ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
I mali del CSM: l’invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
* Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Vi ringrazio per avermi invitato e coinvolto in questa Tavola Rotonda. Il suo titolo “L’invadenza delle correnti o la loro scomparsa” è molto attuale e ci pone di fronte al dubbio che la storia più recente e i fatti degli ultimi mesi hanno reso urgente: è possibile, a fronte dei fenomeni che abbiamo vissuto in queste ultime settimane , trovare una terza via dell'associazionismo che non porti inevitabilmente alla scomparsa delle correnti o ad una loro inevitabile invadenza degenerativa del sistema?
Il titolo postula che se le correnti ci sono, sono invadenti per natura e l’alternativa è che loro vengano meno. E quindi dobbiamo interrogarci se ci sia un’altra strada.
Per comprendere la situazione in cui ci troviamo sarebbe necessario, a mio parere fare un piccolo passo indietro.
La storia dei nostri gruppi associativi, di tutti i gruppi associativi, parte da grandi contrapposizioni culturali. La prima divisione nell’associazionismo giudiziario si basava sull’applicazione e interpretazione dell’art. 3 della Costituzione: questo ha creato la prima distinzione tra magistrati progressisti e magistrati conservatori. Facendo un rapido balzo in avanti nel tempo, abbiamo vissuto tutti quanti – e forse noi della nostra generazione l’abbiamo vissuta meglio e di più – una fase in cui le grandi contrapposizioni ideali all'interno della magistratura sono andate pian piano scemando. Forse perché alcune posizioni, alcune scelte erano diventate patrimonio comune dell’intera Magistratura, non c’era più bisogno di contrapporsi ad esse; molte di queste posizioni comuni erano originariamente posizioni della Magistratura progressista, e questo sicuramente può far vanto a molti di voi.
Il problema è che questo ha determinato un isterilimento dell’associazionismo – e devo dire, di alcuni gruppi, più che di altri.
Il fatto che alcuni gruppi associativi abbiano perso una forte componente di aggregazione culturale, ha determinato, in un sistema nel quale è necessario comunque – come nellapolitica generale – aggregare consensi, che si scivolasse progressivamente su un terreno diverso, quello dell'aggregazione per clientele; la stessa strada percorsa dalla politica in tempi diversi e forse precoci rispetto alla Magistratura. Quando non è più possibile aggregare consensi in base ad opzioni ideali, i sistemi rappresentativi degenerano ed iniziano ad aggregarsi attraverso altri fattori, per esempio aggregare per interessi.
La scelta di seguire politiche corporative – ma direi di più – politiche clientelari, è stata ed è ancora oggi – ed i risultati elettorali lo dimostrano – per alcuni gruppi una scelta di sopravvivenza.
Questo ovviamente deve essere un primo punto di riflessione, anche per chi cerca di mantenere in piedi una identità culturale e continuare a ragionare nel dare contenuti ideali, culturali, valoriali all’associazionismo.
Ovviamente questa tensione non è, non è stata priva di contraccolpi.
Noi abbiamo vissuto nella storia della Magistratura delle scissioni importanti, proprio per il rigetto, anche all’interno dei gruppi che si avviavano, verso logiche più corporative e clientelari; fenomeni di rigetto che hanno prodotto scissioni, svolte e creazioni di nuovi soggetti. La nascita del Movimento per la Giustizia è parte di questa storia: è il rigetto rispetto a logiche clientelari che avevano pervaso e che già molti anni fa erano considerate un di cancro sia in Unità per la Costituzione, che in Magistratura Indipendente. Ma se guardiamo più vicino a noi, tutto sommato anche la scissione di Magistratura Indipendente con la creazione di Autonomia e Indipendenza è una scelta che si fonda radicalmente sull’affermazione di una questione morale, e sul rigetto di un modello di fare associazionismo basato sulla gestione clientelare del potere e sul più opaco collateralismo alla politica.
In tutto questo, si inserisce poi la nuova (ormai vecchia) legge elettorale per il rinnovo del CSM.
La legge elettorale vigente ha determinato una ulteriore torsione di questo sistema, portando a due fenomeni.
Nel tentativo di ridurre la capacità e il potere delle correnti, il legislatore che fa? Crea un sistema elettorale con un collegio unico nazionale, maggioritario ed uninominale; riduce il numero di consiglieri; inconsapevolmente mette in mano alle correnti la possibilità di designare, di nominare ex ante rispetto alle elezioni quelli che saranno gli eletti al Consiglio Superiore della magistratura. Priva gli elettori di qualsiasi potere di scelta.
Questo determina – dicevo- due effetti distorsivi. Il primo: il fatto che gli eletti vengano, di fatto, sostanzialmente nominati, che vengono prescelti dalle correnti crea un forte rapporto di dipendenza tra il gruppo e il nominato. Talvolta, come abbiamo visto di recente il rapporto di dipendenza non è neanche nei confronti della corrente ma di chi, all'interno di essa esercita una posizione di potere reale controllando il consenso elettorale.
