ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il C.S.M.: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione.*
di Francesca Biondi**
Sommario: 1. Introduzione - 2. La composizione del Consiglio superiore della magistratura: le ragioni dei Costituenti - 3. L’attuazione del modello costituzionale e qualche possibile riforma (con legge ordinaria) - 4. Conclusioni
1. Introduzione
Il compito che mi è stato assegnato è certamente troppo ambizioso per lo spazio concessomi, poiché ragionare a fondo della composizione del Consiglio superiore della magistratura richiederebbe preliminarmente una riflessione approfondita sul ruolo della magistratura nell’ordinamento costituzionale; solo così si potrebbero davvero comprendere le ragioni che indussero i costituenti ad assegnare ampie attribuzioni a tale organo e a comporlo nel modo che conosciamo. Non posso però esimermi almeno dall’evidenziare che assegnare rilievo costituzionale al C.S.M. e attribuirgli le competenze elencate all’art. 105 Cost. costituì un chiaro segno di rottura rispetto alla concezione burocratica della magistratura della tradizione francese, perché significa riconoscere che il magistrato non è “solo” un funzionario pubblico chiamato ad applicare la legge, ma che un soggetto che, interpretando la legge, esercita un “potere”.
Pur in questo contesto culturale, è noto però che sulla decisione di prevedere in Costituzione un organo di tal fatta pesò soprattutto il momento storico in cui essa maturò. L’esperienza autoritaria appena conclusa convinse, infatti, non solo della necessità di approvare Costituzioni rigide, cioè idonee a limitare le scelte assunte dal Parlamento con legge, ma anche di creare organi di garanzia capaci di assicurare la separazione dei poteri ([1]).
Il Consiglio superiore della magistratura è uno di questi. L’autonomia proclamata solennemente dall’art. 104 Cost. – che consiste nell’attribuzione a tale organo delle funzioni precedentemente esercitate dal potere politico (specialmente dal Ministro della Giustizia) – è infatti funzionale a garantire l’indipendenza della magistratura tutta. Detto diversamente, l’autonomia della magistratura, intesa come gestione della magistratura affidata al Consiglio superiore, non è fine a se stessa, non è “autogoverno” (ma su questa definizione si tornerà), bensì garanzia necessaria a creare le pre-condizioni perché tutti i magistrati siano indipendenti dal potere politico ([2]).
Date queste premesse, è evidente che se l’autonomia, così definita, finisce per violare l’indipendenza che dovrebbe contribuire a tutelare, significa che qualcosa in questo modello non funziona, o non funziona più, ed è dunque doveroso – come in questi tempi si sta facendo – individuare le cause delle deviazioni dal modello costituzionale, per capire se è quest’ultimo ad aver tradito le promesse oppure se esso “regge” ancora e le cause di certi fenomeni siano piuttosto da imputare al modo in cui il legislatore ha dato attuazione a quel modello o, ancora, solo a fattori extra-giuridici.
In tale ampio contesto, il mio compito è quello di ricordare “perché” il Consiglio superiore della magistratura sia stato costruito così nel 1948 e se quelle ragioni siano attuali ancora oggi; e quindi, provare a ipotizzare – alla luce delle più recenti vicende – se e come la composizione del Consiglio superiore possa essere eventualmente modificata, con quale fonte (ordinaria o costituzionale), o se invece altri interventi potrebbero essere utili a contenere certe prassi.
2. La composizione del Consiglio superiore della magistratura: le ragioni dei Costituenti
Dopo un ampio dibattito – che è stato più volte ricostruito ([3]) – si decise, in Assemblea costituente, di prevedere in Costituzione un organo a composizione mista.
Pur partendo da posizioni assai diverse tra loro, progressivamente si riuscì a convergere sulla scelta di non comporre il C.S.M. di soli magistrati, al fine di evitare che esso divenisse espressione di un corpo di funzionari pubblici separato dallo Stato-ordinamento, autoreferenziale e irresponsabile. È argomento ricorrente, questo, sia nella Commissione dei Settantacinque, sia nel dibattito svoltosi – tra il 6 e il 25 novembre 1947 – in Assemblea costituente per superare la proposta volta a costruire un organo composto interamente da magistrati. Anche se non sempre in modo esplicito, in molti interventi traspare la consapevolezza che quello giudiziario è sì un potere, ma un potere segnato dai limiti posti dalla legge, non, cioè, un potere politico democraticamente legittimato.
Si discusse invece sino alla fine dei lavori della proporzione tra laici e togati, e solo da ultimo la composizione paritaria (metà laici e metà togati) fu respinta a favore della soluzione che oggi conosciamo.
Altri aspetti concorrono, però, a definire la composizione del C.S.M.
Anzitutto, di particolare rilievo è la scelta di far eleggere i membri laici dal Parlamento in seduta comune, come avviene solo per il Presidente della Repubblica e i giudici costituzionali. Si tratta, infatti, di una soluzione che evidenzia l’importanza del ruolo che hanno tali componenti all’interno del Consiglio.
Le modalità di elezione e la necessità che vi sia ampia convergenza tra le forze politiche indicano che la componente laica non dovrebbe essere espressione di schieramento politico-partitico, ma dovrebbe portare nell’organo una sensibilità per l’amministrazione della giustizia intesa anche come servizio ai cittadini. Questo aspetto venne più volte sottolineato in Assemblea Costituente: i “laici” devono essere scelti dal Parlamento non come espressione di una parte politica, ma per la loro qualificata capacità di preparazione sui problemi della giustizia, per evitare il rischio che l’organo si trasformi in uno strumento nelle mani dei soli magistrati e intorno ad esso si possano «coagulare interessi, intrighi, protezioni, preferenze tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici» ([4]).
Si discusse molto anche nell’individuazione delle categorie tra cui i laici dovevano essere tratti, con l’obiettivo di selezionare persone dotate di elevate competenze tecnico-giuridiche,
Un fatto che merita di essere segnalato (e su cui poi si tornerà) è che in Assemblea costituente fu suggerito dall’onorevole Sardiello (esponente del partito repubblicano) che i laici fossero scelti «fra i cittadini che non abbiano direzione o rappresentanza di partiti politici» ([5]). Tale proposta fu poi tradotta in un emendamento presentato dall’onorevole Scalfaro (Democrazia cristiana), il quale chiese di aggiungere che i laici fossero eletti dal Parlamento «fuori del proprio seno». L’emendamento fu approvato nella seduta pomeridiana del 25 novembre 1947, e, infatti, questo inciso si ritrova nel testo dell’art. 97 letto al termine della seduta. Esso però scompare, senza che ne sia chiaro il motivo, nel testo coordinato dal Comitato di redazione prima della votazione finale in Assemblea, e distribuito ai Deputati il 20 dicembre 1947. Ciò spiega perché il Parlamento in seduta comune abbia spesso potuto eleggere al C.S.M. parlamentari in carica.
In secondo luogo, a definire la composizione del C.S.M. concorre la scelta di inserirvi, come membri di diritto, i due vertici funzionali della magistratura. Mentre la presenza del Primo Presidente della Corte di Cassazione non fu mai messa in discussione nel dibattito in Assemblea costituente (anzi, fu proposto che egli fosse Presidente o Vice-presidente del C.S.M.), meno scontata è quella del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Tale scelta testimonia la decisione – che impegnò molto i Costituenti soprattutto nella prima fase dei lavori – di equiparare, sul piano delle garanzie istituzionali, giudici e pubblici ministeri.
In seguito, attuando il disposto costituzionale, il legislatore ha però fatto scelte che rendono più complesso definire il ruolo del Procuratore generale nel C.S.M. È infatti evidente che l’aver assegnato anche al Procuratore generale una autonoma iniziativa disciplinare, concorrente con quella del Ministro della Giustizia, e addirittura obbligatoria, pone problemi sul piano teorico ([6]), oltre che – come dimostrato da recenti vicende di cronaca ([7]) – sul piano pratico.
Da ultimo, va menzionata la scelta di attribuire al Presidente della Repubblica la presidenza del C.S.M. Come accennato, in Assemblea costituente si discusse dell’opportunità di affidare la presidenza al Primo Presidente della Corte di Cassazione, ma, alla fine, tale soluzione fu accantonata, ancora una volta per non accentuare la separatezza della magistratura ([8]). Quella adottata dalla nostra Costituzione si rivela una soluzione decisiva per comprendere la posizione costituzionale del C.S.M.: il Presidente della Repubblica, supremo organo di garanzia e di unità, è figura istituzionale capace di dare autorevolezza a tale organo, di accentuarne e difenderne il ruolo di garanzia, di mantenerne, se necessario, le competenze nei limiti di ciò che la Costituzione prevede. Il Capo dello Stato, d’altro canto, è sì il Presidente del C.S.M., ma è anche, e soprattutto, Presidente della Repubblica ([9]).
