ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Illegittima erogazione dei bonus Covid e protezione dati personali. Il sindacato del Garante sulle modalità di organizzazione della verifica della spettanza.
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda - 3. La condotta contestata - 4. Le violazioni alla normativa in materia di protezione dei dati personali - 4.1. Le violazioni del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento - 4.2. La pianificazione dei controlli - 4.3 Il principio di responsabilizzazione - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Una “fuga di notizie” relativa alla presentazione della richiesta per il cosiddetto “bonus Covid” da parte di cinque deputati ha puntato il riflettore, nel corso dell’estate 2020, sul trattamento dei dati personali svolto dall’INPS per l’erogazione di tale indennità, trattamento su cui il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto opportuno aprire un procedimento.
Benché l’Authority abbia espresso alcune perplessità sul convincimento dell’Istituto per cui l’origine delle indiscrezioni non fosse da individuarsi nel personale in forze all’INPS stesso[1], altro non ha potuto fare – così scrive – che “limitarsi alle dichiarazioni rese dal titolare, che fanno fede a tutti gli effetti fino a querela di falso” e circoscrivere la propria istruttoria alle modalità con cui i dati dei richiedenti sono stati trattati.
L’esito dell’indagine svolta dal Garante è presto detto: è risultato accertato che l’INPS avrebbe sottovalutato i rischi della propria attività, non l’avrebbe pianificata a dovere e sarebbe quindi incorso in plurime violazioni dei principi sanciti nel G.D.P.R.
Scopo di questo contributo è allora quello di approfondire la condotta dell’Ente previdenziale per comprendere se e in che misura la stessa abbia violato la disciplina di settore.
2. La vicenda
Per non poco tempo il dibattito pubblico dell’estate 2020 è stato occupato dalla discussione sul fatto che alcuni “politici”[2] avessero presentato domanda all’INPS per l’erogazione di quel bonus (inizialmente di 600 euro, poi innalzato a 1.000) varato per sostenere i redditi dei lavoratori autonomi.
La notizia, riportata inizialmente dal quotidiano La Repubblica il 9 agosto 2020, non conteneva i nomi di chi avesse presentato tale istanza, ma le informazioni riportate erano non poco circostanziate: la stampa scriveva di cinque deputati e di un gran numero (oltre duemila) tra sindaci, consiglieri comunali e regionali (addirittura – si diceva – vi sarebbe stato qualche Presidente di Giunta regionale) tra i richiedenti.
Il clamore e la pubblica indignazione che ne sono seguiti hanno funzionato a mo’ di ricatto per i diretti interessati, che, in alcuni casi, si sono “autodenunciati” pubblicamente, con conseguenze di non poco conto: per alcuni di questi, infatti, l’aver presentato la richiesta di accedere al bonus (al di là, poi, di averlo ricevuto o meno e, nel primo caso, di essere disposti a restituirlo) ha comportato l’esclusione dalle liste dei candidati delle elezioni regionali che si sono celebrate nel successivo mese di settembre, senza contare l’impatto mediatico derivante dalla divulgazione di queste indiscrezioni in prossimità del referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, tenutosi sempre nel mese di settembre.
Ebbene, il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante per la protezione dei dati che, in questa annotazione, si cercherà di commentare prende le mosse da qui: lo stesso, però, non si occupa della diffusione della notizia[3], bensì delle ragioni per cui l’INPS si sia occupato di verificare se alcuni dei soggetti sopra menzionati avessero presentato domanda per il bonus e delle modalità con cui sono stati trattati i relativi dati personali.
Come si è anticipato, l’esito dell’istruttoria è stato infausto per l’INPS, riconosciuto quale autore di plurime trasgressioni alle prescrizioni contenute nel G.D.P.R. nell’ambito del trattamento predetto: il Garante ha infatti ritenuto accertati la violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento[4], di minimizzazione dei dati[5], di esattezza[6], di responsabilizzazione[7], dell’obbligo di effettuare la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati[8], nonché la mancata protezione dei dati personali fin dalla progettazione e per impostazione predefinita[9].
Su tutti questi profili ci si concentrerà ora partitamente, non prima di aver fornito qualche dettaglio in più sulla condotta tenuta dall’INPS.
3. La condotta contestata
Come noto, il D.L. n. 18/2020 (cosiddetto “Decreto Cura Italia”)[10] ha attribuito ai liberi professionisti titolari di partita iva attiva[11], ai lavoratori titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa[12], ai lavoratori autonomi[13], ai dipendenti stagionali del settore del turismo[14], agli operai agricoli[15] e ai lavoratori iscritti al Fondo pensioni Lavoratori dello spettacolo[16] il diritto a percepire il cosiddetto “bonus Covid”[17], un’indennità economica finalizzata a contenere i danni risentiti a causa dell’emergenza economica e sociale conseguente alla pandemia da Covid-19.
È emerso che l’INPS abbia erogato il “bonus Covid” a tutti i richiedenti che avevano superato i cosiddetti “controlli di primo livello”, effettuati mediante procedure informatiche basate sul confronto automatico tra le informazioni fornite dall’istante nella domanda con quelle presenti nelle banche dati detenute dall’Istituto.
Solo in un secondo momento – successivo all’erogazione dell’indennità – l’INPS ha proceduto coi “controlli di secondo livello”, effettuati dalla propria “Direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza”, la quale si è concentrata su tutte quelle situazioni che potevano essere state non rilevate nella prima fase della procedura: come si è detto, questa seconda verifica è stata effettuata a valle dell’erogazione, al fine di non ritardare la liquidazione dei bonus, considerato il contesto di crisi economica causata dal blocco delle attività produttive.
L’oggetto del procedimento sanzionatorio del Garante sono stati proprio i “controlli di secondo livello” effettuati sulla posizione dei parlamentari e dei titolari di cariche presso le amministrazioni locali e regionali.
In proposito, l’INPS ha dichiarato che la peculiarità delle posizioni dei parlamentari e degli amministratori regionali e locali ha richiesto specifici approfondimenti per verificare la spettanza del bonus, in considerazione della singolare situazione previdenziale di tali categorie di soggetti e, con specifico riferimento agli amministratori locali, “sia in ordine alla natura dell’iscrizione di tali soggetti ad altre forme di previdenza obbligatoria sia in ordine all’equiparazione della tutela assicurata dalle indennità percepite da tali soggetti rispetto a quella garantita da un reddito di lavoro dipendente”. Al riguardo, l’Istituto ha affermato che “in relazione a tale prima disamina e alle perplessità insorte in ordine alla spettanza del bonus, si è reso necessario comprendere se il problema fosse concreto, verificando se tra i soggetti percettori vi fossero anche parlamentari o titolari di cariche presso le amministrazioni locali e regionali”[18].
Tali verifiche sono state effettuate “con l’acquisizione dei dati anagrafici di deputati e amministratori regionali e locali dai dati aperti (open data) resi disponibili a chiunque, tramite le apposite pagine web messe a disposizione dalla Camera dei deputati (http://dati.camera.it/sparql) e dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno (https://dait.interno.gov.it/elezioni/open-data/amministratori-locali-in-carica)”. A partire da queste informazioni l’INPS ha calcolato, in maniera automatizzata, il presunto codice fiscale che, successivamente, è stato posto in raffronto con quello indicato nelle domande presentate dai richiedenti il “bonus Covid”. All’esito di tale raffronto, l’Istituto ha accertato che tra i richiedenti vi erano anche deputati o soggetti titolari di incarichi di amministratori regionali o locali.
In contemporanea al raggiungimento di tale risultato da parte dell’Istituto è accaduto che tale notizia sia stata diffusa a mezzo stampa: il clamore mediatico suscitato, le numerose richieste di accesso agli atti pervenute all’INPS e l’apertura del procedimento del Garante hanno indotto l’Istituto a sospendere ogni attività di accertamento, “nel rispetto dei principi di precauzione e prevenzione”, e a “differire ogni valutazione in ordine alle richieste di ostensione e diffusione dei dati all’esito delle determinazioni” dell’Authority.
Così ricostruita la condotta tenuta dall’Amministrazione, è ora tempo di prendere in esame le singole contestazioni mosse dal Garante.
4. Le violazioni alla normativa in materia di protezione dei dati personali
Come si è anticipato, sei sono le violazioni emerse dall’istruttoria del Garante che l’INPS avrebbe commesso; vi è però un filo rosso che le accomuna tutte: l’assenza, prima dell’avvio del trattamento in questione, della predeterminazione della decisione circa la spettanza (o meno) del bonus Covid in capo ai titolari delle diverse tipologie di cariche politiche coinvolte.
Infatti, ciò che, a più riprese e sotto diversi profili, viene contestato all’INPS è l’assenza di un’adeguata progettazione del trattamento, indispensabile per assicurare, ed essere in grado di dimostrare, la conformità dello stesso al Regolamento.
Tale mancanza sarebbe ancor più grave perché commessa da un ente pubblico nell’ambito dell’esercizio dei propri legittimi poteri di controllo, la cui esecuzione ci si attende sia preceduta “da un’idonea valutazione dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati e [dal]la conseguente adozione delle misure necessarie per mitigarli”.
4.1. Le violazioni del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento
Come si è anticipato, l’Authority ha ritenuto che “i trattamenti di dati personali necessari nell’ambito dei predetti controlli si sarebbero dovuti effettuare solo dopo aver superato le manifestate incertezze interpretative e avere quindi predeterminato, in astratto, la spettanza del bonus (non procedendo quindi all’incrocio dei dati prima di aver determinato la spettanza dell’indennità). Ciò, in quanto i trattamenti di dati personali per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri devono avvenire sulla base di un quadro normativo il più possibile chiaro e preciso la cui applicazione possa essere prevedibile per gli interessati (cfr. cons. 41 del Regolamento)”.
Agendo diversamente – sostiene il Garante –, la condotta dell’INPS si sarebbe posta in violazione del principio di liceità, correttezza e trasparenza del trattamento, di cui all’art. 5, par. 1, lett. a), del Regolamento.
Merita allora indugiare sul tema, onde comprendere se effettivamente la procedura svolta dall’INPS si sia posta in spregio del disposto recato dall’articolo appena menzionato.
Come è stato annotato da una certa dottrina, il principio di liceità, di primo acchito, potrebbe apparire quasi pleonastico[19], risultando superfluo consacrare in una norma ad hoc che il trattamento dei dati debba rispettare le norme sancite dalla legge e, in particolare, dal Regolamento.
Indagando più a fondo, tuttavia, ci accorge che l’art. 6 G.D.P.R. (rubricato “liceità del trattamento”) ha invero una portata concreta nel fissare i casi in cui il trattamento può dirsi lecito: si ha infatti una violazione del principio in parola nel momento in cui il trattamento dei dati non sia legittimato da alcuna della fattispecie elencate dall’art. 6 medesimo.
Così interpretata, ci si avvede come la norma non abbia una portata così ampia da finire per dover essere considerata ultronea, ma sia finalizzata a elevare a principio ciò di cui l’art. 6 è declinazione.
Come noto, il trattamento può dirsi lecito solo se: a) l’interessato ha espresso il suo consenso; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi.
Nel caso che ci riguarda il Garante rinviene unicamente nell’“esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” (art. 6, par. 1, lett. e]) la base legittimante l’attività dell’INPS, non risultando invocabile – come invece aveva tentato di fare l’Istituto – il “legittimo interesse” (art. 6, par. 1, lett. f]) alla prevenzione delle frodi: e ciò in quanto un soggetto che effettua un trattamento necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico non può avvalersi della condizione di liceità del legittimo interesse di cui all’art. 6, par. 1, lett. f), del Regolamento, come precisato dal considerando 47 del medesimo G.D.P.R.
La conclusione cui giunge il Garante in ordine all’individuazione della base legittimante il trattamento è condivisibile, non fosse altro perché l’art. 6, par. 1, ultimo periodo del G.D.P.R. chiarisce espressamente che le autorità pubbliche non possono invocare il “legittimo interesse” come fondamento di un trattamento effettuato nell’esecuzione dei propri compiti.
Ma, una volta chiarito che l’attività di controllo – di primo e di secondo livello – svolta dall’INPS deve essere annoverata entro l’ambito dell’esecuzione di un pubblico potere (e, in particolare, può essere vista come necessaria al fine di reprimere indebiti accessi a indennità economiche da parte di chi non ne ha diritto), pare doversi dubitare che la stessa sia da considerarsi illecita[20].
Anche a volersi ammettere che l’assenza di un convincimento certo sulla spettanza del bonus ai parlamentari prima dell’inizio del trattamento dei dati abbia un rilievo in punto di liceità, tale circostanza al più potrebbe avere un rimbalzo nella valutazione della correttezza del trattamento.
Il principio di correttezza, intrinseco alla liceità ma da essa distinto in ragione della specificità che esso assume”[21], sembra riconducibile, cercando concetti noti alla nostra cultura giuridica, alla regola di buona fede, la quale impone al titolare del trattamento di porre in essere “tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendono necessari alla salvaguardia” dell’interessato, “nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”[22] in ogni fase del rapporto, dalla raccolta, all’elaborazione fino alla conservazione dei dati.
Il quesito da porsi è quindi se possa ritenersi – più che illecita – scorretta la condotta di quell’Amministrazione che, nutrendo un forte sospetto sulla spettanza di una certa indennità in capo ad alcuni soggetti, decida, nelle more che si sia formato un convincimento definitivo sul punto, di valutare se tale fattispecie effettivamente ricorra o meno[23].
Perché, in altre parole, questo è ciò che viene contestato all’INPS: che questi abbia iniziato il trattamento in esame prima che fosse prestabilita la spettanza del bonus Covid a parlamentari e amministratori locali. Anzi, da un punto di vista strettamente formalistico, sarebbe mancato, nel caso di specie, un “att[o], anche intern[o], legittim[o] in base alla normativa che disciplina l’esercizio dei compiti da parte dell’Istituto”, che si esprimesse sulla questione e che potesse costituire il presupposto per il successivo trattamento.
L’assenza di tale provvedimento pare essere decisiva nella valutazione sull’eventuale violazione del principio di correttezza: ciò, tuttavia, solo per l’ipotesi in cui si possa affermare che l’INPS non ha adeguatamente pianificato i propri controlli, esponendo gli interessati ai rischi connessi a trattamenti non necessari.
Per comprendere quindi se vi sia stato un trattamento non tanto illecito quanto scorretto, si dovrà ora concentrarsi sulla pianificazione dei controlli e sulla disciplina relativa sancita dal Regolamento.
4.2. La pianificazione dei controlli.
Prima di scandagliare la condotta dell’Istituto, per quel che è possibile grazie agli elementi che emergono dal provvedimento sanzionatorio, pare opportuno concentrarsi su un aspetto innovativo contenuto nel Regolamento, che ha un’importanza centrale nel caso che ci riguarda: la progettazione del trattamento.
Rispetto alla normativa precedente, il G.D.P.R. segna un “cambio di rotta” sotto diversi profili: uno di questi è che il Regolamento, a differenza del Codice Privacy, non si fonda sul rispetto di numerosi obblighi di carattere squisitamente formale, bensì essenzialmente sul richiamo al principio dell’accountability, ossia l’adozione di “comportamenti attivi tesi a dimostrare l’effettivo rispetto del Regolamento”[24].
Tale condotta, che si concretizza nell’adozione di misure tecniche ed organizzative adeguate proprio al conseguimento dello scopo, si colloca in due precisi momenti: una prima fase preliminare, prodromica al trattamento, nella quale al titolare competono scelte ed oneri organizzativi e decisionali quali la predisposizione dei mezzi dei quali avvalersi, cui ne segue una seconda, operativa, in cui si concreta il trattamento vero e proprio.
Questa impostazione, che va sotto il nome di “privacy by design”, ha lo scopo di assicurare che le garanzie di protezione dei dati siano osservate dalla progettazione iniziale dei sistemi di trattamento fin ai loro successivi funzionamenti e sviluppi[25].
Tali prescrizioni sono contenute nell’art. 25 G.D.P.R., a mente del quale “il titolare del trattamento mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate, quali la pseudonimizzazione, volte ad attuare in modo efficace i principi di protezione dei dati, quali la minimizzazione, e a integrare nel trattamento le necessarie garanzie al fine di soddisfare i requisiti del presente regolamento e tutelare i diritti degli interessati”: a ciò provvede “tenendo conto dello stato dell’arte e dei costi di attuazione, nonché della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, come anche dei rischi aventi probabilità e gravità diverse per i diritti e le libertà delle persone fisiche costituiti dal trattamento, sia al momento di determinare i mezzi del trattamento sia all’atto del trattamento stesso”.
Come si vede, la disposizione non contiene, al di là della menzione della pseudonimizzazione, un’elencazione delle misure che devono essere adottate dal titolare: l’intento è quello che quest’ultimo non si reputi adempiente agli obblighi del G.D.P.R. per il sol fatto di aver adottato strumenti volti a garantire e ad accrescere la sicurezza della conservazione e della protezione dei dati[26], ma che sia consapevole di dover fare un quid pluris, che sta al medesimo titolare individuare in cosa si concretizzi.
La privacy by design si sostanzia quindi in un approccio sistemico-gestionale, che ha come obiettivo finale quello di progettare sistemi di gestione dei dati in grado di ridurre, in senso selettivo e sostenibile, i rischi di data breach nei sistemi informativi: per fare ciò, è indispensabile che il trattamento dei dati sia preceduto da un’attività di design basata sul risk based approach e il goal oriented approach. In altre parole, la normativa eurounitaria non si è posta come obiettivo quello di ricercare dei rimedi ex post[27], quanto più che altro di imporre al titolare del trattamento di compiere un esame prudenziale delle attività che andrà a compiere e di adottare quelle misure di sicurezza – tecniche e organizzative – che garantiscono la protezione dei dati.
Insomma, non è possibile semplicemente affidarsi alle best practices del settore per assicurarsi un corretto sviluppo della progettazione: il titolare dovrà, infatti, secondo criteri di ragionevolezza e diligenza, valutare l’adeguatezza delle misure tecniche ed organizzative e garantire che esse tutelino al massimo le istanze degli interessati.
Oltre alle pseudonimizzazione di cui si è detto sopra, tra le tecniche di sicurezza cui il Regolamento conferisce carattere obbligatorio vi è anche la minimizzazione dei dati, ossia l’utilizzo solamente delle informazioni che sono necessarie rispetto alle finalità per cui il trattamento è svolto.
Ciò chiarito in via generale, è ora possibile tirare le fila su quanto è risultato accertato con riguardo alla condotta dell’INPS.
Dall’istruttoria condotta dal Garante sarebbe emerso che i controlli “di secondo livello” compiuti dall’Istituto avrebbero avuto a oggetto non solo i dati personali di coloro che hanno effettivamente percepito il bonus Covid, ma anche dei soggetti richiedenti che, a seguito di presentazione della relativa domanda, erano stati esclusi dal riconoscimento dell’indennità già all’esito dei controlli di primo livello.
Secondo quanto dichiarato, tale circostanza è stata determinata dal fatto che “la banca dati dell’Istituto relativa al bonus […] conteneva un insieme di dati disomogenei, che andavano dalle domande accolte, a quelle non ancora elaborate, a quelle in corso di riesame, ecc.” e, “posto che le istanze di accesso al bonus pervenute all’Istituto, da chiunque provenienti, compresi parlamentari, amministratori locali o regionali potevano trovarsi in una qualunque delle predette fasi di trattazione (accolte, non ancora elaborate, in corso di esame), l’incrocio dei dati doverosamente doveva essere globale […] senza escludere nulla all’esame dell’attività ispettiva”.
Da quel che ha dichiarato l’INPS sembra quindi che la verifica in ordine al fatto che l’istanza fosse stata presentata da un parlamentare o da un amministratore locale ovvero regionale si sia sommata alle altre in corso, non tenendosi in conto che la domanda poteva essere stata respinta per altre ragioni, indipendentemente dalla circostanza che il richiedente fosse titolare di un incarico tra quelli predetti.