Il secondo effetto distorsivo, che pure non dobbiamo sottovalutare, va in senso opposto al primo, e si traduce nella totale autonomizzazione dell'eletto rispetto al gruppo che lo ha sostenuto, determinando l'eliminazione di ogni responsabilità politica che pure deve essere alla base di un sistema di rappresentanza realmente democratico. Ciò avviene in relazione alla candidatura del personaggio di grande prestigio personale, che si impone rispetto al gruppo. La scelta di candidature di grande prestigio personale porta ad una importante affermazione elettorale ma fatalmente, nel corso del mandato colloca questo tipo di candidato all'esterno del meccanismo di rappresentanza del gruppo che postula, appunta, la responsabilità politica. Quel meccanismo in base al quale le scelte di governo e di gestione, quando risultino errate o persino compromettenti si ripercuotono in una responsabilità politica che ricade sul gruppo. Se però il soggetto eletto, in virtù dei consensi prevalentemente personali, si rende completamente svincolato rispetto al gruppo e addirittura è soverchiante rispetto ai principi e ai valori del gruppo che dovrebbe rappresentare diventa completamente autoreferenziale e le sue scelte finiscono per essere determinate da logiche personalissime e talvolta opache.
Questo è – a mio parere- il quadro nel quale si inseriscono i fatti più recenti emerse dalle indagini della Procura della Repubblica di Perugia ed a noi noti tramite le cronache dei mezzi di informazione.
Tali recenti vicende rappresentano certamente una ulteriore involuzione del sistema. Perché, come premettevo, questa vicenda dimostra come non sono più neanche correnti a intervenire in modo deviante sulle decisioni del governo autonomo, sono soggetti che all’interno delle correnti assumono una posizione di potere.
Perché dico che non sono neanche più correnti? Perché secondo le ricostruzioni dell'informazione, intorno ad un tavolo, la sera, in un certo albergo a tessere le trame delle nomine di vertice in alcuni importati uffici giudiziari scopriamo che non ci sono i segretari delle correnti, quelli che avrebbero la rappresentanza statutaria del gruppo e ne potrebbero indirizzare le scelte. E non c’è neanche una sola corrente. Ci sono dei soggetti che hanno un potere reale – che si traduce nella disponibiltà dei consensi elettorali necessari per far eleggere i consiglieri superiori– e che sono esponenti di due differenti correnti che, per inciso, assumono spesso posizioni conflittuali tra di loro. Quello che viene in emersione è quindi, una cosa ancora ulteriore e diversa rispetto ai fenomeni già noti della degenerazione correntizia. Configura l’aggregazione di un sistema di potere, che a questo punto si stacca in modo apprezzabile dal sistema delle correnti.
E non si può sottacere, se si vuole ben comprendere il fenomeno, che a quel tavolo non c’erano soltanto magistrati. C’era anche la politica. Anche la politica gioca, in questa circostanza, un ruolo improprio e deviante rispetto alle dinamiche consigliari. Si tratta peraltro di una politica che porta le proprie istanze meno nobili nel luogo ove vengono presi segreti accordi anziché nella sede istituzionale propria, il CSM, nella quale quelle decisioni devono essere prese e dove, per dettato costituzionale la politica ha piena cittadinanza a partecipare in modo pubblico e trasparente.
Il contributo della politica a quel tavolo non è neanche più un contributo meramente clientelare; sembra essere, invece e ben più gravemente, il tentativo di orientare, attraverso le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, le scelte giurisdizionali che in quegli uffici dovranno essere assunte.
Questo è il livello di torsione al quale siamo arrivati.
E allora, concludendo, e tornando alla domanda principale: c’è uno spazio nel quale l'associazionismo giudiziario può esercitare il suo ruolo senza diventare metastasi del sistema di autogoverno?
Credo che una soluzione adeguata non possa che imporre che il CSM rimanga una istituzione fondata sul principio di rappresentanza. Va quindi bandita e dichiarata inaccettabile ogni ipotesi di riforma che preveda la sua formazione attraverso strumenti differenti dalle elezioni. In particolare deve essere respinta l'ipotesi di sua composizione per sorteggio. Su questo, noi qui in questa sala siamo tutti d’accordo ma, devo dire, sono pochi quelli tra i giuristi, nel mondo dell’avvocatura, pochissimi nel mondo della Magistratura sostengono che il CSM possa essere un luogo dove non ci sia rappresentanza e sia formato tramite sorteggio dei soggetti che lo compongono. Vorrebbe dire nullificare il ruolo istituzionale. Se noi pensassimo ad una Corte Costituzionale di sorteggiati, ad un Parlamento di sorteggiati o ad una Authority di sorteggiati, avremmo un esempio ben nitido del decadimento del ruolo istituzionale che verrebbe subito dal Consiglio.
