ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020)
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. I precedenti delle Sezioni Unite su detenzione per uso di gruppo e coltivazione per uso personale - 2. La coltivazione di gruppo: a) la forma domestica di produttività ridottissima – 2.b) le dimensioni minime della coltivazione - c) la destinazione all’uso personale
1. I precedenti delle Sezioni Unite su detenzione per uso di gruppo e coltivazione per uso personale
La sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020, depositata il 16 dicembre 2020, è fra le prime che applicano nel merito la recente pronuncia della Corte di Cassazione, n. 12348/20 - imputato Caruso[1] - depositata in data 16.04.2020.
Innovando la giurisprudenza relativa alla coltivazione di marijuana (che per oltre trent’anni aveva ritenuto ogni forma di coltivazione penalmente illecita, anche se univocamente destinata all’uso personale[2]), la sentenza “Caruso” ha affermato che il reato non sussiste se la coltivazione è di modeste quantità (indicando alcuni indici per qualificarla in tal modo) e il consumatore finale è il coltivatore[3]; se ne evince quindi che se invece la finalità è quella di cedere a terzi la marijuana ottenuta, la coltivazione rimane reato. La penale irrilevanza della modesta coltivazione per uso personale esclude altresì (a differenza della detenzione per uso personale) la rilevanza amministrativa ex art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, dato che “tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione”[4] .
Va premesso che qualche anno prima, Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013, (dep. 10/06/2013) aveva ribadito che, nonostante i mutamenti legislativi, la detenzione di modeste quantità non costituisce reato, se destinata all’uso personale. La sentenza afferma che la detenzione rimane punita se finalizzata alla cessione; tuttavia è scriminata se l’acquisto avviene per conto di un gruppo che, prima dell’acquisto, programma di consumare direttamente (specificando gli indici del c.d. consumo di gruppo)[5].
La disciplina che deriva dai principi delle due sentenze delle SS.UU. è che la coltivazione di modeste dimensioni è penalmente irrilevante, se il consumatore finale è il solo coltivatore; è reato ai sensi dell’art. 73 T.U. n. 309/1990 invece se di grandi dimensioni o se la finalità è quella di cedere a terzi. La detenzione anche di modeste quantità è punita se finalizzata alla cessione; ma è depenalizzata se destinata all’uso personale, e ciò anche quando l’acquisto avviene per conto di un gruppo che, prima dell’acquisto, programma di consumare direttamente.
Rimane perciò aperta la questione relativa alla fattispecie della coltivazione di gruppo per uso personale: è irrilevante penalmente anche coltivare (in concorso) marijuana per farne uso di gruppo? O il fatto che il consumo non sia individuale da parte di un unico coltivatore fa permanere l’illiceità? La sentenza Caruso non affronta questo caso, né specifica come si determina la terzietà rispetto alla coltivazione. È questo invece l’oggetto rilevante della sentenza del Tribunale di Brescia[6].
Sintetizzando il fatto esaminato, le forze dell’ordine avevano rinvenuto una piantagione composta da n. 9 piante di cannabis indica, dell'altezza tra 1.20 e 2,10 mt, del peso complessivo di 919 grammi, con principio attivo in percentuale del 3,5% e in assoluto di 32,2 grammi di D9-THC. Gli operanti avevano effettuato, nell'immediatezza, una perquisizione personale degli imputati all'esito della quale avevano rinvenuto 3,9 grammi di sostanza stupefacente del tipo hashish, occultata nel marsupio di uno, e due pezzi di sostanza stupefacente del tipo hashish, rispettivamente del peso di grammi 0,9 e 3,7, nell’abitazione di un altro.
Non vi è dubbio che la detenzione dell’hashish rientrasse fra quelle ad uso personale, e infatti la sentenza assolve perché il fatto non costituisce reato. Interessa invece la decisione relativa alla coltivazione della marijuana, affrontata sul solco della sentenza Caruso indagando sulla offensività in concreto, per giungere ad assolvere gli imputati perché il fatto non sussiste.
2. La coltivazione di gruppo: a) la forma domestica di produttività ridottissima
Le SS.UU. “Caruso” esaminano l’orientamento sino ad allora prevalente per il quale la coltivazione, a differenza della detenzione, è comunque reato in quanto attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti; ma lo superano affermando che “tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti.”[7]. E forniscono, a titolo esemplificativo, alcuni indici: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante.
Nella sentenza “Caruso” si precisa che la coltivazione scriminata deve essere una “coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica… destinata in via esclusiva all’uso personale”. E’ compito del giudice di merito perciò accertare in fatto, utilizzando gli indici forniti, i due elementi costitutivi: le caratteristiche della coltivazione (così da poterla qualificare come “domestica”) e la destinazione esclusiva all’uso personale.
La sentenza annotata, per valutare la forma domestica, procede esattamente nel modo richiesto dalle Sezioni Unite, evidenziando in primo luogo come “l’attività di coltivazione sia avvenuta personalmente da parte degli imputati, su un terreno nella disponibilità personale di uno di loro, con tecniche approssimative (basti pensare che una parte delle sementi è stata piantata nel terreno ed una parte in una cisterna di plastica), con governo manuale e “rudimentale” eseguito tramite attrezzi certamente non “imprenditoriali” (due taniche d’acqua, una vanga ed un tridente di piccole dimensioni)”. Ciò consente perciò agevolmente al giudice di merito di qualificare la coltivazione come domestica, di produttività ridottissima.
2.b) le dimensioni minime della coltivazione
Quanto esposto evidenzia una residua diversità fra la detenzione di gruppo e la coltivazione di gruppo. Infatti la sentenza “Caruso”, come si visto, nella sua accezione letterale, non scrimina tutte le coltivazioni “destinate all’uso personale”, ma solo quelle “di minime dimensioni svolte in forma domestica”: quindi rimangono punibili le coltivazioni di dimensioni non minime, anche se a uso personale[8]. Diversamente, rispetto alla detenzione per uso personale, secondo la sentenza n. 25401/13 il quantitativo è solo un indice della destinazione.
Per quantificare le minime dimensioni, è possibile ragionare in analogia fra gli istituti della particolare tenuità e della destinazione a uso personale, ritenendo, alla luce della giurisprudenza che ha preso in esame il dato quantitativo, che un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione (da parte di un singolo) secondo i principi della sentenza Caruso[9].
Rimane però un’ultima questione: se la coltivazione è di gruppo, nel determinare le “minime dimensioni”, il dato quantitativo va considerato nella sua unicità, o va diviso per il numero dei coltivatori?
La sentenza annotata propende per la seconda soluzione: “Lo scarso numero di piante, che la sentenza delle Sezioni Unite indica quale indice sintomatico della destinazione ad uso personale evoca subito il problema del numero delle piante stesse. La casistica sul numero delle piante considerate dalla giurisprudenza è assai vasta e variabile; tuttavia si può ragionevolmente concludere che, in materia di coltivazione, un numero di piante non superiore a dieci può essere considerato minimo, o scarso, per cui nel caso che qui occupa anche rapportato al numero pro capite esso si attesta a tre piante per imputato”.
2. c) la destinazione all’uso personale
Il secondo requisito appare di meno facile determinazione, dato che letteralmente la dizione della Suprema Corte nella sentenza “Caruso” sembra escludere qualsiasi cessione: la sostanza coltivata deve essere destinata in via esclusiva all’uso personale.
Occorre però riprendere il concetto di uso personale elaborato da SS.UU. n. 25401/13, nella quale si afferma, in relazione alla detenzione, che “in altre parole, poiché la disposizione non parla di uso individuale e non limita la caratteristica denotativa della condotta detentiva all’autore singolo, il sintagma “uso non esclusivamente personale” non è concettualmente incompatibile con il consumo di gruppo, anche nella forma specifica del mandato ad acquistare. La locuzione può pertanto essere legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga detenuta da una singola persona sia destinata ad un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata.”
E’ quindi possibile interpretare la normativa applicabile al caso concreto alla luce di una combinata applicazione dei principi sanciti dalle due SS.UU., nel senso di accertare se, visto che la sentenza “Caruso” parla di “coltivazione … destinata in via esclusiva all’uso personale”, anche la coltivazione possa essere scriminata quando avviene nella forma specifica del mandato a coltivare per ottenere una sostanza destinata a un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo, per conto e su mandato dei quali è stata coltivata.
La sentenza di merito in commento pratica proprio questo metodo: “Peraltro, con specifico riferimento agli imputati, può anche parlarsi di “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”, ricorrendo nel caso concreto gli indici richiesti dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi a seguito delle più volte citate SS.UU. Caruso, ossia che i coltivatori o una parte di essi siano fra gli assuntori del prodotto finito, con la volontà manifestata fin dall’inizio da parte degli stessi di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.”
La sentenza - e va sottolineato - tiene in conto anche un altro indice della destinazione all’uso personale, che può essere compreso fra quelli che la Suprema Corte richiama genericamente come “mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”: cioè le condizioni sociali e famigliari degli imputati. Si tratta, si rileva, “di soggetti molto giovani, tutti incensurati, ben inseriti dal punto di vista sociale con impieghi lavorativi ovvero titolari di diplomi di studi superiori ed in taluni casi con studi universitari in corso”; per cui non è provato e non è probabile che traggano reddito da attività di spaccio.
In definitiva: se l’attività di coltivazione posta in essere dagli imputati è di minime dimensioni, è svolta in forma domestica con utilizzo di rudimentali tecniche, con scarso numero di piante e modesto quantitativo di prodotto ricavabile; se è attività destinata in via esclusiva all’uso personale dei coltivatori, data la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti; accertato questo, secondo le condividibili conclusioni della sentenza annotata, anche nel caso di pluralità di soggetti coinvolti nell’attività di coltivazione essi devono essere assolti perché il fatto non sussiste.
[1] Sentenza commentata su questa Rivista in: Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite - prima parte e seconda parte- , di Lorenzo Miazzi, pubblicato il 23 e 24 aprile 2020.
[2] “La detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore …. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”: Corte costituzionale, sentenza n. 360 del 1995. A questi principi si adeguò per lungo tempo la giurisprudenza prevalente della Cassazione, mentre una minoritaria continuò a cercare percorsi interpretativi diversi per escludere la rilevanza penale.
[3] Nella sentenza si afferma che "il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore".
[4] Punto 6: “Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell'art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale.
[5] Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013 Ud. (dep. 10/06/2013 ) Rv. 255258
Anche all'esito delle modifiche apportate dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nell'ipotesi di acquisto congiunto, che in quella di mandato all'acquisto collettivo ad uno dei consumatori, non è penalmente rilevante, ma integra l'illecito amministrativo sanzionato dall'art. 75 stesso d.P.R., a condizione che: a) l'acquirente sia uno degli assuntori; b) l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all'acquisto.
[6] Sentenza commentata anche in Stefano Paloschi, Coltivazione "di gruppo" ed uso personale, sul sito: https://www.studiopaloschi.it/post/coltivazione-di-gruppo-ed-uso-personale
[7] Punto 4.2
[8] Punto 4.2: “A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale.”
[9] Si rinvia a “Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite” di Lorenzo Miazzi (parte seconda)” , in questa Rivista, paragrafo 10.
La pazza gioia: il “cinema folle”, la società civile e il diritto penale
di Antonella Massaro
Sommario: 1. Dal neorealismo alla commedia all’italiana: le indissolubili pietre di paragone del cinema italiano. – 2. La pazza gioia: storia di Beatrice e Donatella. – 3. Cinema e disagio psichiatrico 3.1. Il ruolo delle immagini cinematografiche nel processo di “definitivo superamento” degli OPG. – 4. Il superamento degli OPG e l’approdo alle REMS. – 5. Cura e custodia nel letto di Procuste dalla misura di sicurezza detentiva. – 6. I rapporti tra le REMS e i “luoghi contigui”: a) il carcere. – 6.1. b) la rete dei servizi per la salute mentale. – 7. Le luci del cinema come antidoto al buio dell’indifferenza.
1. Dal neorealismo alla commedia all’italiana: le indissolubili pietre di paragone del cinema italiano
È innegabile che il cinema italiano abbia toccato una delle sue vette più elevate con la poetica, l’estetica e l’etica del neorealismo, divenuto l’immancabile pietra di paragone alla quale, implicitamente o esplicitamente, si ricorre per valutare il grado di purezza della filmografia successiva a quel periodo aureo. Il neorealismo, insomma, è una sorta di “gigante addormentato”, pronto a risvegliarsi non appena si porti la camera all’esterno, puntando l’obiettivo su situazioni di emarginazione socio-economica a fini di denuncia politica, magari rinunciando all’attore professionista e inserendo qualche inflessione dialettale[1]. A ciò si aggiunga che il neorealismo rappresenta uno spartiacque tra un “prima”, rappresentato essenzialmente dal cinema fascista, insieme consolatorio, affabulatorio e propagandistico, e un “dopo”, caratterizzato dall’infrangersi impietoso di quella speranza utopica che aveva alimentato l’illusione di “poter cambiare il mondo”[2].
In quel “dopo”, costretto alla trasformazione, ma incapace di arrendersi a un distacco definitivo dalla matrice neorealista, si trovano spesso collocati tanto il neorealismo rosa quanto la commedia all’italiana. Entrambi contribuiscono a definire una linea di transizione che dalla “poetica dei rifiuti” muove verso la strategia del consenso: il dramma e l’impegno lasciano il posto ai toni leggeri e allo stereotipo, spesso cedendo alle lusinghe di un bozzettismo assai prossimo al “qualunquismo”[3].
Nella critica più recente, tuttavia, non solo si è assistito alla valorizzazione di film “rosa” come Due soldi di speranza di Renato Castellani o Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini che, pur con lo sguardo rivolto al botteghino, avrebbero contribuito alla (ri)fondazione di quella identità nazionale che i bombardamenti e la guerra civile avevano rischiato di seppellire[4], ma la “commedia all’italiana” ha progressivamente assunto la consistenza di affidabile lasciapassare per una valutazione positiva e addirittura lusinghiera, da parte tanto del pubblico quanto della critica. L’impressione, altrimenti detto, è quella per cui la commedia all’italiana sia divenuta un metro di giudizio evocato, quasi quanto quello del neorealismo, per conferire una patente di virtuosità a quelle pellicole capaci di far sorridere e, con uguale intensità, di commuovere. I soliti ignoti di Mario Monicelli o Il sorpasso di Dino Risi, solo per restare agli esempi più noti, introducono la morte all’interno di una commedia e, attraverso l’epica dell’antieroe o (addirittura) dell’inetto, stringono l’obiettivo sul vuoto aperto da una modernizzazione rapida e frenetica, che lascia il singolo smarrito e privo di punti di riferimento.