A detta del Garante il trattamento risulterebbe esorbitare da quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati sono trattati, ponendosi quindi in violazione del principio di minimizzazione di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), del Regolamento, il quale impone di contenere i dati oggetto di trattamento a quelli indispensabili per il raggiungimento dello scopo perseguito[28].
Non solo. Come già anticipato sopra, l’Istituto ha proceduto alla raccolta di dati personali da banche dati esterne, detenute dalla Camera dei deputati e dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno: mancando, tra i dati resi fruibili liberamente, il codice fiscale, l’Istituto ha proceduto a calcolarlo in autonomia, in base ai parametri contenuti nel d.m. 12 marzo 1974, n. 2227, e ha quindi operato un raffronto con quelli riportati dagli interessati nelle domande presentate per l’erogazione del “bonus Covid”.
Su tale modalità di calcolo il Garante rileva che esso potrebbe comportare errori, non tenendosi in conto i casi di cosiddetta “omocodia”, cioè di coincidenza, tra più interessati, di alcuni dati, che impone all’Agenzia delle Entrate di assegnare loro un particolare codice fiscale diverso da quello ottenuto mediante la procedura di calcolo.
Così riassunti la condotta tenuta dall’INPS e gli aspetti che della stessa rilevano ai fini della valutazione di eventuali violazioni del G.D.P.R., in particolar modo dell’obbligo di pianificare il trattamento, pare potersi affermare che solo per l’effetto di un esame parcellizzato e non globale del comportamento dell’INPS il Garante abbia potuto decidere nei termini anzidetti.
Vale la pena sgombrare subito il campo dalla questione relativa all’esattezza dei dati trattati.
Il rischio di omocodia paventato dal Garante, benché ovviamente esistente, è tuttavia di portata limitata (in Italia ci sarebbero all’incirca 30.000 persone che potrebbero condividere lo stesso codice fiscale) e, nonostante non possa negarsi che il metodo adottato dall’INPS avrebbe potuto condurre a errori, il Garante, sotto questo profilo, pare non tenere in conto che l’Istituto, una volta aperto il procedimento di verifica sul trattamento dei dati in questione, ha interrotto ogni attività e non ha mai portato a termine i controlli di secondo livello. L’Authority avrebbe dovuto accertare – cosa che invece non ha fatto – quali ulteriori adempimenti sarebbero stati messi in campo dall’INPS prima di pronunciare un provvedimento di revoca del contributo, adempimenti che avrebbero potuto includere anche meccanismi di correzione delle eventuali inesattezze (fermo restando, e questo è indubitabile, che le stesse non sono state preventivate a monte e che quindi un meccanismo correttivo avrebbe potuto essere adottato solo “in corsa”).
Al di là di questo profilo che, se pur discutibile, non pare dirimente, la contestazione relativa alla mancata pianificazione dei controlli risiede ancora una volta nel fatto di aver proceduto a trattare i dati dei parlamentari (e degli altri amministratori locali), senza aver prima accertato in via ultimativa se a questi spettasse il bonus oppure no.
Ridotta a questi termini, la questione sembra ricondursi a un’eventuale inversione logica del procedimento, dovendosi imputare all’INPS di aver prima voluto comprendere la portata del problema e poi acclarare se di un problema effettivamente si potesse discorrere.
Un approccio di questo tipo da parte del Garante, però, pare, oltre che fondato su presupposti in fatto erronei, estremamente miope, perché inevitabilmente finisce per osservare la fattispecie da lontano, senza metterne a fuoco i dettagli, concentrandosi solamente su una serie di aspetti di secondario rilievo, che assumono importanza solo perché vicini allo sguardo di chi giudica.
L’Authority, infatti, ha valorizzato, in sostanza, un solo elemento: la mancanza di un atto – ossia di un documento – in cui l’INPS abbia versato il proprio parere in ordine alla spettanza del bonus. Così facendo, però, è mancato qualsiasi tipo di accertamento sui “comportamenti attivi” tenuti dall’Istituto.
Pare evidente, dalla ricostruzione dei fatti che emerge dal provvedimento, che l’INPS ha agito seguendo binari paralleli, dovendo perseguire finalità diverse nella sua azione.
L’Istituto doveva infatti bilanciare, da un lato, l’interesse dei soggetti istanti a vedersi corrisposto il bonus nel più breve tempo possibile, pena l’inefficacia di una misura che fosse stata erogata a emergenza conclusa; dall’altro lato, l’INPS doveva evidentemente evitare di erogare il bonus a chi erroneamente ne aveva fatto richiesta.
Esauriti quindi i controlli di primo grado, in grado di rilevare i casi più evidenti di trasgressione, è iniziato il secondo livello di verifiche, processo che comunque non poteva avere una durata irragionevole, pena non solo la difficoltà per l’erario di recuperare le somme illegittimamente erogate e magari già impiegate dai beneficiari, ma anche la lesione dell’affidamento ingenerato in questi ultimi dall’erogazione e dalla mancata sollecita revoca del bonus stesso.
A fronte di un dato legislativo piuttosto incerto, che ha costretto l’INPS a chiedere un parere anche al Ministero del Lavoro, l’Amministrazione ha ritenuto opportuno – si appende dalla lettura del provvedimento – cominciare le attività di verifica sui parlamentari, e ciò sulla base del convincimento che essi non avessero diritto alla percezione del contributo.
Come rimarca il Garante, tale convincimento non è stato consacrato in alcun atto interno, ma è altrettanto vero che tale incombente non era necessario, dovendo i casi di revoca del bonus risultare dalla mera interpretazione del dato letterale legislativo.
Insomma, sembra che il sintomo dell’assenza di pianificazione sia stata l’incertezza della legge sul punto e la manifestazione che anche per l’INPS il tema non era chiaro, avendo l’istituto domandato un parere al Ministero (che peraltro ha tardato mesi prima di fornirlo).
È passata invece sotto silenzio l’efficienza di questa Amministrazione e l’efficacia della sua azione: l’INPS, infatti, senza attendere per lungo tempo un parere non necessario da parte di un altro ente, ha intrapreso quelle attività prodromiche al recupero dei contributi erogati a soggetti non legittimati a riceverlo: attività che è stata compiuta non sulla base dell’incertezza normativa, ma del convincimento dell’ente della correttezza dell’interpretazione che esso stesso vi aveva fornito.
Al di là quindi di alcuni profili di inesattezza nel trattamento dei dati (come, ad esempio, aver calcolato il codice fiscale in modo automatico) e di un loro utilizzo sovrabbondante rispetto alle finalità (costituito dal fatto di aver cercato se vi fossero dei parlamentari tra gli istanti, anche tra coloro che già erano stati esclusi all’esito dei controlli di primo livello), non sembra potersi affermare che sia mancata una pianificazione dei controlli da parte dell’INPS e che il Garante sia giunto a questa erronea conclusione valorizzando un elemento di fatto non decisivo (l’assenza di un atto interno che desse conto della spettanza del “bonus Covid” ai parlamentari).
Ciò detto, però, al fine di comprendere se effettivamente la condotta tenuta dall’INPS possa dirsi o meno conforme al G.D.P.R., deve verificarsi se la stessa sia in grado di superare l’esame dell’accountability, che, come si è detto, costituisce il core della disciplina contenuta nel G.D.P.R.
4.3 Il principio di responsabilizzazione
Come si evince da quel che si è detto, l’art. 25 del G.D.P.R. rappresenta a buon diritto “una tra le norme più ambiziose dell’intera riforma”, racchiudendosi qui uno tra i principali obiettivi del Regolamento: la responsabilizzazione del titolare.
Essa va intesa secondo una duplice accezione: come anticipazione responsabile di tutele, misure e procedure (responsabilizzazione vera e propria) e come rendicontazione, ossia dimostrazione di aver rispettato le regole.
Il principio è consacrato al secondo paragrafo dell’art. 5 del G.D.P.R., il quale individua l’oggetto della responsabilità nei principi di cui al primo paragrafo. In verità, come è stato sottolineato, “esso costituisce una forza sotterranea che informa di sé pressoché tutti gli istituti del Regolamento”: esso è “il verso nella cui direzione occorre applicare e interpretare le norme de qua”[29].
Pare quindi che esso costituisca il parametro migliore per testare la condotta dell’INPS: bisognerà quindi verificare se, come insegna l’art. 25 a proposito della privacy by design, l’Istituto si sia dimostrato responsabile (e responsabilizzato) prima del trattamento. Il controllo, collocandosi ex post, sarà quindi finalizzato a verificare se il titolare sia in grado di fornire prova non solo dell’an (ossia di aver adottato delle misure), ma anche del quomodo e del quantum, cioè dell’efficacia delle scelte compiute.
Per rispondere quindi al quesito se l’INPS abbia effettivamente omesso di pianificare i propri controlli, si deve ripartire da ciò che ha fatto l’Istituto, così come emerso nell’istruttoria.
Nel provvedimento in commento il Garante ricostruisce nei dettagli la condotta tenuta dall’INPS, concentrandosi in particolar modo su tutti quegli elementi fattuali che dovrebbero rendere palese che l’Istituto avrebbe agito in modo casuale, in assenza di un progetto a monte sui controlli da svolgere.
Risulterebbe infatti che il trattamento di dati personali in questione sia stato effettuato prima della fine del mese di maggio 2020[30], quindi – annota il Garante – in un momento anteriore a quando è stato chiarito in via definitiva se gli incarichi di parlamentare e di amministratore regionale o locale costituissero una condizione ostativa alla spettanza del bonus Covid.
L’Authority àncora il momento in cui sarebbe stata raggiunta una ragionevole certezza sulla questione alla data in cui è giunto il parere – richiesto dall’INPS – al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pervenuto il 2 dicembre 2020 (ossia nel corso del procedimento), dando scarso rilievo al fatto che la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza dell’INPS era già giunta in autonomia alla medesima conclusione[31].
La ricostruzione così proposta non sembra però corretta.
L’INPS ha infatti dichiarato che “la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza, secondo un’interpretazione letterale della norma alla luce dei parametri costituzionali di riferimento, considerava la prestazione non spettante ai parlamentari ed ai titolari di cariche presso le amministrazioni locali”, ma che “la complessità delle questioni in gioco richiedeva un approfondimento da parte delle Direzioni amministrative competenti e del vigilante Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”.
Non è dato sapere se la Direzione Centrale predetta abbia cristallizzato in un atto interno il proprio convincimento, ma pare che, per quanto oscura fosse la questione, ben avesse interpretato la normativa di settore e che, sulla base di ciò, abbia deciso di intraprendere i controlli di secondo livello relativamente alle categorie soggettive di cui si è detto.
Peraltro, il parere del Ministero non era certo presupposto necessario per le attività di recupero che l’INPS sarebbe andato poi a compiere: insomma, anche a fronte di un’opinione diametralmente opposta che il Ministero avesse formulato, nulla avrebbe vietato all’Istituto di ritenere prevalente – perché migliore – la propria interpretazione delle disposizioni rilevanti.
Non pare, poi, che si possa biasimare la scelta dell’INPS di cominciare l’attività di controllo nel più breve tempo possibile, considerando l’esito che tali controlli hanno: quello di recupero di somme già versate ai richiedenti, risultando quindi certamente preferibile per chi si è visto accreditare il bonus, così come per l’Istituto che deve procedere al recupero, che tale attività si svolga nell’immediatezza e non a distanza di parecchi mesi.
Quanto al principio di responsabilizzazione, il Garante scrive che, alla luce della documentazione prodotta nell’ambito dell’istruttoria, l’INPS non è stato, in generale, in grado di comprovare, con argomenti logici o prove di fatto, le ragioni delle decisioni assunte nell’ambito del complesso trattamento di dati personali effettuato, al fine di dimostrare all’Autorità il rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali secondo quanto previsto dal «principio di responsabilizzazione» (art. 5, par. 2 del Regolamento).
Prova di ciò si avrebbe dalle dichiarazioni rilasciate con riferimento, ad esempio, alla questione dell’individuazione dei casi di spettanza del bonus, cui si aggiungerebbe il fatto che quanto dichiarato nelle predette note non sarebbe supportato da un’adeguata documentazione atta a comprovare quali livelli decisionali sono stati coinvolti, le valutazioni effettuate, le ragioni sottese alle decisioni prese e le misure adottate in relazione al trattamento dei dati personali in esame.
Ad avviso di chi scrive, il giudizio del Garante sembra eccessivamente severo, considerati le risultanze istruttorie e il significato delle disposizioni che il titolare avrebbe violato.
Nella valutazione dell’eventuale violazione del principio di responsabilizzazione è necessario, come si è detto, porsi idealmente nel momento precedente l’inizio del trattamento e considerare le attività che in quel momento sono state messe in atto: con specifico riferimento alla condotta dell’INPS, si può dire che quest’ultimo, in quella fase prodromica, si trovava in una situazione di incertezza normativa, da un lato, e di necessità di operare un bilanciamento tra interessi, dall’altro.
Quanto a questo secondo profilo, l’INPS, incaricato per legge di gestire l’erogazione del bonus Covid, ha condivisibilmente soddisfatto l’interesse della platea di professionisti che attendevano la nota indennità programmando solamente un controllo di primo livello di tipo automatico, garantendo così la liquidazione del danaro in tempi rapidi; così facendo, peraltro, già ha fatto fronte al rischio di frodi, eliminando dalla platea dei beneficiari una parte dei richiedenti. Le situazioni personali che, invece, richiedevano un maggior livello di indagine sono state riservate a una seconda fase, nella quale si è posto il problema che qui ci riguarda. La questione relativa alla spettanza del bonus ai parlamentari risulta essere stata risolta dalla Direzione Centrale Antifrode dell’INPS, che, sulla base di quel risultato, ha proceduto alle verifiche su descritte.
Benché manchi agli atti un provvedimento in cui l’Istituto abbia dato conto del proprio parere in ordine alla spettanza del “bonus Covid” ai soggetti titolari di incarichi politici, è incontestato che a tale convincimento l’INPS sia giunto prima di cominciare il trattamento (e certamente non potranno avere un impatto sulla condotta tenuta dall’Istituto le ragioni che lo hanno condotto a questa conclusione, rilevando solamente che tale scelta sia stata compiuta prima di cominciare il trattamento, e non a valle).
Non sembra quindi potersi concludere che sia mancata una pianificazione delle attività di controllo, ma semmai che l’Istituto non sia stato in grado di costituirsi la prova dell’esistenza di un proprio parere sulla disciplina da applicare. Prova che, lo si ripete, si dubita che dovesse esistere, considerato che la pianificazione ben può risultare anche da comportamenti tenuti dal titolare del trattamento.
In ordine poi all’efficacia delle scelte compiute, poco dice il provvedimento, limitandosi a rilevare che sarebbe mancata a monte la scelta di domandare all’Agenzia delle Entrate i codici fiscali dei parlamentari (invece che procedere a un calcolo automatico degli stessi).
Al netto di tale superficialità, che certo non può essere scusabile (benché non risulti aver condotto a qualche errore), non sembra potersi predicare che l’essenzialità della pianificazione dell’INPS si sia riverberata in gravi violazioni del G.D.P.R.
5. Conclusioni
Essendo risultato indimostrabile che la diffusione delle notizie in ordine al fatto che alcuni parlamentari avevano presentato istanza per ottenere il cosiddetto “bonus Covid” fosse attribuibile dall’INPS, il Garante ha intrapreso un’indagine in ordine al relativo trattamento dei dati.
È risultato accertato, in modo peraltro condivisibile, che l’Amministrazione abbia compiuto degli errori, avendo proceduto a calcolare il codice fiscale dei parlamentari in modo automatico e in autonomia (senza tenere in conto il rischio di omocodia) e abbia compiuto un trattamento inutile, verificando se vi erano dei parlamentari e degli amministratori locali non solo tra coloro cui il bonus era stato erogato ma anche tra gli esclusi all’esito dei controlli di primo livello (avendo utilizzato una banca dati che sommava tutti gli istanti).
È stato tuttavia stabilito che l’INPS non avrebbe adeguatamente pianificato l’attività di controllo, non avendo predeterminato la spettanza del bonus in capo ai titolari di incarichi politici prima di verificare se alcuni di questi avevano presentato istanza. Tale conclusione, come si è detto, appare erronea in punto di fatto, non avendo il Garante tenuto in considerazione che la Direzione Antifrode era giunta a formulare un parere prima di procedere al trattamento.
Di più, dalla ricostruzione sopra esposta pare che l’INPS abbia agito in modo tutt’altro che casuale, abbia compiuto un’indagine legale sulla spettanza del contributo e, sulla base dei risultati cui è giunto, abbia cominciato il trattamento dei dati finalizzato a recuperare le elargizioni illegittimamente disposte.
Si rivela poi eccessiva la contestazione del Garante, sempre con riguardo alle lacune nell’attività di pianificazione, in ordine all’assenza di prova di quali livelli decisionali siano stati coinvolti dall’INPS, di che valutazioni in concreto esso abbia fatto e che ragioni abbia posto alla base delle decisioni prese. Anzi, un’affermazione di questa portata, che impone un surplus di pianificazione non richiesto dal G.D.P.R., sembra, ad avviso di chi scrive, un aggravamento procedimentale inutile, finalizzato più che altro alla precostituzione di una prova in capo al titolare dell’attività svolta, piuttosto che a verificare l’evidenza che quell’attività sia stata effettivamente svolta.
Un approccio di questo genere, focalizzato sugli adempimenti formali piuttosto che sulla valorizzazione dei comportamenti attivi, sembra una regressione al Codice Privacy, regressione che non tiene conto del progresso fatto dalla legislazione eurounitaria, la quale, anche attraverso il Regolamento, impone non atti formali ma condotte concrete, in grado di dimostrare l’effettivo e sostanziale rispetto del G.D.P.R. Condotte che nel caso di specie non si può dubitare che non vi siano state.
[1] Nel provvedimento in commento si può leggere che è “verosimile che l’origine della diffusione della notizia e dei nomi dei cinque deputati richiedenti il sussidio sia interna all’INPS, al tempo l’unico ente a conoscenza di tali informazioni a seguito dei controlli che essa sola stava effettuando”.
[2] Il riferimento è a membri della Camera dei deputati, di Consigli e Giunte regionali, provinciali e comunali.
[3] Con riferimento alla divulgazione degli esiti di tali controlli alla stampa, l’INPS ha dichiarato che, “nessuna attività di comunicazione a terzi è stata effettuata dall’Istituto in ordine all’attività ispettiva in essere”; circostanza che è stata più volte ribadita dall’Istituto, anche in sede di audizione parlamentare, nel corso della quale il Presidente ha precisato di aver informato, già a fine maggio, il Consiglio di amministrazione dell’Istituto dell’esito dei primi controlli effettuati.
[4] di cui all’art. 5, par. 1, lett. a), del Regolamento.
[5] di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), del Regolamento (cfr. par. 6.2).
[6] di cui all’art. 5, par. 1, lett. d), del Regolamento (cfr. par. 6.3).
[7] di cui agli artt. 5, par. 2 e 24, del Regolamento (cfr. par. 6.6).
[8] di cui all’art. 35 del Regolamento (cfr. par. 6.5).
[9] di cui all’art. 25 del Regolamento (cfr. parr. 6.1 e 6.4).
[10] Il riferimento è ai suoi artt. 27, 28, 29, 30, 31 e 38.
[11] Non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie (così l’art. 27).
[12] Non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie (così l’art. 27).
[13] Iscritti alle gestioni speciali dell’Ago, non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, ad esclusione della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (così l’art. 28).
[14] Nonché ai dipendenti degli stabilimenti termali che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2019 e la data di entrata in vigore del decreto, non titolari di pensione e non titolari di rapporto di lavoro dipendente (così l’art. 29).
[15] Impiegati a tempo determinato, non titolari di pensione, che nel 2019 abbiano effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro agricolo (così l’art. 30).
[16] Con almeno 30 contributi giornalieri versati nell’anno 2019 al medesimo Fondo, cui deriva un reddito non superiore a 50.000 euro, e non titolari di pensione (così l’art. 38).