Se il Consiglio deve esistere non può che essere un Consiglio che si basa sulla rappresentanza. E la rappresentanza della magistratura non può che essere aggregata attraverso la competizione elettorale democratica tra diverse associazioni di magistrati, aperta alla partecipazione anche di candidati indipendenti. Ciò è tanto necessario ed inevitabile che “Se non ci fosse l’associazionismo giudiziario perchè vietato per legge – cito un paradosso di Giuseppe Cascini, in un suo intervento recente – si passerebbe all’associazionismo segreto, perché l’associazionismo dei magistrati è insopprimibile”.
E allora che fare? Mi permetto di sollecitare l'attenzione alcune necessità.
La prima: bisogna manutenere la tenuta democratica delle nostre associazioni. Le nostre associazioni devono essere delle strutture democratiche, trasparenti e quanti in esse militano devono impegnarsi e garantire che esse non siano un simulacro che viene agito dall’esterno o dall’interno attraverso logiche opache, che non vi abbiano più accoglienza centri di potere palesi od occulti che non coincidano con le rispettive dirigenze statutarie, democraticamente elette e perciò politicamente responsabili rispetto al proprio corpo sociale.
La seconda: modificare urgentemente il sistema elettorale del CSM. Noi dobbiamo arrivare ad un sistema elettorale che garantisca due risultati: la responsabilità politica delle aggregazioni che si presentano; una possibilità reale di scelta degli elettori tra più candidati, anche all’interno di una stessa lista o di una stessa coalizione.
Altro tema di centrale importanza: le regole consigliari sono state per lungo tempo concepite ed utilizzate per rafforzare la capacità di clientela dei gruppi associativi, anziché per ridurla. Ricordiamoci quello che era fino a pochi anni fa il monopolio dell’informazione: per avere semplicemente una notizia il magistrato doveva andare col cappello in mano da qualche esponente di corrente alimentando un sistema che scambiava il faore con il consenso e contrabbandava per favore l'esercizio di un diritto. La maggior trasparenza del CSM e regole chiare costituiscono uno strumento strategico per contrastare il clientelismo.
L’ultima considerazione: non possiamo pensare che il problema si risolva indicando una, due persone, per quanto con nomi altisonanti, celebri, celeberrimi e farne i capri espiatori del sistema clientelare della Magistratura. Ci sono delle persone che hanno delle specifiche responsabilità, ma non compete a noi sul piano giudiziario e disciplinare valutarle.
C’è però una questione morale che riguarda l'intera Magistratura, e ne abbiamo avuto dimostrazione nelle ultime elezioni: l’offerta di clientela si salda ad una domanda di clientela. Se c'è chi elargisce favori e ne fa sistema di gestione del potere c'è anche chi i favori li chiede ed alimenta questo potere.
Se il corpo della Magistratura in modo ipocrita indica nelle correnti, come fossero altro da se, o in alcuni all’interno delle correnti i soli responsabili di questa situazione, non compie in modo corretto il proprio dovere deontologico ed etico.
Tutti i magistrati si devono invece interrogare circa il livello etico dei propri comportamenti e se gli stessi siano adeguati a garantire un autogoverno corrispondente alle aspettative del legislatore costituzionale.
Sul Forum si rinvia alla lettura dei precedenti contributi :Introduzione di Alfonso Amatucci al forum I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? ,
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
Introduzione al forum* di Alfonso Amatucci
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il titolo della tavola rotonda usa il mezzo lieve del quesito per affrontare un problema di straordinaria serietà. Ci si chiede in realtà, posto che l’invadenza nella gestione del CSM da parte delle correnti (per la verità, di alcune più di altre) è un dato certo, se non sia questa la prevalente funzione che esse hanno finito con l’assumere e, implicitamente, se quella funzione non sia diventata primaria per essere evaporate le ragioni che ne avevano determinato la nascita. Sicché potrebbe retoricamente domandarsi se le correnti non siano diventate intollerabilmente invadenti come strumento di gestione del potere d’apparato per essere quasi “scomparse” come centro di confronto e di elaborazione di idee. Nacquero - come è stato autorevolmente rilevato - “perché in magistratura non v’erano visioni coincidenti sulla funzione della giurisdizione e sui limiti dell’interpretazione, sulla scia di un dibattito culturale che prese le mosse dalla discussione sui limiti del giudice nel dare attuazione ai principi ed alle norme della costituzione che non avessero ancora trovato riscontro in disposizioni di legge ordinaria”.