La commedia all’italiana inaugura anche un nuovo modo di “fare cinema”, fondato più sul comune lavoro di bottega che su quello delle singole individualità, in un clima di ottimistica e condivisa partecipazione creativa[5]. A un gruppo di registi che operano secondo modelli espressivi comuni (Monicelli, Risi, Comencini, Germi, Scola) si accompagna una serie di attori che presto divengono iconici (Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni), ma soprattutto emerge in maniera sempre più riconoscibile la penna di alcuni sceneggiatori che segnerà un’epoca, a partire da quella di Age e Scarpelli. Molti “scrittori di cinema” provengono dalle riviste umoristiche, come il Marc’Aurelio, e imparano l’arte di mettere a punto un andamento narrativo “a orologeria”, con attenzione prioritaria all’uso della parola e alle battute fulminanti. «L’autore della sceneggiatura», scrive Age, «è come il guardiano del faro: tutti vedono il faro ma nessuno vede a lui»[6], finché qualcosa cambia: e la commedia all’italiana, forse, ha rappresentato un motore importante di questo cambiamento.
Con la commedia all’italiana il film diviene un “prodotto” dal confezionamento sempre più riconoscibile, capace di ottenere importati successi al botteghino e, al tempo stesso, di fotografare i vizi e le virtù di una generazione intera: dagli “italiani brava gente” ai “mostri” individualisti ed arrampicatori sociali, eterodiretti dalla trionfante società dei costumi[7], costretti alle regole di un gioco che, tuttavia, quasi mai li vede vincitori. L’intreccio non include necessariamente il lieto fine, conducendo spesso a una vera e propria sconfitta del personaggio. La comicità finisce per divenire umorismo (nel senso pirandelliano del termine), offrendo l’occasione per riflettere su quell’uomo qualunque in cui, in fondo, non è poi così difficile riconoscersi e immedesimarsi[8].
Molti di coloro che osservano il cinema italiano senza la competenza tecnica del cineasta, ma con le sole lenti messe a disposizione dal “sapere laico”, avranno certamente intravisto i tratti distintivi della commedia all’italiana in molti film di Carlo Verdone, a partire da Compagni di scuola: un racconto corale, il fallimento di una generazione, il finale amaro che, come la morte di Sora Lella in Bianco, rosso e verdone in quella cabina elettorale in cui avrebbe voluto votare comunista, bagna di lacrime i sorrisi dispensati da scene e da battute rimaste scolpite nell’immaginario collettivo.
1.1. Paolo Virzì come erede della commedia all’italiana?
Anche per il cinema di Paolo Virzì “viene facile” il riferimento ad alcuni schemi della commedia all’italiana. In Tutta la vita davanti lo spettacolare call center diretto da un’impeccabile Sabrina Ferilli, al quale Isabella Ragonese approda dopo la sua laurea in Filosofia cum laude, diviene una finestra sul precariato nel mondo del lavoro: è il racconto della instabilità emotiva e sociale di un’intera generazione di “figli”, chiamati a fare i conti con gli errori di quei “padri” già impietosamente tratteggiati in Ferie d’agosto e che “si evolveranno” con Il capitale umano. Se in alcuni dei suoi film più riusciti, a partire da La prima cosa bella, l’ottica intimista sembrerebbe quella prevalente, con La pazza gioia riemerge, in maniera più evidente, la tensione sociale e “corale” di Paolo Virzì.
L’accostamento tra Virzì e la commedia all’italiana, del resto, non risponde al mero gusto di rispolverare a tutti i costi i fasti di un passato che ha reso monumentale il cinema italiano nella scena internazionale, ma emerge in maniera esplicita dalla biografia artistica del regista e sceneggiatore livornese: l’incontro con Furio Scarpelli durante gli anni di formazione al Centro Sperimentale di cinematografia è un dettaglio che, certo, non può passare inosservato. Il cinema che piace e interessa a Virzì, insomma, non è quello che stordisce lo spettatore con mirabolanti movimenti di macchina «come un dolly sulla verdura o il primo piano di un carciofo» ma quello che punta tutto su una solida sceneggiatura e sulla direzione degli attori “giusti”. La commedia all’italiana, precisa Virzì, «è una stagione del cinema italiano che adoro, soprattutto per lo spirito che la caratterizza: rendere popolari le cose più alte e complesse. Mi piace lo spirito non fanatico, antieroico di quel film»[9], come, verrebbe da aggiungere, quello interpretato dalle due protagoniste de La pazza gioia.
2. La pazza gioia: storia di Beatrice e Donatella
La pazza gioia, presentato al Festival di Cannes del 2016, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, è scritto da Paolo Virzì insieme a Francesca Archibugi, sciogliendo per l’occasione il tradizionale sodalizio di penna con Francesco Bruni. Il trionfo ai Nastri d’argento e ai David di Donatello è un (meritato) tributo alla regia, alla sceneggiatura, nonché alle due attrici protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti.
Villa Biondi, in Toscana, è una struttura residenziale psichiatrica che ospita donne con disturbi mentali, anche quelle che hanno commesso reati e per le quali è stata disposta una misura di sicurezza. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi) appartiene al mondo dell’alta borghesia: un marito avvocato che ha difeso il Silvio Berlusconi vittima dell’accanimento della magistratura italiana, dei genitori tanto ricchi quanto distanti, un ostinato attaccamento al bon ton e al lusso ostentati. Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti) la bella vita non l’ha mai conosciuta: diventata mamma troppo presto, senza dei genitori capaci di offrirle dei modelli di riferimento, porta sul suo corpo i segni di un passato carico di sofferenza. Quando Beatrice e Donatella si incontrano a Villa Biondi i loro destini sembrano fatti per incrociarsi e sovrapporsi: iniziano insieme una corsa, inebriata e inebriante, verso l’illusione della libertà, avviando un percorso circolare in cui il punto di partenza coincide con quello di arrivo, ma che inciderà profondamente sulla percezione di sé e degli altri.
Anche se, a tratti, sembrerebbe trovarsi di fronte alle cadenze tipiche del viaggio on the road e anche se la scena iconica della fuga a bordo di una Lancia Appia rosso fuoco potrebbe evocare immediatamente le atmosfere di Thelma e Louise, il gusto della “citazione a tutti i costi” parrebbe piuttosto condurre, con tute le dovute cautele, alla coppia d’oro Gassman-Trintignant de Il sorpasso: due caratteri diversi, l’uno esuberante e vulcanico l’altro silente e a tratti incredulo, che da speculari si scoprono complementari, duettando mirabilmente secondo un copione in cui la sceneggiatura attenta e calibrata rappresenta uno dei tratti più riconoscibili.
La morte, che tanto ne Il sorpasso quanto in Thelma e Louise irrompe nel finale, è presente anche ne La pazza gioia, ma in modo diverso: è una morte che si ferma un attimo prima di aver portato a termine il suo compito (nel tentato omicidio-suicidio che, a un certo punto, interrompe la vita di Donatella, ma anche nell’incidente stradale nell’ultima parte del film), è quel confine tra libertà e costrizione, tra “normalità” e malattia, lungo il quale si sviluppa tutta la storia; è quella sensazione che, tuttavia, si dissolve nel sorriso finale, carico di speranza, delle due protagoniste.
3. Cinema e disagio psichiatrico
«Ma siete matte?», tuona una passante quando Beatrice e Donatella abbandonano quella macchina con troppo poca benzina per assecondare le loro pretese di libertà. «Eh…secondo alcune perizie sembrerebbe di sì!», risponde Beatrice con la surreale lucidità che appartiene al suo linguaggio e al suo ragionamento.
Proprio il tema affrontato da La pazza gioia colloca il film in una posizione indubbiamente peculiare, specie prendendo in considerazione il panorama offerto dal cinema italiano.
La malattia mentale, soprattutto quando si trova a incrociare il contesto del manicomio civile e del manicomio giudiziario, approda tardi e (tutto sommato) raramente sul grande schermo, anche se in maniera spesso incisiva.
Umberto Veronesi, evidenziando che il sempre crescente numero di film dedicati al tema dell’eutanasia misurasse il grado di emozione e condivisione dei dibattiti al riguardo, ricordava il ruolo fondamentale che titoli come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Figli di un Dio minore, Rain Man e Forrest Gump hanno svolto per la dignità e la libertà di persone con disabilità fisiche o psichiche[10]. In Qualcuno volò sul nido del cuculo, in effetti, il tema del trattamento della malattia mentale è l’oggetto centrale della storia, mentre in altri film lo stesso si trova inserito nella cornice di contesti narrativi indubbiamente più ampi: in questa seconda “categoria” potrebbero collocarsi anche pellicole come Ragazze interrotte, Changeling o Mommy, solo per riportare alcuni esempi tratti dalla filmografia americana ed europea di maggiore successo.
Quanto al cinema italiano, la delicata transizione (medica e culturale) traghettata dal pensiero di Franco Basaglia è stata raccontata con delicata incisività da Marco Tullio Giordana ne La meglio gioventù, in cui le storie di Giorgia (Jasmine Trinca), Nicola (Luigi Lo Cascio) e Matteo (Alessio Boni) si annodano anche attorno alle istanze che, nel 1978, hanno condotto alla chiusura dei manicomi civili.
Possono citarsi poi, per il loro tentativo di “guardare in faccia” la realtà manicominale, la Pecora nera di Ascanio Celestini e Si può fare di Giulio Manfredonia: se il primo è intimista, introspettivo e, in fondo, disperato, il secondo è corale, a tratti ammiccante ed essenzialmente fiducioso, raccontando le possibilità di inserimento nel mondo del lavoro attraverso l’esperienza delle cooperative sociali.
La gamma di registri con i quali sceneggiatori e registi possono rapportarsi al tema del trattamento del disagio psichico, in effetti, è particolarmente variegata e proprio ne La pazza gioia sembra conoscere un felice tentativo di sintesi. Il film di Virzì, che inserisce le vicende (anche) delle protagoniste nella cornice dell’“internamento giudiziario”, è ambientato nel 2014, quando il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari disposti dal legislatore italiano non era ancora giunto a compimento. Lo spettro dell’internamento in OPG aleggia costante sul percorso che scandisce la fuga delle protagoniste, fino a quando Donatella, dopo aver incassato l’ennesimo abbandono di un padre in giacca di paillettes, non riuscirà ad evitare un nuovo ricovero, in una delle sequenze più “giuridicamente toccanti” del film. La pazza gioia, in effetti, che pure non ha nulla di quella pedanteria esplicativa in cui talvolta indulge il legal drama di marca statunitense e al quale, per la verità, la tradizione italiana parrebbe generalmente refrattaria, tratteggia efficacemente i tasselli del mosaico che descrive i complessi rapporti tra il disagio psichico, la società civile e il diritto penale.
3.1. Il ruolo delle immagini cinematografiche nel processo di “definitivo superamento” degli OPG
Sono trascorsi dieci anni da quando il decreto legge n. 211 del 2011, convertito dalla legge n. 9 del 2012, proclamava solennemente il “definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”[11], avviando quel processo di riforma completato poi, sul piano legislativo, dal decreto legge n. 52 del 2014, convertito dalla legge n. 81 del 2014.
Gli ospedali psichiatrici, sopravvissuti all’epoca Basaglia e passati indenni attraverso il cambio di etichetta che tentava di allontanare lo spettro del “manicomio”, sia pur solo “giudiziario”, divengono all’improvviso “emergenza”, alla quale rimediare con urgenza attraverso un doppio decreto legge.
Le ragioni che hanno condotto all’esplosione, apparentemente improvvisa e repentina, di una realtà che da tempo si era incancrenita nelle maglie dell’esecuzione penale, sono molteplici ed eterogenei. Alla composizione della proverbiale “goccia che ha fatto traboccare” il vaso, tuttavia, ha contribuito in maniera significativa anche il cinema, questa volta non di finzione ma di tipo documentaristico.
Quando la Commissione parlamentare presieduta dal Senatore Ignazio Marino compie le sue ispezioni a sorpresa nei sei OPG allora presenti sul territorio nazionale (Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto)[12], il regista Francesco Cordio lascia che l’occhio della sua macchina da presa registri quello su cui solo lo sguardo di pochi si era fino a quel momento poggiato. Le immagini, raccolte nel documentario Lo Stato della follia, raccontano di pareti con l’intonaco cadente, di letti di metallo arrugginiti, dell’odore acre di residui organici capace di oltrepassare la barriera dallo schermo. Quelle immagini arrivano anche sui canali delle televisioni nazionali. Non si è trattato, forse, di qualcosa di paragonabile a I giardini di Abele, l’inchiesta con cui Sergio Zavoli e le telecamere della RAI entravano nel manicomio di Gorizia diretto da Franco Basaglia. Certamente, però, quelle immagini hanno lasciato il segno. Bisogna aver visto, avvertiva Piero Calamandrei in riferimento alla questione carceraria: anche perché, quando si è visto, è più difficile, moralmente e giuridicamente, continuare a voltare lo sguardo.
Le immagini in questione, pare doveroso sottolinearlo, non hanno mancato di suscitare critiche o perplessità tra gli operatori delle strutture-lager messe sotto accusa. Si lamentava, in particolare, una situazione di autentico abbandono istituzionale e un’assoluta carenza dei fondi alla materiale alla gestione di strutture tanto complesse. Deve tuttavia precisarsi che, se i sopralluoghi condotti dalla Commissione Marino hanno suscitato un indubbio clamore, già il Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva segnalato delle criticità, relative in particolare all’OPG di Aversa, dalle quali si intuiva chiaramente che il vaso stava per traboccare[13].
4. Il superamento degli OPG e l’approdo alle REMS
La questione OPG, tra l’altro negli stessi anni in cui l’Italia si trovava a fare i conti con la sentenza Torreggiani della Corte EDU[14], balza improvvisamente ai vertici dell’agenda politico-legislativa, dando luogo, come anticipato, a una riforma articolata in due fasi.
La legge n. 9 del 2012 non incide sulla misura dell’ospedale psichiatrico giudiziario così come prevista dal codice penale né apporta modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario: l’ospedale psichiatrico giudiziario resta inserito nel catalogo delle misure di sicurezza previste dall’ordinamento, senza neppure la premura di veder adeguata la propria denominazione formale attraverso un mero restyling rispondente a esigenze di eufemismo legislativo.
La svolta annunciata dal legislatore del 2012 ha dunque essenzialmente ad oggetto le concrete modalità di esecuzione del ricovero in OPG, a fronte di una condizione epidermicamente intollerabile della quasi totalità delle sei strutture allora presenti sul territorio nazionale. Il “cuore pulsante” della novella consiste infatti nella chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari già esistenti e nella loro sostituzione con le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Il “superamento” non sconfina nell’“abolizione”: la storia della psichiatria, specie nei suoi rapporti con l’ordinamento giuridico, continua a essere raccontata come storia dell’abitare[15], con tutte le conseguenti difficoltà di identificare una struttura chiusa che sostituisca l’ospedale psichiatrico giudiziario senza riprodurne i difetti.
Il fatto che la misura di sicurezza del ricovero in OPG resti vigente non significa certo che l’intervento legislativo si sia risolto fin dall’inizio in un “nulla di fatto”. Il legislatore «“fa” qualcosa di culturalmente importante: addita una situazione inaccettabile, verso la quale prende posizione nei termini di un “mai più”, “mai più così”»[16]. Il recupero delle condizioni minime di dignità imposte dall’ordinamento giuridico e, prima ancora, dalla condizione di esseri umani[17], nonché il superamento di quella dimensione di “non luogo” in cui rischiavano di inabissarsi gli OPG[18] rappresenta il presupposto logicamente e giuridicamente preliminare di ogni intervento ulteriore che aspiri alla consistenza di autentica “riforma”.