Non sono mancate, nel corso della storia costituzionale, tensioni tra il Presidente della Repubblica e il plenum, ma, nel complesso, quella compiuta dai nostri costituenti si è rivelata una scelta lungimirante. Di recente, con riferimento alle vicende che hanno interessato il C.S.M. nel corso del 2019 ([10]), non si può non ricordare l’atteggiamento di estremo equilibrio del Presidente Mattarella che, pur ricorrendo, nel suo intervento in plenum del 21 giugno 2019, a toni certamente “duri”, ha nel contempo invitato a tornare alla “normalità” istituzionale. Nonostante la legge n. 195 del 1958 attribuisca al Presidente della Repubblica la possibilità di sciogliere il Consiglio «qualora sia impossibile il funzionamento», il Presidente Mattarella ha condivisibilmente interpretato tale potere come extrema ratio, preferendo che il Consiglio si ricomponesse con le modalità ordinarie ([11]). D’altro canto, sul potere di scioglimento previsto dall’art. 31 della l. n. 195 del 1958 furono in passato avanzati anche dubbi di legittimità costituzionale, ritenendo che esso, in quanto non previsto in Costituzione, non potesse essere introdotto con legge ordinaria e si ponesse in contrasto con l’art. 104, quinto comma, Cost. ([12]). Senza affatto giungere a tale radicale conclusione, è invece condivisibile l’interpretazione restrittiva che è stata data di questa prerogativa: in presenza di modalità ordinarie di integrazione dell’organo atte a far fronte alle dimissioni o alla decadenza di alcuni membri, ad essa si deve far ricorso solo in ipotesi davvero residuali, quando venga meno la maggioranza dei consiglieri ovvero quando frequenti ed insanabili contrasti tra le componenti presenti in Consiglio impediscano per lungo tempo l’assunzione di decisioni e, dunque, l’assolvimento dei compiti che la Costituzione attribuisce al C.S.M. ([13]).
3. L’attuazione del modello costituzionale e qualche possibile riforma (con legge ordinaria)
La composizione del C.S.M. definita dall’art. 105 Cost. è dunque l’esito di una lunga e approfondita riflessione. Pur esprimendo sensibilità differenti, i Costituenti riuscirono a trovare, in un organo a composizione mista, ma con prevalenza togata, un accordo soddisfacente. E forse per questo tutte le proposte di riforma del Titolo IV della Costituzione sono fallite: perché alimentavano tensioni (come quella sottesa alla separazione tra funzione giudicante e requirente o alla revisione della proporzione tra laici e togati) che questa formulazione invece non esaspera.
Pur in questo modello costituzionale, le soluzioni adottate dalla legislazione ordinaria di attuazione possono però accentuare il ruolo dell’una o dell’altra componente.
Tra queste, la “variabile” da sempre più dibattuta è quella del sistema elettorale prescelto per l’elezione dei membri togati. Obiettivo dichiarato dei riformatori è sempre stato quello di voler ridurre il peso della politica sulle decisioni che il C.S.M. è chiamato ad assumere, sia essa intesa come “politica dei partiti” o come “politica espressa dall’associazionismo giudiziario”.
Sul tale aspetto merita subito di essere chiarito che il testo costituzionale utilizza il termine “eletti” e, dunque, che l’elezione non può essere sostituita, a Costituzione invariata, da altre modalità di selezione. L’introduzione del sorteggio – di cui si è ancora di recente parlato ([14]) – costituirebbe un aggiramento della Costituzione, sia che fosse effettuato “prima”, sia che fosse collocato “dopo” l’elezione ([15]).
Entrambe le ipotesi pongono problemi di compatibilità con l’art. 104 della Costituzione.
Non si tratta un argomento solo “testuale”. L’“elezione” è il metodo che meglio si confà alla posizione che la Costituzione assegna al C.S.M. nel nostro ordinamento.
Trattandosi di un organo di altissimo profilo, chiamato a svolgere funzioni importanti e delicate, autorevolmente presieduto dal Presidente della Repubblica, è naturale, oltre che necessario, che vi siedano i magistrati che i colleghi ritengono avere maggiore esperienza, autorevolezza, capacità organizzativa, capacità relazionale, nonché quella capacità di mediazione che è necessaria per operare in un organo collegiale. Senza queste qualità personali – che nulla hanno a che vedere con l’essere un buon giudice o un buon pubblico ministero e che il sorteggio non può garantire – vi è il rischio che il C.S.M. perda il suo “peso istituzionale” ([16]) o che venga alterato, se non nella forma, certamente nella sostanza, l’equilibrio tra togati e laici.
Peraltro, non è detto che un meccanismo che coniughi sorteggio ed elezione sarebbe in grado di “scardinare” il voto di appartenenza ad una corrente. Poiché nessuno può essere obbligato a candidarsi, non è difficile immaginare che, se il sorteggio avviene dopo, le associazioni riusciranno a far presentare alle elezioni i loro candidati, così che siano solo questi ad essere poi sorteggiati, oppure, se il sorteggio avviene prima, a far manifestare interesse al sorteggio ai propri candidati e, dopo, al momento delle elezioni, a far votare i loro candidati. In ogni caso, è presumibile che le associazioni troverebbero presto meccanismi adeguati a neutralizzare anche questa riforma.
Quanto detto, ovviamente, non esclude affatto che si possa, e forse si debba, ripensare l’attuale sistema elettorale della componente togata. Le ipotesi sul tappeto, già studiate e discusse, sono molteplici.
Tra queste, potrebbe essere approfondita la proposta di introdurre il sistema elettorale del voto singolo trasferibile ([17]). Tale sistema consente all’elettore di scrivere sulla scheda, in ordine di preferenza, più nomi di candidati che vorrebbe eletti, scelti anche tra liste diverse. In tal modo egli potrebbe scegliere solo candidati della lista della corrente cui aderisce, oppure preferire singoli candidati di varie liste. In un sistema di questo tipo – compatibile, peraltro, anche con l’introduzione di preferenze di genere – la distribuzione dei seggi è ottenuta calcolando il numero minimo di voti necessario per essere eletti; sono poi dichiarati eletti coloro che hanno raggiunto tale quorum; i voti ottenuti in più dagli eletti vengono trasferiti ai secondi, e così via. Vero che si tratta di un meccanismo piuttosto complesso, ma esso è pur sempre destinato ad un elettorato colto e preparato. Tale sistema avrebbe il pregio di consentire all’elettore di scegliere sulla base del proprio convincimento personale e, nel contempo, potendo esprimere più preferenze in ordine di gradimento, di non disperdere il proprio voto se il candidato preferito non dovesse ottenere un numero sufficiente di voti per essere eletto. Inoltre, esso risulterebbe in piena sintonia con il modello costituzionale del C.S.M., che – come visto – è un organo di altissimo profilo, chiamato a svolgere delicate funzioni, nelle quali la sensibilità culturale di singolo consigliere dovrebbe contare molti più degli interessi di gruppo.
Il C.S.M. infatti non è un organo “rappresentativo”, neppure se con tale espressione ci riferiamo alla rappresentanza di diverse politiche di amministrazione della giustizia.
Certamente chi presenta la sua candidatura ha una sua personale concezione del ruolo del magistrato e della funzione giudiziaria e tale sensibilità, eventualmente alimentata dal suo appartenere ad una determinata associazione, egli porterà nel plenum. Tale sensibilità condizionerà presumibilmente la maggior parte delle decisioni che è chiamato ad assumere: dalla scelta dei dirigenti degli uffici, all’individuazione dei criteri per le valutazioni di professionalità, all’espressione dei pareri sui disegni di legge, e così via. Tutto questo non implica però che il C.S.M. debba “necessariamente” essere composto in modo da rispecchiare il peso che ciascuna associazione ha nella magistratura, quasi che ciascuna consiliatura si debba caratterizzare – come se fosse un “Parlamento” – per una determinata linea di politica giudiziaria.
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 12 del 1971, pretendendo che nelle commissioni deliberanti del Consiglio siano rappresentate tutte le “categorie” di magistrati, ha precisato: «non perché in questo si faccia luogo a rappresentanza di interessi di gruppo – il che sarebbe inconciliabile con il carattere assolutamente generale degli interessi affidati alla cura di quell’organo – ma in considerazione del fatto che le linee strutturali segnate nell’art. 104 Cost.» sono «ispirate all’esigenza che all’esercizio di delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici». Ed ha poi ribadito ciò nella sentenza n. 142 del 1973.
Il C.S.M., dunque, rappresenta le “categorie” di magistrati perché al suo interno devono esservi membri che conoscono le esigenze e sanno valutare le competenze di chi esercita le funzioni di legittimità, requirenti e di merito. L’elezione da parte di tutti i giudici esclude peraltro una rappresentanza “corporativa”.
In definitiva, secondo il modello costituzionale, il C.S.M. non deve necessariamente rappresentare tutti i modi di concepire la funzione giudiziaria. Tra magistrati elettori e componente togata non c’è un rapporto come quello, di natura politica, tra elettori ed eletti. È semmai l’opposto: il divieto di rielezione indica che il componente togato non risponde ai suoi elettori. Ciò non significa disconoscere l’importanza che ha avuto e che può avere ancora l’associazionismo giudiziario, ma solo che il sistema elettorale non deve essere preordinato a rappresentare le associazioni.
Oltre a riflettere sulle modalità di elezione della componente togata, sarebbe opportuna qualche riflessione anche sulla selezione dei membri laici che, sempre più spesso, appartengono alla classe politica. Si tratta di un esito che i Costituenti certamente non auspicavano, se è vero – come ricordato retro al par. 2 – che l’Assemblea costituente aveva approvato un emendamento volto proprio ad evitare che ciò accadesse e che la formulazione così approvata fu modificata dal Comitato di redazione.
A Costituzione invariata, è stato già autorevolmente ritenuto che il legislatore potrebbe introdurre una regola volta ad escludere che il Parlamento in seduta comune elegga soggetti che ricoprono o hanno ricoperto negli anni precedenti all’elezione incarichi politico-amministrativi o che sono stati eletti in organi politici ([18]).
Una limitazione di tal fatta contribuirebbe a spezzare i legami, che talvolta si creano, tra la politica dei partiti e il C.S.M., che proprio da quella politica è chiamato a proteggere i singoli magistrati.
4. Conclusioni
In questo breve scritto ci si è concentrati – come richiesto – sulla composizione del C.S.M. definita dalla Costituzione, giungendo alla conclusione che quel modello funzioni ancora e che le riforme necessarie debbano agire sul piano sub-costituzionale.