Con un’eccezione, tuttavia, anzi con due, giacché fu proprio lo “strapotere” delle correnti manifestatosi in talune (mancate) nomine consiliari nel quadriennio 1986-1990 a determinare la fuoriuscita di molti magistrati (al CSM c’erano D’Ambrosio e Racheli) dalle rispettive correnti di appartenenza e poi la nascita del “Movimento per la giustizia”, che con MD ha poi costituito “Area”. Il germe del rifiuto della corrente come strumento di carriera è dunque presente in magistratura. E, tuttavia, anche ad Area s’è imputato di aver partecipato alle “spartizioni” (valga per tutte l’esempio delle nomine a pacchetto), senza le quali – è stato peraltro osservato da taluni – nessuno degli aderenti ad Area avrebbe mai, o avrebbe assai raramente, ottenuto nomine di prestigio. Sicché si sarebbe trattato di un “male necessario”, indotto dal sistema.
Sennonché, le inaudite vicende messe in luce dall’indagine della procura di Perugia impongono che si corra ai ripari. Non certo con l’apocalittico sistema del sorteggio in prima o seconda battuta per l’elezione (elezione?!) dei componenti togati del CSM, che forse addirittura aumenterebbe il peso delle correnti. Sarebbe come domandarsi – perdonate l’improprietà del paragone ma è il primo che mi viene in mente – se, essendo decaduta la forza aggregante delle ideologie che avevano caratterizzato i partiti nel secolo scorso, sarebbe bene che essi scomparissero. Ma chi lo sostenesse, non potrebbe non dire chi li sostituirebbe nel determinare la politica nazionale. E, allo stesso modo, chi pensasse che le correnti dovrebbero sparire, non potrebbe non dire in quale altro serio modo potrebbe chiedersi ai magistrati di eleggere la componente togata del CSM, che il prof. Silvestri (non l’ultimo arrivato) ritiene di indirizzo politico, se pur limitato alla materie dell’autogoverno. Non so se si miri – ma il sospetto ce l’ho – a limitare il potere delle correnti per sminuire il ruolo del CSM nell’assetto costituzionale improntato all’equilibrio tra i poteri. Sarei certo però che quello sarebbe l’effetto finale, come sempre accade quando si tende ad eliminare il peso dei corpi intermedi nella determinazione della composizione di un organo costituzionale.
Le correnti, dunque non solo possono esistere (libertà di associazione), ma non si può evitare che esistano ed è bene che ci siano, apparendo un corpo intermedio essenziale. Tutti certamente concordano nel ritenere che occorre incrementarne la funzione lato sensu culturale per recuperarne le nobili ragioni d’essere che il tempo ha corroso. Dire come fare è più complesso e comunque non potrà accadere in tempi brevi. Hic et nunc va proposto un sistema elettorale capace di portare al CSM i migliori sfruttando l’insopprimibile interesse di ogni corrente ad avere successo nelle elezioni: l’interesse è pur sempre, in ogni contesto ed a qualsiasi latitudine, il principale fattore di determinazione delle azioni.
L’ambizione del candidato o il desiderio di avvicinarsi alla spiaggia natia non è eliminabile. La tendenza di un gruppo a nominare ad un ufficio direttivo chi abbraccia lo stesso tipo di impostazione sulla funzione e la posizione della giurisdizione è scontata. Ma deve cedere il passo al rispetto delle regole, e questo dipende dal rinnovato peso che i gruppi sapranno dare alla questione morale, dalla trasparenza dell’attività consiliare e dall’abbassamento del livello di gratitudine che l’eletto nutrirà nei confronti del gruppo designante, che quasi sempre dipende dallo spessore dell’eletto: chi è eletto perché (soprattutto perché o soltanto perché) un gruppo lo ha candidato, avrà maggiori difficoltà a sottrarsi al vincolo instauratosi anche quando si trattasse del delicatissimo ambito di valutazioni discrezionali
Un’idea (nulla più che un’idea) del modo per attenuare i possibili effetti negativi di quel vincolo m’è nata pensando a quanto accaduto nelle elezioni suppletive svoltesi dopo le dimissioni conseguite alle intercettazioni disposte dalla Procura di Perugia. Se Area avesse presentato solo un candidato avrebbe certamente ottenuto un seggio, essendo la somma del numero dei voti singolarmente riportati da ciascun candidato di gran lunga superiore ai voti espressi per il candidato unico di ognuna delle altre correnti. Area non ha invece ottenuto alcun seggio perché l’attuale legge elettorale non contempla un momento proporzionale.
Ne discendono due corollari:
- se un gruppo organizzato vuole ottenere seggi, deve esso stesso (e non gli elettori) compiere delle scelte preventive; se non lo fa, quand’anche non lo faccia per nobili ragioni, soccombe;
- è del tutto irragionevole che un gruppo che dagli elettori ottenga più voti degli altri non abbia rappresentanti o che ne abbia in numero inferiore.
Sono discrasie che esaltano, e non diminuiscono, il potere delle correnti intese come organizzazioni capaci di fare eleggere candidati. Lo esaltano perché quasi tutto dipende dalla designazione, anche di chi, essendo di Trento, è del tutto sconosciuto a Caltanissetta, o viceversa. Con la conseguenza che gli elettori molto spesso non potranno che esprimersi per “fedeltà” e non per stima; e, ancora, che ne risulterà aumentato il livello di gratitudine dell’eletto per il gruppo che lo ha candidato.