I due principi cui si ispirano le nuove residenze sono quelli della territorializzazione e della sanitarizzazione[19]. Secondo il principio di territorializzazione, le REMS sono destinate ad accogliere, di regola, internati-pazienti provenienti dal territorio regionale di ubicazione delle stesse: l’ambito territoriale costituisce la sede privilegiata per assicurare la cura e la potenziale riabilitazione dei soggetti affetti da disturbi mentali, vista la possibilità di creare una virtuosa sinergia tra i diversi servizi sanitari, tra questi e i servizi sociali e tra le istituzioni e la compagine sociale. Quanto alla sanitarizzazione, “mettendo a sistema” l’esempio virtuoso dell’ex OPG di Castiglione delle Stiviere, si prevede che le REMS svolgono «funzioni terapeutico-riabilitative e socio riabilitative»: la loro «gestione interna […] è di esclusiva competenza sanitaria» e «la responsabilità della gestione all’interno della struttura è assunta da un medico dirigente psichiatra» (Allegato A del decreto del Mistero della Salute 1 ottobre 2012).
Si stabilisce altresì un numero massimo di internati, pari a venti, che ciascuna REMS può ospitare.
Il successivo intervento realizzato con la n. 81 del 2014 ha fatto di certo registrare più rilevanti modifiche di carattere sistemico che, incidendo in maniera significativa sul ricovero in OPG, hanno cercato di correggere le distorsioni più evidenti e intollerabili mostrate dalla prassi, senza tuttavia approdare alla radicale messa in discussione della misura.
Anzitutto, il legislatore appone un termine di durata massima alle misure di sicurezza detentive (anche se provvisorie), all’evidente scopo di porre un argine al dilagante fenomeno dei c.d. ergastoli bianchi. Tra le varie soluzioni astrattamente ipotizzabili[20], si è scelto di fissare il termine massimo di durata della misura di sicurezza in corrispondenza della pena edittale massima prevista per il reato commesso: a questo fine deve farsi applicazione dei criteri contenuti dall’art. 278 c.p.p., previsti per la determinazione della pena agli effetti delle misure cautelari. Per esplicita previsione dello stesso art. 1, comma 1-quater, inoltre, il termine massimo di durata non è riferibile ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo, per i quali di conseguenza la misura di sicurezza detentiva continua a mantenere una potenziale durata massima illimitata.
Al di là delle perplessità derivanti dall’applicazione della nuova disciplina[21], sembra difficilmente contestabile che una così significativa modifica abbia intaccato in maniera visibile le “generali” basi sistematiche sulle quali si fonda il doppio binario, giungendo a mettere in discussione la stessa distinzione tra misure di sicurezza e pene detentive. Il profilo «più eversivo» contenuto nella proposta della Scuola positiva diretta all’introduzione di misure di difesa sociale era rappresentato proprio dall’indeterminatezza del limite massimo di durata, divenuta poi carattere strutturalmente e inscindibilmente connesso alla funzione loro riconosciuta[22]. Se, dunque, viene meno la necessaria corrispondenza tra l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva e la (perdurante) pericolosità sociale del soggetto e se la durata massima della misura resta in definitiva rapportata non alla pericolosità in concreto, ma alla gravità del reato commesso, il dualismo tra responsabilità individuale-pena e pericolosità sociale-misura di sicurezza fatica a delinearsi con sufficiente coerenza, tanto sul piano teorico quanto su quello strutturale[23]. Senza contare che in questo modo le misure di sicurezza detentive divengono (è il caso di dirlo) lo schizofrenico crocevia di due prospettive per certi aspetti speculari: la prospettiva prognostica della pericolosità sociale, che, guardando al futuro e all’autore del fatto, individua il presupposto di applicazione della misura, cui si sovrappone la prospettiva diagnostica della gravità del reato, che, guardando al passato e al fatto commesso, segna il limite ultimo di applicazione della misura stessa.
La l. n. 81 del 2014, poi, introduce una limitazione della base del giudizio relativo all’accertamento della pericolosità sociale. L’art. 1, comma 1, lett. b) del d.l. n. 52 del 2014 prevede anzitutto che, ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario e della casa di cura e custodia, l’accertamento della pericolosità debba essere «effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale, cioè delle “condizioni di vita individuale familiare e sociale del reo”», con la successiva precisazione per cui «non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali».
Anche in questo caso gli scopi avuti di mira dal legislatore si prestano a un’individuazione piuttosto agevole: si tratta di evitare da un lato che l’indigenza, il disagio familiare e sociale e, più in generale, condizioni di marginalità e di abbandono assumano un ruolo determinante nella formulazione del giudizio di pericolosità sociale[24] e, dall’altro lato, che l’internamento possa dipendere da eventuali disfunzioni organizzative, quali l’impossibilità di assegnare il soggetto interessato ai Dipartimenti di salute mentale.
Fin da subito, tuttavia, si è denunciato il rischio di una poco auspicabile e anacronistica “pericolosità sociale decontestualizzata”. A fronte della faticosa affermazione della pericolosità sociale intesa in un’accezione “situazionale”, che, lungi dall’arrestarsi a considerare il soggetto come monade individuale, lo inserisca nell’ambiente di riferimento, la restrizione della base del giudizio attuata per via legislativa invertirebbe la virtuosa tendenza volta a valorizzare, accanto al profilo psicologico e psichiatrico dell’infermo, il contesto sociale e familiare nel quale lo stesso si trova inserito e dal quale è inevitabilmente condizionato[25]. Sullo sfondo parrebbe dunque profilarsi, analogamente a quanto si registra sul piano dell’imputabilità, il ritorno a una visione “neopositivista” e a una nozione biologica di pericolosità sociale, fondata integralmente sulle risultanze psichiatriche[26].
Il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento al «dimidiato» accertamento della pericolosità sociale imposto per via legislativa nei confronti dei soggetti non imputabile o semimputabili[27], ma la Corte costituzionale, pronunciatasi con la sentenza n. 186 del 2015, ha dichiarato infondata la questione, muovendo da una più radicale messa in discussione del presupposto interpretativo accolto dal giudice a quo. Il Giudice delle Leggi ha precisato che l’intervento legislativo, lungi dal riguardare la generale nozione di pericolosità sociale dei (soli) soggetti non imputabili o semimputabili, avrebbe perseguito il più limitato scopo di specificare il principio di extrema ratio delle misure detentive, riservando il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e di custodia «ai soli casi in cui sono le condizioni mentali della persona a renderle necessarie» e limitando, unicamente a questi fini, i criteri di scelta a disposizione del giudice. La disposizione censurata, detto altrimenti, «non ha modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme di mente o seminferme di mente, la nozione di pericolosità sociale, ma si è limitata ad incidere sui criteri di scelta tra le diverse misure di sicurezza e sulle condizioni per l’applicazione di quelle detentive»[28].
Il risultato sembrerebbe quello di un sistema bifasico, scandito da un doppio giudizio prognostico, secondo un modello che, pur richiamando alla mente quello che presiede all’applicazione delle misure cautelari, si caratterizza per evidenti elementi di peculiarità. Al primo giudizio, “a base totale”, resterebbe affidato l’accertamento della pericolosità sociale del soggetto imputabile o semimputabile. Qualora questa fase si concludesse con una prognosi di pericolosità, interverrebbe il secondo giudizio, “a base parziale”, finalizzato alla scelta della misura applicabile. Il presupposto è quello per cui anche il secondo accertamento, pur privato di alcune componenti, confermi la condizione di soggetto socialmente pericoloso: dal primo giudizio relativo all’an della pericolosità si passa al secondo giudizio relativo al quantum della stessa, trattandosi unicamente di verificare se il soggetto sia “così tanto pericoloso” da giustificare il ricorso alla misura di sicurezza detentiva[29].
5. Cura e custodia nel letto di Procuste dalla misura di sicurezza detentiva
Il ricovero in OPG mostra certamente una natura peculiare: è una misura di sicurezza, disposta per soggetti socialmente pericolosi, che però ha un contenuto terapeutico nei confronti di quelli che, prima di tutto, devono essere considerati dei “pazienti”.
«Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali», si legge nella sentenza n. 253 del 2003 della Corte costituzionale, «si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile».
La dialettica tra cura e custodia dell’infermo di mente autore di reato, tuttavia, si delinea secondo cadenze non sempre scontate: si tratta di due componenti strutturali della misura, le quali paiono però costrette in una sorta di letto di Procuste che rischia di snaturare la natura di entrambe, imponendo loro una convivenza per certi aspetti innaturale.
Il cammino che ha condotto alla transizione (non terminologica ma) sostanziale dall’internamento al ricovero, del resto, si è rivelato lungo e faticoso. Non è un caso che la c.d. legge Basaglia non abbia intaccato il sistema dei manicomi giudiziari e non è un caso che i mutamenti più significativi della misura del ricovero in OPG siano derivati da pronunce della Corte costituzionale che hanno individuato la cura come finalità irrinunciabile della misura.
L’istituzione delle REMS segna appunto una tappa ulteriore, stavolta legislativa, dell’iter che, attraverso l’esplicita sanitarizzazione della misura, intende enfatizzare il polo della cura rispetto a quello della custodia. Il colpo di penna del legislatore, tuttavia, non può cancellare il fatto che il ricovero viene disposto non nei confronti di infermi di mente (senza specificazione alcuna), ma nei confronti di soggetti che a causa dell’infermità hanno commesso un reato e che risultano socialmente pericolosi.
Sui nodi che sembrano restino in parte irrisolti sul versante della sicurezza delle REMS possono individuarsi almeno due aspetti.
Anzitutto, la riforma degli OPG non sembra aver valorizzato quella distinzione tra ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e ricovero in casa di cura e di custodia che, prevista originariamente dal codice Rocco proprio allo scopo di differenziare i soggetti sulla base del diverso grado di pericolosità, si è andata progressivamente perdendo a livello applicativo. Nella legge di riforma “ospedale psichiatrico giudiziario e casa di cura e custodia”, anzi, è un’espressione trattata come un’endiadi.
Quanto alla gestione sanitaria delle REMS, è noto come le “reazioni” da parte dei medici psichiatri siano state particolarmente eterogenee. Può solo osservarsi, in una prospettiva prevalentemente (e forse ciecamente) giuridica che, se l’estromissione delle nuove Residenze dal circuito penitenziario milita evidentemente a favore di un’enfatizzazione della “cura” rispetto alla “custodia”, lo psichiatra cui è affidata la direzione della struttura potrebbe veder notevolmente ampliati i contorni di quella posizione di garanzia che già di per sé, in maniera quasi strutturale, si presta a distorsioni “onnivore”, capaci di fagocitare anche le migliori intenzioni del legislatore[30]. Il rischio di regredire alla figura di uno psichiatra-custode simile a quello che operava nel contesto pre Basaglia è forse eccessivo: resta, indubbiamente, l’esigenza di gestire la ripartizione degli “obblighi di sicurezza” dalla cui violazione può derivare una responsabilità penale, specie di quella per omesso impedimento dell’evento.
6. I rapporti tra le REMS e i “luoghi contigui”: a) il carcere
La pazza gioia, come in parte anticipato, riesce a mettere a fuoco un aspetto che, già chiaramente evidente nel precedente assetto degli OPG, diviene ancor più nitido nell’attuale “fase REMS”. Le REMS, lungi dal rappresentare monadi isolate, si inseriscono in un sistema complesso, attraversato da una serie di interazioni reciproche che, se non perfettamente “funzionanti”, rischiano di compromettere la tenuta dell’intero sistema.
Il primo “luogo contiguo” da prendere in considerazione è rappresentato dal carcere.
La premessa dalla quale muovere, sebbene apparentemente scontata, merita di essere ribadita in maniera esplicita: la questione psichiatrica è anche una questione carceraria e, anzi, rappresenta una delle emergenze ravvisabili all’interno delle strutture penitenziarie che solo a fatica riesce a superare il recinto, a volte angusto, del dibattito riservato agli “addetti ai lavori”. Basterebbe osservare, del resto, non solo che il carcere funziona da potente generatore e/o amplificatore di disagio psichiatrico, ma anche che l’infermità mentale, secondo il sistema delineato dal codice penale nella “lettura” offerta dalla giurisprudenza[31], non è di per sé incompatibile con la capacità di intendere e di volere.
A queste considerazioni di carattere generale, poi, si aggiungono più nello specifico i rapporti tra l’esecuzione della pena e quella della misura di sicurezza, specie nell’assetto delineato dalla riforma degli OPG.
Sono almeno due gli aspetti che possono evidenziarsi, relativi, rispettivamente, alle c.d. liste d’attesa in carcere e al trattamento dell’infermità psichica sopravvenuta.
1) Liste d’attesa in carcere. Il numero limitato di posti delle REMS, fissato per via, era finalizzato a risolvere il problema del sovraffollamento. Le perplessità iniziali in riferimento al requisito in questione sembrano confermate dal progressivo diffondersi del fenomeno, certamente poco ortodosso ed altrettanto evidentemente extra legem, delle c.d. liste d’attesa: alcuni soggetti, pur destinati al ricovero nelle REMS, si trovano temporaneamente ristretti in carcere per carenza di disponibilità nelle strutture di riferimento, richiedendo agli istituti di pena una difficoltosa predisposizione di “estemporanee” articolazioni psichiatriche.
Il DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), nella circ. 5 dicembre 2018, osservava come il passaggio dagli OPG alle REMS avesse prodotto una serie di criticità, a partire proprio dal considerevole numero di soggetti con patologie psichiatriche ristretti in carcere in lista d’attesa.
Il campanello d’allarme sta risuonando chiaramente anche per effetto di alcuni significativi interventi della Corte EDU.
Il 7 aprile 2020 la Corte di Strasburgo ha emesso un provvedimento cautelare ex art. 39 del Regolamento della Corte in favore di un paziente psichiatrico detenuto nel carcere di Rebibbia, ordinando al Governo italiano di provvedere al suo immediato trasferimento presso una struttura idonea. Analogo provvedimento è stato adottato nei confronti dello Stato italiano il 21 gennaio 2021, in riferimento a un paziente psichiatrico detenuto nel carcere di Regina Coeli.
Si tratta di una tipologia di pronunce, è il caso di precisarlo, cui la Corte EDU ricorre molto raramente e non è escluso che rappresentino solo il prologo per l’accoglimento di ricorsi che potrebbero mettere il nostro ordinamento di fronte all’esigenza di un intervento tempestivo e strutturale.
2) Infermità psichica sopravvenuta. I vecchi OPG erano destinati a ospitare anche soggetti con infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, creando di fatto delle problematiche “navette” tra carcere e OPG.
Le nuove REMS, invece, si vedono attribuite delle competenze “più limitate” e, più precisamente, non sono destinate ad accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti in un momento successivo rispetto all’inizio dell’esecuzione della pena. Muovendo da queste premesse la Corte costituzionale, con la sentenza n. 99 del 2019, ha esteso, per questi soggetti, la detenzione domiciliare c.d. umanitaria (prevista dall’art. 47-ter, comma 1-ter ord. penit.), in modo da offrire loro un’alternativa al carcere che, nel sistema attuale, risulterebbe del tutto preclusa[32].
