutre. La sezione dissenziente argomenta la sua interpretazione diversa da quella delle Sezioni unite, ma non si pronuncia sul merito della controversia perché c'è una norma procedimentale di individuazione del diverso collegio legittimato a pronunciarsi. La garanzia dell’indipendenza esclude che la sezione semplice possa essere vincolata al precedente delle Sezioni unite che non condivide, ma non esclude che l’assegnazione degli affari possa essere regolata in modo da permettere alla Corte di cassazione, quale ufficio giudiziario unitario, di esprimere una giurisprudenza coerente. Né interferisce con l’indipendenza del giudice la sottrazione della decisione alla sezione semplice dissenziente: questa sottrazione potrebbe interferire con il principio del giudice naturale precostituito per legge, ma è evidente che in questa prospettiva l’obbligatorietà della rimessione alle sezioni unite è preferibile alla rimessione facoltativa.
D'altra parte una norma del tutto analoga vige in Germania[6].
Anche in Germania le Sezioni semplici sono tenute a rimettere al grande Senato, equivalente alle nostre sezioni unite, le questioni sulle quali c'è un dissenso tra la sezione semplice e lo stesso grande senato; anzi la rimessione è doverosa anche quando una sezione semplice intende dissentire da altra sezione semplice intenzionata a non mutare orientamento. Ma pare che le rimessioni al grande Senato delle questioni controverse tra le sezioni semplici siano rarissime, perché quasi sempre si raggiunge un accordo sull’interpretazione da ritenere corretta[7]. Cosa che io vedo utopistica nella nostra Corte di cassazione
In Francia non c'è in questi casi l'obbligo di rimessione alle sezioni unite, la rimessione è solo facoltativa com'era un tempo da noi, ma è ammessa in termini molto più ampi, perché tutto è destinato a prevenire i contrasti per tutelare quell'esigenza di autorevolezza e di credibilità della Corte suprema che è alla base dell'esercizio della nomofilachia.
Così delimitato il campo, è ora possibile concludere, chiarendo perché, a mio avviso, l’esercizio della nomofilachia non pone in discussione l’indipendenza dei giudici destinatari delle direttive interpretative della Corte di cassazione, ma piuttosto la presuppone. Ritengo infatti che sia nella natura stessa della giurisdizione l’esigenza di tener conto di tutti i punti di vista rilevanti.
Oggi abbiamo superato quel contesto culturale per cui tutto ciò che c'è da dire è già scritto nella legge. Tuttavia nella concezione della giurisdizione dei sistemi liberali, sia di common law sia di civil law, permane l'idea della funzione ricognitiva della giurisdizione. Il giudice riconosce, trova (to find dicono gli inglesi), il diritto, non lo crea. E ciò che distingue la giurisdizione dalle altre funzioni pubbliche è il tipo di argomento che deve essere esibito a giustificazione delle decisioni: il giudice assume che la sua decisione corrisponde, se non a una norma positiva già scritta, a un sistema di valori universalmente condiviso. Come chiarisce Luhmann, la giurisdizione risponde a programmi normativi condizionali, che esigono l'accertamento di condizioni predeterminate per giustificarne le decisioni; non può rispondere, come l’amministrazione, a programmi normativi di scopo, che esigono la scelta dei mezzi più idonei al raggiungimento dei finì prefissati.
Insomma può essere ribadita la costruzione dell'attività giurisdizionale come applicazione di una regola precostituita o, comunque, desumibile da un sistema di norme e di valori precostituito, perché il concetto di valore viene così assunto in un senso in qualche misura formale, come ciò che è indiscusso o, comunque, può essere considerato universalmente condiviso nel contesto sociale in cui il giudice opera. E se il giudice nel momento in cui decide deve assumere che ci sia un consenso universale sui valori che egli pone a fondamento della propria attività di ricostruzione di una norma, quando la norma non è immediatamente reperibile nell'ordinamento, non può questo giudice non prendere atto di ciò che hanno detto gli altri giudici, non può in particolare prescindere dalla conoscenza di un precedente della Corte suprema.
In questa prospettiva si rivela il ruolo determinante delle corti supreme.
La funzione nomofilattica è una funzione che ha una dimensione soprattutto pragmatica, perché attiene all’interazione tra i diversi organi giudiziari, piuttosto che al metodo dell’interpretazione. Sicché quest’esigenza pone problemi di coordinamento e di organizzazione del sistema giudiziario e processuale.