Quegli effetti sarebbero fortemente attenuati se, con opportune previsioni per conseguire la parità di genere e con unica votazione ed unica preferenza in tanti collegi quanti sono i distretti di Corte d’appello, venissero eletti, previa ripartizione dei seggi tra liste concorrenti in misura proporzionale ai voti riportati su base nazionale, coloro che avessero riportato il miglior quoziente tra voti espressi e voti ottenuti. L’interesse delle correnti ad ottenere molti voti su base nazionale (che determinerebbe il numero dei seggi assegnati) le indurrebbe a candidare in ogni collegio i magistrati più stimati, attesa anche l’incertezza su quelli destinati ad ottenere il miglior quoziente in ogni distretto, anche se di contenute dimensioni. E si darebbe corpo all’idea che quanto più elevato è il prestigio di un magistrato, tanto minore è la sua “dipendenza” da orientamenti non fondati su ragioni cristalline.
Ma m’è stato affidato il compito di moderare il dibattito e dunque cedo la parola agli autorevolissimi interventori, scusandomi in anticipo se dopo solo 10 minuti dovrò avvertirli del limite di tempo a ciascun assegnato.
*seguiranno i contributi Le correnti un male necessario? di Carlo Guarnieri, I mali del Csm di Giorgio Spangher, I mali del CSM: invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA?
I mali del CSM di Giorgio Spangher*
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il Consiglio Superiore della Magistratura è un luogo dove si esercita una funzione e/o un potere. Come ogni luogo dove si esercita una funzione e/o un potere sottostà alle regole della funzione e/o del potere: chi è chiamato a svolgerle cerca di esercitarle nella “visione” personale o del gruppo di appartenenza cercando di prevalere sull’altro o sugli altri che anch’essi vogliono svolgere personalmente o nel gruppo di appartenenza la loro funzione e/o il potere.
È possibile che singoli o gruppi trovino dei compromessi, dei componimenti, delle mediazioni, ma tendenzialmente l’uno o l’altro, un gruppo o un altro cercherà di prevalere.
Come detto il Consiglio Superiore della Magistratura non si sottrae, forse non può sottrarsi a questa logica delle funzioni e del potere, non costituendo un ostacolo – in termini assoluti – la materia sulla quale la funzione e/o il potere si esercita (l’autorevolezza della Magistratura, la sua indipendenza).
Poiché il potere del singolo, inevitabilmente, è debole nascono i gruppi e nel contesto del Consiglio Superiore, le correnti che, certamente, hanno come substrato un elemento culturale ideologico, legato alla visione ed alla missione della giurisdizione, ma che da questo elemento di fondo, che permane, si strutturano anche come centro di “potere” con cui esercitare la funzione e/o il potere.
Peraltro, l’aggregazione che senza voler assumere connotazioni spregiative, continueremo a chiamare correnti, sono il volano per ulteriori manifestazioni di potere: le elezioni dell’Associazione Nazionale Magistrati, le nomine al direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, gli incarichi direttivi, le nomine agli organismi europei, le varie designazioni del c.d. fuori ruolo, e via a seguire.
Del resto, in caso di nomine a grappolo o a pacchetto, si assiste ad una distribuzione delle stesse secondo la logica della proporzione della rappresentanza consiliare.
Si peccherebbe di onestà intellettuale ove si mancasse di sottolineare che anche le componenti laiche – i membri di nomina parlamentare – si strutturano ai gruppi, come del resto emerge dalla stessa distribuzione degli otto seggi che effettua il Parlamento (cinque alla maggioranza, tre all’opposizione) seppure i loro obiettivi siano diversi, ancorché tesi a favorire le opzioni culturali e politiche della magistratura, ritenute in qualche modo più contigue: il c.d. collateralismo.
Le componenti laiche, se sono coinvolte nelle scelte ideologiche e di distribuzione degli incarichi, restano estranee alla distribuzione delle posizioni di supporto del Consiglio (magistrati, segretari) e molto spesso alle logiche della sezione disciplinare e di quella definibile paradisciplinare.
Per cogliere il senso dell’organizzazione correntizia basta sottolineare come l’operazione di “reclutamento” inizi dalla formazione iniziale, dai gruppi di lavoro ed il proselitismo continui nelle sedi di assegnazione.
Per capire ancora meglio quanto si è detto basterà sottolineare come qualsiasi magistrato che abbia una pratica di un certo rilievo, per sé, davanti il Consiglio Superiore della Magistratura, sarà inevitabilmente portato ad interrogarsi sulla composizione della Commissione competente e sugli eventuali appoggi del suo competitor.