In questo modo, per esplicita ammissione dei giudici di Palazzo della Consulta, si sarebbe rimediato a un’inerzia del legislatore in materia di infermità psichica divenuta ormai intollerabile: il rischio, tuttavia, resta pur sempre quello legato alla strutturale inadeguatezza della detenzione domiciliare a fornire una risposta adeguata a queste esigenza di tutela, posto che si tratta della misura alternativa in cui, in maniera più evidente, l’anima custodiale tende a prevalere su quella lato sensu risocializzante[33].
6.1. b) la rete dei servizi per la salute mentale
Dopo la riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari, il rischio più evidente è parso quello per cui le porte degli OPG si aprissero a fronte di un tessuto socio-sanitario rimasto sostanzialmente inalterato rispetto al passato, anche in considerazione del vivido ricordo di come il mancato adeguamento delle strutture di assistenza psichiatrica abbia rappresentato uno degli elementi di maggiore rallentamento della svolta legislativa del 1978[34]. «La legge Basaglia», avverte il dottor Del Vecchio (Giorgio Colangeli) in Si può fare, «chiude i manicomi, libera i matti. Così, se le famiglie se li riprendono, impazziscono anche loro. E se non se li riprendono, questi che fanno? […] Nessuno lo sa […] La pazzia non guarisce per legge».
Sarebbe stato del resto fuorviante ritenere che la causa delle innumerevoli proroghe dei ricoveri in OPG andasse identificata in una sorta di vocazione liberticida della Magistratura di sorveglianza: il problema era, piuttosto, quello di una cronicizzata carenza sul versante del contesto territoriale di accoglienza che rappresenta anche uno dei principali fattori di fallimento della misura della libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche[35].
Uno strutturale intervento “fuori dalle porte dell’OPG” varrebbe anche a ridimensionare l’intollerabile paradosso per cui in certi casi l’ospedale psichiatrico giudiziario, «luogo di scarico di malati disturbanti» e privi di una rete sociale in grado di accoglierli e sostenerli[36], rappresenti in fondo il male minore, posto che la commissione di un reato diviene l’unica via in grado di assicurare una presa in carico duratura di determinati soggetti e, magari, di condurre a un successo del trattamento nei loro confronti[37].
L’obiettivo, altrimenti detto, dovrebbe essere di valorizzare quel principio di extrema ratio delle misure di sicurezza detentive che, esplicitato dalla Corte costituzionale prima[38] e dal legislatore poi[39], si inserisce nell’ottica più generale della progressività delle misure di sicurezza complessivamente intese.
Ai fini di un effettivo gradualismo progressivo delle misure di sicurezza personali diviene fondamentale il consolidarsi del ruolo affidato a strutture residenziali come la Villa Biondi descritta dal film di Virzì, chiamate a svolgere quel ruolo di raccordo, tanto complesso quanto indispensabile, tra “dentro” e “fuori”, contribuendo (almeno) ad attenuare la difficile convivenza tra l’anima della cura e quella della custodia[40].
7. Le luci del cinema come antidoto al buio dell’indifferenza
Resta sempre valido il monito condensato dal disilluso insegnamento per cui “non sempre basta aprire le porte per liberare i prigionieri”[41], ma si rende necessario delineare di fronte agli occhi di quei prigionieri, ristretti come gli altri ma rispetto ad altri ancor più fragili, dei sentieri chiaramente tracciati e sufficientemente riconoscibili.
Al di là della complessità giuridica della questione, l’impressione è che il trattamento della malattia mentale, anche al di fuori del circuito penale, resti ancora un tema scomodo, per certi aspetti “imbarazzante”, rispetto al quale la “soluzione” più semplice è quella di lasciar cadere l’ombra del silenzio che, per i più, nemmeno corre il rischio di divenire assordante.
Il cinema, per definizione, accende le luci. Quelle stesse luci che con il documentario di Francesco Cordio hanno amplificato un grido di dolore per troppo tempo soffocato dall’indifferenza e con il film di Virzì hanno costretto il grande pubblico a guardare oltre il silenzio.
Ben venga, quindi, il “cinema folle”, capace di accendere le luci e, in questo modo, di rischiare, “normalizzandola”, la discussione su questioni che, ancor prima che giuridiche, sono sociali, culturali e politiche. Perché «il buio fa paura. E si può morire per la paura del buio» (La pecora nera).
[1] Così S. Parigi, nella illuminante premessa di Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, 2014, 7.
[2] La stretta relazione tra la situazione socio-politica degli anni Sessanta e la cinematografia italiana postbellica è evidenziata da L. Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, 2002, 31 ss.
[3] Amplius, S. Parigi, Neorealismo, cit., 244-245.
[4] In particolare A. Martini, Identità nascoste: “Pane, amore e fantasia”, “Pane, amore e gelosia”, in Luigi Comencini. Il cinema e i film, a cura di A. Aprà, Marsilio, 2007, 54 ss.
[5] G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano (1905-200), Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, 226.
[6] Age, Scriviamo un film. Manuale di sceneggiatura, Il Saggiatore, 2014, 10.
[7] Pressoché testualmente G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, cit., 226.
[8] Molte delle riflessioni sulla commedia all’italiana cui si è fatto riferimento nel testo rappresentano una sintesi, magari imperfetta, delle considerazioni svolte dalla Professoressa Stefania Parigi durante le sue lezioni di Cinema italiano, tenute negli ultimi anni presso il DAMS dell’Università degli Studi “Roma Tre”.
[9] I virgolettati riportati nel testo sono tratti dalla pagina dedicata a Paolo Virzì sul sito www.filmdoc.it.
[10] U. Veronesi, Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia, Mondadori, 2011, 23.
[11] Sulla valenza linguistica della scelta operata dal legislatore si soffermano ampiamente C. Mazzucato, G. Varraso, Chiudere o…aprire? Il “superamento” degli OPG tra istanze di riforma e perenni tentazioni di “cambiare tutto per non cambiare niente”, in Riv. it. med. leg., 2013, 1340 ss.
[12] Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale istituita con deliberazione del Senato del 30 luglio 2008, Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, in www.senato.it.
[13] Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, relativo alle visite effettuate dal 14 al 16 settembre 2008 e pubblicato il 20 aprile 2010, in www.cpt.coe.int.
[14] Corte EDU, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013 (ric. nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10).
[15] P. Dell’Acqua, S. D’Autilia, Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie, in Riv. it. med. leg., 2013, 1355.
[16] C. Mazzucato, G. Varraso, Chiudere o…aprire?, cit., 1343.
[17] S. Moccia, Il volto attuale del sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1095 stigmatizza la «insopportabile dimensione antiumana degli ospedali psichiatrici giudiziari».
[18] M. Pelissero, relazione al Convegno Malattia psichiatrica e pericolosità sociale: tra sistema penale e servizi sanitari, organizzato dall’Università di Pisa e tenutosi il 16 e 17 ottobre 2020 (registrazione è disponibile al link ).
[19] L’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, più esattamente, individua i seguenti criteri: «a) esclusiva gestione sanitaria all'interno delle strutture; b) attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna, ove necessario in relazione alle condizioni dei soggetti interessati, da svolgere nel limite delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente; c) destinazione delle strutture ai soggetti provenienti, di norma, dal territorio regionale di ubicazione delle medesime».
[20] M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga e prove maldestre di riforma della disciplina delle misure di sicurezza, in Dir. pen. proc., 2014, 927-928 ss.
[21] G.L. Gatta, Aprite le porte agli internati! Un ulteriore passo verso il superamento degli OPG e una svolta epocale nella disciplina delle misure di sicurezza detentive: stabilito un termine di durata massima (applicabile anche alle misure di sicurezza in corso, a noi sembra), in Dir. pen. cont., 6 giugno 2014; M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga, cit., 927 ss.; A. Laurito, Le REMS e la sfida del nuovo modello terapeutico-riabilitativo nel trattamento del folle reo, in La tutela della salute nei luoghi di detenzione. Un’indagine di diritto penale intorno a carcere, REMS e CPR, a cura di A. Massaro, Roma TrE-Press, 2017, 258 ss.
[22] M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario, cit., 194.
[23] G. L. Gatta, Aprite le porte agli internati!, cit. Contra A. Pugiotto, Dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, cit., § 9.
[24] Cfr. G. Dodaro, Nuova pericolosità sociale e promozione dei diritti fondamentali della persona malata di mente, in Dir. pen. proc., 2015, 615 ss.
[25] M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga, cit., 922; F. Fiorentin, Al vaglio di costituzionalità i parametri di accertamento della pericolosità sociale dei mentally ill offenders, in Arch. pen. online, 2014, 3, 5-6; I. Merzagora, Pericolosi per come si è: la (auspicata) chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e la (discutibile) pericolosità sociale come intesa dal decreto legge n. 53 del 31 marzo 2014, in Riv. it. med. leg., 2015, 360 ss.
[26] M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga, cit., 923-924.
[27] Trib. sorv. Messina, 16 luglio 2014, in Dir. pen. cont., con nota di R. Bianchetti, Sollevata questione di legittimità costituzionale in merito ai nuovi criteri di accertamento della pericolosità sociale del seminfermo di mente.
[28] Corte cost., 23 luglio 2015, n. 186, punto 4.2. del Considerato in diritto, in Arch. pen. online, con nota di A. Massaro, Pericolosità sociale e misure di sicurezza detentive nel processo di “definitivo superamento” degli ospedali psichiatrici giudiziari: la lettura della Corte costituzionale con la sentenza n. 186 del 2015. V. anche A. Laurito, Pericolosità sociale e misure di sicurezza detentive per infermi di mente al vaglio della giurisprudenza: profili critici della l. n. 81/2014, in Riv. it. med. leg., 2017, 508 ss.
[29] V. sul punto Cass., sez. IV pen., 18 novembre 2015, n. 49469.
[30] Tra i più recenti C. Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra: nuovi spunti, diverse prospettive, timide aperture, in Dir. pen. proc., 2017, 370 ss.; L. Brizi, Dallo psichiatra “medico-terapeuta” allo psichiatra “medico-direttore”: forme e modelli di responsabilità penale nel nuovo volto delle REMS, in La tutela della salute, cit., 301 ss.
[31] Il riferimento è soprattutto a Cass., Sez. un. pen., 8 marzo 2005, n. 9163, Raso, in Dir. pen. proc., 2005, 837 ss., con ampia nota di M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite, alla quale si rinvia per le necessarie precisazioni e indicazioni.
[32] Corte cost., 14 aprile 2019, n. 99, su cui, per tutti, M. Bortolato, La sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale: la pari dignità del malato psichico in carcere, in Cass. pen., 9/2019, 3152 ss.
[33] Cfr. la relazione di G. Lattanzi al Convegno Malattia psichiatrica e pericolosità sociale: tra sistema penale e servizi sanitari, organizzato dall’Università di Pisa e tenutosi il 16 e 17 ottobre 2020 (registrazione è disponibile al link ), il quale evidenzia i profili di possibile criticità derivanti dalla “scissione esecutiva” determinatasi dopo l’intervento della Corte costituzionale.
[34] In argomento, per tutti, M. T. Collica, Verso la chiusura degli O.p.g.: una svolta (ancora) solo annunciata?, in Leg. pen., 2014, 274 ss.
[35] N. Mazzamuto, Relazione al Convegno SEAC 2012, in www.conams.it.
[36] P. Dell’Acqua, S. D’Autilia, Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie, cit., 1363.
[37] U. Fornari, Trattato di psichiatria forense5, Utet, Torino, 2013, 77.
[38] Il riferimento è, in particolare, a Corte cost., 2 luglio 2003, n. 253 e Corte cost., 17 novembre 2004, n. 367, su cui, per tutti, F. Della Casa, La Corte costituzionale corregge l’automatismo del ricovero provvisorio nella struttura manicomiale promuovendo la libertà vigilata al rango di alternativa, in Giur. cost., 2004, 3398 ss.
[39] Art. 1, co. 1, lett. b), d.l. n. 52 del 2014.
[40] V., tra gli altri, G. Fossa, E. Zanelli, A. Verde, Il malato di mente autore di reato nelle strutture residenziali: una ricerca in una comunità terapeutica, in Rass. it. crimin., 2/2012, 88 ss. e, per le perduranti capacità di raccordo tra “dentro” e “fuori”, E. Zanalda, M. Clerici, L. Lorettu, B. Carpiniello, Salute mentale in carcere. La Società italiana di psichiatria risponde al Cnb: “Va preso atto che la chiusura degli Opg non ha risolto tutti i problemi”, in Quot. san., 3 aprile 2019.
[41] Si rinvia ancora a R. Castiglione, Il ritorno del Mariolino ovvero dell’insostituibile funzione del manicomio criminale, in Rass. penit. e crimin., 1986, spec. 105 ss. L’Autore ripercorre le fasi storico-giuridiche dell’istituzione manicomiale attraverso le vicende di Mario C., oligofrenico rinchiuso in manicomio fin dall’età di sei anni, che arriva a sentirsi rifiutato anche da quell’istituzione totale che, paradossalmente, rappresentava l’unico rimedio alla sua condizione di alienato. A questo punto «le azioni del Mario, per fortuna, assumono sempre più spesso un carattere di reato. “Per fortuna”, poiché questo offre un valido appiglio per allontanare il Mario, cacciandolo in Manicomio criminale. Con questo non intendo fare né ironia, né del cinismo. […] Qual è oggi l’unica istituzione – senza considerare i suoi indiscutibili aspetti negativi – in grado di contenere un “deviante-psichicamente disturbato-reo”? L’ospedale psichiatrico giudiziario».
La sedia mancata di Ursula von der Leyen.
di Maria Teresa Covatta
Sommario: 1. La storia - 2. Il messaggio - 3. La Convenzione di Istanbul - 4.Il sofa-gate - 5.Le reazioni
1. La storia
L’episodio è ormai noto a tutti, passato e ripassato dai media in ogni forma, stigmatizzato sui social in ogni modo, dalle considerazioni di politici ed opinion makers al “vignettismo” dell’Internet, che ha mostrato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che va all’incontro con il presidente turco Erdogan a braccetto con il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel portandosi al braccio una sedia pieghevole; o seduta, perplessa, davanti a due trogloditi con tanto di clava in mano.
La vicenda, pietra dello scandalo, brevemente è questa. Il 7 aprile il presidente del Consiglio Europeo e la presidente della Commissione Europea vengono ricevuti dal presidente turco. Mentre il primo ospite viene fatto accomodare in una poltrona posta accanto al padrone di casa, la seconda troverà posto, dopo lunghi attimi di incredula incertezza, in un divanetto laterale, piuttosto distanziata dagli altri due.
La cerimonia così orchestrata non ha mancato di suscitare immediatamente critiche e polemiche. Si è parlato di sgarbo istituzionale, di protocolli diplomatici violati o quanto meno di applicazione volutamente rigida e formale del protocollo sulla disposizione dei posti . Infine, di prassi consolidate infrante , ricordando quanto successo nel 2015 allorchè gli ospiti di Erdogan , nello stesso ruolo istituzionale, erano Tusk e Junker e le poltrone ai lati del presidente turco erano due.