Nel nostro sistema svolge un ruolo determinante l’ufficio del massimario, che sintetizza e diffonde la giurisprudenza della Corte di cassazione, rendendo plausibile ed effettivo il dovere professionale per tutti i giudici di conoscere almeno la giurisprudenza di legittimità. Ed è affidata alla persuasività degli argomenti l’effettività della nomofilachia, senza attribuire un improbabile monopolio dell'interpretazione alla Corte Suprema.
Il ruolo di guida dell'interpretazione, dunque, si gioca soprattutto sulla capacità della Corte Suprema di esprimersi in orientamenti unitari e riconoscibili, che possono ottenersi solo se gli interventi della corte siano ridotti nel numero.
Questa scommessa da noi dovrebbe essere affidata soprattutto alla limitazione del giudizio di Cassazione alla sola legittimità.
Tuttavia lo schema concettuale del sindacato di legittimità, per quanto solido e coerente, è troppo sofisticato perché vi si possa ragionevolmente fondare l’aspettativa che la Corte di cassazione sia effettivamente ricondotta al suo ruolo di orientamento della giurisprudenza. Sarebbe necessario portare alle sue plausibili conseguenze una svolta pragmatica che il legislatore ha già da tempo pur timidamente avviato, imponendo la specializzazione degli avvocati, come avviene in Francia e in Germania, in modo che l’avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione non possa esercitare dinanzi alle corti di merito.
Non può funzionare come corte suprema una Corte di cassazione composta di circa quattrocento magistrati, cui possano ricorrere circa 55 mila avvocati.
In Francia gli avvocati civilisti abilitati al patrocinio dinanzi la Corte di cassazione sono un centinaio, in Germania una quarantina. Sono dunque gli avvocati a esercitare il ruolo di selezionatori dei ricorsi effettivamente meritevoli di essere trattati dalla Corte Suprema.
Senza un’analoga scelta, potremo continuare a invocare il giudizio di legittimità, che viene invocato e tradito quotidianamente davanti alla Corte, ma non riusciremo mai ad avere un numero di sentenze così ridotto da poter fungere da guida della giurisprudenza.
Questa scelta si potrebbe estendere anche al settore penale, eventualmente con alcune deroghe, in modo che per i reati più gravi il principio della specializzazione dell'avvocato non si applichi, ma rimanga limitato ai reati minori.
Si abbatterebbe così il carico maggiore della Corte di cassazione, limitandovi l’accesso per le bagatelle.
Noi viviamo un momento estremamente grave, perché abbiamo perduto, non solo in Italia, capacità progettuale da parte delle classi dirigenti. Sono convinto che potremo superare questa crisi solo se saremo in grado di fare scelte radicali, vale a dire chiare e univoche e riconoscibili.
Una scelta radicale, chiara e univoca, dovrebbe essere quella che pone le condizioni ineludibili perché la Corte di Cassazione possa onorare il suo compito di orientamento della giurisprudenza.
[1] Calamandrei, La Cassazione civile, vol. I, Storia e legislazioni, Bocca, Milano, 1920, p. 27 e s.
[2] Satta, Corte di cassazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. X, Giuffrè, 1962, p. 797 e s.
[3] Briguglio, Appunti sulle Sezioni Unite Civili, in Riv. dir. proc., 2015, p. 16 e s.
[4] Gorla, Giurisprudenza, in Enc. Dir., vol. XIX, Giuffrè, 1970, p. 489 e s., Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 709 e s.
[5] C. cost., 2 aprile 1970 n. 50.
[6]Briguglio, Appunti sulle Sezioni Unite Civili, in Riv. dir. proc., 2015, p. 16 e s., Orlandi, Rinascita della nomofilachia: sguardo comparato alla funzione "politica" delle Corti di legittimità, in Cass. pen., 2017, p. 2596 e s.
[7] Orlandi, Rinascita della nomofilachia: sguardo comparato alla funzione "politica" delle Corti di legittimità, in Cass. pen., 2017, p. 2596 e s.
Diritti respinti lungo la rotta balcanica. Le responsabilità dell’Europa e dell’Italia
Giustizia insieme è lieta di potere ospitare il video del convegno dedicato al fenomeno delle migrazioni lungo la rotta balcanica e ringrazia il Rettore dell'Università di Palermo Prof. Fabrizio Micari e gli organizzatori del convegno che hanno reso possibile la pubblicazione di questa importante iniziativa al servizio dei più fragili del mondo.