Si è svolta dunque qualche riflessione sulla disciplina ordinaria che incide sulla composizione del Consiglio.
Molte altre correzioni, sempre introducibili con legge ordinaria, potrebbero però “ricondurre” il C.S.M. all’idea che di tale organo avevano i nostri costituenti.
Limitandoci qui alle questioni in qualche modo “affini” al tema della composizione del Consiglio potrebbe, ad esempio, essere meglio disciplinato lo status dei consiglieri togati, prevedendo – come è stato per un certo periodo di tempo – che chi è stato consigliere non può, nei due anni successivi alla scadenza del mandato, partecipare ad un concorso per l’assunzione di un incarico direttivo o semi-direttivo o nuovamente essere collocato fuori ruolo. In tal modo, si evita che l’esercizio del mandato possa essere condizionato da interessi di natura personale.
Si potrebbe anche provare a ragionare dell’opportunità di incardinare in modo permanente presso il Consiglio un corpo di funzionari, autonomo e indipendente, che sostituisca, in tutto o in parte, i magistrati segretari. Questi ultimi, chiamati ad assistere i consiglieri nell’esercizio delle loro funzioni, sono spesso selezionati sulla base di logiche di appartenenza correntizia.
Infine, si potrebbe discutere seriamente dei pregi che potrebbe produrre una modifica degli artt. 21 e 30 della legge n. 195 del 1958 nella parte in cui prevede che l’intero Consiglio sia rinnovato contestualmente ([19]). Un rinnovo parziale del C.S.M. aiuterebbe, oltre che a garantire una maggiore continuità nell’esercizio delle funzioni, a spezzare alcune logiche di appartenenza, da un lato, e ad assicurare un adeguato ruolo ai laici, i quali, invece, generalmente scontano – almeno nei primi anni – un deficit di conoscenza rispetto ai colleghi magistrati. D’altro canto, se – come si è cercato di argomentare – il C.S.M. non è un organo chiamato ad esprimere, in ciascuna consiliatura, un indirizzo di politica giudiziaria di cui i componenti devono rendere conto ai loro elettori, un rinnovo parziale – come quello che caratterizza la Corte costituzionale – sarebbe compatibile con il modello costituzionale.
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. * Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17 in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
** Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Milano, componente della Commissione di riforma del CSM presieduta da M. Luciani.
([1]) Per la precisione, un organo chiamato “Consiglio superiore della magistratura” - istituito su proposta del Ministro V.E. Orlando con la legge n. 511 del 14 luglio 1907 - esisteva già nel periodo statutario, ma nulla aveva a che vedere con l’organo di cui oggi discutiamo. Si trattava di un organo incardinato presso il Ministero della Giustizia, composto da magistrati di cassazione e da componenti di nomina ministeriali e deputato a contribuire alla gestione della carriera dei magistrati. Il potere, infatti, restava in capo al Ministro non garantendo, come dimostreranno le vicende del periodo fascista, alcuna indipendenza dei magistrati. Per approfondimenti, si rinvia a A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 115 - 118.
([2]) Per queste distinzioni sia consentito rinviare, diffusamente, a N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, Zanichelli, 2019, pp. 59 ss.
([3]) Per qualche sintetica indicazione v. G. Verde – E. Cavasino, Art. 105, in Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, pp. 2020-2021; più diffusamente, v. A. Gustapane, L’autonomia e l’indipendenza della magistratura ordinaria nel sistema costituzionale italiano. Dagli albori dello Statuto albertino al crepuscolo della Bicamerale, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 109 ss.
([4]) Pres. Ruini, seduta 25 novembre 1947, Atti AC, pp. 2457 ss.
([5]) Seduta dell’11 novembre 1947, Atti AC, p. 1937.
([6]) Sia consentito rinviare a F. Biondi, La responsabilità del magistrato, Giuffrè, Milano, 2006, p. 249.
([7]) Si fa qui evidentemente riferimento alla vicenda che ha visto coinvolto il Procuratore generale nei medesimi fatti per cui egli aveva chiesto di procedere disciplinarmente nei confronti di altri magistrati. L’empasse si è risolto con le dimissioni dello stesso Procuratore Generale.
([8]) Cfr. G. Silvestri, Il vicepresidente del Csm nella Costituzione e nella legge, in Foro it., 2015, V, p. 458.
([9]) Cfr. N. Zanon – F. Biondi, op. cit., pp. 28-29; M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in Osservatorio costituzionale, n. 1/2020.
([10]) Per una ricostruzione dei fatti di cronaca, cfr. G. Santini, Appunti sul mancato scioglimento e sulla riforma elettorale del Consiglio superiore della magistratura dopo la crisi del 2019, in Forum di Quaderni costituzionali. Rassegna, 29 gennaio 2020.
([11]) Per approfondimenti sul potere presidenziale si scioglimento del C.S.M., e ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. ancora G. Santini, op. cit.
([12]) G. Flore, Note sulla possibilità di scioglimento del Consiglio superiore della magistratura, in Foro it., 1951, IV, pp. 83-41, e G. Viesti, Gli aspetti incostituzionali della legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Riv. trim. di dir. pubblico 1958, p. 532, entrambi con riferimento al disegno di legge che poi divenne l. n. 195 del 1958.
([13]) Cfr., per tutti, le conclusioni cui giunse la Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura presieduta da Livio Paladin (la Relazione della Commissione «Paladin» per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del C.S.M. può essere letta in Giur. cost., 1991, p. 1023.
([14]) Il Ministro della Giustizia Bonafede, nel corso del 2019, ha proposto di introdurre il metodo del sorteggio per la scelta dei togati. Nessun testo ufficiale che contenesse tale proposta è mai stato reso pubblico. Sono invero circolare varie bozze. In una delle prime formulazioni di tale testo il sorteggio si collocava “dopo” l’elezione da parte dei togati: i magistrati sarebbero stati chiamati a votare in venti collegi e ad esprimere una sola preferenza; i cinque magistrati più votati in ogni collegio avrebbero avuto accesso alla seconda fase, quella del sorteggio; affinché il Consiglio risultasse composto in modo da rispettare le varie componenti (giudici di legittimità, pubblici ministeri e giudici di merito), si sarebbe poi dovuto ricorrere ad un complicato meccanismo di correzione del sorteggio stesso. In una più recente formulazione della proposta il sorteggio si sarebbe dovuto svolgere prima, tra tutta la platea degli eleggibili, riducendo dell’80 per cento circa la platea degli aventi diritto a candidarsi.
Inoltre, alla Camera, il 18 giugno 2019, è stata depositata una proposta di legge (A.C. n. 1919, ad iniziativa dei deputati Colletti, Deiana, Scanu), volta a modificare in profondità la legge n. 195 del 1958 e, tra l’altro, il sistema di elezione dei componenti del CSM. I proponenti vorrebbero che il sorteggio si svolgesse “prima” dell’elezione tra tutti i magistrati che manifestano formalmente il loro interesse. Il sorteggio dovrebbe individuare cinque candidati tra i magistrati che esercitano le funzioni di legittimità, venticinque candidati tra quelli che esercitano funzioni requirenti e cinquanta candidati tra quelli che esercitano le funzioni di merito. Interessante notare che questo meccanismo (sorteggio prima ed elezione poi) vorrebbe essere esteso anche alla scelta dei laici: i parlamentari sarebbero chiamati ad eleggere tra quaranta candidati previamente sorteggiati.
([15]) Sia consentito rinviare, sul punto, già a N. Zanon - F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Quad. cost. 3/2019, p. 669. Cfr., tra i tanti, anche G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia 4/2017, p. 27, M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, in Scritti in onore di Gaetano Silvestri, vol. I, Giappichelli, Torino 2016, p. 2631.
([16]) Tra i tanti, di recente, v. S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in Osservatorio costituzionale, n. 1/2020. Si legga anche la relazione conclusiva della Commissione Scotti (Relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla Costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, p. 19).
([17]) Cfr. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., pp. 40-41; M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, cit., p. 2631. A tale proposta era giunta anche la Commissione di studio per la formulazione di proposte di riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura presieduta da Balboni (pubblicata in Quad. cost. 3/1997, pp. 552-553).
([18]) V. ancora le relazioni della Commissione Paladin e della Commissione Balboni (entrambe citate retro).
([19]) La proposta non è nuova. Fu avanzata dalla Commissione Balboni (cit. retro) e condivisa dalla dottrina (L. Violante, Magistrati, Torino, 2009, pp. 178-179, N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., p. 46; Id., Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit.; M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura, cit., p. 2632). Per passare da un regime ad un altro, si potrebbe prolungare di due anni il mandato della metà dei consiglieri, o traendoli a sorte o individuando quelli che erano stati eletti con un numero maggiore di voti.
L’attuazione dell’Ufficio per il processo (di cassazione): panacea o utopia?
di Antonio Scarpa
I. Nell’ambito degli interventi strutturali volti a porre rimedio ai permanenti “ritardi eccessivi nella giustizia civile”, i quali comportano un “impatto negativo sugli investimenti e sulla produttività”, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, presentato dal Governo italiano alla Commissione europea il 30 aprile 2021 per poter beneficiare delle risorse messe a disposizione dal Next Generation EU, comprende un “ambizioso progetto di riforme” che avrebbe “l’obiettivo di affrontare i nodi strutturali del processo civile e penale e rivedere l’organizzazione degli uffici giudiziari”.