[17] Diritto subordinato per legge alla mancata titolarità di una pensione, all’assenza di iscrizione ad altra forma previdenziale obbligatoria, ovvero, nei casi in cui il diritto nascesse in virtù di un rapporto di lavoro dipendente svolto nell’anno 2019, all’insussistenza di un rapporto di lavoro dipendente alla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020).
[18] Si tornerà nel prosieguo a discutere sul fatto se l’INPS abbia commesso un’inversione logica, nel momento in cui ha deciso prima di verificare se vi fossero dei parlamentari tra i richiedenti il “bonus Covid” e poi di acclarare se questi avessero diritto a percepirlo; vale la pena subito anticipare che la tesi del Garante è che l’Istituto avrebbe dovuto agire in senso opposto, ossia prima accertarsi se i membri delle due Camere e gli amministratori locali e regionali avessero astrattamente titolarità a ricevere il bonus in parola e, di poi, in caso di esito negativo, cercare i trasgressori.
[19] Così Piraino, La liceità e la correttezza, in Panetta (a cura di), Libera circolazione e protezione dei dati personali, I, Milano, 2006, 750 (benché con riguardo alla disciplina previgente il G.D.P.R.).
[20] Del resto, come annota attenta dottrina, il riferimento al legittimo interesse del titolare è posto, nelle argomentazioni del regolatore, a presidio del soddisfacimento di interessi pubblici: così Bosa, Commento all’art. 6 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 132 s.
[21] Si veda Navarretta, Art. 11, in Nuove leggi civ., 1999, 251, per la quale “la loro distinzione … consiste nella diversità del precetto violato. Tramite la liceità il legislatore detta specifiche regole di condotta, il cui contenuto – di matrice integralmente eteronoma – è in toto determinato a priori. Tramite la correttezza il legislatore indica all’agente un canone generale cui deve attenersi la sua condotta, che rimane fondamentalmente libera, ma nel rispetto della clausola generale che colora tale autonomia di una connotazione discrezionale”.
[22] Vedi Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, 211.
[23] Lo si ripete: ammesso che tale convincimento non vi sia. Anche se, per quel che si dirà nel prosieguo, tale conclusione sembra da rifiutarsi.
[24] Montanari, Commento all’art. 25 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 524 ss.
[25] Tale approccio e la stessa formula privacy by design si devono ad Ann Cavoukian, Information and Privacy Commissioner dell’Ontario, che già negli Anni ‘90 elaborò questi concetti. L’autrice canadese scrive che “Privacy by Design advances the view that the future of privacy cannot be assured solely by compliance with regulatory frameworks; rather, privacy assurance must ideally become an organization’s default mode of operation”: cfr. Cavoukian, The 7 Foundational Principles, in https://www.ipc.on.ca/wpcontent/uploads/Resources/7foundationalprinciples.pdf . I concetti di privacy by design sono stati poi oggetto di discussione in seno alla Conferenza mondiale dei Garanti per la protezione dei dati personali tenutasi a Gerusalemme il 27-29 ottobre 2010, all’esito della quale è stata adottata una Resolution on Privacy by design, nella quale sono stati adottati i “sette principi” elaborati da Cavoukian. Essi sono: 1. Proactive not Reactive; Preventative not Remedial; 2. Privacy as the Default; 3. Privacy Embedded into Design; 4. Full Functionality: Positive-Sum, not Zero-Sum; 5. End-to-End Lifecycle Protection; 6. Visibility and Transparency; 7. Respect for User Privacy. La risoluzione è disponibile sul sito del Garante: https://www.garanteprivacy.it/documents/10160/10704/1807346.pdf/e2a585d9-7863-468c-81f5-0d5c57815b54?version=1.0 Sull’importanza del concetto di privacy by design e sulle sue ripercussioni, si veda quel che afferma la dottrina tedesca, in particolare Martini, in Paal, Pauly, Datenschutz-Grundverordung Bundesdatenschutzgesetz, München, 2018, 319, sub Art. 25: “Das Konzept „privacy by design” setzt entspr. auf der Erkenntnis auf, dass sich der Schutz informationeller Selbstbestimmung am besten sicherstellen lässt, wenn er bereits in die Programmierung und architektonische Konzipierung der Datenverarbeitungsvorgänge sowie der Datenverarbeitungstechnik integriert ist und bei deren Entwicklung Berücksichtigung findet“.
[26] Ci si riferisce qui alle Privacy Enhancing Technologies (PET), ossia quelle tecniche finalizzate alla minimizzazione dei dati personali raccolti e utilizzati, consistenti nell’adozione di pseudonimi, credenziali di accesso e ogni altro strumento volto a garantire anonimato e sicurezza dei dati.
[27] Rimedi che comunque non mancano. Sul tema non ci si concentra, ma si rinvia ai contributi di Mantelero (Cap. 6, par. 3) e Ratti (Cap. 13, par. 1) in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, opera diretta da Finocchiaro, Bologna, 2017.
[28] Resta, Commento all’art. 5, in Riccio, Scorza, Bellisario (a cura di), G.D.P.R. e normativa privacy, Milano, 2018, 58.
[29] Così Achille, Commento all’art. 5 del G.D.P.R., in Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle persone – Leggi collegate, vol II, Milano, 2019, 114.
[30] Come è emerso dall’audizione del Presidente alla Camera dei deputati.
[31] Nel provvedimento del garante viene citata una nota di INPS dove questi dichiara: “la Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza, secondo un’interpretazione letterale della norma alla luce dei parametri costituzionali di riferimento, considerava la prestazione non spettante ai parlamentari ed ai titolari di cariche presso le amministrazioni locali”.
Giustizia e comunicazione. 9) I protagonisti della giustizia
di Claudia Morelli*
Sommario: 1. Comunicazione e coesione sociale - 2. Comunicazione Legale e Giuridica: il punto di vista del Comunicatore - 3. Il Processo di Comunicazione - 4. Gli obiettivi di Comunicazione della e nella Giustizia - 5. I protagonisti della Giustizia - 6. I Canali di Comunicazione - 7. Il Linguaggio della Giustizia - 8. Legal design: una prospettiva inclusiva - 9. Comunicare l’innovazione nella Giustizia - 10. Le professionalità - 11. Post Scriptum.
1. Comunicazione e coesione sociale
All’inizio del XX secolo uno zoologo austriaco, Karl von Frisch, scoprì che le api comunicano. Non fu creduto per lunghi anni; ma dopo essere riuscito a dimostrarlo, per questa scoperta nel 1973 fu insignito nel del premio Nobel per la fisiologia e la medicina. “Da quel momento anche le api sono assurte a quella categoria di animali sociali che Edward O. Wilson chiama “super organismo”: ovvero in grado di sviluppare una serie di relazioni e comunicazioni il cui scopo è quello di mantenere coesa e duratura la loro struttura sociale”. Quando ho letto, su la Repubblica, questa storia, ne sono rimasta affascinata, perché in poche righe richiama una costellazione di concetti non solo a me cari, quanto oggi collettivamente e cumulativamente insistenti: comunicazione, struttura sociale, sostenibilità. Sin dalla pubblicazione dell’editoriale di Giustizia Insieme, che annunciava l’apertura di uno spazio dedicato al tema Comunicazione e Giustizia, ho seguito con interesse il dipanarsi dei diversi interventi, ciascuno dei quali tocca specifici aspetti di un macro tema. D’altra parte, il tema del linguaggio e della comunicazione è spesso oggetto di articoli in Avvocato4.0, la rubrica dedicata alla innovazione in ambito giuridico che curo settimanalmente per Altalex. In nota i link. Riducendo all’essenziale il dibattito finora ospitato in Giustizia Insieme, i punti che tutti gli autori paiono considerare cardinali sono: - l’esigenza sempre più sentita di comunicare la Giustizia in maniera trasparente e comprensibile; - l’esigenza di ricercare linguaggi chiari, precisi e sintetici e sviluppare argomentazioni ferree nel processo; - il restituire alla fase delle indagini il ruolo interlocutorio all’interno del processo penale, anche tramite la informazione mediatica; -l’ interruzione della spirale perversa procure-media; - l’avvicinare i cittadini e tutti gli stakeholder alla Giurisdizione sotto il duplice profilo: a) delle ragioni alla base dello iusdicere nei casi specifici; b) dell’accessibilità al servizio. Aggiungo a questa lista di obiettivi che sono assegnati implicitamente all’ampio concetto di Comunicazione, uno ulteriore, che non mi pare sia specificatamente emerso: quello di recuperare alla Giurisdizione ed ai suoi operatori un credito reputazionale, che oggi appare appannato, anche solo a leggere l’ultimo Eu Justice scoreboard della Commissione europea. Ove non fosse un obiettivo implicito, sarebbe comunque una auspicabile conseguenza di una comunicazione più efficace, e dunque inclusiva. Responsabilità sociale, reputazione e autorevolezza sono come vibrazioni (gli asset immateriali) da cui dipende, infatti, la percezione sociale e collettiva di un servizio. Figurarsi se il servizio ha rilevanza costituzionale (per il quale le aspettative sono certamente più alte). Quanto gli asset immateriali costituiscano valore reale per l’ente che li esprime, i comunicatori di professione lo sanno molto bene. Sono fiduciosa nell’apprendere che in molti uffici giudiziari si redige il Bilancio sociale che fa dell’accountability (cioè della responsabilità collettiva in capo ad un centro di funzioni/servizio rispetto ad un certo risultato) un metro di misurazione (anche interna) dell’efficacia del servizio Giustizia.
2. Comunicazione Legale e Giuridica: il punto di vista del Comunicatore
Se il mio intervento in questo autorevole contesto avrà una qualche utilità, allora, sarà perché qui porto il punto di vista di comunicatrice, specializzata nell’ambito legale e del diritto. Un punto di vista…diverso. Per (in)competenza non toccherò il tema del linguaggio nei provvedimenti giudiziari, se non in un sintetico passaggio sul linguaggio e per segnalare l’esplorazione di linguaggi innovativi che, al riparo da semplificazioni o strumentalizzazioni, possono aiutare nella comprensibilità del diritto. E non mi occuperò del rapporto procure-media, che è un epifenomeno e non esaurisce affatto, a mio avviso, il tema complesso e strategico della Comunicazione della Giustizia in una società democratica e digitale. Ed, in ogni caso, richiama aspetti normativi e deontologici che esulano da questo contributo specifico.
3. Il Processo di Comunicazione
Basta consultare il vocabolario Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/comunicazione/ per perdersi tra le diverse accezioni – generiche e specifiche- nel verbo Comunicare. Alcune di esse però colgono nel segno del significato che qui vorrei sottolineare, a partire dalla etimologia lat. communicare, der. di communis «comune»: 1.Rendere comune, far conoscere, far sapere; per lo più di cose non materiali; 2. Quindi anche divulgare, rendere noto ai più; 3. In meccanica, di energia o moto trasmessi da un corpo all’altro; 4. Essere in relazione verbale o scritta con qualcuno per lettera, per e-mail, per sms, per cenni, per segni convenzionali; entrare in comunicazione con altri, istituendo un rapporto di comprensione e partecipazione. La comunicazione, dunque, è un “processo” volto a “rendere comune” qualcosa in un rapporto di comprensione e partecipazione. Per garantire che la comunicazione sia efficace, occorre focalizzare quel “mettere in comune”, in una relazione di comprensione e partecipazione. Ma con chi? Per comunicare ci si serve per lo più di lingua e parole (ma non solo): cioè di codici condivisi che osservano regole precise. Se la comunicazione è partecipazione, non esiste un processo di comunicazione “unico”; ma tanti processi di comunicazione quanti sono i contesti, gli interlocutori, i messaggi, il contenuto e l’obiettivo a cui si ambisce. Si comunica secondo “registri diversi”, in relazione al contesto in cui ci si trova. Nella comunicazione che ambisce ad essere efficace occorre seguire un metodo; ma sarebbe errato pretendere di avere un processo di comunicazione valido per sempre e in ogni contesto.
Questa “relatività” è ben nota ai comunicatori che, nei piani strategici, sono abituati a distinguere in:
a) obiettivi;
b) interlocutori (target);
c) canali;
d) linguaggi;
consapevoli, peraltro, che la comunicazione “si misura all’arrivo”. Per misurare, occorre introdurre un altro elemento spesso trascurato nel processo di comunicazione: il feedback, che è dato dall’ascolto. Venendo al nostro tema, è importante fare una premessa: è necessario distinguere ancora tra la comunicazione “nel processo”, tra le parti e tra le parti e il giudice; e la comunicazione della Giustizia al pubblico, secondo i diversi canali: media, web, social, relazioni istituzionali. Altrimenti si rischia il caos.
4. Gli obiettivi di Comunicazione della e nella Giustizia
Perché occorre Comunicare la Giustizia? Qui non mi riferisco al “perché” filosofico-costituzionale-sociologico-etico, ma più banalmente alla ragione sottostante la singola attività di comunicazione nella Giustizia: un provvedimento, una sentenza, una circolare, una informazione sul web, un post social. Qual è la ragione ultima di ciascun “atto” di comunicazione nella Giustizia? Aver ben chiaro l’obiettivo che si vuole raggiungere rispetto al proprio interlocutore, per i comunicatori è come un faro nella nebbia dell’autoreferenzialità. Proseguendo nella lettura, il concetto sarà più chiaro.
5. I protagonisti della Giustizia
Ma chi sono i protagonisti della Giustizia? Il comunicatore sa bene che il protagonista - nel processo di comunicazione - non è il promotore ma è il recettore. E’ la qualità del recettore che costringe il promotore ha fare scelte comunicative diverse. Da qui la liceità di registri e canali diversi, senza che questo comprometta di per sé il valore del messaggio e del contenuto. Un principio giuridico è una cosa; le modalità di accesso al servizio giustizia sono altra. Un conto è il ricorso alla Corte Costituzionale; altro è spiegare all’opinione pubblica le ragioni di quel ricorso. Se si sposa il punto di vista dell’interlocutore, sarà più facile collocarsi nel registro giusto. Non citerò ulteriormente Italo Calvino o Umberto Eco o anche Einstein, a sostegno della tesi che semplicità non è sinonimo di semplificazione. I protagonisti della Giustizia, dunque, non sono (solo) gli operatori della Giustizia. Ma tutti i cittadini “nel nome dei quali” la Giustizia è amministrata. Collegando l’obiettivo della singola comunicazione all’interlocutore destinatario, sarà più facile accedere al registro giusto.
6. I Canali di Comunicazione
Conosciamo tutti, i canali tradizionali, istituzionali, formali e informali, attraverso i quali fino ad oggi si è consumata la comunicazione della Giustizia. Sono efficaci ai fini di un avvicinamento dei cittadini alla Giustizia in un processo democratico di coinvolgimento collettivo sui valori? La risposta è scontata, anche se ovviamente stiamo generalizzando. A voler trascurare obiettivi a volte inconfessabili, molto spesso è banale incompetenza comunicativa a rendere la Comunicazione efficace della Giustizia, come sistema di valori condivisi, una utopia. Interventi precedenti si sono soffermati sul canale web degli uffici giudiziari, come best practice per avvicinare i cittadini alla Giustizia. Senz’altro vero, a patto di applicare il metodo e di fare della user experience, del design e del content elementi strategici di trasparenza, chiarezza e semplicità. I comunicatori non escludono per principio nessun tipo di canale (nel digitale poi ce ne sono tantissimi), a condizione che se ne rispetti il linguaggio e si abbia ben presente il messaggio, il perché, e il pubblico a cui è destinato. Lo stesso Cepej non esclude influencer e social, per dire!
7. Il Linguaggio della Giustizia
La giustizia e il diritto sono domini che i linguisti chiamano tecnici. La marca che contrassegna i termini di uno specifico settore è TS (termini tecnico-specialistici). E’ senz’altro vero, dunque, che nel processo in Tribunale (e nei vari gradi giudizio), il registro della comunicazione sarà doverosamente tecnico. Ma potrà essere non pedantemente tecnico. In alcune recenti interviste che ho realizzato ad eminenti linguisti, i professori Michele Cortelazzo e Federigo Bambi, proprio al fine di chiarire in quale rapporto reciproco sono i principi di chiarezza, specificità e sinteticità, è emerso come il linguaggio “tecnico- giuridico”, sia sotto il profilo linguistico che in quello sintattico, può (e dovrebbe) scrostarsi da pedanterie, latinismi, brocardi, costruzioni sintattiche oscure, mera reminiscenza di una realtà sociale - e dunque giuridica - oggi inesistente. La lingua, per fortuna, è qualcosa di vivo che evolve con l’evolvere dei tempi. Mantenere registri linguistici falsamente aulici negli atti processuali e nei provvedimenti giudiziari trasmette, nel migliore dei casi, anacronismo. Nel peggiore, compromette la difesa dei diritti delle persone e impedisce la reale comprensione della logica, ancorché giuridica, del provvedimento. Se usciamo dall’aula del tribunale, meno “doverosamente” tecnica e anzi auspicabilmente colloquiale, dovrà essere la comunicazione volta all’opinione pubblica, per spiegare sulla base di quali dati normativi e giuridici, di quali prove inconfutabili e di quali argomentazioni, è stata assunta una determinata decisione. La “spettacolarizzazione” delle conferenze stampa potrebbe essere calmierata solo applicando questa regola di…buon senso. Ma altra ancora dovrà essere la comunicazione (linguaggio e canali) utilizzata per la comunicazione del servizio Giustizia.
8. Legal design: una prospettiva inclusiva
In tema di linguaggio, pur non potendo soffermarmi approfonditamente, voglio evocare il tema del legal design (vedi note), un movimento innovativo che applica il metodo del design thinking e coinvolge nella comunicazione della prescrittività giuridica l’utilizzo di icone, immagini e grafici. Anche in questo caso, il pericolo da sventare è la superficialità e l’approssimazione. Eppure intravedo grandi potenzialità comunicative in questo nuovo linguaggio, soprattutto sotto il profilo dell’accessibilità al servizio Giustizia.
9. Comunicare l’innovazione nella Giustizia
Il riferimento al legal design mi permette un rapido cenno al tema della innovazione in ambito giuridico e alla sua comunicazione. Anche qui il CEPEJ (vedi in nota) ha segnato una strada molto interessante che vale la pena di focalizzare. I processi e i progetti di innovazione, soprattutto quando incidono su realtà complesse e stratificate, rischiamo di essere vissuti come corpi estranei calati dal centro o dall’alto. Progetti di comunicazione dedicati specificatamente ai progetti di innovazione, hanno una carica inclusiva che vale la pena di liberare, sia all’interno degli uffici che nella collettività destinataria finale dei progetti. Invece questo aspetto è trascuratissimo, a iniziare dal Ministero della Giustizia. A voler tacer d’altro, mi limito a evidenziare che nella Giustizia si profila un nuovo campo “comunicativo”: quello della “explainable AI”. E’ vero che qui siamo nel campo della programmazione…ma spero si sia compresa la necessità di scrutare il nuovo per arrivare preparati. Sarò facile profeta (osservatrice realistica) nell’ evidenziare come l’incalzare delle tecnologie e, soprattutto, l’estendersi dei linguaggi di programmazione ad ogni area delle attività umana (vedi gli smart contracts), sottoporranno il diritto ad una nuova “rivoluzione grafica”. Con esiti oggi imperscrutabili.
10. Le professionalità
Mi accingo a concludere evidenziando che, soprattutto nella infosfera, la comunicazione istituzionale anche nella Giustizia richiede professionalità dedicate, competenti, possibilmente specializzate nel settore del diritto. Questo tema evoca, da una parte, quello della organizzazione degli uffici giudiziari; e dall’altra quello delle risorse scarse. In una analisi S.W.O.T questi elementi sono “i punti di debolezza”. Il punto è che non leggiamo mai dei “punti di forza”. O meglio…non si fa una analisi S.W.O.T. La testata che spero pubblicherà queste riflessioni si chiama Giustizia Insieme: è nel rendere vivo e pulsante quell’avverbio che risiede oggi la sfida della Giustizia, a partire dalla risposta alla domanda: “insieme a chi?”.