La direzione scientifica
Presentazione della Prof.ssa Alessandra Sciurba
Il 10 febbraio 2021 si è tenuto un seminario organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza, dalla Cledu – clinica legale per i diritti umani – e dal Centro Interdipartimentale di Ricerca “Migrare” dell’Università di Palermo, dal titolo: “Diritti respinti lungo la rotta balcanica. Le responsabilità dell’Europa e dell’Italia”.
Vi hanno preso parte come relatori l’Avvocata dell’Asgi Anna Brambilla e Diego Saccorà dell’Associazione Lungo la rotta balcanica, entrambi tra i curatori del del dossier La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa, della rete Rivolti ai Balcani (disponibile online sul sito di Altraeconomia) che è stato presentato nel corso dell’iniziativa. Insieme a loro il giornalista di Avvenire Nello Scavo, appena rientrato dalla Bosnia, e, per l’Università di Palermo il Magnifico Rettore Fabrizio Micari, il Coordinatore scientifico CIR Migrare Giusto Picone, il Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo Aldo Schiavello e Alessandra Sciurba che ha moderato l’evento. L’Avv. Daniele Papa di Asgi e della Cledu ha svolto la relazione conclusiva.
Questo convegno, di cui pubblichiamo la registrazione, offre un approfondimento importante rispetto a un tema estremamente attuale. Tra la fine del 2020 e nei primi mesi del 2021 le immagini di centinaia di profughi, tra cui tantissimi bambini e minori, bloccati in Bosnia sotto la neve hanno rivelato ancora una volta la fragilità del sistema di valori e garanzie, tradotti in diritti fondamentali, posto formalmente dall’Europa a tutela di ogni essere umano all’indomani degli orrori del nazifascismo. Quello che è avvenuto e continua ad avvenire lungo la rotta balcanica, al pari di quanto avviene alle altre frontiere d’Europa come quella in cui è stato trasformato il Mediterraneo centrale, è infatti la risultante di un sistema di violazioni poste in essere da alcuni Stati dell’Unione europea, tra cui l’Italia, supportato anche economicamente dalle istituzioni dell’Unione europea. Si tratta innanzitutto di violazioni riguardanti il diritto di chiedere protezione internazionale, che implica anche il divieto di respingimenti collettivi e sommari in frontiera, specialmente ove questi respingimenti violino il principio di non refoulement, ovvero l’obbligo di non respingere un essere umano verso luoghi in cui possa subire trattamenti inumani e degradanti e la sua vita possa essere posta a rischIn un sistema di respingimenti a catena, infatti, l’Italia, la Slovenia e la Croazia sono colpevoli di avere violato questi principi nei confronti di migliaia di persone. Più di 1000, in particolare, sono state respinte dalle frontiere di Gorizia e Trieste nel 2020 verso la Slovenia, nonostante le autorità italiane avessero piena contezza che da lì questi potenziali richiedenti asilo sarebbero finiti nelle mani della polizia croata – la cui violenza nei confronti dei profughi è ormai documentata – per essere in seguito rimandati in Bosnia.
Con una sentenza del 18 gennaio 2021, che viene in parte analizzata nel corso del Convegno, il Tribunale di Roma ha dichiarato illegittimi questi respingimenti accogliendo il ricorso di un cittadino pakistano che li aveva subiti.
Le relazioni qui registrate rivelano da punti di vista differenti questa realtà e i suoi presupposti, guardando a come l’Unione europea e i suoi stati membri, attraverso dinamiche di esternalizzazione delle frontiere sempre più strutturate, stiano di fatto abdicando ai doveri loro imposti da quel diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati cui pure hanno aderito.
Whatsapp e l’ordinamento militare tra interesse pubblico e privato (nota a TAR Emilia-Romagna, sez. I, 18 febbraio 2021 n. 124)
di Alessandro Cioffi
Il fatto è semplice, ma solo in apparenza. Un militare intraprende un’attività di piccolo commercio: vende cani sul web, cuccioli di razze pregiate. Pubblica l’offerta in un noto sito di vendite tra privati (“Subito.it”) e poi, quando riceve le offerte, passa a negoziare su whtasapp; lì, nel profilo, esibisce la sua foto in divisa, a prova della sua affidabilità, per rassicurare gli acquirenti. L’amministrazione militare se ne avvede e reagisce: procedimento disciplinare e sospensione dal servizio.