Il senso del proselitismo si alimenta attraverso i dibattiti nel plenum dove la loro prolissità è giustificata dall’esigenza di trasmettere ai magistrati l’impegno profuso dal gruppo di appartenenza (o che si vuole avvicinare) a testimonianza dell’impegno a tutela del candidato. Lo stesso discorso vale per il gruppo che si opponga alla decisione maggioritaria.
Il dato trova ulteriori conferme nella proliferazione, da parte di ogni gruppo, delle mailing-list, con le quali si cerca di spostare gli equilibri del potere a proprio vantaggio.
A conferma della logica dei gruppi, si sottolinea che i voti in dissenso sono rari, in quanto le questioni conflittuali vengono affrontate all’interno delle correnti, spesso con ritardi e paralisi dell’attività consiliare, che riprenderà quando un punto di equilibrio sarà stato raggiunto.
Ancora, posso riportare per esperienza personale, come il Consiglio usi con elasticità i criteri che stanno alla base delle scelte soggettive: la prima pratica che ho affrontato riguardava la nomina di un giudice minorile: doveva prevalere il criterio della specializzazione o quello della rotazione delle esperienze? Prevalse il primo criterio. Ho chiuso l’esperienza consiliare sempre su un caso di nomina di un giudice minorile; è prevalso l’altro criterio. Prevaleva la scelta della maggioranza legata al nome del candidato.
Quanto ai rapporti con la politica, questi si collocano su piani diversi. Il laico cerca la legittimazione da parte dei suoi referenti per il successivo sviluppo di carriera nelle istituzioni.
A volte il magistrato interessato ad una pratica cerca l’interlocuzione mediata con il politico del territorio, ma a volte non ha difficoltà a ricercare la condivisione con il componente laico.
I magistrati cercano e intrattengono interlocuzioni soprattutto in relazione a possibile posizioni istituzionali fuori ruolo.
Fermo restando che ogni consiliatura fa storia, a sé, non potendosi escludere che i laici agiscano in ordine sparso, ovvero come gruppo, superando le differenze e divergenze politiche, in modo più o meno compatto, cioè, scomponibile, le ultime vicende evidenziano, per un verso, l’emergere di figure individuali di magistrati connotate da una forte visibilità mediatica e, per un altro, la frantumazione delle correnti, di gruppi correntizi soggettivamente riconducibili ad una leadership personale.
A parte vanno considerate le frammentazioni interne, spesso prodromiche di scissione, e di protagonismi più o meno isolati e contingenti.
Resta consolidato che stante un corpus di magistrati numericamente non elevato, la capacità di controllo delle appartenenze, anche in sede distrettuale, non presenta particolari difficoltà di controllo, con conseguente scarsa incidenza sui sistemi elettorali che si volessero introdurre.
* Sul Forum si rinvia alla lettura dei precedenti contributi :Introduzione di Alfonso Amatucci al forum I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? e FORUM I MALI DEL CSM E LA LORO SCOMPARSA: L’INVADENZA DELLE CORRENTI O LA LORO SCOMPARSA? Le correnti: un male necessario? di Carlo Guarnieri
Seguirà I mali del CSM: invadenza delle correnti o la loro scomparsa? di Eugenio Albamonte
Un errore procedurale nel labirinto delle questioni di costituzionalità, in tema di titolo esecutivo
di Giorgio Spangher
Un giudice dell’esecuzione deve decidere di una pena relativamente ad un soggetto al quale viene revocata la sospensione condizionale effetto di un patteggiamento applicato quando è stato ritenuto erroneamente maggiorenne e definito con sentenza passata in giudicato.
Ritenendo che l’ordinamento non prevede un adeguato strumento per rimediare all’errore, solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 670 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25 primo comma e 117 primo comma Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 5, § 1, lett. a e 4 della Cedu, nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni.
Con la sentenza n. 2 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato la questione non fondata in relazione a tutti i profili sollevati dal giudice a quo, soprattutto in relazione alla dedotta questione di nullità assoluta per difetto di competenza funzionale, così da far dichiarare nullo il titolo esecutivo, per poi procedere ad un nuovo giudizio innanzi al competente tribunale per i minorenni.
Al di là della corretta prospettazione della tipologia di invalida, è evidente che un accoglimento di questo profilo avrebbe determinato in termini di sistema, come non manca di sottolineare la Corte, “gravi squilibri nei meccanismi della rilevazione delle nullità, così come disegnati dal Codice di procedura penale”.
Del resto, la Corte non manca di sottolineare come il giudice a quo espressamente ritenga, con motivazione più o meno ampia, che alcune ipotesi alternative, pur prospettate nel corso del processo, avesse ritenuto di non sollevarle. Il riferimento è alla possibile operativa della revisione ed all’inquadramento della questione nel novero dell’inesistenza (radicale).
Se in relazione al primo profilo, i giudici costituzionali non mancano di evidenziare che la questione avrebbe dovuto essere oggetto della prospettazione della Corte d’appello, quanto al secondo i giudici costituzionali evidenziano qualche possibile “apertura”, sottolineando la decisa opzione del giudice a quo per la questione di nullità dell’art. 670, comma 1, c.p.p.