2.Il messaggio
Non è mancato chi ha interpretato il gesto come squisitamente politico. In relazione alla politica interna, si è detto, l’affronto alla von der Leyen rientra perfettamente nello schema di un autocrate in difficoltà, isolato a livello internazionale e con problemi interni che ha un bisogno disperato di affermare la sua autorità e di riconquistare la falange dei conservatori interni; a livello internazionale un messaggio politico diretto verso, o meglio contro, l’Unione Europea.
Certo è che comunque, anche a leggerla così, salta agli occhi all’evidenza che chi ne fatto le spese è stata una donna che, quale presidente della Commissione Europea non aveva mancato di stigmatizzare, solo pochi giorni prima, il recente annuncio di Erdogan di aver avviato la procedura di recesso dalla convenzione di Istanbul con un messaggio di significante censura seppur diplomaticamente confezionato in termini istituzionali; e che per di più aveva aggiunto l’invito al presidente turco di tornare sui suoi passi in nome dei diritti umani e della civiltà.
3.La Convenzione di Istanbul
E’ ben noto cosa abbia rappresentato la Convenzione di Istanbul del 2011, finalmente un vincolo giuridico per gli Stati aderenti all’attuazione ed al rispetto di comuni disposizioni volte alla prevenzione della violenza di genere, alla repressione della violenza domestica, alla protezione delle vittime, alla punizione dei colpevoli. Un testo che ha prospettato, finalmente, una possibile visione diversa dello stupro e del femminicidio, inquadrati, accogliendo le istanze della società civile e delle istituzioni impegnate nella lotta per i diritti umani, non più come delitti isolati, frutto di colpi di testa o di amore tradito, ma come aspetti strutturali della violenza di genere.
Di qui lo shock del 21 marzo seguito all’annuncio della decisione di Erdogan di recedere dalla Convenzione. Una decisione che ha riportato la Turchia, già tra i firmatari originari dell’Accordo e primo Paese ad averlo ratificato, indietro di anni luce, segnando l’arretramento di un percorso di uguaglianza e del cammino per il superamento del soffitto di cristallo di cui Ursula von der Leyen, donna a capo di una delle massime autorità europee, ben può considerarsi un simbolo .
4.Il sofa-gate
Tornando quindi al sofagate, quale che sia stato l’intento politico interno o internazionale o il messaggio dato all’Unione, certo è che l’umiliazione inflitta alla von der Leyen proviene da un presidente che aveva appena promesso ai conservatori del suo Paese di “ridare dignità alla donna” riportandola nella famiglia, quale unico luogo in cui è giusto e morale che stia , come moglie e come madre, unici ruoli che le possono essere riconosciuti .
E dunque , ancor di più in questo contesto, l’umiliazione inflitta alla donna Ursula vor der Leyen, nonché presidente della Commissione Europea , dal presidente di un Paese in cui le libertà, tra cui quella delle donne, sono progressivamente e drammaticamente peggiorate, è inaccettabile per tutte le donne e gli uomini che rifuggono l’oscurantismo, si definiscono civili e rifiutano di tornare indietro sulla strada del rispetto dei diritti umani
5.Le reazioni
Infatti queste donne e questi uomini hanno reagito, ciascuno a proprio modo, ma comunque in modo forte. Hanno protestato associazioni femministe , parlamentari dell’Unione Europea, uomini e donne di governo, opinionisti. Si è parlato di “machismo protocollare”, di “bullismo politico”, è stata simbolicamente esposta una sedia vuota nell’aula del nostro Parlamento su iniziativa condivisa di una deputata italiana. Ma la censura più tagliente e più ufficiale, che ha causato una protesta diplomatica altrettanto ufficiale da parte della Turchia, con la convocazione dell’Ambasciatore italiano, è stata che “con questi dittatori,chiamiamoli per quello che sono, di cui si ha bisogno, bisogna essere franchi nell’espressione della propria diversità di vedute e di visione della società”.
Reazioni forti e decise che contrastano con il comportamento del presidente del Consiglio Europeo, il belga Charles Michel. Criticato, anzi criticatissimo, per la sua inerte acquiescenza , egli stesso ha parlato, poi, di “immagine disastrosa” e di offesa a tutte le donne. Eppure è andata così.
Certo,si è detto, spezzando una lancia in suo favore,un negoziato è un negoziato, la sfida dell’incontro era forte, i risultati attesi,sotto tanti profili, erano importanti, la mission era quella di ricucire o almeno ammorbidire i rapporti con la Turchia, riavvicinando l’Europa ad un Paese che si sta progressivamente allontanando dai valori europei e dalla democrazia
Possono essere considerate giustificazioni? Personalmente credo di no, anche in un’ottica pragmatica di costi benefici.
Comunque effettivamente è andata così e non ci resta che fantasticare su tutte possibili reazioni diverse che avrebbero dato a questa vicenda un’immagine migliore degli uomini “civili”, pur di fronte ad un dittatore di cui si ha bisogno.
Goodbye Kelsen?
Sulla mutazione algoritmica del diritto Recensione al volume di N. Lettieri, Antigone e gli algoritmi, Mucchi Editore, Modena 2020*.
di Tommaso Greco
Ordinario di filosofia del diritto, Università di Pisa
1. Che il diritto possa funzionare ‘automaticamente’ rappresenta, da diversi secoli, un sogno e un incubo al tempo stesso. Un sogno, perché l’idea di un sistema di regole che si applichi in maniera certa, razionale, e per così dire inesorabile, appartiene al ‘progetto giuridico’ moderno, rappresentandone in qualche modo il nucleo fondativo (basti pensare alle polemiche dell’illuminismo giuridico contro il particolarismo di ancien régime). Ma anche un incubo, poiché proprio la realizzazione di questo sogno costituirebbe l’esito finale di un percorso di allontanamento del diritto da tutto ciò che appare propriamente umano. Non è un caso che quella del giudice-robot sia una fantasia (ormai non più relegata alla letteratura fantascientifica) che appartiene ad un mondo governato interamente dalle macchine.
Sospesi tra sogno e incubo, quel che certamente possiamo dire, oggi, è che il “tecnodiritto” appartiene ormai al nostro destino, come dimostra ampiamente Nicola Lettieri in un breve ma densissimo volumetto intitolato Antigone e gli algoritmi: un lavoro attento sia ai profili teorici che a quelli pratici, e che è pubblicato appropriatamente in una collana (diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti per Mucchi editore) che si intitola “Prassi sociale e teoria giuridica”.
La constatazione che «algoritmi e intelligenze artificiali governano settori sempre più ampi delle nostre esistenze» conduce l’autore ad una rassegna degli aspetti salienti della tecnoregolazione, accompagnata costantemente da una messa in evidenza dei suoi profili problematici: ciò che dovrebbe portare, a parere di Lettieri, a una seria presa in considerazione della necessità e delle possibilità di ‘disobbedienza’ che anche (o forse a maggior ragione) il diritto algoritmico si porta dietro, come è avvenuto per ogni forma che la giuridicità ha assunto nella storia e nelle società umane.
2. Sappiamo tutti, da tempo, che gli algoritmi sono entrati nella nostra vita, condizionandola continuamente. Di questo, non solo non ci facciamo un problema, ma siamo pure contenti, ad esempio, quando grazie a questi meccanismi possiamo ricevere notifiche e pubblicità coerenti con i nostri gusti e le nostre passate interazioni telematiche. Non avvertiamo affatto che sia in gioco una diminuzione della nostra libertà. Del fatto che però gli algoritmi siano alla base di una «incorporazione delle norme giuridiche all’interno di sistemi hardware e software capaci di condizionare in modo più o meno stringente il [nostro] comportamento», non solo non ci preoccupiamo, ma non siamo nemmeno sufficientemente consapevoli. Eppure, come spiega bene Lettieri, siamo continuamente soggetti a pratiche giuridiche governate dagli algoritmi: «contratti ad esecuzione automatica; sistemi di controllo che abilitano o impediscono automaticamente azioni in contesti di interazione mediati dalla tecnologia; agenti intelligenti che mettono in atto strategie di persuasione al rispetto delle regole; sistemi di controllo e rating sociale nei quali algoritmi di valutazione stabiliscono quali sono i servizi a cui i cittadini possono accedere». Tutto questo sta già governando le nostre vite, ed è dunque urgente che si cominci a ragionarne.
3. Vorrei qui sottolineare soprattutto due elementi di novità — che possiamo definire ‘strutturale’ — emergenti dall’analisi di Lettieri: in primo luogo, il tecnodiritto ha un forte impatto sulla fenomenologia delle norme; in secondo luogo, esso incide profondamente sul modo di operare del diritto all’interno delle relazioni sociali.
Con riguardo al primo profilo viene messo in luce come si stia «materializzando una forma inedita di ius positum», derivante soprattutto dal fatto che il diritto non sia più legato a norme certe e conoscibili ex ante, ma sia invece sempre più determinato da algoritmi che compiono «operazioni di tipo classificatorio e predittivo». In altre parole, le norme giuridiche si presentano come esito di regolarità estratte dai dati raccolti dalle macchine anziché come il frutto di decisioni e deliberazioni umane. Da ciò derivano numerosi e gravi problemi sui quali Lettieri insiste ripetutamente (e sui quali qui non è possibile soffermarsi neppure brevemente): rischi di abusi e discriminazioni, rischio di distorsioni ed errori, mancanza di trasparenza e responsabilità, lesione del diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali, difficoltà o addirittura impossibilità di una critica del diritto che faccia emergere il più generale problema dei limiti «all’esercizio del diritto di difesa e alla possibilità di contestare la legittimità delle regole giuridiche» che una tale modalità regolatoria comporta.
Non meno problematico appare il secondo profilo, quello relativo ai modi in cui di fatto opera il diritto algoritmico. Dopo aver genericamente affermato che «le norme del tecnodiritto incidono sulla sfera giuridica individuale in modi nuovi, immediati e penetranti», Letteri scrive molto efficacemente che la tecnologia «è in grado di imporre vincoli comportamentali caratterizzati da un livello di incisività e immediatezza spesso molto superiori rispetto a quello delle norme giuridiche. Mentre queste ultime si limitano infatti a stabilire ciò che le persone devono o non devono fare, gli artefatti tecnologici hanno la capacità di determinare in maniera diretta ciò che le persone possono o non possono fare, rendendo superfluo l’intervento di una autorità di controllo che punisca, ex post, coloro che hanno violato la legge».
Il punto è estremamente rilevante e va ulteriormente sottolineato. Che la tecnologia si stia sostituendo al diritto e che sia, per così dire, “più convincente”, lo sperimentiamo ad esempio quando ci mettiamo alla guida di un’automobile e allacciamo la cintura di sicurezza, soprattutto per evitare certi suoni infernali e persistenti. Ma qui si tratta di altro. E se Lettieri parla di una «sovrapposizione tra giuridicamente lecito e tecnologicamente consentito», forse si può andare ancora oltre. Più che una sovrapposizione, si sta realizzando una vera e propria ‘con-fusione’: una trasformazione del ‘giuridico’ mediante il suo assorbimento all’interno delle architetture tecnologiche. In virtù di questa trasformazione il diritto sembra allontanarsi da quel meccanismo della imputazione normativa su cui Hans Kelsen aveva insistito per segnare la differenza tra il funzionamento delle norme giuridiche e quello delle leggi naturali. Il meccanismo giuridico, insomma, non funziona più sulla base di un nesso di imputazione ma si sposta nello spazio della causalità naturale, spingendosi in un territorio nel quale valgono nessi causali di tipo immediato e meccanico. E difatti, con l’impiego degli automatismi governati dalle macchine, non c’è da attendere che siano gli operatori giuridici a ricondurre le conseguenze giuridiche al fatto rilevante: esse si producono necessariamente e automaticamente. Come appunto nota Lettieri, l’intervento di coloro che sono chiamati ad applicare la norma ex post è del tutto inutile: la norma, per così dire, si applica da sola senza bisogno di alcuna mediazione.
4. A queste trasformazioni che ho chiamato “strutturali” si lega un ulteriore elemento, che pur non trattato esplicitamente da Lettieri può essere rintracciato come sottofondo di alcune sue analisi. Il diritto algoritmico — o tecnodiritto, che dir si voglia —, per il modo stesso in cui è chiamato a funzionare e per la natura degli strumenti che gli permettono di produrre i suoi effetti, ha necessariamente un’anima binaria, che rischia di inquinare pesantemente il nostro approccio al diritto e alle sue grandi risorse regolatorie. Pensare il diritto secondo schemi algoritmici vuol dire operare sulle relazioni sociali mediante schematismi che siano riconducibili al “sì/no”, “dentro/fuori”, “accettato/respinto”, e così di seguito secondo la logica dicotomica che è propria del digitale. Apparentemente una semplificazione utile alla regolazione sociale, ma in realtà foriera di molti rischi sul piano della considerazione delle tante dimensioni di cui una norma giuridica (e chi decide in base ad essa) dovrebbe essere capace di farsi carico.
Si aprono, a questo proposito una serie di interrogativi assai rilevanti. Quante sono le questioni, i problemi, le relazioni che possiamo ricondurre ad una logica binaria senza produrre una grave perdita in termini di considerazione di tutti gli elementi formali e materiali che devono entrare in una decisione giuridica (a cominciare dal momento in cui viene formulata la norma)? Quali sono i costi della digitalizzazione del diritto? Quanto influisce la dicotomizzazione delle opzioni anche sui modi dell’ubbidienza in termini di responsabilità e di riconoscimento delle reciproche aspettative?
Forse, sul piano dell’umanizzazione del diritto, questi sono prezzi ancora più alti rispetto a quelli che rischiamo di pagare sul piano delle garanzie di uno stato di diritto. Perché se da un lato è paradossale che, nell’epoca dell’assoluta trasparenza, il diritto diventi nuovamente opaco, tornando a nascondersi dentro il corpo di una macchina come un tempo si nascondeva dentro il corpo del giurista (si veda il celebre e significativo quadro di Arcimboldo del 1566), dall’altro lato è forse inaccettabile che per rendere più efficaci le regole le si allontani abissalmente dal ‘mondo’ per il quale esse sono chiamate a funzionare.
5. Sono ancora molti i profili presenti nella trattazione di Lettieri e non è possibile darne conto qui nemmeno sinteticamente. Da ciò che si è potuto riportare si intuisce comunque quanto sia cruciale l’approccio critico, al quale egli richiama soprattutto la filosofia del diritto (Un approccio giusfilosofico è, tra l’altro, il sottotitolo del volume), ma che forse può essere inteso come un richiamo che vale per tutta la cultura giuridica, e non solo per quella accademica, ma per la cultura giuridica diffusa tra operatori e cittadini. Se il tema del ruolo che il diritto deve assumere di fronte alla (o addirittura dentro la) tecnologia è tema che interessa soprattutto i giuristi, chiamati ad assumere un ruolo che non sia puramente passivo e ‘servente’ rispetto alle evoluzioni tecnologiche, quello della responsabilità nel prendere decisioni è tema che invece non può non riguardare ogni cittadino, dal momento che gli automatismi giuridici possono «portare all’indebolimento dei meccanismi di autocontrollo e a un depotenziamento del valore e della componente morale sottesa alla decisione di osservare la norma». Si potrebbe aggiungere, anche qui, che non si tratta di un problema esclusivamente morale ma sibbene giuridico, poiché l’ubbidienza al diritto è tema che non può essere mandato fuori dal diritto stesso senza indebolire ulteriormente la funzione — non solo ordinativa, ma pure emancipatoria — che esso svolge nei contesti sociali.