Nel ricorso, il militare fa valere la violazione della vita privata, evoca l’art. 2 Cost., ma, soprattutto, afferma che l’esibizione della divisa è avvenuta su whatsapp e non sul sito di vendite Subito.it. Di conseguenza, lamenta la discrasia tra fatto punito e fatto contestato: l’amministrazione infatti, nel procedimento, finiva per punire il fatto come se fosse un fatto di rilievo pubblico, giacché la sanzione della sospensione dal servizio si addice alla violazione di doveri e di interessi istituzionali, che riguardano il prestigio e l’immagine dell’amministrazione militare.
Su questo il militare sembra aver ragione, perché la sentenza accoglie il ricorso e annulla la sanzione. Difatti, dalla lettura della sentenza, viene fuori che in fondo il sindacato del giudice stigmatizza un solo fatto: l’amministrazione contesta la vendita di cuccioli, ma sfiora e non chiarisce il modo della vendita, cioè l’esibizione del militare su whatsapp e sul sito Subito.it, e difatti, nell’istruttoria procedimentale, il momento della esposizione sul sito Subito.it sfugge ad ogni prova e rimane “affermazione indimostrata”, mentre l’esibizione della divisa su whatsapp è contestata in un secondo momento, in giudizio (probabilmente perché questo fatto non sfugge alla disponibilità dell’amministrazione, giacché il numero usato dal militare su whatsapp appartiene all’Accademia di Modena); così, alla fine, l’amministrazione punisce il fatto con una sanzione che si addice al danno all’immagine dell’Amministrazione, come se il fatto fosse avvenuto in pubblico, sul sito Subito.it.
Qui immediatamente sorge il problema: si può punire come illecita esposizione al pubblico un’immagine che invece compare nel privato ?
E soprattutto: whatspp è privato ?
La risposta che si espone nella sentenza è chiara: la foto è esibita su whatsapp e whatsapp è considerato un “applicativo privato”- scrive infatti il giudice: è “strumento telematico di comunicazione a distanza di natura privata”.
Diverso sarebbe stato, secondo il giudice, se il militare si fosse esibito in divisa sul sito Subito.it, ma questa prova manca e il fatto resta “indimostrato” – precisamente, secondo la sentenza: “A diverse conclusioni si giungerebbe in ipotesi di avvenuta diffusione pubblica delle immagini del militare in uniforme al fine di promuovere l’attività di vendita di cani, in ipotesi certamente gravemente lesiva dell’immagine e del decoro delle Forze Armate … diffusione si ribadisce tuttavia non contestata in sede di addebito disciplinare né tantomeno dimostrata dall’Amministrazione.”
In conclusione: non si può punire un fatto che avviene in privato con una sanzione che si addice a un interesse pubblico. Qui si vede bene tutto il limite dell’ordinamento militare, il limite dell’interesse pubblico che vale solo dentro l’istituzione[1]. Quindi, non vale su whtsapp, che è vita privata, mentre potrebbe valere su Subito.it, che è social media, è vita pubblica. In termini istituzionali, diremmo interesse privato e interesse pubblico. E non si può sanzionare l’uno al posto dell’altro. Emerge così quella distinzione tra interesse pubblico e interesse privato che è sostanziale e ontologica, e che vale a separare le sfere e gli ordinamenti e, quindi, incide sulla validità dell’atto amministrativo: la sfera privata non è sfera pubblica e quindi l’una non può essere confusa con l’altra; dunque, punire come pubblico un fatto privato è illegittimo, o, meglio, come dice la sentenza, rivela una motivazione illogica e una valutazione inadeguata, sotto il profilo del sindacato di ragionevolezza.