In realtà, stando alle stime degli istituti di ricerca, si sa che la cattiva percezione dell’Italia da parte degli investitori stranieri è solo in parte (e neppure nella parte più rilevante) imputabile ai tempi della giustizia civile, su ciò incidendo anche, e talvolta di più, l’incertezza del quadro normativo, il carico burocratico, la stabilità e l’efficacia dell’azione di governo, la presenza di corruzione. Ci precedono, del resto, nella classifica delle economie mondiali con maggiore capacità di attrazione di investimenti, stati che non fanno dell’efficienza della giustizia civile il loro fiore all’occhiello.
II. È un fatto, tuttavia, che la CEPEJ (European Commission for the Efficiency of Justice) del Consiglio d’Europa continua ad additare l’Italia per l’eccessività della sopravvenienza, della pendenza e della durata media dei processi civili (in proporzione al numero di abitanti, la misura dei giudizi di cassazione introdotti da noi è cinque volte quella tedesca), sicché le Raccomandazioni specifiche del Consiglio Europeo e le Relazioni della Commissione Europea ci invitano costantemente a migliorare l’efficienza del sistema giudiziario civile.
III. Tra le finalità delle misure espressamente dedicate al sistema giudiziario dal Piano nazionale di ripresa e resilienza è individuata prioritariamente quella di “portare a piena attuazione l’Ufficio del processo”. Si tratta, com’è noto, di modello organizzativo già introdotto in via sperimentale dall’art. 50 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. Tale disposizione, inserendo l’art. 16-octies nel d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 179, prevede, “[a]l fine di garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione”, la costituzione, presso le corti di appello e i tribunali ordinari, di strutture organizzative mediante l'impiego del personale di cancelleria e di coloro che svolgono, presso i predetti uffici, il tirocinio formativo a norma dell'art. 73 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla legge n. 98 del 2013, o la formazione professionale a norma dell'art. 37, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, nonché dai giudici onorari di tribunale e dai giudici ausiliari presso le corti d’appello.
IV. Con gli articoli da 11 a 17 del d.l. 9 giugno 2021, n. 80 (Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e per l'efficienza della giustizia), sono state quindi disciplinate le procedure di reclutamento del personale addetto all'ufficio del processo, autorizzando l'assunzione (subordinatamente all'approvazione del PNRR da parte della Commissione europea) in due scaglioni, con contratto di lavoro a tempo determinato, di 16.500 unità nell'ambito della giustizia ordinaria. Nell'ambito di tale contingente, alla Corte di cassazione sono destinati addetti all'ufficio per il processo in numero non superiore a 400, da assegnarsi in virtù di specifico progetto organizzativo del Primo Presidente della Corte, con l'obiettivo del contenimento della pendenza nel settore civile e del contenzioso tributario. Il personale da assumere nell'amministrazione della giustizia ordinaria deve essere in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza ovvero, per una quota dei posti a concorso da indicarsi nel bando, del diploma di laurea in economia e commercio e scienze politiche. Quanto al trattamento economico fondamentale ed accessorio, gli addetti all'ufficio per il processo sono equiparati ai profili dell'area III, posizione economica F1. Si prevede che il servizio prestato con merito e debitamente attestato al termine del rapporto costituisce titolo per l'accesso al concorso per magistrato ordinario, equivale ad un anno di tirocinio per l'accesso alla professione di avvocato e di notaio, ovvero ad un anno di frequenza dei corsi della scuola di specializzazione per le professioni legali, e costituisce altresì titolo di preferenza per l'accesso alla magistratura onoraria. Nel d.l. n. 80 del 2021 sono quindi specificati i titoli ed i profili professionali occorrenti per l’accesso, è demandata al Ministero della giustizia l'individuazione dei tribunali o corti di appello cui assegnare gli addetti all'ufficio per il processo e viene imposto l'obbligo di permanenza nel distretto di assegnazione per l'intera durata del contratto a tempo determinato.
Già il PNRR afferma che l’ufficio per il processo “mira ad affiancare al giudice un team di personale qualificato di supporto, per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio”. Viene perciò identificato l’obiettivo principale di “offrire un concreto ausilio alla giurisdizione così da poter determinare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari per sostenere il sistema nell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e ridurre la durata dei procedimenti civili e penali”. Si intende realizzare tale obiettivo “in primo luogo, attraverso il potenziamento dello staff del magistrato con professionalità in grado di collaborare in tutte le attività collaterali al giudicare (ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti)”.
V. L’art. 12 del d.l. n. 80/2021 detta, così, le modalità di impiego degli addetti all'ufficio per il processo, facendo rinvio all'Allegato II, numero 1, che definisce le seguenti attività di contenuto specialistico dovute dagli addetti all’ufficio per il processo: “studio dei fascicoli (predisponendo, ad esempio, delle schede riassuntive per procedimento); supporto il giudice nel compimento della attività pratico/materiale o di facile esecuzione, come la verifica di completezza del fascicolo, l’accertamento della regolare costituzione delle parti (controllo notifiche, rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati ecc.), supporto per bozze di provvedimenti semplici, il controllo della pendenza di istanze o richieste o la loro gestione, organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, con segnalazione all’esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione; condivisione all’interno dell’ufficio per il processo di riflessioni su eventuali criticità, con proposte organizzative e informatiche per il loro superamento; approfondimento giurisprudenziale e dottrinale; ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte; supporto per indirizzi giurisprudenziali sezionali; supporto ai processi di digitalizzazione e innovazione organizzativa dell’ufficio e monitoraggio dei risultati; raccordo con il personale addetto alle cancellerie”.
VI. Viene subito da chiedersi in che modo e misura gli addetti dell’ufficio per il processo potranno significativamente contribuire al perseguimento dell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e della riduzione della durata dei procedimenti civili di cassazione.
Dai dati contenuti nella Relazione del Primo Presidente sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, nel 2019 risultano definiti 33.048 procedimenti civili e pendenti 117.33; nel 2020 definiti 29.108 procedimenti e pendenti 120.473. Ciò a fronte di 82 vacanze nei posti di Consigliere dell’organico della Corte.
L’idea di richiedere agli addetti dell’ufficio per il processo la redazione di “bozze di provvedimenti semplici”, a contenuto inevitabilmente decisorio, anche nell’ambito dei giudizi civili di legittimità, impone di pensare innanzitutto ad un’elevata professionalità del personale da assumere, o, viceversa, ad un contributo non rilevante sotto il punto di vista strettamente numerico. Se un consigliere delle sezioni civili della Corte redige al momento in media duecentocinquanta provvedimenti l’anno, quante bozze di sentenze o ordinanze potrà predisporre, con rassicurante autonomia operativa, il singolo addetto all’ufficio per il processo che dovrà affiancarlo nei prossimi mesi?
C’è poi un problema pratico di intuibile complessità: in quale spazio del Palazzo di Piazza Cavour potranno svolgere le loro attività gli addetti dell’ufficio per il processo?
L’utilità dell’apporto degli addetti dell’ufficio per il processo nella Corte di Cassazione sarà comunque per forza direttamente proporzionale (anche in ragione della carenza di spazi fisici di lavoro nel Palazzo) alla progressiva digitalizzazione degli atti già depositati in originale cartaceo secondo le forme ordinarie nei procedimenti civili pendenti, non potendosi affidare il recupero del macroscopico digital divide del nostro supremo organo di giurisdizione alla sola collaborazione degli avvocati, in forza del Protocollo d’intesa del 27 ottobre 2020. L’inoltro, comunque facoltativo, da parte dei difensori, degli atti processuali del giudizio di cassazione, in precedenza depositati nelle forme ordinarie previste dalla legge, avviene, infatti, solo dopo la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza pubblica o dell’adunanza camerale, e quindi suppone già svolte tante delle attività in cui sarebbe davvero proficua l’attività degli addetti dell’ufficio per il processo, ovvero quella volta all’esame preliminare del fascicolo per una oculata e non occasionale formazione dei ruoli.
Ogni ottimistico progetto di conseguire l’abbattimento dell’arretrato e la riduzione della durata dei procedimenti civili di cassazione resterà, dunque, utopia, pur con l’aiuto degli addetti all'ufficio per il processo, se anzitutto non si pone termine a quella “estenuante manipolazione di documenti cartacei” tramite “penna, inchiostro e calamaio”, che Stefano Zan già nel 2003 (Fascicoli e tribunali, Il Mulino) individuava fra le cause principali delle disfunzioni organizzative del nostro sistema giudiziario. Atti nativi digitali dei giudizi di merito convertiti in cartacei per il deposito in cassazione, spesso scansionati dal consigliere di cassazione relatore per convertirli in file digitali di provvedimenti che vengono stampati in documenti cartacei depositati in cancelleria e ritrasformati in file dal C.E.D.
La disponibilità immediata dell’archivio digitale dei processi pendenti consentirebbe una organizzata classificazione dei ricorsi da avviare, a seconda della questione di diritto su cui pronunciare, per l’udienza pubblica, l’adunanza camerale o il nuovo “procedimento accelerato” delineato nelle Proposte della Commissione presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso. Queste attività di studio, selezione ed accorpamento dei ricorsi pendenti, affidate ai singoli consiglieri individualmente coadiuvati da un addetto dell’ufficio per il processo, ove tempestivamente svolte ben prima dell’occasionale fissazione della data dell’udienza o dell’adunanza, rimedierebbero alle insufficienze dell’attuale sistema di spoglio dei ricorsi nel settore civile della Corte ed all’estemporaneità delle formazioni dei ruoli di udienza, garantendo soluzioni contestuali e coordinate, e dunque più utili ed agevoli.