A superare i riferiti limiti di rilevabilità, secondo la Corte, non potrebbero essere addotte neppure le nullità relative a diritti fondamentali, essendo queste già ricomprese tra le ipotesi di invalidità previste dalla disciplina codicistica.
In questa stessa prospettiva non potrebbero rilevare neppure le violazioni di garanzie costituzionali come quella, pur sostenuta dal giudice a quo, della lesione del principio del giudice naturale di cui all’art. 25 Cost., pur non mancando numerose decisioni costituzionali che collocano in questo ambito la posizione del giudice minorile.
Inoltre la Corte, pur essendo in questi ultimi tempi emersa una progressiva erosione del giudicato, in relazione al tema delle prove illegali, non manca di sottolineare come le decisioni in materia siano riconducibili ad interventi giurisprudenziali legati a situazioni di sopravvenienza costituzionalmente rilevata, con conseguente esclusione di “interventi a ritroso del giudice dell’esecuzione”.
Complessivamente, quindi, secondo la Corte deve ritenersi che l’irrevocabilità della res iudicata sia un fisiologico argine rispetto alla possibilità di interventi correttivi, una volta che siano intervenute le decisioni dei giudici chiamati anche a verificare su iniziativa delle parti eventuali errori procedurali.
Pur nella piena percezione dei termini della questione – senza evocare quanto previsto dal comma 4 dell’art. 24 Cost. – la Corte costituzionale, nella consapevolezza delle non secondarie ricadute che un’eventuale decisione di accoglimento potrebbe determinare, si muove nel solco dei termini nei quali il giudice a quo ha proposto la questione, secondo la logica delle rime obbligate o baciate, tenendo presenti i limiti che essa ed il diritto vivente hanno già fissato in punto di erosione del giudicato.
Sotto questo profilo, dalla lettura della motivazione sembrerebbe possibile affermare che ove la questione fosse stata prospettata nei termini dell’inesistenza (come sostenuto dalla difesa) l’esito avrebbe potuto essere diverso, ovvero, forse poteva lo stesso giudice di sorveglianza determinarsi in tal senso. È noto, infatti, che l’inesistenza, concepita ai tempi delle nullità relative, sanabili – perché non riconosciute – costituiva (1930) lo strumento per ovviare a gravi patologie processuali e come l’introduzione nel 1955 delle nullità assolute ne avesse ridimensionato la presenza,
Invero, la residualità delle situazioni di inesistenza - vizio di natura giurisprudenziale - non avrebbe messo in discussione l’esigenza per la Corte ed il sistema di preservare l’autorità del giudicato e l’assorbimento da parte della sentenza definitiva soprattutto delle cause di nullità ancorché assolute che, seppur insanabili, si afferma essere “coperte” dal giudicato.
Significativo, in tal senso, il passaggio della motivazione nella quale la Corte sottolinea come il giudice a quo sollecita questa Corte ad intervenire con una pronuncia additiva sul testo dell’art. 670, comma 1, c.p.p., che consenta al giudice dell’esecuzione di dichiarare (non già la “mancanza” o l’“inesistenza”, bensì) la nullità del titolo esecutivo, sulla base di un vizio esso stesso qualificato dal rimettente in termini di “nullità”.
Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale: il pensiero dei Maestri e gli argomenti dell’interprete tra esegesi e sistema
di Paolo Spaziani
La responsabilità contrattuale non solo è l’istituto centrale del diritto delle obbligazioni ma assume una posizione di rilievo nell’intero sistema del diritto privato. L’asperrima questione dell’individuazione del fondamento di questo istituto sembra disorientare la dottrina più recente ed espone la giurisprudenza al rischio di soluzioni che si riconducono a linee evolutive non sempre reciprocamente coerenti. È appena trascorso un secolo dalla pubblicazione del celebre saggio di Giuseppe Osti Sull’impossibilità della prestazione. Da allora, profondi itinerari dogmatici sono stati tracciati dai grandi Maestri della nostra scienza. L’interprete moderno ha l’opportunità (ma anche la responsabilità) di non disperdere questa eredità, cercando in essa, con le proprie forze, ma anche con il patrimonio di idee e di pensiero che si rinviene ripercorrendo le preclare tracce di quegli itinerari, gli argomenti esegetici e sistematici che conducono al sentiero della ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale.