Grazie per l’ospitalità.
11. Post Scriptum
Tra la redazione di questo articolo e la sua pubblicazione su Giustizia Insieme, ho potuto leggere un nuovo documento adottato dal Cepej - "FOR A BETTER INTEGRATION OF THE USER IN THE JUDICIAL SYSTEMS”: Guidelines and comparative studies on the centrality of the user in legal proceedings in civil matters and on the simplification and clarification of language with users”, nel quale è ribadita la rilevanza strategica del linguaggio e della comunicazione efficace per la qualità della Giustizia, con conseguenti Linee guida molto utili.
* giornalista - esperta di comunicazione legale- divulgatrice di innovazione legale.
- Ricorsi chiari, amicizia lunga https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/28/ricorsi-chiari-amicizia-lunga
- HackTheDoc, i vincitori del primo hackathon italiano di Legal design https://www.altalex.com/documents/news/2020/12/15/hackthedoc-chi-sono-i-vincitori
- Modello start up per i progetti di innovazione nei Tribunali https://www.altalex.com/documents/news/2020/11/23/modello-start-up-per-progetti-giustizia-predittiva-tribunali
- Legal design: la rule of law è rock https://www.altalex.com/documents/news/2020/10/26/legal-design-rule-of-law-rock
- Giustizia digitale 5 tools con check list per guidare i progetti. Le parole d'ordine del Cepej https://www.altalex.com/documents/news/2019/07/15/giustizia-digitale-5-tools-check-list-progetti
- Guida pratica alla Comunicazione della Giustizia, social e influencer compresi https://www.altalex.com/documents/news/2019/05/20/comunicazione-della-giustizia
- Legal design, cos’è e come può essere utilizzato dai giuristi https://www.altalex.com/documents/news/2018/04/09/legal-design-avvocati
La rubrica della Rivista sul tema Giustizia e comunicazione, proseguendo nel percorso annunciato nell’editoriale del 18 maggio 2021, dopo aver ascoltato la voce della magistratura di legittimità e di merito nei contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, ospitato il punto di vista della comunicazione professionale di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, discusso del valore della parola quale strumento chiave dell’emancipazione dell’individuo e della società nel contributo di Francesco Messina ed affrontato il tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta, torna oggi a riflettere sui temi della comprensibilità e conoscibilità della giurisdizione con Marcello Basilico.
Giustizia e comunicazione. 8) La giurisdizione è esercizio di democrazia solo se sia conosciuta e comprensibile
Perché gli uffici possono e debbono comunicare ai cittadini l’attività giudiziaria
di Marcello Basilico
Le linee guida del 2018 del CSM per una corretta comunicazione istituzionale sono rimaste quasi lettera morta negli uffici giudiziari. Eppure da sempre tutti gli operatori del settore avvertono l’esigenza di un’informazione più attenta e corretta sui contenuti della giurisdizione. Soltanto facendo partire dall’interno degli uffici iniziative istituzionali mirate in tal senso si può ottenere una comunicazione efficace, equilibrata, capace di raggiungere una vasta collettività e pertanto davvero improntata ai valori della democrazia.
Sommario: 1. Una giustizia trasparente e comprensibile. - 2. L’urgenza di comunicare. - 3. I rischi della comunicazione improvvisata. – 4. Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica – 5. Il caso genovese.
1. Una giustizia trasparente e comprensibile.
A compimento di un’attività di studio affidata a una commissione mista di giuristi ed esperti della comunicazione, l’11.7.2018 il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato una delibera a suo modo rivoluzionaria, con la quale per la prima volta viene affidato ai singoli uffici giudiziari il compito di comunicare all’esterno il proprio operato e vengono loro illustrati gli strumenti per farlo in modo tendenzialmente uniforme.
L’iniziativa consiliare non è stata estemporanea, ma ha fatto seguito ad una nutrita serie di sollecitazioni a livello europeo sull’importanza della comunicazione delle istituzioni pubbliche per valorizzarne il carattere democratico[1].
Nel settore giudiziario l’indipendenza della magistratura è al contempo fattore di stimolo e di cautela in quella direzione. Da un lato, la comunicazione serve a fare comprendere il contenuto delle decisioni e, dunque, a rendere condivise nella società regole e valori sulla cui base esse vengono adottate. La comprensione accresce la fiducia dei cittadini verso l’ordine giudiziario, rafforzandone al contempo l’impermeabilità alle interferenze esterne, che possono avvenire in modo manifesto, occulto o subdolo.
Sotto quest’ultimo profilo, la comunicazione diretta della notizia da parte dell’istituzione previene la diffusione di notizie incomplete o imprecise su indagini o processi. Si riducono di conseguenza i margini di strumentalizzazione degli atti giudiziari da parte di chi voglia fornirne letture mistificatorie.
D’altro canto, però, l’indipendenza della magistratura richiede particolare cautela nelle relazioni coi media, per evitare rapporti pericolosi tra i soggetti in campo o forme di comunicazione che danneggino l’indagine, il processo o i protagonisti della vicenda giudiziaria. Ai magistrati è richiesto di dare prova di moderazione in tali relazioni[2].
Di fatto l’accessibilità delle informazioni sull’andamento dell’attività giudiziaria rappresenta ormai uno dei parametri di valutazione nell’Unione Europea dell’efficienza, della qualità e dell’indipendenza dell’attività giudiziaria[3]. La capacità di comunicazione è considerata ormai una componente fondamentale della professionalità del magistrato, soprattutto quando la sua funzione lo ponga in costante contatto col cittadino e, a maggiore ragione, quando si verifichino relazioni con fasce di popolazione più fragile.
Per l’ufficio giudiziario essa si pone evidentemente ad un livello più alto e ancora più complesso.
Le linee guida emanate dal CSM[4] valorizzano a questo riguardo due elementi: la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria. Vanno – e non a caso il Consiglio sente di doverlo precisare in premessa – controcorrente rispetto a un sentire intimo e diffuso della magistratura, legato all’idea della riservatezza della funzione, se non, talvolta, alla sacralità del rito decisorio.
Trasparenza e, soprattutto, comprensibilità sono in effetti predicati primari della decisione, tema sul quale la formazione della Scuola Superiore della Magistratura e del Consiglio stesso sono da tempo all’opera. Ma nelle linee guida del 2018 si coglie il tentativo di un cambio di passo rispetto ad un livello comunicativo fermo agli Uffici per il rapporto col pubblico, alle divulgazioni di eventi o notizie sui siti internet di alcuni uffici giudiziari, alle buone prassi relazionali adottate da pochi dirigenti illuminati.
L’idea del Consiglio è quella di armonizzare prassi e procedure, impostando delle forme di comunicazione comuni e, come tali, riconoscibili all’esterno, dotate dunque di credibilità e autorevolezza, oltre che di facile accessibilità da parte degli interlocutori interessati.
E’ un’idea che tuttavia ad oggi non ha attecchito. A quasi tre anni di distanza – sarà per la forma della linea-guida, percepita dai dirigenti come priva di cogenza, o per quella propensione ad una prudente ritrosia di cui si diceva – soltanto il tribunale di Genova ha attuato pienamente la delibera, dotandosi di un responsabile della comunicazione e costituendo uno stabile canale di accesso alle notizie per gli organi d’informazione e per i cittadini.
2. L’urgenza di comunicare.
L’inerzia degli uffici giudiziari stona coi cori che accompagnano quasi ogni giorno contro l’inadeguatezza della rappresentazione che viene data mediaticamente delle vicende giudiziarie o gli scivoloni comunicativi di cui sono protagonisti, non di rado, magistrati alle prese con telecamere, microfoni, taccuini e social network.
Se è vero che la fiducia dei cittadini viene costruita attraverso un’informazione leale e trasparente, non è pensabile che quanti abbiano a cuore la credibilità della giurisdizione rimuovano sistematicamente il tema di una relazione con l’esterno che avvenga per via istituzionale su iniziativa dei magistrati, cioè di chi conosce e pratica la giurisdizione ed avrebbe dunque tutto l’interesse a spiegarne i meccanismi.
Quanto più rare siano le esperienze dirette delle persone con una specifica area tematica, tanto maggiore sarà la loro dipendenza dalle notizie offerte dai media per ottenere informazioni e interpretazioni su quell’area[5]. Nel 2015 l’11% della popolazione della popolazione residente in Italia di almeno diciotto anni d’età aveva dichiarato di essere stato coinvolto in un contenzioso civile nella propria vita (dichiarandosi insoddisfatto nel 52% dei casi)[6].
Si tratta di una percentuale minoritaria rispetto al numero di cittadini che ha relazioni abituali con gli altri servizi pubblici essenziali; la considerazione è rafforzata dal fatto che il dato include anche le situazioni di contatto occasionale avuto da una persona non direttamente interessata dalla causa, come il testimone o il consulente, e che, per chi è parte d’un giudizio, il suo rapporto con la giustizia trova spesso mediazione nella presenza d’un legale, che è colui che partecipa davvero all’attività giurisdizionale.
La rappresentazione del mondo giudiziario è dunque delegato ai media, nella formazione del convincimento collettivo, molto più di quanto avvenga per altre sfere della società moderna. Il classico assunto di Lhumann (“ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media?”)[7] è dunque per la giurisdizione più attuale che mai. Con tre aggravanti: l’accettazione più o meno passiva della capacità selettiva dei temi giudiziari da parte del sistema mediatico; la goffaggine con la quale il magistrato si muove, per propria cultura, in questo circuito; l’estensione e l’intrusività dei mezzi moderni di circolazione delle notizie, che complicano le possibili relazioni impostate nei confronti dei media tradizionali.
La selezione delle informazioni avviene secondo procedimenti riconoscibili, che formano degli stereotipi dai quali si crea la realtà soggettiva conosciuta dai cittadini per eventi e argomenti estranei alla loro sfera di diretta percezione. Il medium
1. mette in luce alcuni fatti
2. vi attribuisce un significato simbolico
3. crea un legame fatto/simboli secondari
4. associa il tema a un portavoce (spesso un eminente esponente politico o un opinion leader già noto per il proprio pensiero sul tema).
Si crea così un’interazione costante e complessa tra il medium e la fonte, dotata del potere di selezionare il fatto e il medium comunicatore, come spesso accade per i blog di alcuni personaggi politici.
Esemplificando rispetto al procedimento anzidetto, si può ipotizzare una vicenda tratta da una vicenda giudiziaria trattata nel 2019 dalla stampa e dai social network con una certa risonanza:
1. un fatto: la condanna di un uomo, con riconoscimento delle attenuanti generiche, per omicidio volontario commesso nei confronti d’una donna;
2. la valenza simbolica: le donne vittime di violenza indifese dallo Stato;
3. ricorso a simboli secondari: il giudice è donna; la vittima aveva più volte chiesto aiuto allo Stato; lo Stato non tutela i cittadini (e le cittadine, in particolare) perché i giudici non applicano pene adeguatamente severe;
4. ricerca del portavoce: la fonte di potere garantisce dichiarazioni dirette e notizie (ad es. sullo stato di proposte di legge avviate in materia oppure su dettagli relativi alla figura del giudice in questione).
I temi dell’agenda comunicativa vengono così composti e ricomposti mediante la creazione di legami tra prospettive (attribuiti) e frame (sottotemi). In questo modo è possibile ipotizzare quale valutazione darà del fatto il fruitore dell’informazione, che eserciterà un’influenza non più solo cognitiva, ma anche persuasiva[8].
Questo meccanismo diviene incontrollato quando del fatto s’impadronisce il circuito della comunicazione digitale, nel quale non è riconoscibile neppure il soggetto comunicatore, oltre che la fonte.
Nascono così gli stereotipi che ruotano intorno al mondo della giustizia, indipendentemente dal loro completo fondamento: i processi sono lenti; le decisioni dell’autorità giudiziaria sono antieconomiche per il mercato e i soggetti economicamente rilevanti che vi operano; l’applicazione delle leggi da parte dei giudici indebolisce la difesa sociale; esiste perciò un’emergenza-criminalità; esiste un’emergenza-immigrazione collegata all’emergenza-criminalità; le indagini penali alimentano lo scontro tra politica e magistratura per volontà dei pubblici ministeri.
Soltanto inserendosi nella catena dell’agenda comunicativa è possibile interferire con la formazione di tali stereotipi, spiegando la complessità delle vicende trattate nell’attività giudiziaria, le regole che la governano e la logica dei suoi effetti.
3. I rischi della comunicazione improvvisata.
E’ scontata dunque la necessità che il rapporto, talvolta perverso, tra fonte e soggetto comunicatore venga interrotto dall’intervento dell’artefice della vicenda. Nel caso esemplificato in precedenza, l’artefice è l’autorità giudiziaria che ha trattato il fatto con i suoi contenuti simbolici più o meno evidenti.
Subentrano a questo punto, però, le cautele imposte dalla peculiarità istituzionale e culturale del ruolo del magistrato: istituzionale, perché egli deve essere e apparire indipendente, il che implica anche equanimità rispetto al fatto; culturale, perché il magistrato, abituato al rapporto rigido con la regola normativa da applicare e col riserbo da osservare, non è dotato abitualmente degli strumenti per muoversi sullo stretto crinale dell’informazione lecita e utile. Il magistrato non è attrezzato professionalmente per fare comunicazione pubblica né per cogliere la notizia che si annida in un processo e che è appetita dai media più d’ogni altro aspetto giuridico o investigativo.
Le dichiarazioni dei pubblici ministeri che credono nel metodo della conferenza stampa offrono una rappresentazione plastica delle diversità degli approcci alla stampa, diversità che spesso mal si addicono ad un taglio istituzionale della comunicazione. Basti considerare come spesso le affermazioni più improvvide vengano dalle interviste rilasciate a margine della conferenza stampa, quando l’incalzare delle domande incrina il programma delle dichiarazioni che era stato preparato a tavolino.
In generale le critiche sollevate dai commenti più o meno debordanti di pubblici ministeri e giudici alle proprie indagini o ai propri processi, con precisazioni o rettifiche talvolta conseguenti, denotano l’impreparazione comunicativa della magistratura. Mancando canoni relazionali prestabiliti, identificabili e riconosciuti all’esterno, l’informazione viene diffusa dai magistrati – che pure ne avvertono la necessità – con modalità spesso estemporanee, senza il paracadute di un filtro istituzionale.
Si ottiene così il risultato opposto agli obiettivi di trasparenza e comprensibilità che dovrebbero costruire la fiducia dei cittadini verso l’azione giudiziaria. L’informazione occasionale o improvvisata si espone – non meno del silenzio improvvido di fronte a un evento di grande rilievo pubblico – alla divulgazione strumentale, soprattutto da parte dei commentatori che cercano conferme nelle proprie tesi precostituite o degli organi, spesso eterodiretti, che amano imbastire tormentoni sulla giustizia per ragioni, nel migliore dei casi, miseramente commerciali.
4. Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica.
Nelle linee guida il CSM ambisce ad instaurare “un circuito virtuoso che consenta di avere migliore consapevolezza di come il servizio giustizia è percepito dall’esterno”, nell’evidente intento di concorrere a migliorare tale percezione. Sono auspicate allo scopo riunioni interne agli uffici giudiziari per preparare i momenti di comunicazione e valutarne gli effetti.
Si chiede che la comunicazione da parte loro – siano essi giudicanti o requirenti – sia obiettiva: anche la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere “imparziale, equilibrata e misurata non meno di una decisione giurisdizionale”.
Occorre inoltre evitare, ammonisce il CSM, la discriminazione tra giornalisti e testate, la costruzione o il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi.
Il catalogo dei doveri degli uffici nei confronti degli individui e all’interno del processo è un’interessante elencazione a contrario dei vizi dell’informazione giudiziaria: dal rispetto della vita privata e familiare delle persone coinvolte, alla tutela della loro sicurezza e della loro dignità, prevenendo il rischio di vessazione da parte dei media; dalla chiarezza nella distinzione dei ruoli processuali alla centralità del giudicato; dai diritti delle vittime e dell’imputato (per quest’ultimo compreso quello di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente per via formale) sino al dovere del p.m. di rispettare le decisioni giudiziarie.
La vera portata innovativa dell’iniziativa consiliare sta peraltro nell’invito a essere comunicatori attivi. La delibera infatti non si limita a delineare le iniziative reattive, per correggere o smentire le informazioni errate, ma incoraggia “lo sviluppo di un approccio proattivo e garantistico” rispetto a singoli casi così come al funzionamento dell’intero sistema giustizia.
Le comunicazioni reattive si pongono nello stesso ordine concettuale delle pratiche a tutela del CSM, le quali “hanno come presupposto l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”[9]. L’intervento dell’ufficio giudiziario rappresenta una reazione anticipata e, dunque, più diretta ed efficace di quella consiliare. Se vogliamo la comunicazione reattiva ha un orizzonte ancora più vasto, rivolto anche alla tutela esterna delle persone, spettando all’istituzione anche il compito di evitare che il cittadino subisca dall’attività giudiziaria un danno superiore e diverso da quello che essa già provoca inevitabilmente.
Ma è nell’iniziativa proattiva che si coglie un approccio inedito e sofisticato della comunicazione suggerita agli uffici giudiziari: la notizia di carattere giudiziario d’interesse pubblico sta non solo nel procedimento penale clamoroso per la qualità o il numero degli imputati (o delle vittime) o per le modalità del delitto, ma anche nella causa civile che veda in gioco interessi collettivi rilevanti e persino nel provvedimento organizzativo dell’ufficio che coinvolga la collettività.
Il retropensiero di questo invito dunque è che, se vi sono controversie “di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico-scientifico” di cui è bene dare pubblicità, perché d’interesse pubblico “effettivo”, non sta necessariamente nel processo penale il serbatoio prevalente delle informazioni rilevanti custodite dall’ufficio giudiziario.
Una comunicazione attiva costante – se improntata a criteri di “chiarezza, sinteticità e tempestività” – è destinata creare una circolazione di notizie su temi diversi dalle questioni criminali, ad offrire un quadro più ampio, non circoscritto alla repressione penale, dell’azione giurisdizionale. In un’ultima analisi essa serve anche a stemperare le relazioni spesso complicate con gli organi di stampa e a fornire un’immagine meno severa del servizio giustizia, dando uno spaccato della giurisprudenza che vada oltre i casi conflittuali che generalmente si associano alle indagini e ai processi penali.
Il presupposto ineludibile per l’efficacia di questa attività è che le notizie fornite dall’ufficio siano chiare per chi debba divulgarle al pubblico, conservando al contempo sia quello specifico interesse che qualifica giornalisticamente un evento come “notizia” sia il necessario rigore tecnico-giuridico.
E’, questa, una delle operazioni più complesse per il giurista, abituato com’è a scrivere atti non destinati, nell’ottica che lo contraddistingue tendenzialmente, a una collettività indistinta. Non avendosi lo spazio per approfondire la questione, pur appassionante e fondamentale, sui destinatari delle decisioni dei giudici, conviene almeno ricordare che, “la comunicazione che funziona meglio è quella che tiene conto dell’interlocutore più debole, non di quello più capace”[10].
Approdiamo così all’obiettivo ultimo, il più alto: comunicare con continuità e chiarezza l’attività giudiziaria è, in effetti, un esercizio di democrazia. I magistrati agiscono in un contesto in cui, magari stancamente ma immancabilmente, si usa (e talvolta si abusa di) un linguaggio per iniziati (gli avvocati; altri magistrati; i consulenti)[11]. L’adattamento di quel linguaggio alle esigenze di una diretta informazione pubblica esterna è l’occasione per raggiungere la platea più ampia possibile di cittadini, a nome dei quali la giustizia è amministrata.
Sarebbe pure l’occasione, viene da aggiungere, per ripulire progressivamente quello stesso lessico anche a vantaggio nostro.