Se si pensa che l’ufficio per il processo nella Corte di cassazione possa davvero servire a qualcosa, che non sia meramente simbolico, senza aver prima risolto le condizioni di arretratezza tecnologica della stessa Suprema Corte e dei suoi giudizi civili, è inutile, ed anzi pericoloso, continuare a proporre baratti fra ulteriori aumenti della produttività dei consiglieri e ulteriori mistificanti semplificazioni motivazionali delle decisioni dei giudici di legittimità. Innanzitutto, la motivazione minima, costituzionalmente sufficiente, di un provvedimento della Corte di cassazione che accoglie o rigetta un ricorso, non può discendere dal rito che sia prescelto dal presidente in sede di fissazione dell’udienza o dell’adunanza, ovvero dalla veste formale di sentenza o ordinanza, ma dipende sempre, nel concreto, dalla rilevanza e dal numero delle questioni su cui il collegio deve pronunciare.
E comunque il “peso del giudicare” è dato dal decidere, cioè dal trasformare il processo in sentenza, e non dal motivare: perciò l’insostenibile carico del giudice è e sarà sempre il “decidere troppo”, giammai il “motivare abbastanza”.
All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative
di Ruggiero Dipace
La questione della proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico ricreative è oggetto di un vivace dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza alimentato da un quadro normativo non del tutto chiaro e in possibile contrasto con il diritto europeo.
Al fine di dirimere le numerose questioni interpretative in materia, il Presidente del Consiglio di Stato, con decreto 24 maggio 2021, n. 160, ha deferito d’ufficio all’Adunanza plenaria due appelli in materia. Il potere officioso ex art. 99 c. 2 c.p.a. è stato utilizzato raramente e ciò dimostra la rilevanza delle questioni sottoposte al massimo organo della giustizia amministrativa.
Come noto la questione riguarda la necessità o meno, alla luce del diritto europeo e in particolare della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006 (c.d. direttiva Bolkestein) di procedere, una volta scadute le concessioni, a una selezione pubblica per l’individuazione del nuovo concessionario. In tal senso si era espressa la Corte di giustizia UE (sez. V, 14 luglio 2016, C-458/14 e C-67/15) secondo la quale l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE “deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”. Tali concessioni, quindi, rientrano nel campo applicativo della direttiva fermo restando il potere del giudice nazionale di valutare la natura “scarsa” o meno della risorsa naturale attribuita in concessione. Infatti, la direttiva prevede che “qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”. In questi casi, quindi, l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata e non può prevedere alcuna “procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami”.
A discapito del dato normativo europeo e dell’interpretazione della Corte di Giustizia, il legislatore nazionale ha previsto continue proroghe automatiche alla durata delle concessioni evitando così il ricorso alle procedure a evidenza pubblica imposte dal diritto europeo. In particolare, l'art. 1, c. 682 della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019), ha prorogato per quindici anni le concessioni demaniali marittime (quindi fino al 2033). Tali norme hanno peraltro causato l’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea in data 3 dicembre 2020.
Da ultimo, per far fronte alla crisi economica derivante dall’emergenza sanitaria, l’art. 182, c. 2, del d.l. n. 34 del 2020, ha previsto una moratoria generalizzata al ricorso alle gare per le concessioni.
A contribuire a rendere il quadro ancora più complesso si sono inserite alcune disposizioni regionali che hanno nella sostanza replicato le norme statali riguardanti le proroghe automatiche delle concessioni.
Tali leggi regionali, però, sono state impugnate dallo Stato che le ha ritenute lesive delle competenze delle proprie competenze in materia di tutela della concorrenza (ex art. 117, c. 2, lett. e, Cost.). Da ultimo, la questione è stata affrontata dalla Corte costituzionale con la decisione 9 giugno 2021, n. 139. In quel contenzioso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 maggio 2020, n. 8 che prevedeva che la validità delle concessioni con finalità turistico-ricreativa e sportiva, diportistica e attività cantieristiche connesse in essere alla data del 31 dicembre 2018, con scadenza antecedente al 2033, si estendesse, a domanda dei concessionari, fino al 31 dicembre 2033. Si trattava, quindi, di una legge regionale che replicava il meccanismo statale della proroga automatica delle concessioni.
La Corte costituzionale con la decisione 139/2021 ha statuito che la regione Friuli Venezia Giulia, pur essendo titolare di competenze legislative primarie in materia di ittica, pesca e turismo, nonché delle competenze amministrative sul demanio marittimo, lacuale e fluviale, ha leso la competenza legislativa statale in materia di concorrenza prevedendo una proroga delle concessioni in essere sino al 2033 non favorendo il ricorso a procedure di selezione pubblica e, quindi, limitando la concorrenza fra imprese (sul punto si veda anche la Corte cost. 12 gennaio 2021, n. 10; tale principio è stato affermato anche dal Consiglio di Stato con sentenza sez. IV, 16 febbraio 2021, n. 1416 secondo la quale il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, tale da determinare un ostacolo all'ingresso di nuovi soggetti nel mercato, ove previsto dalla legislazione regionale, comporta non solo l'invasione della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza ma anche il contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia). La Corte, inoltre, ha precisato che nel campo della tutela della concorrenza la regione non può ventare alcuna competenza statutaria.
Tale contraddittorio quadro normativo ha dato luogo a differenti approcci delle amministrazioni concedenti alcune delle quali, in ossequio alla normativa europea favorevole alle procedure a evidenza pubblica, hanno negato le proroghe, disapplicando la normativa nazionale (in alcuni casi sono state concesse solo mere proroghe tecniche in attesa delle gare); altre amministrazioni hanno deciso in senso diametralmente opposto concedendo proroghe in applicazione della disciplina nazionale. Ovviamente, tale complessa situazione ha ingenerato un consistente contenzioso con decisioni ondivaghe sia di primo sia di secondo grado.
Proprio il decreto presidenziale deferisce all’Adunanza Plenaria due ricorsi in appello su controversie concernenti il rigetto di istanze di proroga di concessioni ma le cui decisioni di primo grado avevano avuto esiti opposti. Si tratta degli appelli su Tar Puglia, Lecce, sez. I, 13 gennaio 2021, n. 73 e Tar Sicilia, Catania, 15 febbraio 2021, n. 504.
Con la prima decisione, il Tar Puglia ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento del Comune di Lecce con il quale si rigettava la richiesta della proroga automatica di una concessione in quanto in palese contrasto con la normativa nazionale ritenuta l’unica applicabile stante la sua prevalenza rispetto alla direttiva Bolkestein ritenuta non autoesecutiva e, pertanto, non suscettibile di diretta e immediata applicazione.
Infatti, secondo il Tar Puglia, la direttiva non può essere autoesecutiva in quanto non vengono normati alcuni aspetti fondamentali della disciplina delle gare per le concessioni. Quindi, è necessaria una normativa nazionale attuativa e di riordino del settore che individui la durata delle concessioni; le norme in materia di procedure selettive; la previsione di un indennizzo per i precedenti concessionari e, quindi, norme a tutela del loro legittimo affidamento.
Stante la natura non autoesecutiva della direttiva non sussisterebbe in capo alla pubblica amministrazione alcun obbligo di applicazione immediata della norma europea. Per cui un provvedimento amministrativo che disapplichi la norma nazionale sarebbe illegittimo per violazione di legge.
Con la decisione del Tar Sicilia n.504/2021, si afferma chiaramente il principio della necessità di ricorrere alle gare per l’assegnazione delle concessioni. Infatti, si ricorda che già la giurisprudenza, anche prima della sentenza della Corte di Giustizia del 2016, aveva in via maggioritaria aderito all’interpretazione favorevole all’esperimento delle procedure a evidenza pubblica in adesione ai principi comunitari di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, previsti dalla direttiva n. 123/2016. Tale indicazione si è rafforzata con la sentenza della Corte di giustizia del 2016 di modo che la proroga ex lege delle concessioni demaniali non può essere generalizzata, dovendo la normativa nazionale uniformarsi al quella europea sulle gare. Le concessioni, infatti, rientrano in linea di principio nell’ambito di applicazione della direttiva. Semmai, come già affermato dalla Corte di Giustizia, resterebbe devoluta al giudice nazionale la valutazione circa la natura “scarsa” della risorsa. Secondo il Tar, quindi, ogni regime che preveda una proroga automatica delle concessioni, indipendentemente dalla valutazione della natura scarsa o meno della risorsa naturale, sarebbe illegittimo. In tale contesto, il Tar affermava il potere/dovere non solo del giudice ma anche del funzionario pubblico di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con quella comunitaria.
Nella sostanza queste conclusioni erano state già raggiunte dal Consiglio di Stato con la citata sentenza sez. IV, 1416/2021. Con tale decisione si è affermato il principio che il mancato ricorso a procedure di selezione pubbliche crea un ostacolo all’ingresso di nuovi operatori in un settore come quello delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno a oggetto un bene/servizio limitato nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali.
In questa decisione il tema della scarsità della risorsa appare di rilievo ed è elemento di differenziazione rispetto alla sentenza del Tar Sicilia. Il Consiglio di Stato, infatti, ritiene di per sé la spiaggia un bene limitato e scarso con la conseguenza che ogni concessione deve essere assegnata con selezione pubblica.
Nel caso della decisione del Tar Sicilia, invece, l’affermazione sembra essere più sfumata. Di volta in volta, infatti, l’amministrazione (e, quindi, il giudice) dovrebbe valutare sulla natura scarsa o meno della risorsa e, conseguentemente, decidere se ricorrere a una procedura selettiva.
L’elemento della valutazione caso per caso della natura scarsa della risorsa spiaggia sembra, quindi, essere dirimente nell’ambito della decisione sul ricorso alle procedure a evidenza pubblica e, a dire il vero, appare la soluzione più in linea con la normativa comunitaria. Su tale questione, quindi, si potrà trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di garantire l’attuazione del principio della concorrenza e quello di salvaguardare le esigenze degli operatori già presenti sul mercato.