Questo vizio, nella motivazione della sentenza, si riflette in un secondo vizio, il vizio del procedimento: se l’amministrazione punisce un fatto ma non lo contesta nel procedimento, viola il principio di corrispondenza tra addebito e sanzione. Ovvero, in fondo, per una certa lettura teorica, viola il principio del procedimento, il procedimento stesso. Difatti, l’esibizione su Subito.it è accaduta veramente, ma non è stata contestata e dimostrata, quindi non esiste nel procedimento. E ciò che non esiste nel procedimento non esiste nel mondo del diritto amministrativo. Riemerge così il valore di una formula antica: il procedimento è forma necessaria della funzione. Se la forma necessaria aveva e ha un senso, è proprio questo: dare rilevanza giuridica al fatto del procedimento e negare rilevanza a quanto sia fuori di esso. E poiché continuiamo a leggere la formula della forma di Benvenuti anche in pagine di manuali autorevoli e recenti, è naturale che anche la realtà effettuale della giurisdizione di annullamento utilizzi quella formula e le dia valore. Precisamente, come ragione giuridica dell’annullamento e come criterio di ragionevolezza dell’agire amministrativo.
Su questo punto, la ragionevolezza, vale la pena di spendere un’osservazione in più. Verte sul sindacato e sul riesercizio del potere. Nel giudizio, s’è visto, spicca un fatto solo: la non corrispondenza tra addebito e sanzione, ovvero la sostituzione, il trattare un fatto privato come fosse un fatto d’interesse pubblico, donde una sanzione inadeguata al fatto, e il vizio d’inadeguatezza della motivazione. Questo per il giudice è un vizio preciso, ma è anche altro: dice che il fatto non contestato ha una sicura rilevanza, è sicuramente illecito, ma sotto un altro profilo, da contestare e rivalutare; e questo lo dice all’amministrazione, per il futuro.
E’, questo, un vincolo al riesercizio del potere ?
Sembra di sì; il problema è che in questa indicazione il giudice vede un sindacato che, dice, è di “ragionevolezza” e si svolge “senza sostituirsi” all’amministrazione. Sembra invece che sia di merito. Difatti, il vincolo della sentenza cade non sul fatto ma sulla qualificazione del fatto. Quindi sembra che al riesercizio del potere amministrativo non resti molto spazio. Il giudizio di merito è quasi tutto esaurito. E la sanzione che ne verrà è già annunciata, per effetto dell’indicazione del giudice, del vincolo conformativo. Così, la sanzione disciplinare qui diventa un’altra cosa e altra cosa diventano la valutazione dell’amministrazione e il rapporto con il sindacato giurisdizionale. Si potrebbe dire che, a giustificare il nesso, siamo nel famoso “modello della integrazione” tra giurisdizione e amministrazione, per effetto del vincolo conformativo[2]; e che per virtù di quel modello la valutazione del giudice e la valutazione della p.a. vengano a saldarsi in un tutt’uno, con il giudice che dice che il fatto è sicuramente illecito e con l’amministrazione che viene chiamata a concludere quella valutazione, stabilendone la gravità. Sembra, quindi, per una certa lettura teorica della sostanza, che quel fatto, visto in sé, riveli la distinzione e l’assetto degli interessi, e in fondo il limite o l’attrazione nell’ordinamento militare; ma se davvero quel fatto rappresenta tutto questo, è, semplicemente, merito amministrativo. Dovrebbe finire nella sfera di autonomia dell’amministrazione e invece finisce sotto il nome della ragionevolezza e nel sindacato di legittimità. Così, sembra sempre più forte il sindacato del giudice e sembra sempre più sfumato il limite, che è dell’ordinamento, tra legittimità e merito, specie quando il giudice finisce per toccare la consistenza dell’interesse. Ma questa è un’altra storia.
[1] Sul punto specifico cfr. V. OTTAVIANO, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni, Milano, 1958.
[2] v. M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, ora in Scritti giuridici, Milano, 1996, III, 1521 ss., 1536.
L’opportunità del recovery fund per il contenzioso tributario
La misura dell’irragionevole durata del processo tributario è data dal numero dei ricorsi pendenti davanti alla sezione tributaria: 53.482 ricorsi alla fine del 2020. Si tratta di un carico complessivo che è rimasto inalterato negli ultimi dieci anni. E’ dal 2015 che le pendenze non scendono al di sotto delle 50.000 unità.
La gravità dell’arretrato della sezione si trae dal confronto del numero con quello complessivo delle sezioni civili della Corte di Cassazione: sono 120.473 i ricorsi pendenti al 2020, la sezione tributaria rappresenta dunque il 44% del contenzioso civile di legittimità.