5. Il caso genovese.
Questa realtà è stata colta appieno dalla Corte costituzionale. Mutuando in parte i modelli delle Corti sovranazionali[12], la Consulta si è dotata di un ufficio stampa e ha sfornato comunicazioni sulle proprie principali decisioni e sulle iniziative ulteriori, accelerandole opportunamente nel periodo di pandemia, diffondendole anche in lingua inglese e inserendosi nei principali social network[13].
Con la sue linee guida il CSM ha per parte sua coniato la figura del responsabile della comunicazione. Negli uffici requirenti esso dovrebbe coincidere in linea di principio col procuratore della Repubblica, il quale può comunque delegare l’incarico a uno o più magistrati “scelti in relazione alle loro attitudini ed alla loro esperienza comunicativa”. Per gli uffici giudicanti il CSM prevede la delega come ipotesi normale, ammettendo che negli uffici di maggiore dimensione i responsabili possano essere due giudici, distinti per settore, civile e penale.
A oggi l’unica esperienza attuativa delle linee guida è, per quanto si sa, quella del tribunale di Genova. A distanza di quasi tre anni dall’emanazione delle linee guida, essa ha perso ormai lo status di laboratorio sperimentale, per assumere quello di vera e propria isola sperduta nell’oceano.
Nel tribunale genovese, dopo la pubblicità della nomina seguita all’indizione d’una selezione interna e i contatti preliminari coi diversi presidenti di sezione, il responsabile per la comunicazione è diventato il collettore delle informazioni relative ai procedimenti, alle decisioni, agli eventi e alle attività organizzative che possono assumere un interesse pubblico. Una volta che è stata identificata anche dagli organi di informazioni attraverso la pubblicità delle prime comunicazioni, questa figura è divenuta anche per loro il punto di riferimento per acquisire nuove notizie.
Il procedimento penale per il crollo del Ponte Morandi – in particolare le fasi preparatorie ed il successivo svolgimento dell’incidente probatorio sulle cause dell’evento – è stato il più evidente e naturale scenario d’impegno, poiché ha comportato contatti con organi mediatici molteplici, persino stranieri e talvolta spinti dall’interesse a conoscere i meccanismi del nostro processo e la valenza probatoria dell’incidente.
In tutti gli interventi comunicativi legati a tale vicenda processuale v’è un obiettivo comune: spiegare al pubblico come i tempi dell’incidente probatorio e, in generale, di ogni decisione in un giudizio tanto complesso non siano dovuti a inefficienze del sistema giudiziario, ma all’esigenza di pervenire ad un accertamento della verità più completo possibile, nell’interesse delle vittime e di tutta la collettività.
Prima e dopo di questo il responsabile della comunicazione del tribunale di Genova si è misurato con eventi disparati: dall’inaugurazione dei primi uffici di prossimità sul territorio del circondario alle scelte della curatela in un importante e delicato fallimento; dalle convenzioni con enti esterni al tribunale alle soluzioni organizzative d’interesse per la cittadinanza.
In questo quadro, una tipica azione reattiva è rappresentata dalle rettifiche indirizzate a una singola testata (ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47) o a una pluralità indistinta di mezzi d’informazione, soprattutto per correggere notizie distorte e dannose per il prestigio di giudici del tribunale.
Sul piano proattivo, ha suscitato discussioni, confluite anche in un utile dibattito pubblico organizzato insieme col locale Consiglio dell’ordine degli avvocati, la conferenza stampa organizzata per illustrare i contenuti del dispositivo d’una sentenza collegiale in materia di peculato e altri reati contestati in relazione all’utilizzo per scopi personali di fondi pubblici destinati ai gruppi dei consigli regionali.
In questo caso, poche ore dopo la lettura del dispositivo, il presidente e il responsabile della comunicazione del tribunale hanno dato alla stampa, fornendo anche un testo scritto, un resoconto sulla durata del processo, sulle posizioni di accusa e difesa e sui punti di maggiore rilievo pubblico della decisione. Si è badato ad evitare il rischio d’interferire con le possibili motivazioni della sentenza, per evidenziare invece, con un linguaggio accessibile al pubblico, i meccanismi giuridici che hanno condotto all’irrogazione di pene personali e reali.
L’opportunità dell’intervento esplicativo era stata segnalata dai giudici stessi del collegio in relazione all’articolazione particolarmente complessa del dispositivo, all’esistenza di questioni di difficile comprensione, come la successione nel tempo della legge regionale di riferimento, agli effetti sulle posizioni dei singoli imputati delle diverse interpretazioni, anche con riferimento alla cosiddetta “legge Severino”, al possibile clamore che la decisione avrebbe potuto suscitare per la presenza, tra gl’imputati stessi, d’un sottosegretario di recente nomina.
Bisogna dare atto a tutti gli organi d’informazione di avere recepito l’iniziativa con spirito profondo di collaborazione e convinta adesione. Le notizie pubblicate su media locali e nazionali, pur dando risalto alle condanne e ai loro effetti sulle posizioni dei personaggi politici imputati, hanno recepito i profili tecnici della decisione, riportando talvolta ampi stralci della comunicazione scritta diffusa dal tribunale e dandone delle spiegazioni in termini comprensibili per la pubblica opinione.
Ogni iniziativa siffatta è avvenuta sempre su segnalazione del giudice titolare del procedimento o del suo presidente di sezione, concertata con entrambi e col presidente del tribunale; il responsabile della comunicazione ha assunto il ruolo di medium tra l’ufficio giudiziario e gli organi d’informazione, filtrando la notizia attraverso il lessico e l’attività (comunicato; conferenza stampa; messaggio di posta elettronica; intervista) che il gruppo di lavoro costituito per l’occasione aveva ritenuto più efficace.
L’organizzazione del tribunale in tempo di pandemia costituisce oggi il tema di confronto più pressante con la pubblica opinione locale. I disagi creati prima dalla sospensione dei processi, poi dalla necessità di individuare spazi più idonei di quelli tradizionali per celebrare udienze in sicurezza, infine dalla chiusura di aule per inagibilità con la conseguente ridislocazione di processi e udienze hanno creato la necessità di fornire un’informazione costante ad avvocati, parti, cittadini.
Vi si è fatto fronte prevalentemente aggiornando il sito internet istituzionale. Talvolta si è reso necessario chiedere l’intervento della stampa. Alcuni giornalisti non hanno mancato di chiedere interviste al presidente e la raccolta d’immagini sullo stato dell’organizzazione dei locali nei siti impiegati dal tribunale per ospitare le udienze.
L’esperienza dimostra dunque che si può creare in un tribunale un circuito consolidato di segnalazione, raccolta e diffusione di notizie nonché di risposta alle notizie scorrette già altrimenti diffuse. E’ quindi possibile passare dall’invocazione stanca e reiterata per un’informazione giudiziaria migliore alla costruzione di un sistema comunicativo che rende l’opinione pubblica consapevole dei contenuti della giurisdizione.
[1] Si legge, ad esempio al punto 11 della Dichiarazione di Bordeaux), adottata il 18 novembre 2009 dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) e dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (CCPE) su richiesta del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.
[2] E’ questo il monito che si legge nella Raccomandazione Rec(2012) del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, sul tema dell’indipendenza, dell’efficacia e della responsabilità dei giudici, adottata il 17 novembre 2010 e che incoraggia la creazione di posizioni di portavoce nei servizi giudiziari.
[3] Cfr. EU Justice scoreboard 2020, pubblicato il 10 luglio 2020, pag. 23, in www.ec.europea.eu/info/policies/justice-and-findamental-rights.
[4] La delibera dell’11 luglio 2018 è in www.csm.it/web/csm-internet, circolari e risoluzioni, VII commissione.
[5] L’osservazione, divenuta materia di rielaborazione per più recenti tesi nelle scienze di comunicazione moderna, è di Harold Gene Zucker, The variable nature of mass media influence, in B.D. Ruben (a cura di), Communication Yearbook 2, 1978, New Brunswick, USA, p. 227.
[6] Rapporto ISTAT su cittadini e giustizia civile, in www.istat.it/it/archivio/190586. “”
[7] Niklas Lhumann, La realtà dei mass media, Milano, 2000.
[8] Sulla costruzione dell’agenda comunicativa cfr. Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri, Le teorie della comunicazione di massa e la sfida digitale, 2019, Bari, pag. 176.
[9] Decreto del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura del 15 luglio 2009, in G.U. 20 luglio 2009, seie generale, n. 166.
[10] Vera Gheno, Potere alle parole, 2019, Torino, pag. 153.
[11] Tullio De Mauro, in L’educazione linguistica democratica, Bari, 1975, pag. 76, parla di “una educazione espressiva posseduta dalla classe dominante come patrimonio abituale”, all’interno del quale essa “apre e chiude facilmente” l’accesso, aumentando o riducendo così il tasso di permissività per immettere o meno nuovi soggetti nel proprio ambito.
[12] Nel sito della Corte di giustizia dell’Unione Europea - in www.curia.europa.eu/jcms/jcms/Jo2_7053/it - si legge: “L’Unità Stampa e Informazione fornisce l’informazione disponibile sull’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia e del Tribunale. I due organi giurisdizionali si esprimono esclusivamente tramite le loro decisioni. L’Unità Stampa e Informazione non è quindi il loro portavoce. L’Unità diffonde, in una o più lingue, comunicati stampa che consentono di conoscere velocemente i punti essenziali delle sentenze e delle conclusioni. Possono essere oggetto di informazione per la stampa anche alcuni eventi, come le udienze solenni o le visite protocollari”.
[13] Cfr. Marta Cartabia, Relazione dell’attività della Corte costituzionale nel 2019, 28 aprile 2020, in www.cortecostituzionale.it/documenti.
La Corte Costituzionale ritorna sul tema della “materia penale”: verso uno statuto della disciplina delle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali?
di Andrea Venegoni
Sommario: 1. Introduzione – 2. La questione – 3. Tre considerazioni – 4. Un’ulteriore riflessione – 5. Sviluppi futuri.
1. Introduzione
Se si volesse dare una sorta di marchio distintivo alla sentenza n. 68 del 2021 della Corte Costituzionale, per identificarla immediatamente, forse questo dovrebbe risiedere nel concetto, tra i tanti che la decisione affronta, per cui con essa la Corte sembra espandere in maniera più incisiva che in passato le garanzie proprie delle sanzioni formalmente penali alla “materia penale”, cioè a quell’area non qualificata formalmente come tale, ma che del diritto penale, in particolare delle sanzioni, possiede alcune caratteristiche, sulla base dei notissimi criteri elaborati dalla Corte EDU a partire dalla sentenza Engel del 1976[1].
In questo caso, il passo compiuto in questo percorso riguarda l’applicabilità dell’art. 30 della legge 87 del 1958 che prevede, in campo penale, la prevalenza sul giudicato degli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale della norma sulla base della quale è stata irrogata la pena divenuta definitiva.
Ciò appare tanto più notevole perché non molto tempo fa la stessa Corte, in un’altra ben nota decisione su questione analoga, seppure non formalmente identica, la n. 43 del 2017, sembrava essere giunta a conclusioni opposte.
È del tutto legittimo, quindi, provare a ragionare su cosa è avvenuto nel frattempo e quale sia il rilievo della presente decisione.
2. La questione
La stessa ha l’antefatto in un’altra sentenza della Corte Costituzionale, la n. 88 del 2019[2], che ha riguardato l’art. 222, comma 2, quarto periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). Tale norma contiene disposizioni generali sulle sanzioni amministrative da violazioni del codice della strada e, fino alla suddetta decisione, prevedeva, in linea generale, l’applicazione della sanzione amministrativa della sospensione o della revoca della patente, a seconda del tipo di conseguenza derivante dalla violazione. In caso di lesioni personali, la sospensione della patente per un periodo variabile a seconda dell’entità delle stesse. Per i reati di cui agli art. 589-bis c.p. (omicidio stradale) e 590-bis c.p. (lesioni personali stradali gravi o gravissime), in caso di condanna o anche di applicazione della pena su richiesta, era prevista, invece, la revoca della patente, senza possibilità per il giudice di esercitare alcuna discrezionalità nella scelta tra quest’ultima più grave sanzione e quella più mite della sospensione. Ciò comportava una serie di ulteriori importanti conseguenze per il condannato, oltre all’applicazione della sanzione stessa, indicate nel comma 3-bis della stessa norma, quali l’impossibilità di ottenere una nuova patente prima che fosse decorso un determinato lasso di tempo, variabile a seconda delle caratteristiche del reato (in particolare, se fosse aggravato o meno).
Poiché, tuttavia, anche il reato di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis c.p. e di lesioni personali stradali di cui all’art 590-bis c.p. si caratterizzano per una diversa gravità a seconda della modalità concreta della condotta (esistendo una figura “base”, non aggravata, e fattispecie aggravate come quelle di avere commesso il fatto in stato di ebbrezza, o l’essersi dati alla fuga dopo il fatto), la Corte Costituzionale, con la suddetta sentenza n. 88 del 2019, è intervenuta per stabilire la illegittimità del precitato art. 222 nella parte in cui non prevede che, nelle ipotesi non aggravate dei reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa.
In altri termini, pur nella consapevolezza della dannosità dei reati di omicidio stradale e lesioni personali gravi e gravissime, la Corte ha voluto significare che il giudice deve avere la possibilità di graduare la sanzione amministrativa a seconda della gravità del reato, applicando, nelle ipotesi non aggravate, invece della revoca automatica della patente, la più lieve sanzione della sospensione del titolo di guida.
Per inciso, e deviando – ma poi fino ad un certo punto - solo per un momento dal tema della “materia penale”, la n. 88 del 2019 costituisce una sentenza che, in generale, si inserisce in un orientamento che la Corte sta manifestando da tempo, tendente a valorizzare il grado di colpevolezza dell’imputato ed il principio di proporzionalità nell’irrogazione di sanzioni ulteriori rispetto a quella principale, e quindi sia amministrative che pene accessorie, rimodellando quelle disposizioni normative che prevedono l’applicazione automatica di pene in misura fissa e predeterminata. Ne è ulteriore esempio recente, tra le altre, la sentenza n. 222 del 2018 in materia di reati fallimentari[3].
Successivamente alla sentenza n. 88 del 2019, il giudice remittente si trova a dover decidere una istanza, come giudice dell’esecuzione, formulata da un condannato definitivo per omicidio stradale non aggravato; un imputato, quindi, al quale, alla luce della sopravvenuta decisione n. 88 del 2019, potrebbe essere applicata anche solo la sospensione della patente per un periodo limitato di tempo e non la revoca della stessa. L’istanza è, infatti, proprio in questi termini, per la sostituzione della disposta revoca della patente con la sospensione.
Il problema è la base legale per l’accoglimento, di cui, evidentemente, il giudice remittente ritiene sussistenti i presupposti, perché è vero che l’art. 30 della legge n. 87 del 1953, che disciplina il funzionamento della Corte Costituzionale, afferma, al quarto comma, con disposizione che si differenzia da quella generale del terzo comma, che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”, ma tale disposizione si riferisce in senso stretto alle sanzioni penali, e non a quelle amministrative.
Mentre, cioè, se la sanzione in questione fosse stata anche formalmente “penale”, la pena applicata si sarebbe potuta classificare, in seguito alla sopravvenuta pronuncia di incostituzionalità, come “pena illegale”, con necessità per lo Stato di riesaminare la situazione del condannato, ciò non sarebbe potuto avvenire in caso di sanzione formalmente “amministrativa”, non essendo ciò contemplato dal suddetto art. 30.
Da qui il dubbio sulla legittimità costituzionale di tale norma, allorché le statuizioni travolte dalla sopravvenuta incostituzionalità riguardino sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano però qualificabili come “sostanzialmente penali” alla luce dell’elaborazione dalla Corte EDU sulla base dei noti “criteri Engel”.
Torna al centro dell’attenzione, in altri termini, il concetto di “materia penale” che tanto ha attirato l’attenzione dei giuristi in questi ultimi anni, come si può convenire sol che si pensi, per esempio, allo sviluppo del concetto del “ne bis in idem”.
La violazione è denunciata sotto vari profili, tra i quali, va detto, la Corte accoglie quello relativo alla violazione dell’art. 3 Cost., considerato poi assorbente di tutti gli altri, ma con una serie di argomentazioni che affondano le loro radici nell’applicazione dei principi convenzionali.
3. Tre considerazioni
Sulla questione, sono interessanti, in primo luogo, tre considerazioni, che testimoniano la complessità del tema e come ci si muova nell’interpretazione di queste norme su un terreno che definire scivoloso è un eufemismo, dove la diverse esegesi trovavano tutte valide giustificazioni, mettendo però, forse, a rischio un altro principio fondamentale, quello della certezza del diritto.
Le prime due riguardano sempre la materia delle violazioni al codice della strada.
La prima è che, investita – sempre a seguito della sentenza n. 88 del 2019 - della medesima questione che si era posta davanti al giudice remittente che ha determinato la pronuncia della Corte Costituzionale qui in commento, la Corte di Cassazione, a fine 2019, in almeno due casi, non aveva ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 legge 87 del 1953, affermando che “la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 222, comma 2, cod. strada, intervenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2019, non comporta che, in caso di revoca della patente di guida disposta con sentenza di condanna passata in giudicato per alcuno dei delitti previsti dagli art. 589-bis e 590-bis cod. pen., il giudice dell'esecuzione possa applicare, in luogo della stessa, la più mite disciplina derivante dalla citata pronuncia della Corte costituzionale, atteso che detta revoca ha natura di sanzione amministrativa accessoria e, come tale, esula dall'ambito di operatività dell'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87, che circoscrive soltanto alle pene la retroattività degli effetti favorevoli delle sentenze di illegittimità costituzionale oltre il limite dei rapporti esauriti”[4], il tutto sul presupposto dell’applicazione dei principi sì convenzionali, ma non necessariamente di tutti quelli costituzionali interni alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale” elaborato dalla Corte EDU, proprio sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 2017.
La seconda richiede un’ulteriore premessa.
Anche l’art. 186 del codice della strada, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede la revoca della patente.
Ciò avviene al comma 2-bis della norma, come sanzione al fatto che il guidatore in stato di ebbrezza abbia provocato un incidente stradale con un tasso alcolemico particolarmente elevato, per quanto la stessa norma faccia “salva in ogni caso l’applicazione dell’art. 222”.
Orbene, proposta, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 2019, questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, in relazione all'art. 3 Cost., e cioè proprio per una disparità di trattamento rispetto all’applicazione della stessa sanzione ai sensi dell’art. 222 cdS, la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione affermando che “sussiste piena autonomia tra tale previsione e quella di cui all'art. 222 cod. strada, e non avendo, la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale di tale ultima disposizione, ad opera della sentenza n. 88 del 2019 della Corte costituzionale, inciso sulla coerenza sistematica delle disposizioni in materia di revoca e sospensione della patente attualmente vigenti”[5].
Infine, ulteriore motivo di interesse della pronuncia n. 68 del 2021 è dato dal fatto che, invece, non molto tempo fa, l’analoga questione dell’incidenza di una pronuncia di illegittimità costituzionale sulle sanzioni amministrative irrogate con sentenza definitiva (anche se la fattispecie riguardava sanzioni diverse, per violazioni della normativa sulla tutela del lavoro) era già stata sollevata da altro giudice remittente e la Corte Costituzionale aveva dato, con la sentenza n. 43 del 2017, una risposta diversa da quella fornita oggi con la decisione in commento.
In quella occasione, la Corte aveva dichiarato non fondata la questione in virtù della asserita inesistenza, nella giurisprudenza della Corte EDU, del principio secondo cui la sopravvenuta illegittimità costituzionale di una norma sanzionatoria comporterebbe il venire meno della legalità della sanzione irrogata in base ad essa, con prevalenza sul giudicato.
Quella sentenza non si soffermava specificamente sulla qualificazione come “sostanzialmente penali” delle sanzioni amministrative in materia di lavoro che venivano in rilievo nella specie, e che il giudice remittente considerava tali.
La sentenza in commento, invece, giunge a diversa conclusione anche in virtù della natura della sanzione che viene in rilievo nel caso di specie, e cioè la revoca della patente che, come detto, non riguardava invece la vicenda della sentenza n. 43 del 2017.