I temi sono effettivamente di notevole portata e interesse e dal contrasto giurisprudenziale evidenziato deriva la decisione del Presidente del Consiglio di Stato che con il citato decreto ha rimesso all’Adunanza plenaria i seguenti quesiti:
“1) se sia doverosa, o no, la disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative; in particolare, se, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro sussista, o no, l’obbligo di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati, nonché se, nel caso di direttiva self-excuting, l’attività interpretativa prodromica al rilievo del conflitto e all’accertamento dell’efficacia della fonte sia riservata unicamente agli organi della giurisdizione nazionale o spetti anche agli organi di amministrazione attiva;
2) nel caso di risposta affermativa al precedente quesito, se, in adempimento del predetto obbligo disapplicativo, l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 e s.m.i., nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio;
3) se, con riferimento alla moratoria introdotta dall’art. 182, comma 2, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, come modificato dalla legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, qualora la predetta moratoria non risulti inapplicabile per contrasto col diritto dell’Unione europea, debbano intendersi quali “aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” anche le aree soggette a concessione scaduta al momento dell’entrata in vigore della moratoria, ma il cui termine rientri nel disposto dell’art. 1, commi 682 e seguenti, l. 30 dicembre 2018, n. 145.”
Come è facile rilevare, le questioni che si pongono in materia sono numerose e di interesse. Si parte dalla natura giuridica delle concessioni ai fini dell’applicazione della direttiva europea, al tema della scarsità del bene, più in generale al rapporto fra normativa nazionale ed europea e al conseguente potere di disapplicazione normativa. Proprio sotto quest’ultimo aspetto i quesiti sottoposti all’Adunanza plenaria hanno un rilievo che va ben oltre il tema della conformità o meno delle proroghe automatiche al diritto europeo. Lasciando in disparte ogni considerazione sulla portata e sui limiti del potere officioso del Presidente del Consiglio di Stato ex art. 99, c. 2, c.p.a., la decisione dell’Adunanza plenaria, infatti, dovrà delineare l’ampiezza del potere di disapplicazione della normativa nazionale in conflitto con quella europea e, in particolare, se questo sia obbligatorio anche per le amministrazioni, gli enti pubblici e i soggetti a essi equiparati. Inoltre, dovrà essere chiarita la portata dell’esercizio del potere in autotutela da parte delle amministrazioni in adempimento al predetto obbligo disapplicativo.
La decisione, quindi, è attesa non solo per la risoluzione dello specifico problema riguardante le concessioni ma anche per le sue implicazioni di carattere generale in materia di disapplicazione normativa.
Immagine politica e sostanza concettuale nella tassazione minima dei gruppi multinazionali
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali - 2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali - 3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale) - 4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività.
1. Tassazione minima delle multinazionali tra effetti annuncio e problemi concettuali
Dietro quello che tutti i mezzi di comunicazione, e gli uffici stampa dei governi, presentano come giro di vite sulla tassazione dei gruppi multinazionali, non c’è un preciso documento politico, una dichiarazione congiunta sulle finalità dell’operazione. Non ci sono cioè dettagli dell’accordo politico cui fa riferimento il documento tecnico sul sito OCSE, a questo link https://www.oecd.org/tax/beps/statement-on-a-two-pillar-solution-to-address-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy-july-2021.pdf. Esso è già molto preciso nelle indicazioni, persino in alcuni dettagli, ma è assertivo, senza esaminare la possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi con strumenti più semplici, nel quadro dei principi di tassazione societaria internazionale indicati ai punti successivi. Abbiamo quindi da un lato enunciazioni politico mediatiche quantomeno generiche e dall’altro un tecnicismo asettico. Sullo sfondo si concepisce la presentazione antropomorfica delle aziende multinazionali, confuse con i loro titolari, che invece spesso mancano del tutto, in quanto non ci sono certo da qualche parte il signor Nestlè o il signor Apple, per non dire i due soci signor Coca e signor Cola. Viene cavalcata politicamente la visione personalistica delle aziende, come artigiani o piccoli commercianti troppo cresciuti, anche da parte di economisti guru del pensiero liberal , con un semplicismo uguale e contrario a quello liberista (concetto opposto a quello di liberal) sull’autosufficienza del mercato. Le aziende vengono viste come moderni Paperoni anziché come gruppi di migliaia o decine di migliaia di persone, aggregate dalla produzione di merci o di servizi, che ne limitano l’orizzonte, tanto che molti comunicati stampa di aziende multinazionali hanno persino plaudito al quadro confusionario che si sta delineando sul nostro tema. È la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, del business as usual, lo stesso atteggiamento con cui le aziende si sono poste di fronte alle possibilità di pianificazione fiscale internazionale, ritenendo doveroso profittare di tutte le scappatoie legali per ridurre il carico tributario. Sia la pianificazione fiscale internazionale, sia l’accettazione del ruolo di capro espiatorio del malessere delle società occidentali confermano la mancata consapevolezza delle aziende di essere gruppi sociali pluripersonali e la loro incapacità di esprimere una loro weltanschauung (salvo il capitalismo renano giapponese, più istituzionalizzato di quello finanziario anglosassone e familiare italiano ). La tassazione minima al 15% è un episodio di queste incomprensioni culturali, con riflessi farseschi di cui ai punti successivi.
2. Frammentazione societaria dei gruppi multinazionali
Invece di divagare pro o contro le aziende multinazionali bisogna mettere alcuni punti fermi per il giurista non tributarista cui è indirizzata Giustizia insieme. Prima di tutto si tratta di questioni interpretative, collegate alla ricerca del regime tributario più conveniente su operazioni aziendali registrate, senza evasioni in senso materiale, cioè rappresentazioni alterate degli eventi aziendali, ad esempio mancata registrazione di ricavi o annotazione di documenti fittizi; questi comportamenti sono semplicemente incompatibili coi controlli interni delle aziende pluripersonali, dove la proprietà non si occupa della gestione, o è addirittura diluita tra migliaia di piccoli azionisti, come indicato al punto 1. I vantaggi fiscali delle multinazionali riguardano invece il regime giuridico di flussi economici palesi, risultanti dai bilanci, riguardanti solo le imposte sui redditi e connesse spesso agli scoordinamenti tra sistemi fiscali dei vari paesi coinvolti. Tali scoordinamenti tra regimi tributari possono essere sfruttati opportunisticamente dai gruppi multinazionali in quanto essi non costituiscono un soggetto unitario di diritto. I gruppi sono infatti frammentati tra una pluralità di società giuridicamente autonome, residenti in stati diversi. Ciò accade per ragioni di praticità, benchè l’organizzazione complessiva consideri sé stessa, nella sostanza economico-gestionale, un’unica entità mondiale. La frammentazione del gruppo in tante società, giuridicamente autonome in ogni ordinamento nazionale in cui operano, ha molteplici ragioni. Una di esse era costituita dalle frontiere commerciali, dogane e dazi, con conseguente necessità di decentrare la produzione in siti industriali specifici per i mercati di sbocco. Questa necessità è meno pressante con la globalizzazione, ma restano motivi innumerevoli per strutturare i gruppi multinazionali in società autonome; ci sono ad esempio le limitazioni di responsabilità, fino alla praticità di interlocuzione con le istituzioni nazionali, compresi i tribunali, ed eventuali partners locali, omogenei per lingue e mentalità. Questi motivi di praticità operativa, di vendita e di logistica, benché alleggeriti dall’utilizzazione di internet, spingono ancora oggi alla divisione giuridica dei gruppi multinazionali in società autonome nazionali, legate da un rapporto di controllo, diretto o indiretto, cioè a catena, alla capogruppo. Con questa modalità organizzativa delle aziende in questione deve ancora oggi fare i conti l’imposizione tributaria, come indicato al prossimo paragrafo.
3. Logiche generali della tassazione internazionale dei redditi delle società del gruppo (pianificazione, elusione e concorrenza fiscale sleale)
Il gruppo multinazionale, per i motivi indicati al paragrafo precedente, è molto affidabile ai fini delle imposte sui consumi, come l’IVA sulle vendite a consumatori finali che acquistano online da aziende come Amazon. Le pianificazioni tributarie derivano invece da un’allocazione accorta, tra le società appartenenti al gruppo, delle componenti reddituali positive e negative in cui si articolano i flussi reddituali delle società del gruppo, vista la frammentazione di cui al punto precedente. La pianificazione spinge a massimizzare i costi attribuiti agli ordinamenti tributari con aliquota maggiore, ed i ricavi attribuiti a quelli con aliquota modesta o addirittura assente. I vincoli esterni sono la collocazione dei ricavi verso i clienti finali, i mercati di approvvigionamento delle materie prime e la materiale collocazione degli impianti produttivi. Una oggettiva convenienza tributaria si autoproduce anche quando le imposte sui redditi societari, nei paesi dove l’azienda è naturalmente collegata dai motivi suddetti, sono modeste o addirittura inesistenti; si pensi a molti paesi petroliferi o a paesi che esonerano da imposte societarie gli insediamenti produttivi, come gli stabilimenti, in quanto produttivi di sviluppo e know how per la manodopera locale, nonché di ritenute e contributi sociali su erogazioni a dipendenti e collaboratori.