La questione non può essere licenziata come un ingorgo della sezione tributaria, o delle sezioni unite che si occupano della materia, perché, comunque sia, l’arretrato riguarda la Corte di Cassazione e non una sua singola sezione.
L’arretrato è manifestazione di malfunzionamento della Corte di Cassazione che si riverbera sulla giustizia italiana.
L’organizzazione va dunque rivista nel suo complesso e dall'interno perché l’incapacità di “smaltire l’arretrato” coinvolge diritti in relazione ai quali la Corte di Cassazione deve esercitare al meglio la funzione nomifilattica che la Costituzione Le ha assegnato. Il settore è peraltro nevralgico perchè coinvolge gli interessi dei contribuenti e, al tempo stesso, dello Stato, i cui interessi finanziari si riflettono sullo sviluppo economico del paese.
Le soluzioni fino ad ora adottate si sono rilevate meri palliativi, come dimostra il numero dei ricorsi tributari pendenti.
L'inserimento degli ausiliari si è ben presto dimostrato un rimedio di scarsa efficacia, non solo per ragioni legate alla formazione dei collegi, ma soprattutto per il numero ridotto di giudici così designati -poco più di una decina-, rispetto ai 100 previsti.
L’applicazione dei magistrati dell'Ufficio del massimario ha determinato un'esperienza significativa in termini di produttività e la formazione di un gruppo di magistrati specializzati, ma purtroppo rebus si stantibus a termine in quanto l’applicazione terminerà a giugno.
Il 12 gennaio scorso il Governo ha presentato in CDM la bozza del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza per il rilancio dell’economia e la costruzione del futuro delle nuove generazioni, che prevede importanti investimenti per l’innovazione organizzativa della Giustizia. Tra le linee di intervento programmate v’è l’abbattimento dell’arretrato del contenzioso tributario pendente davanti alla Cassazione.
Nel prossimo mese di aprile il Piano dovrà essere presentato alla Commissione Europea, il tempo è poco, ma ci sono i margini per fornire un contributo di idee e di proposte.
Il convegno del 12 marzo è stato organizzato in questa prospettiva perché è attraverso il confronto delle idee che si individuano le soluzioni.
Per informazioni e iscrizioni:
Giovanni Armone –
Michele Incani –
Valeria Pirari –
Conferenza annuale di GenIUS (Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere) quest’anno dedicata a "Hate speech, digital discrimination, and the Internet of Platforms" (Venerdì 26 Marzo 2021, ore 14-18 ora italiana)
La conferenza annuale di GenIUS (Rivista di studi giuridici sull'orientamento sessuale e l'identità di genere) sarà quest'anno dedicata a "Hate speech, digital discrimination, and the Internet of Platforms" (Venerdì 26 Marzo 2021, ore 14-18 ora italiana). L'evento è integralmente in lingua inglese senza traduzione.
Chi e' responsabile per l'odio online? I social network come Facebook e Twitter sono sempre più sotto pressione affinché assumano un ruolo più attivo nella rimozione di contenuti offensivi e discriminatori. Allo stesso tempo, un eccessivo interventismo da parte delle piattaforme solleva delicate questioni di libertà d'espressione. Ne parleranno esperti quali Kaori Ishii (Chuo University, Giappone), Enrico Camilleri (Università degli Studi di Palermo), Jim Barker (Open University, Inghilterra), Luciana Goisis (Università degli Studi di Sassari), Ann Bartow (University of New Hampshire, Stati Uniti), Giovanni Ziccardi (Università degli Studi di Milano), Alexandre de Streel (Université de Namur, Belgio) e Guido Noto La Diega (University of Stirling, Scozia). Modera Angelo Schillaci (Università di Roma, La Sapienza). Porterà i saluti della Rivista Angioletta Sperti (Università degli Studi di Pisa).
La conferenza sarà' ospitata su Microsoft Teams Live ed è sufficiente cliccare su https://tinyurl.com/y63fm5mf all'ora indicata. Accesso gratuito. Si consiglia in ogni caso di registrarsi con anticipo su EventBrite all'indirizzo https://www.eventbrite.it/e/hate-speech-digital-discrimination-and-the-internet-of-platforms-registration-142517803587?utm-medium=discovery&utm-campaign=social&utm-content=attendeeshare&aff=esli&utm-source=li&utm-term=listing. In questo modo le persone riceveranno un'email col link, l'invito outlook e il promemoria.
QUI la locandina del convegno
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