Ciò che caratterizza la decisione e la differenzia non solo dalla sentenza n. 43 del 2017, ma anche dalla sopra citata giurisprudenza nazionale di legittimità, è la espressa qualificazione della sanzione in questione come “sostanzialmente penale” perché caratterizzata da “connotazioni sostanzialmente punitive”, come affermato in più occasioni nella giurisprudenza della Corte EDU ed il progressivo processo di assimilazione delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali a quelle penali, manifestatosi, dopo la sentenza n. 43 del 2017, in una serie di pronunce della Corte Costituzionale citate in sentenza, tra cui la decisione n. 63 del 2019[6].
La sentenza n. 43 del 2017 esprime un concetto molto chiaro: il principio di legalità penale convenzionale, di cui all’art. 7 della CEDU, si estrinseca in requisiti quali quello di accessibilità e prevedibilità che devono connotare il diritto penale, ma non in quello per cui non sarebbero più applicabili sanzioni basate su norme dichiarate successivamente illegittime, previsto, invece, dall’ordinamento interno. Non estende, quindi, una garanzia penalistica interna delle sanzioni formalmente penali alle sanzioni che, pur “sostanzialmente penali” sono, però, formalmente amministrative. Con la sentenza n. 43 del 2017, quindi, il percorso di ampliamento delle garanzie alla “materia penale” avanza, ma fino ad un certo punto; la sanzione amministrativa non perde del tutto la sua connotazione formale e quindi, anche laddove le siano applicabili garanzie convenzionali, questo non significa una equiparazione assoluta alle sanzioni formalmente penali del sistema interno.
Secondo la sentenza in commento, invece, anche alla materia penale si applica il principio di legalità della pena delle sanzioni formalmente penali nella declinazione per cui, finché la pena è in corso di esecuzione sulla base della sentenza definitiva, lo Stato non può tollerare che, qualora siano intervenuti fatti nuovi che ne determinano, in tutto o in parte, la contrarietà all’ordinamento, la stessa continui ad essere applicata. Il riferimento, in questo caso, è anche alla giurisprudenza di legittimità, ed in particolare alla sentenza delle SSUU della Corte di Cassazione n. 42858 del 2014 riguardante le sanzioni dei reati in materia di sostanze stupefacenti.
Ciò che è interessante, però, è che, nella sentenza n. 68 del 2021, tale principio, tipico delle sanzioni penali, è appunto applicato anche alle sanzioni formalmente amministrative ma che, per le loro caratteristiche, devono, appunto, intendersi come sostanzialmente penali.
4. Un’ulteriore riflessione
Come è stato messo in luce[7], infatti, negli anni il rapporto tra Corte Costituzionale e Corte EDU in merito alla considerazione della “materia penale” non è stato sempre semplice e caratterizzato da univocità.
L’ordinamento nazionale, in particolare, è sempre stato contraddistinto da un maggiore formalismo nella qualificazione delle sanzioni rispetto al sistema convenzionale, e, per sua tradizione e cultura giuridica, da un maggior legame con lo statuto normativo, cosicché l’attribuzione della qualifica di “penale” “costituisce il portato di una scelta di politica legislativa assolutamente discrezionale ed insindacabile dalla Corte costituzionale, se non nei limiti (stretti) della ragionevolezza”.
Tuttavia, se c’è un settore in cui, per utilizzare i concetti della sentenza n. 43 del 2017, la coesistenza tra regime “costituzionale” delle garanzie e regime “convenzionale” è venuta progressivamente a svilupparsi, questo è probabilmente proprio quello delle sanzioni amministrative, un campo in cui i parametri dei due sistemi tendono fortemente a coincidere[8].
Questo, si può ritenere, anche per evitare conseguenze paradossali, che traspaiono nella stessa motivazione della sentenza in commento, tali per cui la sottoposizione a sanzioni formalmente amministrative, in linea di principio meno gravi, può finire per rivelarsi più afflittiva e meno garantita dell’applicazione di sanzioni penali.
Peraltro, è stato anche affermato in dottrina[9] che gli approdi della giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra l’ordinamento convenzionale e quello interno sul tema della “materia penale” possono riassumersi nei seguenti punti:
- il riconoscimento della natura punitiva di un istituto non penale gli associa garanzie tipiche degli istituti penali ma non ne snatura l’essenza e non priva il legislatore del monopolio che la Costituzione gli attribuisce in materia penale.
Si può ricordare, al riguardo, che sempre nel 2017, con una sentenza di poco successiva alla n. 43, la Corte Costituzionale affermava che non era l’art. 25, comma 2, Cost. Il parametro in base al quale sollevare questioni di legittimità costituzionale sulla irretroattività della norma più favorevole in materia di sanzioni amministrative[10].
- in presenza di un istituto sostanzialmente ma non formalmente penale, i presidi garantistici propri dell’ordinamento interno e della CEDU non si fondono e non possono essere assimilati ma sono invece destinati a coesistere all’insegna della massimizzazione delle tutele.
- il legislatore può decidere di riservare talune garanzie ai soli istituti formalmente penali senza che l’esercizio di questo potere discrezionale sia costituzionalmente censurabile.
La questione, allora, è se la sentenza in commento rappresenti una svolta o meno nella configurazione delle garanzie nel diritto interno allorché viene in rilievo il concetto convenzionale di “materia penale”.
Ci si può chiedere, in particolare, se la sentenza n. 68 del 2021 rappresenti una sorta di svolta nel percorso di scrittura dello statuto delle sanzioni amministrative previste da norma nazionali, ma rientranti nel concetto di “materia penale” convenzionale.
A questa domanda si può rispondere compiutamente se si considera ciò che è avvenuto nello spazio temporale compreso tra la sentenza n. 43 del 2017 e la sentenza oggi in commento.
Per quanto, infatti, si tratti di un arco di tempo relativamente breve, nel corso dello stesso la Corte ha adottato una decisione con cui è sembrata già manifestare un certo cambio di passo sul tema della materia penale.
Si tratta della sentenza n. 63 del 2019 (non per nulla specificamente richiamata dalla sentenza in commento), in cui, previo riconoscimento della natura “punitiva” delle sanzioni amministrative, che in quel caso consistevano nelle sanzioni previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, è stata affermata l’illegittimità costituzionale della norma (art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015) che non prevedeva l’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta.
La sentenza ha, quindi, attribuito alle sanzioni amministrative “sostanzialmente penali” una caratteristica propria delle sanzioni formalmente penali.
Anche in tal caso esisteva un precedente che, probabilmente, ha, per così dire preparato la strada, seppure in maniera non così esplicita ma nelle pieghe della decisione, laddove nella sentenza n. 193 del 2016 la Consulta, pur statuendo, in merito alle sanzioni amministrative in generale che “non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”, aveva, nello stesso tempo, lasciato intendere che tale valutazione poteva essere riconsiderata proprio per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale, la cui natura doveva essere stabilita sulla base di un criterio casistico da condurre in concreto.
La sentenza n. 63 del 2019 la Corte Costituzionale ha, così, proceduto direttamente alla qualificazione della relativa sanzione amministrativa pecuniaria che veniva in rilievo nel caso di specie (si trattava, come ricordato, di una sanzione del TUF), affermando che essa non poteva essere considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti.
Ne veniva riconosciuta, piuttosto, l’elevatissima carica afflittiva, anche in virtù dell’elevato importo “che è comunque sempre destinato, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a sua volta oggetto, di separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto”
Ancora, nella vicenda della sentenza n. 63 del 2019, non si può negare che avesse avuto rilievo sulla qualificazione della sanzione anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE che, dovendo trattare del tema del ne bis in idem in relazione a tale sanzione, ne aveva ravvisato la finalità repressiva[11].
Alla luce della sentenza n. 63 del 2019, si può allora provare ad affermare che la sentenza in commento aggiunge un tassello nella costruzione delle garanzie penalistiche alle sanzioni amministrative rientranti nel concetto di “materia penale”, permettendo di ravvisare un percorso intrapreso in questo senso dalla Corte Costituzionale: dopo l’affermazione dell’applicazione retroattiva della lex mitior sopravvenuta, ora si rende applicabile alla materia penale anche il principio per cui l’intervenuta pronuncia di incostituzionalità della norma sulla cui base è stata applicata la sanzione determina la necessità di rivalutare la pena, anche se già definitiva. Si tratta di un percorso, quindi, di maggiore tutela dei diritti in cui è essenziale il ruolo degli ordinamenti sovranazionali. Non solo, infatti, viene in rilievo il sistema convenzionale, ma occorre ricordare anche l’affermazione, contenuta nella sentenza n. 63 del 2019, sulla riconducibilità del principio della retroattività della normativa sopravvenuta più favorevole anche all’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea[12].
Si tratta, quindi, di un percorso, verrebbe da dire, esemplare nella dimostrazione di come l’interazione tra i vari sistemi non è affatto fonte di confusione o di diminuzione delle garanzie, ma, al contrario, si pone come baluardo ed ulteriore rafforzamento delle stesse.
Ad essere pignoli, peraltro, forse due commenti possono ancora compiersi in relazione a in tale processo.
Il primo è che, anche in questo caso, l’illegittimità costituzionale della norma denunciata non è dichiarata in relazione all’art. 25, comma 2, Cost., ma in relazione all’art. 3 Cost.
Può sembrare una questione formale, ed è anche vero che la retroattività della legge penale più favorevole sopravvenuta non è considerato principio di natura costituzionale, anche se è certamente una declinazione del principio di legalità, ma può anche rappresentare, in realtà, la volontà di non contraddire palesemente quell’orientamento tradizionale prevalente della Corte per cui il riconoscimento dei “criteri Engel” per la qualificazione di una sanzione non determina di per sé l’applicazione delle garanzie costituzionali penalistiche – che restano applicabili solo alle sanzioni formalmente penali - bensì “solo” di quelle convenzionali. Come detto, sebbene nella materia delle sanzioni amministrative molti principi costituzionali e convenzionali tendano a combaciare, i piani sono stati però tenuti tradizionalmente distinti, seppure qualche apertura in merito all’applicazione diretta dell’art. 25 Cost. si sia registrata in passato[13]
La seconda considerazione è che il limite del processo cui appartengono la sentenza n. 63 del 2019 e la sentenza in commento – limite, peraltro, proprio di tutta l’estensione delle garanzie della “materia penale” alle sanzioni formalmente amministrative, come anche la vicenda del “ne bis in idem” dimostra –, forse consiste nel fatto che questo non può che avanzare per analisi casistica, e quindi specificamente legata alla situazione concreta. Non è possibile, in altri termini, classificare a priori determinate sanzioni amministrative come “sostanzialmente penali” con conseguente applicazione delle garanzie, e ciò non aiuta nella realizzazione del principio di certezza del diritto, che dovrebbe, invece, essere un aspetto essenziale di un sistema sanzionatorio.
5. Sviluppi futuri
Anche quanto ai possibili futuri scenari ci si possono porre alcune domande.
In primo luogo, ci si può chiedere se, alla luce della presente sentenza che qualifica come “sostanzialmente penali” le sanzioni come quella in questione, dovrà essere rivista o meno l’affermazione della Corte di Cassazione[14] secondo cui “Nei casi di applicazione, da parte del giudice, della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, prevista dall'art. 222 cod. strada, la determinazione della durata di tale sospensione deve essere effettuata non in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. proc. pen., ma in base ai diversi parametri di cui all'art. 218, comma 2, cod. strada, sicché le motivazioni relative alla misura della sanzione penale e di quella amministrativa restano tra di loro autonome e non possono essere raffrontate ai fini di un'eventuale incoerenza o contraddittorietà intrinseca del provvedimento”.
Si può provare, in questa sede, ad azzardare una conclusione, secondo cui, probabilmente, lo statuto delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, di cui la sentenza in commento rappresenta un tassello, riguarderà nel sistema nazionale solo l’estensione di garanzie proprie del diritto penale (convenzionali o costituzionali), ma non necessariamente la determinazione della sanzione stessa, i cui criteri sono oltretutto specificamente regolati dalla legge 689 del 1981.
La qualificazione come “sostanzialmente penale” di una sanzione amministrativa non dovrebbe, quindi, far sì che la norma di riferimento per individuarne la misura diventi automaticamente l’art. 133 c.p.
Ma domande significative potrebbero sorgere anche in relazione ad almeno due grandi ulteriori temi.
Il primo è se il percorso che la Corte sembra avere intrapreso porterà ad altre pronunce relative ad altre garanzie penalistiche in campo sostanziale.
In tal senso, restano aperte questioni, per esempio, sul principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.
Altro grande tema è quello dell’applicazione delle garanzie penalistiche in materia processuale, e non solo sostanziale.
In materia, cioè, di giusto processo. In questo senso, è già stata scritta una pagina molto importante nell’ambito di quello che può veramente definirsi un virtuosissimo “dialogo tra Corti” in tema di “nemo tenetur se detegere”[15].
Altre, però, potrebbero esserne scritte, per esempio in tema di contraddittorio, di pubblicità dell’udienza, di imparzialità del giudice, e su alcune di esse la Corte di Strasburgo ha già iniziato a pronunciarsi[16].
Insomma, il campo dell’estensione delle garanzie nella “materia penale” sembra in pieno sviluppo, e, probabilmente, non si sbaglia nell’affermare che già in un prossimo futuro altre interessanti pagine verranno scritte in questo percorso.
[1] Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976; sull’evoluzione del concetto di “materia penale” nella giurisprudenza della Corte EDU, anche attraverso le successive sentenze Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1986 e Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, si veda, tra gli altri, GIGLIO, La “materia penale” e il suo statuto nella giurisprudenza interna e sovranazionale , In Dir. pen. e uomo, sett. 2019
[2] Corte Cost., n. 88 del 17 aprile 2019, in www.cortecostituzionale.it
[3] Corte Cost., n. 222 del 5 dicembre 2018, in cui la Corte, tra l’altro, afferma: “La durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.”
[4] (Cass., sez. 1 pen., n. 1634/20 del 13/12/2019, Rv. 277911-01; Cass., sez. 1 pen., n. 1804/20 del 14/11/2019, Rv. 278182-01)
[5] Cass., sez. 4, n. 7950 dell’ 11/02/2021 Ud. (dep. 01/03/2021 ) Rv. 280951 - 01
[6] Su cui si veda, tra gli altri, SCOLETTA, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative puntive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 2 aprile 2019
[7] Si veda, tra gli altri, MANCINI, La “materia penale” negli orientamenti della Corte EDU e della Corte costituzionale, con particolare riguardo alle misure limitative dell'elettorato passivo, in federalismi.it, n. 1/2018
[8] Si veda, al riguardo, Corte Cost. n. 196 del 2010 in materia di applicazione retroattiva della confisca
[9] GIGLIO, cit.
[10] Corte Cost., n. 109 del 2017, su cui si veda, tra gli altri, il commento di PELLIZZONE, Garanzie costituzionali e convenzionali della materia penale: osmosi o autonomia? , in DPC, Riv. Trim., n. 4/2017
[11] CGUE, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38
[12] BINDI e PISANESCHI, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale , in Federalismi.it, 27.11.2019
[13] MASERA, La nozione costituzionale di materia penale, Torino, 2018
[14] Cass., sez. IV, n. 4740 del 18/11/2020 R. 280393
[15] In cui tappe fondamentali in cui si è sviluppato il percorso sono state: Cass., sez. II civ., n. 3831 del 2018; Corte Cost n. 117 del 2019; CGUE, Grande Sezione, sent. 2 febbraio 2021, in C-489/19, D.B. c. CONSOB
[16] Si veda, per esempio, Corte EDU, Sez. I, 10 dicembre 2020, Edizioni Del Roma società cooperativa a.r.l. e Edizioni Del Roma s.r.l. c. Italia , e commento di MAZZACUVA, Poteri sanzionatori delle Authorities e principi del giusto processo: punti fermi e prospettive nella giurisprudenza di Strasburgo, in Sist. Pen., 29.4.2021
La partecipazione alle associazioni terroristiche: le macro-aree dell’eversione interna, i reati-fine e le fattispecie monosoggettive.
Riflessioni in memoria di Guido Galli
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Le finalità di terrorismo dell’ordine democratico interno e le macro-aree eversive: monosoggettività e plurisoggettività dei reati-fine – 2. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice brigatista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive – 2.1. L’inquadramento sistematico della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno – 2.2. L’applicazione dell’aggravante di terrorismo di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625 – 3. La partecipazione alle associazioni terroristiche dell’estrema destra stragista: i reati-fine e le condotte monosoggettive – 4. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice ambientalista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive – 4.1. L’accertamento processuale del contesto nel quale l’attentato di matrice ambientalista si verifica e delle finalità concretamente perseguite.
1. Le finalità di terrorismo dell’ordine democratico interno e le macro-aree eversive: monosoggettività e plurisoggettività dei reati-fine
Il materiale giurisprudenziale su cui mi soffermerò nella presentazione di questa sessione l’ho scelto seguendo un criterio basato sull’inquadramento generale dei fenomeni terroristici ed eversivi, ricostruito attraverso alcune sentenze di legittimità, che ho selezionato per la loro esemplarità rispetto alle tematiche che intendo introdurre, relative alla natura monosoggettiva o plurisoggettiva dei reati commessi per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico[1].
Ho ritenuto, pertanto, opportuno seguire, dopo un’accurata ricerca del materiale giurisprudenziale funzionale al percorso ricostruttivo che volevo compiere e al gruppo di lavoro nel quale intervengo, una soluzione espositiva di natura tendenzialmente casistica, incentrata sul percorso pluriennale compiuto dalla giurisprudenza di legittimità sulle tematiche oggetto della mia presentazione, che riguardano le connotazioni monosoggettive e plurisoggettive dei reati di terrorismo “interno”[2].
Questa soluzione seminariale, se ha reso più laboriosa l’attività preparatoria della presentazione, a causa della stratificazione del materiale giurisprudenziale, mi ha consentito di recuperare alcune importanti pronunzie di legittimità, che, pur essendo state massimate, sono state, a fronte della loro esemplarità, trascurate nel dibattito sui temi che esporrò.
Vorrei, quindi, parlare, mediante sintetici richiami, di alcune pronunzie di legittimità particolarmente sintomatiche – sia per il loro contenuto giurisdizionale, sia per la risonanza mediatica dei fatti di reato giudicati, sia per la chiarezza delle argomentazioni esposte in tali provvedimenti decisori – rispetto ai fenomeni terroristico-eversivi relativi al “terrorismo brigatista”, al “terrorismo di estrema destra” e al “terrorismo ambientalista”.
Mi sembra anche doveroso segnalare che, nei miei precedenti interventi seminariali su analoghe tematiche, mi sono soffermato anche sul “terrorismo secessionista”[3] – che rientra nel più ampio genus del “terrorismo separatista” europeo –, del quale, però, non mi occuperò nell’ambito di questa presentazione, ferma restando la possibilità di brevi richiami giurisprudenziali, funzionali alla chiarificazione delle tematiche affrontate, essendo tale fenomeno criminale sostanzialmente recessivo rispetto alle altre macro-aree terroristiche.
Di questi, complessi, fenomeni terroristici, dunque, ritengo di dovere parlare attraverso il richiamo dei passaggi salienti del percorso argomentativo seguito nei vari provvedimenti decisori citati, cercando, nei limiti del consentito, di effettuare una ricostruzione quanto più possibile fedele di ciascuna pronuncia e degli obiettivi didattici perseguiti in questo gruppo di lavoro.
2. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice brigatista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive
Nella nostra panoramica, occorre muovere dalle pronunzie che riguardano i fenomeni terroristici riconducibili all’estrema sinistra di matrice brigatista, ai quali ci si riferirà allo scopo di evidenziare quali fattispecie monosoggettive vengono in rilievo in tale ambito consortile.
Occorre premettere che queste organizzazioni terroristiche, generalmente, dispongono di una struttura operativa fortemente gerarchizzata, con una ripartizione di ruoli direttivi ed esecutivi, che, sul piano associativo, assume rilievo ai sensi degli artt. 270, 270-bis e 306 c.p.