Su queste premesse il reddito del gruppo multinazionale si frammenta, ai fini dell’imposizione tributaria, tra i vari ordinamenti nazionali suddetti; ciò porta ad un’aliquota fiscale effettiva sui redditi data dal rapporto tra imposte complessive dalle società del gruppo e il reddito totale del gruppo stesso, risultante dal bilancio consolidato, irrilevante ai fini tributari; a questo carico fiscale effettivo si riferisce l’aliquota del 15% proposta dall’OCSE. Per capire questo correttivo basta osservare cosa accadrebbe senza la frammentazione societaria di un al punto precedente; la tassazione del reddito di un’impresa unica multinazionale seguirebbe i due momenti logici tipici di ogni contribuente. In primo luogo si avrebbe l’imposizione sul reddito riferibile ai vari paesi di operatività aziendale, da parte di questi ultimi. In seconda battuta verrebbe l’imposizione nel paese di residenza, che accrediterebbe alla casa madre le imposte pagate nei vari paesi di produzione del reddito. È la logica, relativamente elementare, della sede centrale e delle stabili organizzazioni di un’azienda giuridicamente unitaria, che si modifica invece per la frammentazione in società nazionali, indicata al punto precedente. Il basso carico fiscale complessivo che ha tanto impressionato le opinioni pubbliche, trova comunque i suoi correttivi nel tempo; la capogruppo dovrà infatti prima o poi ad incassare i dividendi, nel qual caso molti ordinamenti, come quello statunitense, prevedono un conguaglio delle imposte pagate nei paesi esteri dalle società controllate, e l’imposta statunitense dovuta. È uno dei tanti elementi da cui si capisce che il problema della tassazione delle multinazionali è tecnicamente meno drammatico di come viene politicamente presentato.
4. La “minimum tax “ come livello di tassazione e problemi di effettività
L’aliquota del 15% non è quindi una imposta autonoma, ma un livello di tassazione medio derivante dal complesso delle imposte sui redditi delle società del gruppo. Nei disegni dell’OCSE il paese della capogruppo applicherà le proprie imposte sul reddito globale del gruppo, in modo che il carico fiscale medio sul reddito del gruppo sia pari al 15 percento; l’aliquota necessaria a tal fine, nel paese della capogruppo, è quindi variabile gruppo per gruppo, nella misura necessaria a raggiungere il livello globale del 15%. In questa prospettiva le imposte corrispondenti a tutti i paesi in cui si divide la filiera reddituale del gruppo saranno sommate, con corretti effetti di compensazione tra aliquote superiori e inferiori al 15%, non in assoluto, ma a seconda della fetta della torta reddituale spettante a ciascun paese (non si tratta cioè di una media delle aliquote delle società del gruppo, ma di una media ponderata in base al reddito di ciascuna).
Già da questo si comprende benissimo la possibilità di ciascun paese di procedere unilateralmente in questo senso, per tutte le società capogruppo, finali o intermedie, residenti nella sua sfera di sovranità fiscale, la c.d. tax jurisdiction. Quindi la necessaria multilateralità, cui enfaticamente si fa riferimento a livello mediatico-politico, è priva di giustificazioni tecnico-concettuali. Se alcuni paesi non aderiscono all’accordo, magari Ungheria, e qualche paese baltico, ciò riguarderà le società capogruppo in essi ubicate, ma non impedirà che i redditi ungheresi o baltici concorrano alla tassazione minima delle capogruppo di altri paesi. Sembra quasi che la tanto sbandierata multilateralità sia un pretesto politico per giustificare a posteriori la presumibile scarsa efficacia di una manovra farraginosa rispetto ad altri noti strumenti tecnici per raggiungere gli stessi risultati. Sembra quasi, in termini geopolitici, che gli USA della nuova amministrazione Biden vogliano dare un segnale ai vari movimenti che riferiscono lo slogan tax the rich alle organizzazioni aziendali pluripersonali (sopra punto 1) anziché alle persone fisiche che ne sono titolari. Le amministrazioni fiscali degli stati in cui risiede la casa madre sono infatti perfettamente al corrente delle pianificazioni fiscali poste in essere dai gruppi multinazionali, come nel caso Apple , in cui il vero danneggiato, assolutamente consapevole, fu il fisco USA , come spiegato nel video su youtube dal titolo PARADISI FISCALI? Il caso FCA |Raffaello Lupi , Gianluigi Bizioli. Consentire queste pianificazioni serve come agevolazione fiscale selettiva, molto meno costosa, e più discrezionale, di agevolazioni fiscali generalizzate. Oggi, evidentemente, l’amministrazione liberal di Biden , pur potendo a rigore procedere in via unilaterale, cerca di mediare tra varie tendenze politiche USA, da una parte i suoi sostenitori occupy wall street e dall’altra wall street e relative lobbies. Una mediazione, per dire di fare senza fare, è appunto la pretesa multilateralità, di cui giuridicamente non c’è alcun bisogno. Spero di sbagliarmi a pensare male, ma viene il sospetto di un gigantesco alibi, costruito perché ogni stato, USA in prima fila, possa proclamare “io lo farei, ma lo dobbiamo fare tutti e ci sono altri che non lo fanno”. Tuttavia, sempre sul piano politico, e di giustizia fiscale, questo nuovo clima limiterà di fatto la connivenza statunitense verso pianificazioni fiscali aggressive come quelle indicate sopra. La domanda che sorge spontanea è però se c’è bisogno di sconquassare il sistema di tassazione internazionale per consentire all’amministrazione USA di gestire al meglio la propria pubblica opinione. È infatti possibile contrastare le tecniche di pianificazione fiscale delle aziende multinazionali senza complicate attrazioni alla casa madre di tutti i redditi mondiali, magari in società dove la partecipazione non è al 100% ma ci sono soci di minoranza. Si tratta, ripetiamo, di pratiche alla luce del sole, verso le quali basta far funzionare i controlli a valore normale dei prezzi intragruppo tra le società dei gruppi multinazionali. Rispetto al controllo dei prezzi di trasferimento e dei costi attribuiti alle società del gruppo da parte di altre, ubicate in paesi a bassa tassazione o comunque agevolate, la considerazione unitaria del gruppo come soggetto d’imposta è enormemente più complicata; essa infatti riguarda in buona parte vicende collocate all’estero, sfuggenti rispetto ai poteri di indagine degli uffici tributari, detrazioni di imposte estere di cui spesso non si conosce la natura, definitiva o meno, o il riferimento ai redditi o al patrimonio. Poi si tratta di conciliare l’imposta minima di conguaglio, necessaria a raggiungere il livello minimo di tassazione al 15%, con la distribuzione di dividendi, cui tutti i paesi già oggi accompagnano nuovi conguagli basati su vari parametri, dall’ubicazione della società erogante a tentativi di calcolo del carico fiscale effettivo a monte. Quest’imposta minima di conguaglio vanificherebbe poi i regimi fiscali strutturali previsti a regime in paesi in cui effettivamente si collocano le fonti di materie prime o gli stabilimenti in cui avviene l’attività d’impresa. Tali stati spesso si fanno pagare con diritti di vario tipo, come quelli di estrazione di minerali (petrolio), che non sarebbero considerati come imposte sui redditi ai fini del calcolo del 15 percento; inoltre si penalizzerebbe la genuina collocazione di fabbriche in paesi in via di sviluppo, come indicato al par.2, con un effetto anti-delocalizzazione anche positivo, ma estraneo agli obiettivi del diritto tributario.
Quest’enorme e velleitaria complicazione rafforza le perplessità di chi scrive sulla padronanza, da parte di un organo politico-economico come l’OCSE, di alcuni concetti di base giuridico-sociali sulla determinazione dei presupposti economici d’imposta. Proprio l’OCSE infatti ha fortemente pregiudicato i suddetti controlli dei prezzi di trasferimento intragruppo insistendo sul confronto esterno coi prezzi praticati tra parti indipendenti per operazioni similari, che però in genere mancano vista la profonda integrazione economica dei gruppi multinazionali; ne sono risultati paragoni assolutamente forzati con aziende esercenti attività solo apparentemente affini (sono comici per chi li conosce i c.d. set di comparables). Risultati molto più proficui avrebbero potuto derivare dall’individuazione e remunerazione delle funzioni produttive, nel c.d. confronto interno nella ripartizione della torta reddituale del gruppo. Una cosa che l’OCSE avrebbe potuto dire, ma non ha detto, è estendere il controllo dell’amministrazione fiscale della capogruppo alle operazioni a monte, non riguardanti direttamente lei, ma controllate indirette, non rettificate dagli stati di residenza.
L’astrattezza economicistico-burocratica dell’OCSE si vede anche nell’idea, presente nel documento citato all’inizio, tassare parte del reddito nei paesi in cui avviene esclusivamente il consumo, come suggeriscono taluni economisti fiscali (Devereux di Oxford). Si tratta di idee del tutto stridenti ed eterodosse rispetto alla riferibilità soggettiva dei presupposti economici d’imposta; il reddito richiede infatti un qualche contributo causale, legato alla sfera territoriale dello stato impositore. L’idea che anche il consumatore contribuisca alla produzione è invece surreale, un po' come pensare che il cibo si produca mangiandolo o i vestiti si producano indossandoli. Bisognerebbe chiedersi cosa pensano i produttori di questa nuova singolare divisione internazionale del lavoro, e cosa accadrebbe se tutti decidessero di svolgere il ruolo dei consumatori. La tassazione nello stato del consumo di una quota del redditp del produttore sarebbe infatti una variazione sul tema delle imposte sul consumo, precisamente una contorta versione reddituale dei dazi doganali. Il che dopotutto è accaduto con la farraginosa web tax, quando sarebbe stato molto più facile formalizzare la stabile organizzazione digitale integrando, anche per norma interna, le lacune delle convenzioni contro le doppie imposizioni. L’intera vicenda conferma le difficoltà della politica, dei mezzi d’informazione e delle varie burocrazie quando mancano adeguate spiegazioni sociali dei fenomeni da regolare.