Che si tratti insomma di un tema che tutti dobbiamo prendere a cuore lo si capisce dal fatto che le «azioni emergenti di disobbedienza e resistenza» alle quali Lettieri dedica una parte importante del volume (e che sono evocate fin dal titolo del lavoro, mediante la figura di Antigone) possono essere efficaci soltanto se tutti diveniamo consapevoli di quanto sta avvenendo e se tutti capiamo i meccanismi di funzionamento del mondo tecno-normativo che ci sta avvolgendo sempre più intensamente. È difficile dire quanto le varie forme di resistenza evocate da Lettieri possano essere efficaci, ma certo non possiamo più prendere sottogamba la trasformazione che già stiamo vivendo. Occorre di qui in avanti lavorare attentamente sul problema che Antigone e gli algoritmi denuncia così chiaramente. Sui modi e sul funzionamento del diritto si sta già giocando una partita cruciale che ha a che fare, più che con la tecnica giuridica, con tutto ciò che è profondamente ed essenzialmente umano.
* Pubblicato contemporaneamente su «Scienza & Pace Magazine» (http://magazine.cisp.unipi.it/)
LE ELEZIONI SUPPLETIVE PER IL CSM. L’INTERVISTA AI CANDIDATI di Michela Petrini e Laura Reale
L’ 11 ed il 12 aprile p.v. si svolgeranno le elezioni suppletive per la nomina di un componente, per la categoria dei giudicanti, del Consiglio Superiore della Magistratura.
Si tratta della terza tornata di elezioni suppletive a seguito di quanto emerso dall’indagine della Procura di Perugia, che ha portato alle dimissioni di alcuni componenti dell’organo di autogoverno, rendendo necessario, dunque, per l’assenza di candidati, l’indizione di nuove elezioni.
Rimane poco più di un anno di consiliatura per l’attuale C.S.M. e, tuttavia, si tratta di un anno di indubbio peso ed intensità. Può sostenersi che mai, come oggi, la magistratura avverta la necessità di riacquistare fiducia nell’organo di autogoverno, chiamato dunque ad affrontare una fase di transizione storica e tale per cui può ragionevolmente ritenersi che le scelte di oggi condizioneranno gli anni futuri della magistratura tutta e del modo di essere magistrati.
“Giustizia Insieme” ha ritenuto opportuno sottoporre ai quattro candidati alcune domande al fine di rendere note agli elettori, oltre che la biografia, le posizioni degli stessi in merito ad alcuni temi di rilevante interesse ed utili ad offrire al lettore alcuni elementi di valutazione, per poter così meglio orientare la propria scelta.
1.Il rapporto tra la politica e la magistratura non è mai stato sereno.
Da anni registriamo attacchi della politica alla magistratura, accusata di strumentalizzare i processi penali per attaccare o indebolire una certa parte politica. Oggi, tuttavia, anche grazie all’inchiesta della Procura di Perugia, è emerso uno scenario diverso, nel quale politici e magistrati sembrano ricercare alleanze e appoggi per conseguire, reciproci, privati, obiettivi.
Il Prof. Giovanni Maria Flick, nel suo libro “Giustizia in crisi (salvo intese)” mette in evidenzia le distorsioni dell’attuale rapporto tra potere politico e potere giudiziario ed afferma che “la politica debba accettare l’idea che, nel rapporto con la giustizia, il rispetto reciproco è fondamentale” , mentre la “magistratura può’ risalire la china soltanto e soprattutto con la cultura, prima ancora che con le leggi; ritornando a ragionare di una cultura della legalità’ sostanziale , della reputazione , della responsabilità’”.
Ritieni che il sistema delle “porte girevoli” tra politica e magistratura abbia contribuito a determinare l’attuale assetto dei rapporti? E quali passi concreti possono essere fatti, da un lato per ripristinare un reciproco rispetto istituzionale e, dall’altro, per impedire che si instaurino canali di dialogo privilegiati e finalizzati esclusivamente a perseguire interessi estranei alla cultura della legalità?
MARIA TIZIANA BALDUINI
Il dibattito sull’orientamento politico della magistratura è avvelenato da posizioni ideologiche e ambizioni personali provenienti da una piccola parte di colleghi in danno di tutti gli altri. Il diritto anche dei magistrati di partecipare alla vita pubblica e al confronto dialettico implica assoluto equilibrio per la delicatezza delle funzioni esercitate, perché non è l’attività giudiziaria, ma quella politica, ad essere primariamente deputata ad elaborare ed attuare i valori e le trasformazioni della società. I magistrati non perseguono fini politici e non sono investiti di alcuna salvifica missione morale. La Costituzione ci richiama al dovere di una collaborazione che deve essere leale fra poteri dello Stato, in totale contrapposizione con l’immagine di avversari da contrastare. La maggioranza di colleghe e colleghi si ispirano a valori di moderazione, essendo esenti da pregiudiziali ideologiche, competenti, capaci di ascoltare, aperti al confronto sui contenuti, mai prevenuti, in grado di farsi interpreti di quei valori di servizio che sono propri del rilievo istituzionale del ruolo, da esercitare sempre con onore e dignità rifuggendo da logiche di potere.
L’inchiesta di Perugia ha tuttavia scoperchiato ben più di qualche deprecabile fatto, svelando appieno anche finte purezze, ipocrisie e un gravissimo corto circuito in cui è precipitato il Csm. Occorrono certamente norme più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, ma la questione non è limitata a coloro che finiscono negli organi elettivi. E’ un tema di valenza culturale, anzi di fragilità culturale, di pensiero debole, di perdita di valori fino a qualche tempo fa ben saldi e interiorizzati. Il reciproco rispetto istituzionale passa attraverso la forza culturale delle persone chiamate ad incarnare certi ruoli e a rispettare sempre le regole. Si tratta di profili generali e mentalità che o si possiedono o non si possiedono.
Sono favorevole alla previsione per legge di una separazione più marcata che eviti le cd. “porte girevoli", ma, al contempo, osservo che non si può nascondere la verità con l’ennesimo velo di pudore. Nelle note vicende degli ultimi due anni la politica non è la principale, insana, protagonista, giacché non può sfuggire che si è in realtà prevalentemente consumata una indecente lotta oligarchica di conservazione del potere, tutta interna alla magistratura.
MARIO CIGNA
Il rapporto tra politica e magistratura deve essere ispirato al rispetto reciproco, con la consapevolezza della diversità delle rispettive funzioni.
Il magistrato, soggetto soltanto alla legge, deve giudicare da terzo, senza alcuna interferenza, al solo fine di tutelare la legalità e di far valere, anche nei confronti della “politica” e della stessa magistratura, il rispetto delle regole.
La “politica” deve pretendere detta terzietà ed essere quindi consapevole che i procedimenti penali tendono all’accertamento dell’illegalità e non costituiscono mai strumento per attaccare o indebolire una certa parte politica; al riguardo va peraltro evidenziato che i fatti di cui all’inchiesta di Perugia, ancora compiutamente da accertare nel loro rilievo penale o disciplinare o deontologico, sono stati portati alla luce dalla stessa magistratura, senza alcuno spirito corporativo, al solo fine di far valere la legalità.
La magistratura, da parte sua, deve evitare ogni commistione con la politica, con cui deve dialogare solo attraverso gli organi istituzionalmente competenti; a tal fine la magistratura non solo deve essere terza, ma anche apparire tale, sicché, non potendosi impedire al magistrato di aspirare a cariche politiche, apportando la propria specifica esperienza, va poi impedito (o comunque reso estremamente complesso) il ritorno nella magistratura (c.d. porte girevoli), non potendosi dubitare che la candidatura del magistrato in una carica politica (e, a maggior ragione, l’effettivo espletamento della carica) comporti un “offuscamento” della sua precedente immagine di terzietà.
MARCO D’ORAZI
Vorrei innanzi tutto ringraziare la redazione di GIUSTIZIA INSIEME, per la opportunità di questa intervista; essa consente ai lettori di conoscere le posizioni dei vari candidati. E’ una iniziativa importante, in questo periodo grigio per la magistratura italiana.
La risposta richiede una premessa.
Abbiamo assistito, nel biennio 2019-2021, al manifestarsi acuto di una crisi della gestione dell’autogoverno, da parte delle tre correnti tradizionali (Area-Unicost-M.I.). L’esito di questa gestione è, francamente, fallimentare. Gli allarmi di molti magistrati sono rimasti inascoltati, quando non irrisi; anche quando emergevano spie chiarissime di questa crisi. Oggi, raccogliamo dunque i cocci di una gestione negativa, che dura da almeno un quindicennio (anche se, come si usa dire, motus in fine velocior). E’una valutazione politica, che prescinde dalla qualità delle persone che hanno gestito le tre correnti tradizionali (quattro, prima della fusione in Area), a volte persone di grande levatura ed ottimi colleghi.
La grave crisi dell’autogoverno si è evidenziata nella mancata trasparenza delle scelte di alcune posizioni; con una evidente sotto-rappresentazione, ad esempio, dei magistrati non correntizzati nei posti direttivi; in vere e proprie macroscopiche ingiustizie, che inevitabilmente conducono a risentimenti e tensioni negli uffici; in una normazione secondaria ipertrofica e non tecnicamente avveduta; in un carrierismo a volte grottesco; in un disciplinare spesso feroce con i magistrati di prima linea.
Lo scorso anno, nel libro Una Giustizia degna dell’Italia-Idee sparse per la riscossa della magistratura, ho cercato di analizzare le ragioni di questa malattia, paragonando questo fenomeno, mutatis mutandis, a quello che Enrico Berliguer denunciò nella famosa intervista a Scalfari (Repubblica, 28 luglio 1981); una perdita di senso dei partiti tradizionali e la loro riduzione a centri di potere, ad agenzie di placement.
Questa la premessa.
Ed è la ragione che mi ha spinto, superando una personale vocazione al lavoro puramente intellettuale, ad impegnarmi in un gruppo di magistrati, come Autonomia e Indipendenza, nel quale ho trovato una casa, che profuma di bucato, dalla quale iniziare una ricostruzione, insieme e non contro i colleghi.
In questo quindicennio e per le ragioni che ho detto sopra, si sono infiacchite le risposte immunitarie.
La risposta alla domanda è dunque questa: è stato allora possibile, in alcuni casi, che si creassero canali di dialogo non trasparenti ed il perseguimento di interessi privatistici. Quanto avvenuto è però la conseguenza di questo fallimento storico delle tre correnti tradizionali, che ci lascia un corpo infiacchito ed aperto a questi fenomeni.
LUCA MINNITI
Il tema è risalente, si pensi alle infiltrazioni della Loggia P2, ma oggi presenta delle novità significative non solo per le cadute deontologiche emerse di recente, ma per il profondo mutamento del sistema politico.
In ogni caso il problema è sempre quello dell’imparzialità e dell’immagine di imparzialità dei magistrati.
Ma la trasformazione in un sistema bipolare del sistema politico, l’accentuazione della polemica personale, il conflitto individuale come paradigma della competizione, rendono l’agone politico vieppiù incompatibile con l’immagine di imparzialità del magistrato.
Ed anche il modo di raccogliere il consenso, attraverso i nuovi media, ha alimentato una idea personalistica della politica e del potere, incompatibile con l’immagine che deve offrire il potere giurisdizionale attraverso tutti i suoi membri.
Nelle proposte del Governo si vuole introdurre il divieto per i magistrati di candidarsi, anche per le elezioni amministrative, nel territorio in cui hanno esercitato le funzioni ed il divieto, per i magistrati eletti in parlamento o che abbiano assunto incarichi di governo nazionale, di rientrare in magistratura alla fine del mandato con destinazione a funzioni amministrative.
La proposta mi trova d’accordo.
Per altro verso l’impegno dei magistrati in incarichi amministrativi è fenomeno molto diverso: gli incarichi fiduciari da parte di una istituzione, sono incarichi di tipo amministrativo, affidati a magistrati, che pur fondandosi su una scelta di tipo fiduciario, hanno natura tecnica, che nulla ha a che vedere con la rappresentanza politica.
Non è corretto, a mio avviso, equiparare l’incarico elettivo o di Governo, con incarichi amministrativi, anche se è giusto prevedere, come fa la proposta governativa, un periodo di decantazione tra l’incarico amministrativo e la nomina ad incarichi direttivi o semi-direttivi; esso serve sia a preservare l’immagine di imparzialità delle decisioni del Consiglio che a garantire la nomina di dirigenti che provengono da un impegno attuale e recente nella giurisdizione.
2. Nell’articolo di Giovanni Tamburino Ripensando ad A. Nappi “Quattro anni a palazzo dei marescialli” di Giovanni Tamburino, pubblicato su questa rivista il 29 marzo scorso viene affrontato l’argomento della politicità del Csm. Politicità intesa non come politica di governo sui temi della giustizia, funzione che spetta ai rappresentanti del popolo, ma come “attuazione della politica della giustizia”. Scrive Giovanni Tamburino “coloro che entrano nel CSM devono avere la consapevolezza che nel ruolo di gestione/amministrazione dei singoli magistrati e nei provvedimenti paranormativi hanno un compito di rilievo politico: il rilievo politico che possiede in uno Stato il funzionamento concreto della sua giustizia”. La caduta della “politicità” è così individuata come la prima causa della crisi del CSM. Cosa pensi di questa affermazione?
MARIA TIZIANA BALDUINI
Anche a costo di apparire in minoranza, reputo che il Csm sia un organo di alta amministrazione, anche se fra le funzioni ve n’è una, quella disciplinare, che ha natura giurisdizionale. Non occorre impegnare il termine “politicità” per affermare che occorre operare le scelte con consapevolezza, comprendendone il valore per la vita delle Istituzioni e dell'intera magistratura. La rilevanza costituzionale del Csm risiede nella circostanza che gli atti di gestone che riguardano i magistrati, risultando potenzialmente lesivi della loro indipendenza, vanno preservati da un esercizio diretto del potere politico. Da qui il concetto di organo di garanzia, che mi appare assai più confacente. Mi rafforza nel convincimento pensare che una natura diversa, con rilievo politico, non sembra comunque avere attecchito in Consiglio nel significato auspicato, dal momento in cui l’odierno comune sentire attribuisce invece al termine il valore - non nobile - di “schieramento sistematico di parte, per appartenenza”, piuttosto che di declinazione del funzionamento concreto della giustizia.
MARIO CIGNA
Il Csm è organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, il cui “rilievo costituzionale” è dato proprio dalla sua stessa finalità, atteso che autonomia ed indipendenza costituiscono valori costituzionali.
Il Csm non è, tuttavia, un organo costituzionale “politico” (come Parlamento e Governo), non essendo i suoi atti volti ad attuare un programma prefissato; è indubbio, tuttavia, che i suoi atti, come quelli di tutti gli altri organi di garanzia (v. Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale), concernendo il funzionamento in concreto della giustizia nel Paese, influenzino la “politica” ed in particolare concorrano alla “politica giudiziaria” , abbiano quindi, per usare l’espressione di Paolo Barile, una loro “politicità intrinseca”; il Csm non può comunque considerarsi un organo meramente tecnico-amministrativo (sia pure di “alta amministrazione”), come reso evidente dalla partecipazione dei “laici” e dalla stessa Presidenza, attribuita al Capo dello Stato; partecipazione che non avrebbe alcun senso se il CSM fosse solo un organo meramente tecnico-amministrativo.