In questa cornice sistematica, allo scopo di comprendere la rilevanza delle fattispecie monosogettive rispetto alle organizzazioni terroristiche di matrice brigatista, alcune considerazioni metodologiche si impongono.
Si consideri che queste organizzazioni di ispirazione marxista-leninista, generalmente, fanno circolare le proprie ideologie rivoluzionarie attraverso la stampa periodica clandestina, diffondendola mediante distribuzione cartacea e pubblicando interventi che assumono connotazioni apologetiche, rilevanti ex artt. 414 e 415 c.p.[4]
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche risultano fondate su un programma “rivoluzionario”, che prevede l’uso sistematico della violenza, anche con l’impiego di armi micidiali, che devono essere reperite dagli esponenti della struttura associativa che si sta considerando. Le attività di reperimento di armi, munizioni ed esplosivi, a loro volta, danno origine a una pluralità di reati-fine, caratterizzati da finalità terroristiche e connotati in senso monosoggettivo, tendenzialmente riconducibili alla disciplina generale in materia di armi.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche, secondo quanto affermato in diverse sentenze di legittimità, sono governate da un nucleo ristretto di soggetti, non sempre conosciuti dalla base della consorteria, che impongono l’enucleazione dei processi decisionali attraverso cui si elaborano le strategie associative ex artt. 270, 270-bis e 306 c.p.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche dispongono di una cassa comune, gestita da affiliati della struttura associativa, che rispondono, sotto il profilo organizzativo, ai componenti di vertice del sodalizio, che avallano le condotte illecite relative a tale segmento criminale, rilevanti ex art. 648-bis c.p.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche, generalmente, dispongono di una sede centrale e di alcune sedi periferiche, che vengono coordinate tra loro dai vertici del gruppo, presso le quali, molto spesso, vengono rinvenuti gli arsenali militari a disposizione del sodalizio.
Si consideri che queste organizzazioni terroristiche dispongono di un cospicuo materiale ideologico, che, generalmente, viene sequestrato nel corso delle indagini preliminari, durante le attività di perquisizione effettuate presso le basi logistiche delle consorterie, tra cui quello apologetico già richiamato, rilevante ai sensi degli artt. 414 e 415 c.p.
Si consideri, infine, che queste organizzazioni terroristiche, oltre alle attività delittuose finalizzate a consentire il sostentamento degli affiliati e l’elaborazione delle strategie eversive, generalmente, pianificano alcuni attentati particolarmente eclatanti, commessi in danno di esponenti di spicco della società civile o del mondo delle professioni – come, limitandoci a richiamare i più recenti episodi, nel caso degli omicidi dei docenti universitari Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli, Massima D’Antona e Marco Biagi[5] –, per i quali, laddove tali attentati non si concretizzano, si pongono delicati problemi di accertamento del superamento della soglia di punibilità delle condotte illecite, in linea con la questione della repressione degli atti pretipici nel tentativo[6].
2.1. L’inquadramento sistematico della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno
Nella cornice richiamata nel paragrafo precedente, il punto di riferimento normativo indispensabile per inquadrare le finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico interno, che caratterizzano sia le fattispecie monosoggettive sia le fattispecie plurisoggettive, è rappresentato dalla disposizione dell’art. 270-sexies c.p., intitolato «Condotte con finalità di terrorismo», a tenore del quale: «Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia».
Si tratta di una disposizione, che, nella sua formulazione normativa, come evidenziato dalla Suprema Corte, ha recepito le indicazioni della Convenzione di New York[7], che consentono di ritenere «connotate da finalità di terrorismo quelle condotte: 1) che “per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a una Organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici, o un’Organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto”; 2) che possono “destabilizzare, o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’Organizzazione internazionale; 3) che siano “definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”»[8].
Ne discende che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità consolidata – attraverso un parallelismo sistematico tra l’art. 270 c.p., intitolato «Associazioni sovversive», l’art. 270-bis c.p. intitolato «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico», l’art. 270-sexies c.p., intitolato «Condotte con finalità di terrorismo» e l’art. 306 c.p., intitolato «Banda armata: formazione e partecipazione» – la condotta illecita di natura «terroristica ha rilevanza penale in sé; tuttavia, quando è tenuta allo scopo di raggiungere gli obiettivi […], fa “corpo unico” con tale finalità. Ma tale opera di destabilizzazione/distruzione, ovviamente, altro non è che la sovversione o eversione violenta di cui all’art. 270 c.p. […]», atteso che la disposizione «descrive la condotta come diretta ad attentare agli ordinamenti economici o sociali del nostro Stato, ovvero a sopprimere il suo ordinamento politico e giuridico»[9].
In questa cornice ermeneutica, l’obiettivo terroristico o eversivo dell’ordine democratico anche «se qualificato come “finalità” (artt. 270-bis e 280) o come “scopo” (art. 289-bis) nel codice penale, non costituisce, in genere, un obiettivo in sé, ma, ovviamente, funge da strumento di pressione, da metodo di lotta, da modus operandi particolarmente efferato: si diffonde il panico, colpendo anche persone e beni non direttamente identificabili con l’avversario o riferibili allo stesso, per imporre a quest’ultimo una soluzione che, in condizioni normali, non avrebbe accettato»[10].
Pertanto, le fattispecie, monosoggettive e plurisoggettive, connotate da finalità terroristiche o di eversione dell’ordine democratico interno, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si caratterizzano per la loro natura giuridica di delitti di pericolo presunto, per cui, ponendosi delicati problemi di superamento della soglia di punibilità indispensabile alla configurazione del reato, si richiede la concretezza del proposito eversivo perseguito con atti di terrorismo, in vista dei quali la consorteria criminale è stata costituita e i reati-fine vengono commessi, in esecuzione del programma associativo[11].
Ne deriva ulteriormente che è necessario accertare, con riferimento a ciascun reato-fine, connotato monosoggettivamente, se la condotta illecita è stata commessa con l’intenzione e la possibilità di utilizzare metodologie terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-sexies c.p., strumentali al perseguimento del programma di eversione dell’ordine costituzionale presupposto. Occorre, pertanto, accertare se, nei programmi e negli effettivi progetti dell’agente, rientra il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, anche attraverso la commissione del singolo reato-fine, allo scopo di esercitare forme di coartazione nei confronti dei poteri pubblici e di distruggere – o quantomeno di destabilizzare – gli assetti istituzionali nel nostro Paese[12].
Diventa, allora, indispensabile comprendere, con riferimento ai singoli reati-fine, commessi in relazione alla sfera di operatività di un’organizzazione terroristica di matrice brigatista, quali sono gli scopi di propaganda armata perseguiti e se i comportamenti criminosi sono tendenzialmente rivolti verso obiettivi sintomatici, in modo da ottenere un effetto paradigmatico e innescare meccanismi di emulazione. Si tratta di verificare processualmente se attraverso la singola azione terroristica si vogliono raggiungere determinati risultati di destabilizzazione, accettando anche il rischio di vittime collaterali ovvero se si vuole colpire indiscriminatamente la popolazione, per suscitare terrore, panico e insicurezza nell’ambiente sociale di riferimento; il che, a ben vedere, mira a ottenere lo stesso effetto sintomatico perseguito nel caso degli “omicidi eccellenti” che si sono richiamati nel paragrafo precedente[13].
Queste certezze probatorie, naturalmente, devono essere raggiunte tenendo conto della struttura delle fattispecie associative terroristiche di cui agli artt. 270, 270-bis e 306 c.p., che, secondo la Suprema Corte, si connotano per il dolo specifico «costituito dallo scopo di commettere delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato, nonché per la organizzazione in banda e la disponibilità di armi; non è però richiesto che la gerarchia interna sia di tipo militare e che ciascun compartecipe sia effettivamente armato, essendo sufficiente la disponibilità e, quindi, la concreta possibilità di utilizzare le armi da parte degli associati»[14].
2.2. L’applicazione dell’aggravante di terrorismo di cui all’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625
Occorre, infine, soffermarsi brevemente sull’aggravante di terrorismo, così come introdotta dall’art. 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15 dicembre 2001, n. 438, precisando che, essendo la violenza terroristica entrata a fare parte della struttura del reato associativo di cui all’art. 280-bis c.p., tale elemento costitutivo non può essere considerato come circostanza aggravante della stessa fattispecie[15].
A conclusioni differenti, invece, deve giungersi per i reati-fine di cui si è parlato nella parte iniziale di questa esposizione, per i quali la circostanza in questione deve essere riconosciuta, costituendo l’aggravante di terrorismo un elemento esterno e integrativo rispetto alle fattispecie monosoggettive, di volta in volta, considerate. Ne consegue che, per verificare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’aggravante eversiva di cui all’art. 1 del decreto-legge n. 625 del 1979, è necessario accertare che il reato-fine consista «nell’uso di ogni mezzo di lotta politica […] che sia in grado di rovesciare, destabilizzando i pubblici poteri e, minando le comuni regole di civile convivenza, sul piano strutturale e funzionale, il sistema democratico previsto dalla Carta costituzionale […]»[16].
Né potrebbe essere diversamente, atteso che, come affermato dalla Suprema Corte, l’aggravante dell’eversione dell’ordine democratico non può identificarsi nel concetto di una qualsiasi azione politica violenta, non potendo rappresentare “un’endiadi della finalità di terrorismo”, ma si identifica necessariamente nel sovvertimento del basilare assetto istituzionale e nello sconvolgimento del suo funzionamento ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che sia in grado di destabilizzare le istituzioni pubbliche e di alterare il sistema democratico costituzionale[17].
3. La partecipazione alle associazioni terroristiche dell’estrema destra stragista: i reati-fine e le condotte monosoggettive
Occorre premettere che in questi procedimenti penali, riguardanti fatti di reato notevolmente risalenti nel tempo, generalmente, non si controverte sull’operatività delle organizzazioni terroristiche, in quanto tali, ma sugli esiti criminosi della loro attività eversiva, rilevante sotto il profilo dei reati-fine commessi in attuazione del programma consortile eversivo.
Ne discende che le finalità terroristiche, pur decisive per valutare i delitti commessi dalle organizzazioni dell’estrema destra eversiva – di natura eminentemente stragistica e riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 285 c.p., intitolata «Devastazione, saccheggio e strage», eventualmente aggravata ai sensi dell’art. 1 del decreto-legge n. 625 del 1979 –, vengono in rilievo soltanto indirettamente, essendo strumentali alla comprensione delle strategie sottese ai reati-fine oggetto di vaglio, che possono essere ricostruite solo attraverso l’accertamento processuale degli obiettivi sovversivi di cui sono espressione[18].
La rappresentazione esemplare di quanto si sta affermando ci proviene dai processi sulle stragi riconducibili all’estrema destra eversiva, eseguiti a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, rispetto ai quali assume un rilievo decisivo l’accertamento processuale del collegamento tra il delitto di cui all’art. 285 c.p.[19] – che è una fattispecie tipicamente monosoggettiva – e la strategia sovversiva di matrice stragista, nel cui contesto maturava la decisione di eseguire gli attentati più eclatanti di quell’epoca, come la “Strage di Piazza Fontana” e la “Strage di Piazza della Loggia”.
Infatti, costituisce un dato, storico e giurisdizionale, ormai consolidato quello secondo cui gli attentati stragisti organizzati dalla destra eversiva italiana, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo del secolo scorso, maturavano nel contesto organizzativo del gruppo di “Ordine Nero”, nel quale erano confluiti i componenti del disciolto gruppo di “Ordine Nuovo”, oltre ad alcuni nuovi aderenti all’area eversiva in questione. Si tratta, in particolare, di cellule eversive formatesi in seno agli ambienti dell’estrema destra italiana extraparlamentare, soprattutto radicati nell’area lombarda e nell’area veneta del Paese[20].
In seno a queste due cellule eversive, si sviluppavano delle vere e proprie articolazioni militari, che avevano una ramificata struttura territoriale e possedevano la capacità di organizzare attentati di grande risonanza sociale, anche grazie al fatto che tali organismi terroristici disponevano di autonomi canali di approvvigionamento di armi ed esplosivi, come ad esempio la gelignite, che è la sostanza chimica utilizzata per il confezionamento dell’ordigno fatto detonare nella “Strage di Piazza della Loggia”, verificatasi a Brescia il 25 maggio 1974. Queste cellule eversive, al contempo, al loro interno, disponevano di veri e propri armieri, con elevate competenze tecniche, talvolta acquisite negli ambienti della destra eversiva straniera, che venivano utilizzati dai vertici consortili per il confezionamento di ordigni esplosivi di portata devastante, come quello utilizzato nell’attentato bresciano[21].
Il riferimento agli episodi stragisti degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso assume un rilievo fondamentale anche per un’altra ragione, collegata al contesto ideologico nel quale veniva elaborata la strategia eversiva dell’estrema destra italiana di matrice extraparlamentare. I componenti delle cellule terroristiche in esame, infatti, avevano maturato la consapevolezza, attraverso frequenti riunioni preparatorie, svolte con esponenti di spicco dell’ambiente eversivo, di «potere contare, a livello locale e nazionale, sulle coperture di appartenenti agli apparati dello Stato e ai servizi di sicurezza, italiani ed esteri»[22].
Gli accertamenti processuali sviluppatisi nel corso dei decenni su tali episodi stragisti, dunque, ci consentono di affermare che le condotte preparatorie ed esecutive degli attentati di matrice terroristica – riconducibili a una fattispecie tipicamente monosoggettiva, come quella dell’art. 285 c.p. – dovevano essere correlate alle attività di elaborazione ideologica, di organizzazione logistica e di proselitismo politico portate avanti, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, dalle cellule dell’estrema destra eversiva italiana, nella quale gravitavano gli autori dei reati. Non v’è dubbio, infatti, che gli attentati, come accertato in sede giurisdizionale, rientravano «nel programma di destabilizzazione dell’assetto istituzionale perseguito dall’area dell’estrema destra italiana […]»[23].
Pertanto, l’inserimento del programma dei gruppi di “Ordine Nuovo” e di “Ordine Nero” in uno scenario eversivo di rilievo nazionale di matrice stragista costituisce un dato processuale incontroverso, corroborato dal fatto che, in diversi processi celebrati sugli episodi delittuosi in esame, venivano accertate riunioni finalizzate a programmare l’attività operativa dell’estrema destra extraparlamentare e a mettere a punto la futura strategia eversiva, con lo spostamento dell’attività terroristica nei centri urbani di grandi dimensioni e il potenziamento delle strutture di copertura delle attività illegali.
3.1. Il problema dell’accertamento dei fatti in contestazione a notevole distanza di tempo dagli accadimenti stragistici
Le considerazioni che si sono esposte nel paragrafo precedente ci consentono di introdurre il tema centrale dei processi sulle stragi di matrice eversiva degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che trae origine proprio dalla natura monosoggettiva del reato-fine oggetto di vaglio – quale è, per l’appunto, la fattispecie dell’art. 285 c.p., a tenore del quale: «Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo» – e pone il problema della valutazione giurisdizionale del compendio probatorio, di matrice eminentemente indiziaria e connotato da un’intrinseca problematicità, acquisito a distanza di alcuni decenni dai fatti delittuosi in esame. Basti, in proposito, considerare che sulla “Strage di Piazza della Loggia”, prima della sentenza di legittimità che si è richiamata nel paragrafo precedente, erano stati celebrati sette procedimenti penali, senza il raggiungimento di alcuna verità processuale[24].
In questi casi, si tratta di effettuare una valutazione del compendio probatorio acquisito nel rispetto dei principi sul processo indiziario, governato dall’orientamento ermeneutico consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «nel processo penale indiziario, il giudice di merito deve compiere una duplice operazione, atteso che, dapprima, gli è fatto obbligo di procedere alla valutazione dell’elemento indiziario singolarmente considerato, per stabilire se presenti o meno il requisito della precisione e per vagliarne l’attitudine dimostrativa; successivamente, occorre procedere a un esame complessivo degli elementi indiziari acquisiti […], allo scopo di appurare se i margini di ambiguità, correlati a ciascuno di essi, possano essere superati in una visione unitaria[25], in modo da consentire l’attribuzione del fatto illecito all’imputato, pur in assenza di una prova diretta di reità, sulla base di un complesso di dati, che saldandosi logicamente, conducano necessariamente a un giudizio di colpevolezza come esito inevitabile […] e, dunque, oltre “ogni ragionevole dubbio”»[26].
Il giudice di merito, infatti, non può «limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza […] e l’intrinseca valenza dimostrativa […] e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”[27] e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana»[28].
Al contempo, l’inquadramento del compendio probatorio acquisito nell’ambito del procedimento indiziario, generalmente, consente di superare il problema della valutazione da parte del giudice di appello delle prove orali acquisite nei giudizi di merito, spesso assai lontane nel tempo e oggetto di frequente rivisitazione, che erano state ritenute utili ai fini della decisione adottata, ma che non sempre è possibile rinnovare, con la possibile violazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione alla luce della sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Dan contro Moldavia”.
Queste considerazioni valgono soprattutto con riferimento alle conseguenze processuali dell’applicazione del seguente principio di diritto: «Costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova – ai fini dell’esito della condanna»[29].
4. La partecipazione alle associazioni terroristiche di matrice ambientalista: i reati-fine e le fattispecie monosoggettive
Occorre, infine, soffermarsi sui reati-fine e sulle fattispecie monosoggettive collegate alla sfera di operatività delle associazioni terroristiche di matrice ambientalista.
Tale riferimento si impone in ragione del fatto che anche nelle ipotesi di condotte illecite riconducibili ad associazioni terroristiche di matrice ambientalista, quantomeno tendenzialmente, ci si trova di fronte a fattispecie di reato monosoggettive, assumendo rilievo soprattutto i delitti di cui agli artt. 280 c.p., intitolato «Attentato per finalità terroristiche e di eversione», e 280-bis c.p., intitolato «Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi»[30].
In questa cornice, innanzitutto, occorre evidenziare che per l’integrazione dei delitti puniti dagli artt. 280 e 280-bis c.p., è necessario il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, di atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare gli eventi criminosi prefigurati dalle due fattispecie di reato, con un atteggiamento della volontà intenzionalmente diretto alla loro produzione[31].
Più precisamente, queste fattispecie di reato si caratterizzano per un doppio finalismo soggettivo, atteso che l’azione criminosa deve essere ispirata dal fine di eversione dell’ordine democratico o dalla finalità di terrorismo; al contempo, il soggetto attivo del reato deve mirare a provocare l’evento della morte o delle lesioni in danno di una o più persone, quali avvenimenti strumentali allo scopo eversivo perseguito dall’agente.
Ne discende che la morte e le lesioni delle vittime degli attentati eversivi in questione sono gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica prefigurata dagli artt. 280 e 280-bis c.p., rispetto ai quali deve essere misurata l’idoneità e l’univocità degli atti compiuti dal soggetto attivo del reato e verso cui deve dirigersi la sua volontà[32].
Occorre, allora, accertare quali sono gli obiettivi perseguiti dalle associazioni terroristiche di matrice ambientalista, dovendosi evidenziare che «la pressione illegalmente attuata sull’autorità pubblica deve presentare, in quanto tale, un connotato di idoneità alla produzione dell’evento “costrizione”, e non semplicemente un finalismo soggettivamente orientato in tal senso […]»[33].