Da minoranza a maggioranza: la diversità di genere influenza il processo decisionale?
di Maddalena Ronchi e Viola Salvestrini
Negli ultimi decenni, la magistratura italiana è stata protagonista di una marcata trasformazione in termini di composizione demografica. Dal 1965, anno in cui le prime otto donne entrarono a far parte della professione, vi è stato un progressivo incremento della partecipazione femminile in magistratura. Nel 1987, per la prima volta ci furono più donne che uomini tra i vincitori di concorso, ed è dal 2015 che il numero di donne in magistratura ha superato quello degli uomini. Oggi, il 54% dei magistrati è donna – e questa percentuale è probabilmente destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che le donne sono la maggioranza sia dei laureati in giurisprudenza che dei vincitori di concorso in magistratura. Sebbene le donne siano tuttora sottorappresentate negli organi più alti della magistratura (ad esempio, solo il 28% delle magistrate ricoprono incarichi direttivi, e il Consiglio Superiore di Magistratura è, per la grande maggioranza, composto da uomini), suggerendo quindi la presenza di un “soffitto di cristallo”, sembrerebbe solo una questione di tempo prima che la magistratura diventi, a tutti gli effetti, un organo “al femminile”. Viene dunque spontaneo chiedersi se e quali conseguenze questa progressiva trasformazione comporterà circa l’operato della magistratura stessa.
Sostenere infatti una equilibrata rappresentanza dei sessi negli organi decisionali, anche e soprattutto in magistratura, non è solo una questione di eguaglianza: “organi più equilibrati sotto il profilo del genere sono organi capaci di migliori decisioni e organi più attenti e sensibili”, come sottolineato da Marilisa D’amico, Professore ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano[1]. Il tema dell’equilibrio di genere appare infatti strettamente connesso alla funzionalità dell’organo. Tale concetto è stato ben messo in evidenza dal Giudice amministrativo, a proposito della composizione delle Giunte regionali e locali, affermando che “organi squilibrati nella rappresentanza di genere (…) risultano (…) potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato” (TAR Lazio sent. n. 6673 del 2011). La differenza e la complementarità fra i generi costituiscono a tutti gli effetti una risorsa, per via “di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere” (TAR Lazio sent. n. 6673 del 2011). Risorsa che viene a mancare nel momento in cui uno dei due generi non si trovi adeguatamente rappresentato. Dunque, se è condiviso e condivisibile, come sottolineato da Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale e professore emerito all'Università di Milano, e dalla Prof.ssa D’Amico, che “una giustizia in cui siano rappresentati sia donne che uomini è una giustizia migliore”[2] e che “una bassa presenza di donne all’interno di un organo incide negativamente sulla qualità delle determinazioni che quell’organo è chiamato ad assumere”[3], sarebbe importante verificare, dati alla mano, se la presenza sempre più numerosa delle donne in magistratura abbia influito sul modo di fare giustizia, e se una progressivamente ridotta presenza di uomini abbia effetti simili.
L’impatto della diversità di genere all’interno di un organo sul processo decisionale e sulla performance dello stesso è centrale nella letteratura scientifica, ed in particolare in quella economica. Studi hanno dimostrato che la presenza di donne all’interno di organi decisionali influenza le preferenze del gruppo, il processo decisionale e l’esito dello stesso[4]. Gruppi con una composizione più equa in termini di genere sembrano ottenere risultati migliori[5], ed avere diversi processi decisionali[6], un insieme di competenze più ampio[7] e stili diversi di corporate leadership[8] [8]. Tuttavia, l’evidenza scientifica sugli effetti della diversità di genere è limitata a pochi contesti, spesso circoscritti ad esperimenti di laboratorio dove le decisioni che il gruppo si trova a compiere sono di importanza marginale; oppure, nei casi in cui tali decisioni siano invece rilevanti, variazioni nella diversità di genere del gruppo raramente emergono spontaneamente – si pensi, ad esempio, alle quote rosa. Dunque, l’evidenza fornita dagli studi esistenti non sembrerebbe poter essere facilmente estesa al contesto della magistratura italiana.
Il nostro progetto di ricerca si propone di colmare questa lacuna nella letteratura studiando gli effetti della diversità di genere all’interno dei Tribunali Italiani, nelle istanze in cui questi operano collegialmente. Il contesto dei tribunali collegiali è particolarmente idoneo allo studio dell’impatto della diversità di genere all’interno di un organo decisionale per tre principali motivi.
In primo luogo, ci consente di verificare se collegi che si trovano a deliberare su reati comparabili raggiungano decisioni diverse a seconda della loro composizione di genere (mista o omogenea) e, ove ciò avvenga, se tale effetto sia diverso per gruppi omogenei composti da sole donne o da soli uomini. Affinché sia possibile attribuire con precisione tali effetti alla composizione di genere del gruppo, occorre che questa sia casuale; ciò è garantito grazie all'assegnazione predeterminata, e soprattutto indipendente dal loro genere, dei magistrati ai collegi, per quei reati che ne prevedono l’istituzione. In secondo luogo, il contesto giudiziario offre l'opportunità di esaminare empiricamente se la diversità di genere di un collegio influisca sulla tenuta di una sentenza, stimando la probabilità che questa venga confermata o riformata in appello, e comprendere se ciò dipenda anche dalla composizione del collegio che delibera in secondo grado. Infine, traendo vantaggio dal marcato cambiamento demografico tuttora in atto, abbiamo la possibilità di studiare il processo decisionale in contesti in cui gli uomini e le donne possono rappresentare, di volta in volta, sia la maggioranza che la minoranza, fornendo nuove testimonianze sugli effetti della transizione da un'occupazione esclusivamente maschile a un'occupazione dominata dalle donne.
Grazie alla disponibilità dei Presidenti di alcuni Tribunali, che hanno accettato di collaborare a questo ambizioso progetto, analizzeremo un elevato numero di sentenze penali emesse in composizione collegiale degli ultimi 20 anni. In tal modo, saremo in grado di sfruttare variazioni temporali nella composizione in termine di genere dei collegi giudicanti. Inoltre, grazie alla presenza di diverse sezioni, potremo restringere l’analisi a reati comparabili e, al tempo stesso, capire se eventuali risultati sono specifici a un particolare reato o se invece sono comuni a più reati. Il nostro metodo di ricerca, basato su consolidate e comprovate tecniche econometriche, ci permetterà dunque di confrontare collegi che deliberano su uno stesso reato e in condizioni comparabili (ovvero, stesso tribunale, tipologia di reato, simili caratteristiche dei giudici, e così via), ma che hanno differenti composizioni di genere, in modo tale da essere in grado di attribuire eventuali differenze nei processi decisionali proprio a quest’ultime.
Sebbene le decisioni che i collegi, ed i magistrati tutti, si trovano a prendere siano estremamente complesse e i fattori in gioco molteplici, riteniamo che la nostra analisi, basata su metodologie econometriche già utilizzate nel contesto giudiziario, possa aiutare a comprendere e quantificare l’importanza di una rappresentazione equilibrata in termini di genere, nella magistratura ed altrove. Poiché la segregazione occupazionale di genere non solo non è equa, ma non è neppure efficiente – sia in istanze in cui le donne siano sottorappresentate, sia in istanze in cui gli uomini lo siano.
Chi fosse disponibile a collaborare a questo progetto di ricerca, può contattarci ai seguenti indirizzi: v.salvestrini@qmul.ac.uk e maddalena.ronchi@unibocconi.it. Consapevoli della natura sensibile dei dati contenuti nelle sentenze, vorremmo chiarire quanto segue: a) la nostra ricerca non è attinente ai dati dell’imputato, che quindi potranno essere anonimizzati; b) l’analisi si baserà su un grande numero di sentenze aggregate tra loro e non sarà possibile, sulla base dei risultati, identificare né una particolare sentenza né i giudici coinvolti; c) i dati saranno conservati su un server sicuro messo a disposizione da Queen Mary University of London. Per la realizzazione di questo progetto, abbiamo ricevuto un assegno di ricerca dall’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza (EIEF). L'EIEF è un Istituto di Ricerca fondato dalla Banca D'Italia nel 2008.
[1] M. D'Amico, C. M. Lendaro e C. Siccardi, Eguaglianza di genere in Magistratura: quanto ancora dobbiamo aspettare?, Franco Angeli, 2017, p. 24.
[2] V. Onida, «La parità di genere in magistratura: tra eguaglianza e differenza,» in Eguaglianza di genere in Magistratura: quanto ancora dobbiamo aspettare?, Franco Angeli, 2017, p. 28.
[3] M. D'Amico, «Magistratura e questione di genere: alcune riflessioni sulla (necessaria) presenza femminile nel Consiglio Superiore della Magistratura,» Forum di Quaderni Costituzionali, n. 4, 2020, p. 386.
[4] G. Azmat, «Gender diversity in teams,» Iza World of Labor.
[5] S. H. Hoogendoorn, Oosterbeek e M. v. Praag, «The impact of gender diversity on the performance of business team: Evidence from a field experiment,» Management Science, vol. 59, n. 7, pp. 1514-1528, 2013.
[6] J. Apesteguia, G. Azmat e N. Iriberri, «The impact of gender composition on team performance and decision-making: Evidence from the field.,» Management Science, vol. 58, n. 1, pp. 78-93, 2012.
[7] D. Kim e L. Starks, «Gender diversity on corporate boards: Do women contribute unique skills?,» American Economic Review, vol. 106, n. 5, pp. 267-271, 2016.
[8] D. A. Matsa e A. Miller., «A female style in corporate leadership? Evidence from quotas.,» American Economic Journal: Applied Economics, vol. 5, n. 3, pp. 136-169, 2013.
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