MARCO D’ORAZI
La affermazione di Tamburino è pienamente condivisibile.
La crisi dell’autogoverno non è dovuta alla “politicizzazione” della magistratura, per usare uno slogan.
La crisi dell’autogoverno è dovuta alla perdita di forza ideale delle tre correnti tradizionali; che si sono così adagiate su una gestione mediocre dell’esistente, se non su un franco familismo amorale. Il fallimento storico, di cui parlavo prima, non è dunque dovuto ad un eccesso di politicizzazione ma alla perdita di forza degli ideali che sorreggevano le tre correnti tradizionali.
Meglio di Tamburino, francamente, non saprei dire.
LUCA MINNITI
L’art. 105 Cost., disegna un organo con proprie attribuzioni sostanziali, che implicano l’esercizio di una discrezionalità amministrativa e non meramente tecnica.
L’azione di governo autonomo della magistratura, in ossequio ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, deve essere capace di un immediato adeguamento all’evoluzione dei tempi e alle mutevoli necessità della giurisdizione, a loro volta continuamente sollecitate dalle imprevedibili necessità sociali e dalle specifiche esigenze dei diversi territori.
Un irrigidimento dei parametri valutativi e degli indicatori, attraverso la loro sussunzione a livello normativo primario, e un eccessivo dettaglio nella loro formulazione, privano l’azione consiliare della duttilità necessaria per un intervento tempestivo ed efficace nel settore dell’organizzazione della giurisdizione civile e penale, in tutte le declinazioni in cui tale intervento si attua (dall’organizzazione degli uffici alla carriera dei magistrati).
La qualità, l’efficacia, l’efficienza della giurisdizione esigono un Csm in grado di fare scelte di politica giudiziaria consone con il dettato normativo ma adeguate alle specificità del caso, alle necessità del momento, alla migliore attuazione dei principi di buona amministrazione della giustizia.
3. Sono oramai molte le delibere del Csm per conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi che vengono annullate dalla giustizia amministrativa; di recente è stata ritenuta censurabile anche la delibera di nomina di alcuni componenti del comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura. Il tema del sindacato sull’esercizio della discrezionalità amministrativa è stato oggetto di numerose riflessioni e approfondimenti sia in dottrina che in giurisprudenza.
La commissione Paladin – molto rigida sull’applicazione del principio di riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario – affermava comunque che «l’esistenza di un organo quale il CSM rischierebbe di non avere senso, se i provvedimenti ad esso spettanti fossero del tutto vincolati alla necessaria e meccanica applicazione di previe norme di legge». Anche la Corte Costituzionale ha affermato che «dalla riserva di legge discende la necessità che sia la fonte primaria a stabilire i criteri generali di valutazione e di selezione degli aspiranti e le conseguenti modalità della nomina. La riserva non implica, invece, che tali criteri debbano essere predeterminati dal legislatore in termini così analitici e dettagliati da rendere strettamente [esecutive e vincolate le scelte relative alle persone cui affidare la direzione degli […] uffici, annullando di conseguenza ogni margine di apprezzamento e di valutazione discrezionale, assoluta o comparativa, dei diversi candidati» (sentenza nr. 72 del 1991).
Qual è la tua posizione in merito? Avresti difficoltà a sostenere, per un incarico direttivo o semidirettivo, un candidato non iscritto ad alcuna corrente oppure iscritto ad una corrente diversa da quella nella quale ti riconosci, qualora lo ritenessi più meritevole?
MARIA TIZIANA BALDUINI
La mia storia personale ed in particolare l’attività che ho svolto in seno al Consiglio Giudiziario presso la Corte d’Appello di Roma fornisce un’adeguata risposta a questa domanda. Le mie azioni sono sempre state improntate alla valorizzazione dei meriti dei colleghi ed all’esame delle differenti questioni in un’ottica di equità.
MARIO CIGNA
La nomina dei magistrati negli uffici direttivi spetta al CSM per previsione dell’art. 105 Costituzione. La Corte costituzionale esclude che la legge possa sopprimere ogni discrezionalità nelle nomine, come nelle scelte organizzative e tabellari. Vi è un ambito di discrezionalità, quindi, rimesso al CSM, che certamente non deve significare arbitrio.
Al CSM è necessario esercitare la discrezionalità utilizzando lo stesso modello che il magistrato adotta nell’attività giurisdizionale; e cioè: accertare i fatti, studiare le regole ed applicare le regole al caso concreto, decidere da terzo, senza alcuna interferenza; esattamente in quest’ordine, e mai prima decidere e poi collegare alla decisione regole e fatti; il Csm, specie nelle valutazioni comparative, deve utilizzare al meglio la necessaria discrezionalità, dopo avere condiviso le regole generali (i cd. “paletti”) entro le quali la stessa va applicata in maniera identica per tutti i casi analoghi.
Ritengo fondamentale che il magistrato, anche all’interno del CSM, conservi la sua terzietà, da tutti, e non subisca alcuna interferenza né da gruppi politici o economici né da gruppi associativi; Unicost, il gruppo associativo che mi sostiene, ha consacrato ufficialmente questo principio, prevedendo espressamente nel nuovo Statuto (la cui bozza è stata predisposta dall’assemblea costituente e sarà –si spera- a breve approvata dall’assemblea generale del gruppo) il “patto di corresponsabilità etica” tra elettore e candidato al CSM, in base al quale “il candidato si impegna, in caso di elezione, a rifiutare ogni indebita interferenza ed a combattere logiche spartitorie”; di conseguenza, mi impegno ad indicare, per la nomina ad un incarico direttivo o semidirettivo, sempre il collega più meritevole, prescindendo dalla sua appartenenza, o meno, a qualsiasi gruppo associativo.
MARCO D’ORAZI
Le domande sono due.
Parto dall’ultima.
La crisi del C.S.M. nasce proprio dalla natura partigiana di molte delle scelte delle tre correnti tradizionali. Così, se un candidato è della corrente Verde, questo viene sospinto dai consiglieri della corrente Verde come una meraviglia della giurisprudenza del XXI secolo; lo stesso se il candidato è della corrente Blu: i consiglieri Blu lo descriveranno come novello Papiniano.
Occorre che questi fenomeni cessino e questa esigenza di cambiamento è la ragione fondamentale del mio impegno.
La risposta all’ultima domanda è dunque un forte e chiaro sì; peraltro, proprio l’analisi del voto degli attuali componenti di Autonomia e Indipendenza mostra come gli stessi votino spesso in modo difforme fra loro, proprio perché vi è una libertà di coscienza assoluta, senza alcun vincolo di gruppo.
Nei miei scritti - da ultimo nel libro Una giustizia degna dell’Italia, pg. 53 - da molti anni ho battezzato questa domanda come la “domanda di Mimmo”; un collega di Ferrara, Domenico “Mimmo” Stigliano, in una precedente campagna elettorale, chiese ad alcuni candidati se, in presenza di un candidato, di un’altra corrente o di nessuna corrente ma di maggior valore del candidato della loro corrente, quei candidati avrebbero avuto il coraggio intellettuale di votare per il magistrato di maggiore valore.
A costo di ripetermi, la risposta alla “domanda di Mimmo” è un forte e chiaro sì. È anzi questa la ragione del mio impegno; la constatazione che troppe volte a quella domanda non è stata data l’unica risposta degna di un magistrato.
Diverso discorso va fatto per la gestione della discrezionalità come tema generale.
La riforma c.d. Castelli-Mastella ha letteralmente gettato sul C.S.M. una discrezionalità inedita.
Non vi è stata, da parte delle correnti tradizionali, una adeguata capacità culturale e tecnica, per gestire questa discrezionalità. Innanzi tutto, sul piano culturale: l’ideologia che sorreggeva la riforma era una ideologia, già vecchia al momento in cui è stata proposta, vagamente efficientista; l’associazionismo non ha saputo offrire una narrazione alternativa, che tenesse fermo il principio del terzo comma dell’articolo 107 Cost., pur nella necessità di una scelta del “più adatto”.
Anche sul piano tecnico, occorreva meglio regolare questa inedita discrezionalità. La discrezionalità può essere “spesa”, per usare la espressione del diritto amministrativo, anche in più fasi, cioè con provvedimenti più generali (circolari), che chiariscano in modo preciso i criteri delle scelte concrete (le nomine). Così facendo, il C.S.M. non abdica alla sua discrezionalità ma la regola “a cascata”; naturalmente, per alcune nomine, rimane un profilo, per così dire, di “intuitus personae”; rispetto a tali nomine, rimane ferma la “domanda di Mimmo”.
LUCA MINNITI
Ovviamente non avrei nessuna difficoltà ed anzi riterrei arbitraria una scelta opposta che desse alla collocazione associativa un qualunque peso nella scelta e mi batterei per spogliare qualsiasi decisione da questa interferenza.
Ma l’inquinamento delle decisioni del CSM non si combatte con la dissoluzione del potere del Csm ma con il suo corretto uso: i magistrati esercitano nella giurisdizione la propria imparzialità, devono conservare e coltivare la stessa capacità anche nell’Autogoverno, costruendo strumenti tecnico giuridici idonei a dotare anche l’esercizio della discrezionalità nel CSM del medesimo standard di imparzialità adottato nella giurisdizione.
4. Quale possibile futuro componente del Consiglio Superiore della Magistratura sei favorevole ad introdurre una normativa che impedisca ai consiglieri di concorrere per uffici direttivi o semidirettivi immediatamente dopo la fine del mandato? In caso positivo come potrebbe essere, in concreto, strutturato tale limite anche in relazione alla durata?
MARIA TIZIANA BALDUINI
La disciplina sul rientro in ruolo dei consiglieri togati (art. 30, comma 2, del dpr 26 settembre 1958 n. 916), vigente fino al 2017, traeva la sua ragion d’essere nel forte impegno dei gruppi associativi nell’aggregazione del consenso elettorale. E anche i consiglieri uscenti dei singoli gruppi erano in grado di assumere, in tale contesto, un ruolo di polarizzazione del consenso contribuendo all’elezione dei neo consiglieri. La disciplina previgente sul rientro in ruolo mirava quindi a rimuovere l’ombra del sospetto che i neo eletti potessero, vuoi per contiguità associativa vuoi per debito di riconoscenza, esercitare le funzioni consiliari in modo improprio favorendo le ambizioni dei loro predecessori, il tutto secondo uno schema destinato a perpetuarsi da una consiliatura all’altra. Certo sarebbe utile, a mio personale avviso, reintrodurre tale disciplina, ma con l’avvertenza che non basta: ci vuole molto di più per recuperare la fiducia dei colleghi nell’Organo di autogoverno. Occorre un cambio radicale di prospettiva che intervenga sul piano decisivo delle condotte individuali in modo da rassicurare i colleghi sul fatto che la funzione istituzionale sia sempre esercitata con assoluta trasparenza ed obiettività e soprattutto al di fuori da logiche di appartenenza.
MARIO CIGNA
Sono assolutamente favorevole. In tal modo, infatti, possono essere evitati ipotetici condizionamenti, derivanti dalla precedente attività consiliare, che potrebbero inquinare le regole e la valutazione del merito.
MARCO D’ORAZI
Come è noto, un limite di questo tipo già esisteva. L’art. 13 della legge 44 del 28 marzo 2002 aveva infatti modificato l’art. 30, comma 2, del d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916, nel senso di prevedere un periodo, successivo alla fine del mandato, durante il quale i componenti uscenti del C.S.M. non potevano essere destinati ad ufficio direttivo o semi-direttivo o ad un nuovo fuori-ruolo, per un biennio. La ratio della norma era chiara; già nel 2002 si evidenziavano tendenze oligarchiche dei gruppi dirigenti delle correnti e, dunque, il legislatore aveva inteso imporre un “bagno di giurisdizione”, come si usa dire, proprio per impedire carriere parallele.
È altresì noto che, attraverso un emendamento di incerta attribuzione - in termini giornalistici, si è parlato di una “manina” - si è consentito ai magistrati uscenti dalla consiliatura 2014-2018 nuovi fuori ruolo, abrogando appunto l’articolo 30, comma 2, del d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916 ed il relativo divieto. La A.N.M. ha mostrato la propria contrarietà a questa modifica, invitando anzi i magistrati uscenti ad improntare la loro condotta alla normativa abrogata.
Questa la storia.
Tecnicamente, ritengo non praticabile reintrodurre il divieto in via amministrativa. Spetta dunque al legislatore, qualora lo ritenga opportuno, prevedere una norma analoga a quella abrogata; appunto con il fine di ribadire, in modo plastico, che il periodo al C.S.M. è un servizio alla giurisdizione e scoraggiare carriere parallele.
Quindi, attendiamo il legislatore.
Posso però dire che, anche in mancanza di tale norma, assumo l’impegno, se eletto, di rientrare in ruolo come giudice del Tribunale di Bologna.
LUCA MINNITI
In prima persona, come hanno già manifestato i Consiglieri candidati ed eletti da Area Dg, assumo l’impegno, anche in assenza di una legge, di non chiedere incarichi per due anni.
In questo senso potrebbe esser utile una legge e la riforma Bonafede, che ne prevede 4 di anni, mi vede comunque favorevole.
5. Come valuti l'attuale sistema di valutazione di professionalità e come ti poni rispetto alla prospettiva, di recente ventilata, di inserire dei meccanismi di verifica della tenuta dei provvedimenti giurisdizionali nei gradi successivi come indice di qualità del lavoro?
MARIA TIZIANA BALDUINI
L’attuale sistema di valutazione di professionalità è troppo macchinoso e certamente sarebbe utile semplificarlo; in tale ottica, senz’altro positivi sono alcuni spunti contenuti nel ddl di riforma ordinamentale attualmente all’esame del Parlamento.
Non credo tuttavia sia corretto concentrarsi su una verifica della “tenuta” dei provvedimenti giurisdizionali nelle successive fasi giudiziali. Si tratta di un tema che viene strumentalmente agitato nel dibattito pubblico allo scopo di intimidire la magistratura inquirente e imbrigliare il controllo di legalità dalla stessa esercitato.
L’attuale sistema già prevede, come noto, un monitoraggio delle “significative anomalie” nel rapporto tra i provvedimenti emessi e gli esiti delle successive fasi o gradi del giudizio. E mi fermerei qui: spingersi oltre questo limite significa negare in radice il valore intellettuale del lavoro del magistrato e ignorare che una diversità di valutazioni nelle diverse fasi del processo è in qualche misura fisiologica. Lo scopo del processo è proprio quello di pervenire, nella pienezza del contraddittorio, all’accertamento della verità, che è frutto di un percorso complesso che si nutre dell’approfondimento di un dato sovente mutevole anche per l’incidenza fondamentale esercitata su di esso dalla dialettica processuale. L’eventuale riforma della decisione non significa che ha sbagliato il magistrato che l’ha emessa, essendo anzi frequente che una difformità di valutazione tra un grado di giudizio e l’altro non sia affatto dipesa da precedenti manchevolezze.