Tuttavia, nel contesto ritenuto indispensabile per la configurazione dei fatti delittuosi eversivi che si stanno considerando, non può essere compresa la pressione legittimamente esercitata da movimenti politici e da gruppi di cittadini, atteso che la costrizione deve essere indebita e connessa alla natura terroristica dell’attentato, di volta in volta, considerato.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la previsione dell’art. 49 Cost. – che costituisce la norma di riferimento costituzionale per la disciplina dei diritti associativi, che rappresentano il limite esterno alla configurazione dei delitti contro la personalità dello Stato, cui ci si sta riferendo – prevede che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Nella stessa direzione, con specifico riferimento alla matrice ideologica delle organizzazioni terroristiche che si ispirano ai valori ambientalisti e ai limiti costituzionali alla rilevanza penale delle condotte consortili che si stanno considerando, occorre richiamare l’art. 18, comma primo, Cost., secondo cui tutti «i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale»
Questione ermeneutica ulteriore e differente, invece, è quella dell’individuazione delle modalità con cui vengono diffuse, telematicamente ovvero attraverso la stampa clandestina, le ideologie terroristiche di matrice ambientalista, per le quali è possibile la concretizzazione di condotte illecite di natura apologetica, rilevanti ai sensi degli artt. 414 e 415 c.p., in termini analoghi a quanto si è affermato a proposito delle organizzazioni terroristiche di matrice brigatista[34].
D’altra parte, una dilatazione eccessiva della nozione di terrorismo, inevitabilmente, rischia di condizionare meccanismi di pressione politica o di protesta pienamente legittimi, sul piano costituzionale, finalizzati a orientare le scelte politiche delle istituzioni governative. Non assumono, pertanto, un rilievo decisivo formule generiche, come i riferimenti ai possibili danni per il Paese; ai ritardi nella realizzazione dell’opera pubblica controversa; alle spese sostenute per il controllo dell’ordine pubblico, necessitate dalle proteste ambientaliste.
Si impone, al contempo, la contestualizzazione, territoriale e ideologica, dell’azione illecita, essendo necessario che «l’idoneità sia misurata con riferimento al tempo in cui il fatto viene commesso, e con riguardo ad attività conosciute dall’agente, che può quindi rappresentarsele come fattori causali concorrenti nella produzione del rischio tipico»[35].
4.1. L’accertamento processuale del contesto nel quale l’attentato di matrice ambientalista si verifica e delle finalità concretamente perseguite
Dalle considerazioni espresse nel paragrafo precedente discende che la contestualizzazione, territoriale e ideologica, delle azioni terroristiche delle organizzazioni ambientaliste deve essere effettuata tenendo conto degli obiettivi eversivi perseguiti con le condotte illecite rilevanti ex artt. 280 e 280-bis c.p., che devono essere valutati dal giudice di merito caso per caso.
La matrice terroristica di un attentato di ispirazione ambientalista, pertanto, comporta l’esistenza di una correlazione tra i danni materiali provocati dall’azione criminosa e l’evento eversivo, al quale sono collegate le fattispecie previste dagli artt. 280 e 280-bis c.p., su cui deve essere effettuata una verifica giurisdizionale rigorosa.
Non si può, infatti, mai prescindere dalle esigenze di offensività e di tassatività delle condotte illecite di cui agli artt. 280 e 280-bis c.p., che devono essere garantite sul piano dell’accertamento giurisdizionale, mediante una verifica stringente delle potenzialità lesive dei comportamenti sovversivi, che deve essere valutata in termini obiettivi, alla luce delle circostanze di tempo e di luogo in cui si concretizzano gli attentati, di volta in volta, considerati.
Non può, in proposito, non richiamarsi la giurisprudenza di legittimità, consolidatasi in tema di configurazione della fattispecie prevista dall’art. 280 c.p., secondo cui: «Per la configurabilità del delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione, ex art. 280 c.p., è necessario che la condotta di chi attenta alla vita o alla incolumità di una persona, finalizzata al terrorismo secondo le definizioni di cui all’art. 270-sexies c.p., possa, per natura o contesto, arrecare grave danno al Paese ovvero che la stessa, tenuto conto del contesto oggettivo e soggettivo in cui si inserisce, sia volta alla sostanziale deviazione dai principi che regolano l’essenza della vita democratica»[36].
Occorre, allora, verificare, caso per caso, se, per gli effetti direttamente riferibili al fatto di reato contestato, come tali rappresentati e voluti dagli autori nel contesto consortile ambientalista in cui si concretizza la loro azione, si è creata un’apprezzabile possibilità di rinuncia da parte dello Stato alla prosecuzione dell’opera pubblica, dalla quale è derivato un danno grave e di consistenti proporzioni, che sia effettivamente connesso a tale rinuncia o, comunque, all’azione terroristica indirizzata al perseguimento di quell’obiettivo.
La contestualizzazione dell’azione terroristica di matrice ambientalista, del resto, risponde alla stessa formulazione dell’art. 280 c.p., che non ritiene sufficiente il generico perseguimento di finalità eversive, atteso che, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, per integrare «il delitto di attentato per finalità terroristiche o eversive di cui all’art. 280 c.p., non è sufficiente la sola rappresentazione ed accettazione del rischio dell’evento lesivo, ma è necessario che la condotta dell’agente sia intenzionalmente diretta a ledere la vita o l’incolumità di una persona, quali beni protetti dalla norma»[37].
[1] Questo intervento, dedicato alla memoria di Guido Galli, costituisce la mia relazione di presentazione al gruppo di lavoro denominato “La partecipazione all’associazione terroristica e le fattispecie monosoggettive”, che ho coordinato, svoltosi l’8 luglio 2021, nell’ambito dell’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Milano, intitolato “Prevenzione e repressione del terrorismo, tra esigenze di difesa della collettività e rispetto dei principi costituzionali” (Corso intitolato a Guido Galli).
Questo seminario, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, si è svolto presso la sede storica dell’Università Statale di Milano, ubicata a Milano, in Via Festa del Perdono n. 7, dove per diversi anni Guido Galli (Bergamo 28 giugno 1932 - Milano 19 marzo 1980) insegnò criminologia e dove fu barbaramente ucciso il 19 marzo 1980, da un nucleo armato di Prima Linea, appartenente alla galassia brigatista.
[2] Ritengo opportuno segnalare che ho seguito questo metodo espositivo in alcuni precedenti interventi formativi, i cui esiti sono sintetizzati in A. Centonze, La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e le esperienze emerse con riferimento al terrorismo “nazionale”, in Dir. viv., 2019, 3, pp. 16 ss.
Per uno sguardo d’insieme sulle tematiche affrontate in questa sessione si ritiene utile richiamare anche gli interventi di A. Cavaliere, Considerazioni critiche intorno al D.L. antiterrorismo, n. 7 del 18 febbraio 2015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 31 marzo 2015, pp. 1 ss.; M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., 2006, 2, pp. 753 ss.; F. Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 2015, 8, pp. 926 ss.; F. Resta, Ancora su terrorismo e stato di crisi, in Ind. pen., 2011, 505 ss.; A. Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (Prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation Front), in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 21 febbraio 2013, pp. 1 ss.; F. Viganò, Terrorismo, guerra e sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 2, pp. 655 ss.
[3] Mi sono, in particolare, occupato del “terrorismo secessionista”, nel più ampio contesto del “terrorismo separatista” attivo in alcuni Paesi europei, in A. Centonze, La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e le esperienze emerse con riferimento al terrorismo “nazionale”, cit., pp. 29-32.
[4] Sulle connotazioni apologetiche delle comunicazioni e delle pubblicazioni di ispirazione terroristica, in termini generali, si rinvia a Cass. pen., Sez. V, n. 1970 del 26 settembre 2018, El Mahdi, in C.E.D. Cass., n. 276453-01; Cass. pen., Sez. I, n. 24103 del 4 aprile 2017, Dibrani, in C.E.D. Cass., n. 270604-01; Cass. pen., Sez. I, n. 47489 del 6 ottobre 2015, Halili, in C.E.D. Cass., n. 265265-01; Cass. pen., Sez. I, n. 10641 del 3 novembre 1997, Galeotto, in C.E.D. Cass., n. 209166-01.
Queste pronunzie di legittimità, a loro volta, traggono origine dall’arresto giurisprudenziale risalente, espresso dalla sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 3422 del 27 settembre 1991, Mazzucchelli, in C.E.D. Cass., n. 188454-01, nella quale veniva affermato il seguente principio di diritto: «È configurabile l’apologia di reato sotto forma di istigazione a delinquere nel fatto di erigere un monumento a perenne memoria – additandola ad esempio – a persona nota per avere spento la vita di un capo di Stato, qualora si accerti che, nonostante la lontananza storica dell'assassinio, sussiste attualmente e concretamente la possibilità che l’erezione del monumento eserciti una forza di suggestione e di persuasione tale da poter stimolare la commissione di altri fatti criminosi, corrispondenti o similari a quello esaltato».
[5] Si tratta, com’è noto, di una strategia eversiva affermatasi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, in conseguenza della quale vennero assassinati numerosi esponenti delle istituzioni nostrane, tra cui diversi magistrati, come Guido Galli, alla memoria del quale l’incontro di studi nel quale è stato presentato questo intervento è dedicato.
Su queste tematiche, da un punto di vista storico-giornalistico, senza alcuna pretesa di esaustività, si rinvia agli studi di P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, il Mulino, Bologna, 2006; M. Calvi - A. Ceci - A. Sessa - G. Vasaturo, Le date del terrore. La genesi del terrorismo italiano e il microclima dell'eversione dal 1945 al 2003, Sossella, Roma, 2003; L. Scialò, Le stragi dimenticate. La strategia della tensione secondo la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia, Boopen. Napoli, 2008; B. Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile, Einaudi, Torino, 2019.
[6] Sul problema della punibilità degli atti pretipici, con particolare riferimento, alle attività propedeutiche all’esecuzione di un omicidio, si rinvia a Cass. pen., Sez. II, n. 36311 del 12 luglio 2019, Raicevic, in C.E.D. Cass., n. 277032-01; Cass. pen., Sez. I, n. 27918 del 4 marzo 2010, Resa, in C.E.D. Cass., n. 248305-01; Cass. pen., Sez. I, n. 43406 del 12 ottobre 2001, Mereu, in C.E.D. Cass., n. 220145-01; Cass. pen., Sez. I, n. 1365 del 2 ottobre 1997, Tundo, in C.E.D. Cass., n. 209688-01; più in generale, sull’importanza dei canoni della proporzionalità e dell’offensività, rilevanti ex art. 3 Cost., rispetto alla legittimazione di scelte di anticipazione della tutela penale, si ritiene opportuno rinviare agli studi di A. Cadoppi, «Non evento» e beni giuridici «relativi»: spunti per un reinterpretazione dei reati omissivi propri in chiave di offensività, in Ind. pen., 1990, pp. 373 ss.; C. Fiore, Il principio di offensività, in Ind. pen., 1994, pp. 275 ss.; V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Giappichelli, Torino, Milano, 2005, pp. 279 ss.
[7] La Convenzione per la repressione del finanziamento al terrorismo è stata adottata a New York il 9 dicembre 1999 e aperta alla firma il 10 gennaio 2000, anche se fino all’11 settembre 2001 solo quattro Stati avevano provveduto a ratificare l’accordo convenzionale; tuttavia, gli efferati attentati statunitensi e la consapevolezza del rilievo determinante delle disponibilità finanziarie di cui i terroristi beneficiavano davano uno straordinario all’accordo, tanto è che vero che oggi la Convenzione conta 169 Stati parte e 132 Stati firmatari.
[8] Nella direzione ermeneutica richiamata nel testo, si ritiene esemplare la sentenza Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, in C.E.D. Cass., n. 251920-01, che riguarda l’operatività e i reati-fine commessi nell’interesse dell’organizzazione terroristica denominata “Partito Comunista Politico Militare” (PCPM); si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. I, n. 3486 dell’11 maggio 2000, Paiano, in C.E.D. Cass., n. 216253-01; Cass. pen., Sez. I, n. 6952 del 4 novembre 1987, Adinolfi, in C.E.D. Cass., n. 178586; Cass. pen., Sez. I, n. 8952 del 7 aprile 1987, Angelini, in C.E.D. Cass., n. 176516-01.
[9] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit. ; su questi temi, si rinvia anche all’intervento di A. Valsecchi, I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270 sexies c.p., cit., pp. 1 ss.
[10] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit.
[11] Si vedano Cass. pen., Sez. II, n. 14704 del 22 aprile 2020, Bekaj, in C.E.D. Cass., n. 279408-01; Cass. pen., Sez. VI, n. 13421 del 5 marzo 2019, Shalabi, in C.E.D. Cass., n. 275983; Cass. pen., Sez. II, n. 24994 del 25 giugno 2006, Bouhrama, in C.E.D. Cass., n. 234345-01.
[12] Si vedano Cass. pen., Sez. V, n. 10380 del 7 febbraio 2019, Koraichi, in C.E.D. Cass., n. 277239-01; Cass. pen., Sez. I, n. 35427 del 21 giugno 2005, Drissi, in C.E.D. Cass., n. 232280-01.
[13] Ci si riferisce, naturalmente, agli omicidi di Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, citati nel paragrafo 2.
[14] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 12252 del 23 febbraio 2012, Bortolato, cit.
[15] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, n. 2310 del 2 novembre 2005, Sergi, in C.E.D. Cass., n. 233113-01; Cass. pen., Sez. 5, n. 40348 del 17 settembre 2008, Morobianco, in C.E.D. Cass., n. 241859-01; Cass. pen., Sez. VI, n. 2310 del 2 novembre 2005, Sergi, in C.E.D. Cass., n. 233113-01.
[16] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 36816 del 27 ottobre 2020, Cropo, in C.E.D. Cass., n. 280761-01.
[17] Si veda Cass. pen., Sez. V, n. 25428 del 13 marzo 2012, Bonetti, in C.E.D. Cass., n. 253305-01.
[18] Vedi supra § 2.1.
[19] Per l’inquadramento della fattispecie di cui all’art. 285 c.p., si rinvia alla storica sentenza Cass. pen., Sez. Un., n. 7 del 26 marzo 1960, Neidermajer, in C.E.D. Cass., n. 098430-01, che precede di oltre un decennio i processi penali sulla stagione stragista della destra eversiva, nel quale si affermava il seguente principio di diritto: «La distinzione tra i delitti di furto e di saccheggio, dal punto di vista materiale ed a parte le differenze qualitative, si fonda precipuamente su due elementi (pluralità degli agenti e molteplicità indiscriminata degli impossessamenti), che, necessari solo nel secondo delitto, lo rendono assai più pericoloso del primo dal punto di vista dell'ordine giuridico: tale maggiore pericolosità, dovuta alla costante presenza dei due elementi suddetti, si riflette nella diversa obiettività giuridica, che, nei reati di saccheggio, non si esaurisce nella protezione del patrimonio ma si dirige a quella assorbente dell’ordine pubblico (art. 419 cod. pen.) o, addirittura, della stessa personalità dello stato (art. 285 C.P.), quando in questa ultima ipotesi, ricorra il relativo dolo specifico (scopo di attenuare alla sicurezza dello stato».
[20] Questi dati ci provengono dall’attività svolta dalle commissioni di inchiesta sul fenomeno terroristico istituite nel nostro Paese nell’ultimo quarantennio, che si sono avvalse degli esiti dei diversi procedimenti penali celebrati sugli episodi stragisti verificatisi a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Tali conclusioni, sul piano giurisdizionale, hanno ricevuto una conferma definitiva negli esiti del processo sulla “Strage di Piazza della Loggia”, per il quale si rinvia alle successive note 19, 20 e 21.
[21] Su questi temi, si ritiene opportuno segnalare la sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, in C.E.D. Cass., n. 271252-01, con cui, all’esito di un procedimento svoltosi lungo sette gradi di giudizio, si concludeva il processo penale sulla “Strage di Piazza della Loggia”; la prima sentenza sulla strage bresciana veniva emessa dalla Corte di assise di Brescia il 2 luglio 1979 e, con tale pronuncia, veniva condannato uno degli autori materiali dell’attentato, ucciso prima della decisione di appello, pronunciata dalla Corte di assise di appello di Brescia il 2 marzo 1982, con cui veniva assolto l’altro imputato.
All’esito di tale complesso percorso processuale venivano condannati due degli autori dell’attentato in questione, commesso il 25 maggio 1974, a Brescia, in Piazza della Loggia, nel corso di una manifestazione indetta dal Comitato Permanente Antifascista e dalle Segreterie Provinciali della C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L., mediante la collocazione di un ordigno in un cestino metallico per i rifiuti, posto in aderenza a una colonna dei portici delimitanti la piazza e provocandone l’esplosione.
[22] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[23] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[24] Vedi supra § 3, note 19-21.
[25] Si vedano Cass. pen., Sez. I, n. 44324 del 18 aprile 2013, Stasi, in C.E.D. Cass., n. 258321-01; Cass. pen., Sez. I, n. 26455 del 26 marzo 2013, Knox, in C.E.D. Cass., n. 255677-01; Cass. pen., Sez. I, n. 13671 del 26 novembre 1998, Buiono, in C.E.D. Cass., n. 212026-01.
[26] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[27] Si vedano Cass. pen., Sez. I, n. 1790 del 30 novembre 2017, Mangafic, in C.E.D. Cass., n. 272056-01; Cass. pen., Sez. I, n. 20461 del 12 aprile 2016, Graziadei, in C.E.D. Cass., n. 266941-01; Cass. pen., Sez. II, n. 42482 del 19 settembre 2013, Kuzmanovic, in C.E.D. Cass., n. 256967-01.
[28] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 41585 del 20 giugno 2017, Maggi, cit.
[29] Si veda Cass. pen., Sez. Un., n. 27620 del 28 aprile 2016, Dasgupta, in C.E.D. Cass., n. 267491-01; nella stessa direzione ermeneutica, si veda la successiva pronuncia Cass. pen., Sez. Un., n. 18620 del 19 gennaio 2017, Patalano, in C.E.D. Cass., n. 269786-01; Cass. pen., Sez. Un., 28 gennaio 2019, Pavan, n. 14426, in Cass. C.E.D., n. 275112-01.
Su queste fondamentali pronunzie delle Sezioni Unite si vedano i commenti dottrinari di R. Aprati, “Overturning” sfavorevole in appello e mancanza del riesame, in Cass. pen., 2017, 7-8, pp. 2672 ss.; V. Aiuti, Poteri d’ufficio della Cassazione e diritto all’equo processo, in Cass. pen., 2016, 9, pp. 1125 ss.; S. Recchione, Il processo a statuto probatorio variabile: la rinnovazione in appello della prova scientifica, in www.sistemapenale, 23 giugno 2020.
[30] Mi sembra opportuno sottolineare che i fenomeni terroristici di matrice ambientalista rappresentano un ambito criminale in crescente espansione, che investe vari settori operativi, che riguardano, oltre alla protezione ambientale stricto sensu intesa, anche le istanze di tutela animalista, delle quali, per ragioni di sintesi espositiva, non ci si occupa, ma il cui richiamo è utile per inquadrare, in termini generali, le questioni affrontate nella parte conclusiva di questa introduzione.
[31] Si vedano Cass. pen., Sez. VI, n. 34782 del 30 aprile 2015, Gai, in C.E.D. Cass., n. 264417-01; Cass. pen., Sez. I, n. 11344 del 10 maggio 1993, Algranati, in C.E.D. Cass., n. 195771-01; Cass. pen., Sez. I, n. 10233 del 18 dicembre 1987, Berardi, in C.E.D. Cass., n. 179470-01.
[32] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, in C.E.D. Cass., n. 260078-01; questa pronuncia appare meritevole di essere segnalata, oltre che per la completezza degli argomenti esposti, perché riguarda un caso emblematico delle tematiche ambientaliste che si stanno considerando, quale l’attentato di Chiomonte verificatosi il 14 maggio 2013, a margine della realizzazione delle opere infrastrutturali di collegamento tra l’Italia e la Francia nella Val di Susa.
[33] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, cit.
[34] Vedi supra § 2.
[35] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 28009 del 15 maggio 2014, Alberto, cit.
[36] Si veda Cass. pen., Sez. VI, n. 34782 del 30 aprile 2015, Gai, cit.; su questa importante pronunzia di legittimità si veda anche il commento dottrinario di A. Siberti, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 280 c.p., in Cass. pen., 2016, 4, pp. 1537 ss.
[37] Si veda Cass. pen., Sez. I, n. 47479 del 16 luglio 2015, Alberti, in C.E.D. Cass., n. 265404-01.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