MARIO CIGNA
Le valutazioni di professionalità, pur assolutamente necessarie, hanno perso il loro spirito più autentico, e cioè la verifica del raggiungimento, da parte del magistrato in valutazione, di uno standard quantitativo e qualitativo adeguato alla funzione giudiziaria; il che rileva, anche per il conferimento di incarico direttivo o semidirettivo (v. art. 11, comma 15 d.lgs. 160/2006), in quanto il contenuto della valutazione di professionalità può essere poi utilizzato al fine della valutazione comparativa in sede di conferimento dell’incarico predetto.
Le valutazioni di professionalità presentano, poi, altre criticità; tra queste: la difficoltà, da parte dei dirigenti sia di esprimere giudizi negativi sia di far emergere specifiche doti del magistrato in valutazione; la difficoltà di far emergere la qualità del lavoro svolto da quest’ultimo, non essendo a volte il relatore ( spesso impegnato in un settore diverso) in grado di compiutamente valutare i provvedimenti a campione del magistrato in valutazione; l’eccessivo peso attribuito alle statistiche comparate, che possono indurre il magistrato a privilegiare cause più semplici, a discapito di quelle più complesse, al solo fine di migliorare il dato statistico .
Indice della qualità del lavoro può essere solo una significativa e patologica alta percentuale di riforma dei provvedimenti adottati; di per sé la riforma del provvedimento in un grado successivo non può invece essere considerata indice della qualità del lavoro; al contrario, l’eccessiva importanza attribuita alla tenuta dei provvedimenti può indurre il magistrato a conformarsi passivamente alle decisione dei giudici di grado superiore, con evidenti pericoli di limitare la sempre auspicabile evoluzione della giurisprudenza; ciò vale anche per le valutazioni dei magistrati requirenti, la cui professionalità non può essere valutata sulla base degli esiti dibattimentali, troppo spesso fondati su variabili indipendenti dall’attività di indagine.
MARCO D’ORAZI
Il criterio di tenuta dei provvedimenti, nei gradi successivi, già è presente, come segnalazione di “anomalie”, nel rapporto fra conferme e riforme. Dunque, il criterio esiste già. Come per molti altri aspetti della gestione del governo autonomo, quello che conta è il buon senso e la onestà intellettuale in sede di redazione del parere, più che la creazione di nuove norme. Ciò sia a livello di Consiglio giudiziario sia poi al C.S.M.
Il buon senso impone dunque di verificare se gli eventuali scostamenti siano dovuti a sciatteria, oppure ad una consapevole e motivata giurisprudenza, pur non conforme alla giurisprudenza dei livelli di decisione superiori.
LUCA MINNITI
Sono decisamente contrario.
Ogni automatismo è foriero di pericoli per l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione che è garanzia di evoluzione e crescita culturale della giurisdizione. Le anomalie possono già esser poste all’attenzione del sistema di valutazione, ma si deve trattare di serie anomalie, non di mere divergenze di orientamento giurisprudenziale.
6. Cosa ritieni che sia la “qualità della giurisdizione” ed in quale direzione può e deve muoversi il Consiglio Superiore della magistratura per darvi concretamente attuazione? E qual è, in questa tua visione, il modello di magistrato cui dovremmo aspirare per garantire tale qualità?
MARIA TIZIANA BALDUINI
Innanzitutto mi piacerebbe poter contare su una buona qualità della legislazione, con norme chiare, osservabili, precedute da una analisi di sostenibilità qualitativa e quantitativa. Dopodiché la qualità dei provvedimenti, e non necessariamente la rapidità, è il parametro più efficace di una giurisdizione efficiente: scorrevolezza, intelligibilità, risposta a tutte le questioni rilevanti, accettazione delle parti dell’esito del giudizio. Nessun magistrato può essere contento di vedere la propria decisione riformata, anche soltanto sul piano della reputazione e dell’auto-responsabilità. Sono contraria a una spinta eccessiva verso la velocità così come inculcata in questi anni. Si tratta di un produttivismo dannoso se indifferente ad esiti e qualità che sta rivelando i suoi primi effetti. Anziché incalzare ulteriormente i tempi decisionali occorre lavorare sulla diffusione delle banche dati (che sono anche strumenti di trasparenza), su una maggiore prevedibilità della giurisprudenza, sulla circolarità delle informazioni, sulla giustizia predittiva accompagnata da nuova tecnologia e investimenti adeguati.
MARIO CIGNA
Ho molto a cuore la qualità della giurisdizione, spesso da ultimo dimenticata a vantaggio della produttività e dei numeri; la qualità della giurisdizione, già di per sé garantita dal superamento del concorso, va perseguita intensificando l’aggiornamento professionale del magistrato attraverso la Scuola Superiore della magistratura e, soprattutto, consentendo al magistrato di decidere senza fretta, con la necessaria ponderazione, nella consapevolezza che dietro ad ogni fascicolo e ad ogni numero vi è una vicenda umana, e che la decisione andrà inevitabilmente ad incidere sulla stessa.
Per garantire tale “qualità” è necessario un magistrato equilibrato che, senza alcuna presunzione e senza fretta e clamore, con il lavoro quotidiano e con la necessaria ponderazione, ricerchi sempre la giusta decisione, la giusta risposta ai casi concreti che sono sulla sua scrivania.
MARCO D’ORAZI
Le domande sono due. Quale il modello di giurisdizione e di giudice e cosa fare per darvi concretamente attuazione.
Il modello di giudice è largamente condiviso fra i magistrati ma, direi, fra tutti i cittadini: una persona equilibrata e che prenda poco sul serio sé stesso e molto sul serio il proprio lavoro; scelto fra i migliori giuristi della sua generazione con un concorso rigoroso e trasparente; laborioso e ben organizzato; aggiornato e colto, così da rimanere sulla frontiera avanzata della dottrina giuridica; ferocemente indipendente da centri di potere esterni alla giurisdizione ed interni ad essa; fedele alla ispirazione progressiva della Costituzione; moderno ed attento ai movimenti della società in cui opera, senza farsi travolgere da calchi alla moda; fisicamente e moralmente coraggioso.
Credo che su questo vi sia un generale consenso.
Volendo evidenziare una specificità di Autonomia e Indipendenza, questo modello di magistrato, ideale, può portare a due visioni della giurisdizione, entrambe positive ma non esattamente coincidenti: una - se si vuole semplificare, di tipo “francese” - in cui il magistrato è parte di una più larga classe dirigente di estrazione tecnica, ben selezionata; altra - se si vuole “inglese” - in cui i giudici hanno una loro autonoma specificità (un proprium che condividono con le professioni giuridiche, come condivisione della autorevolezza del sapere giuridico). In questo ultimo modello, è maggiore la (pur rispettosa) distinzione rispetto alla funzione politica.
Quest’ultimo è il modello cui maggiormente inclina Autonomia e Indipendenza.
Cosa può fare il C.S.M.; è la seconda domanda.
Semplicemente, fare la cosa giusta. Noi abbiamo preservato, ed è un merito inestimabile dell’autogoverno, un concorso trasparente e rigoroso, ambìto dalle giovani generazioni. Va preservato con rigore. Occorre poi che, nelle nomine successive, si superi il particolarismo, che ha contrassegnato gli ultimi quindici anni. Ogni consigliere deve sentirsi al servizio del tutto, della Repubblica; non di una associazione privata.
LUCA MINNITI
Ho articolato nelle sette schede tematiche inviate a tutti i magistrati (reperibili al link https://www.areadg.it/elezioni/suppletive-aprile-2021/ ) le proposte per orientare il CSM e l’autogoverno in questa direzione.
Non tutto può fare il CSM e soprattutto nulla può il CSM fare da solo.
In sintesi
1) il CSM deve semplificare ed alleggerire le procedure volte a disciplinare l’impegno organizzativo. Le procedure tabellari, i programmi di gestione ed organizzativi, il sistema di rendicontazione, anche quello dei Mag. Rid e Mag rif, il ruolo delle Commissioni flussi può esser rivisto nel senso di rendere le procedure più agili, più veloci, più selettive, più eventuali e rivolte ad affrontare le specifiche criticità.
2) Il Csm deve sostenere una idea di innovazione tecnologica in grado di arricchire il sapere giudiziario ( banche dati agili e facilmente accessibili ) e di evitare la diffusione di prassi semplificatorie, riduttive della singolarità della decisione del caso concreto.
3) Il Csm deve promuovere un uso dei monitoraggi volto a preservare obiettivi di qualità ed evitare la corsa verso ritmi incompatibili con una giurisdizione ponderata
4) Il Csm deve favorire una idea di direzione degli uffici basata sul coordinamento di magistrati autonomi ed indipendenti, attenta alle difficoltà dei magistrati ed ai rischi di isolamento
5) Il Csm deve saper preservare lo spazio per la formazione dei magistrati in particolare nei primi anni di lavoro
6) Il Csm deve promuovere una flessibilità organizzativa che, in particolare nelle sedi dove approdano i giovani magistrati, consenta la tutela della genitorialità. La dotazione organica flessibile su base distrettuale è un nuovo importante strumento da valorizzare.
L’obiettivo, in sintesi, dovrà esser quello di consentire ai magistrati di recuperare tempo per la cura del contenuto dell’attività giurisdizionale, tempo per conoscere, per capire, per studiare, per confrontare gli orientamenti.
Ed anche la valutazione di professionalità dovrà valorizzare queste qualità professionali.
7. Il rischio di astensione alle prossime elezioni è molto elevato. Per quale ragione è importante andare a votare e quali sono gli aspetti del programma e del profilo del candidato che l’elettore dovrebbe valutare per esprimere un voto consapevole?
MARIA TIZIANA BALDUINI
È fondamentale andare a votare perché è l’unico modo per cambiare le cose, non votare vuol dire rinunciare a influire, accantonare la propria opinione, marginalizzarla. Comprendo lo sdegno dei colleghi per le recenti vicende legate al caso Palamara, e l’insoddisfazione crescente verso l’Organo di autogoverno: solo per fare un esempio, penso ad alcune recenti decisioni che hanno valorizzato, quasi “riesumandole”, sanzioni disciplinari assai risalenti di alcuni colleghi in tal guisa mortificandone ingiustamente le legittime aspirazioni. Per questo credo che l’elettore dovrebbe prima di tutto chiedersi: questo candidato, per le idee che incarna e la progettualità politico-associativa che esprime, è in grado di interpretare le mie speranze di cambiamento?
MARIO CIGNA
È vero! I colleghi sono giustamente disaffezionati ed amareggiati; è questa la terza elezione suppletiva, che si svolge peraltro in periodo di emergenza da Covid 19, e che segue i fatti di cui all’inchiesta di Perugia; è tuttavia assai importante andare a votare, in quanto nel residuo periodo di consiliatura il CSM dovrà esaminare e decidere questioni essenziali per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, conseguenti anche ai fatti di cui sopra; tali questioni dovranno essere affrontate con la necessaria ponderazione ed in assoluta terzietà.
Il mio programma, in estrema sintesi, è quello di portare il modello della giurisdizione in CSM, cioè di continuare a fare il Giudice nel CSM; nella “giurisdizione” ho infatti sempre svolto la mia lunga attività professionale, essendo entrato in magistratura nel 1985 ed avendo svolto dapprima le funzioni di Pretore mandamentale a Cinquefrondi (R.C.) e poi per 16 anni tra il Tribunale di Brindisi e quello di Lecce; poi otto anni di Corte Appello nel distretto di Lecce ed otto anni presso la Corte di Cassazione, dapprima alla sezione tributaria e poi alla terza civile; ora sono Presidente della prima sezione civile del Tribunale di Lecce. Mi sono reso disponibile proprio perché credo nella magistratura, nel suo ruolo costituzionale e, pur non avendo svolto mai attività associativa in prima persona, ho ritenuto di rendermi disponibile proprio ora per dare il mio contributo in un momento tanto difficile. Spero e sono certo che molti colleghi vorranno recarsi al voto per contribuire con la propria scelta a restituire credibilità al governo autonomo della magistratura, quella credibilità che tanti magistrati conquistano giorno dopo giorno nel proprio lavoro, qualificato e silenzioso. La magistratura deve tornare ad ottenere la fiducia, e non il consenso, dei cittadini: spero che anche questo momento elettorale possa servire a muoversi in questa direzione.
MARCO D’ORAZI
Negli incontri che teniamo, via TEAMS, insieme agli altri candidati, io inizio sempre la mia presentazione invitando i colleghi, in primo luogo, a votare; poi, ad andare a votare informati.
Andare a votare, innanzi tutto. La Costituzione della Repubblica ci ha dato il governo autonomo (che noi non abbiamo, invero, sempre onorato). Il che significa che dobbiamo averne cura, innanzi tutto con il voto. Non corrisponde al modello di magistrato, che la Costituzione disegna, un magistrato (magari laborioso, aggiornato, onesto), che non si occupi e preoccupi del suo organo di autogoverno.
Per offrire ai magistrati la possibilità di un voto informato, noi quattro candidati (ormai “quasi amici”, per richiamare il titolo di un film) abbiamo dato la disponibilità ad incontri via TEAMS a tutti i distretti; insieme ed in amichevole contraddittorio fra noi. Una “carovana virtuale”, che ha consentito ai colleghi interessati di conoscerci e che ha arricchito noi candidati.
Per quanto mi riguarda, ho cercato di riassumere la mia posizione in tre pilastri, rinviando poi ai vari scritti l’analisi degli aspetti tecnici.
Innanzi tutto, una radicale discontinuità rispetto al passato.
In secondo luogo, un atteggiamento di umiltà e colleganza. Non si può ricostruire, con recriminazioni, meschini j’accuse, dichiarandosi o sentendosi superiori ai colleghi. L’atteggiamento, mio personale e di Autonomia e Indipendenza, è quello di aiutare anche gli altri gruppi ad assumere un atteggiamento di discontinuità, rispetto ai fallimenti del passato; nonché di offrire a tutti i magistrati uno strumento concreto per cambiare le cose.
Infine, come terzo aspetto, occorre una notevole capacità tecnica, per metter mano alla normazione secondaria, spesso insoddisfacente.
Chiunque di noi sia eletto avrà inevitabilmente dei limiti temporali (un anno) e meccanici (salire su un treno in corsa) e farà tuttavia il possibile.
Questa consiliatura deve essere il seme di un cambio di paradigma; che sbocci in un C.S.M. casa di vetro; una casa di vetro che possiamo consegnare, orgogliosi, alle future generazioni di magistrati.
LUCA MINNITI
La storia professionale dei candidati è sempre un significativo elemento di valutazione del candidato e delle sue qualità rilevanti, qualità che individuo nella sua conoscenza del lavoro giudiziario, dei diversi mestieri del magistrato, requisito indispensabile nel Csm.
Rileva poi la capacità di approfondimento e di studio di temi complessi, dove i valori in gioco non sono sempre coerenti ed in relazione ai quali è necessario ponderare interessi contrastanti.
Infine, la capacità di porsi con le proprie idee in maniera trasparente, aperta, limpida, di non sottrarsi alle difficoltà.
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