Ai Maestri
Sommario: 1. Il fondamento della responsabilità contrattuale: disorientamenti dottrinali e risposte giurisprudenziali su un problema ancora aperto. - 2. Le pronunce giurisprudenziali che accedono alla tesi della struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale. - 3. Le pronunce giurisprudenziali che, in senso contrario, esprimono l’esigenza di contenere il sacrificio del debitore entro limiti di normalità e ragionevolezza. - 4. La qualificazione giurisprudenziale dell’inadempimento quale fenomeno oggettivo, estraneo al profilo soggettivo della colpa. - 5. Il pensiero dei Maestri. Lo stato della riflessione dottrinale sullo scorcio dell’800 e agli inizi del 900. - 6. Le teorizzazioni oggettive: Giuseppe Osti, Emilio Betti, Luigi Mengoni. - 7. Le teorizzazioni soggettive: Michele Giorgianni, Cesare Massimo Bianca. - 8. La responsabilità per inadempimento come responsabilità fondata sulla colpa. - 9. L’argomento esegetico. - 10. L’argomento sistematico. - 11. Il contenuto dell’obbligazione e la struttura della fattispecie di responsabilità per inadempimento.
1. Il fondamento della responsabilità contrattuale: disorientamenti dottrinali e risposte giurisprudenziali su un problema ancora aperto
Circa tre anni or sono, il 14 dicembre 2018, in un convegno organizzato in ricordo di Giuseppe Osti nel centenario della pubblicazione del celebre saggio sulla Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione[1], Cesare Massimo Bianca tornava ad interrogarsi sulla natura della responsabilità contrattuale e ci invitava a seguirlo alla ricerca del fondamento dell’istituto[2], sul rilievo – così si chiudeva la sua relazione – che «l’identificazione [del contenuto dell’obbligazione] e del fondamento della responsabilità contrattuale è un problema ancora aperto come lo era al tempo del ricordato centenario del saggio dell’Osti»[3].
Che si tratti di un problema ancora aperto, lo dimostra l’attuale stato della giurisprudenza di legittimità, le cui soluzioni, non sempre reciprocamente coerenti, dimostrano una linea evolutiva incerta, in cui si riflettono gli orientamenti (ma anche i disorientamenti) della attuale riflessione dottrinale sull’argomento, la quale, inseguendo il commento dell’ultima sentenza – spesso svolto con metodo demolitivo e non con fiducia di apporto critico costruttivo – sembra avere abbandonato il respiro sistematico che aveva caratterizzato le elaborazioni dei Maestri (da Giuseppe Osti a Cesare Massimo Bianca) in favore di una propensione, squisitamente esegetica, all’analisi frammentaria e casistica.
2. Le pronunce giurisprudenziali che accedono alla tesi della struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale
Dalle pronunce giurisprudenziali, per un verso, emerge l’esigenza di porre un limite al sacrificio del debitore, dal quale deve bensì esigersi l’impiego delle energie e dei mezzi adeguati al soddisfacimento dell’interesse del creditore (art.1174 c.c.) ma non qualsiasi sacrificio personale od economico.
Per altro verso, le stesse pronunce manifestano la tendenza a ribadire la struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale, quale fattispecie che, a differenza dell’illecito aquiliano, non è connotata dalla colpa e – tendenzialmente, anche se non sempre – si esaurisce nel fatto obiettivo dell’inadempimento, quale fatto contenente in sé la lesione dell’interesse creditorio.
Questa tendenza si riscontra nelle pronunce con cui – evidentemente, sotto l’influenza della dottrina che predica l’espulsione dai requisiti della fattispecie sia dell’elemento (obiettivo) della causalità materiale che dell’elemento (subiettivo) della colpa – è stata posta la distinzione tra obbligazioni di dare o facere non professionale e obbligazioni di facere professionale[4].
Secondo queste pronunce, la struttura pluralistica tradizionale della fattispecie di responsabilità contrattuale rimarrebbe concettualmente e funzionalmente integra soltanto nelle obbligazioni di facere professionale mentre verrebbe parzialmente meno nelle obbligazioni di dare e in quelle di facere non professionale.
In queste ultime, infatti, non sarebbe funzionalmente identificabile il danno-evento, quale elemento costitutivo autonomo derivante causalmente dall’inadempimento (causalità materiale), poiché l’evento lesivo, traducendosi nella lesione dell’interesse creditorio cui la prestazione deve corrispondere (art. 1174 c.c.) finirebbe per coincidere con l’inadempimento. Di conseguenza, allegare l’inadempimento significherebbe già allegare il danno-evento che ne è derivato poiché entrambi si risolverebbero, in sostanza, nella mancata corrispondenza della prestazione all’interesse creditorio. Ma poiché l’inadempimento non deve essere provato dal creditore, spettando al debitore la prova dell’adempimento, il danno-evento (la causalità materiale) rimarrebbe fuori dal tema di prova del creditore, il quale sarebbe chiamato a dimostrare soltanto la causalità giuridica, e cioè la sussistenza delle conseguenze pregiudizievoli (danni-conseguenze) cagionate dall’evento lesivo.
La causalità materiale tornerebbe invece ad assumere un’autonomia funzionale (e, dunque, a richiedere una specifica allegazione e una specifica prova) nelle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali, poiché in queste la lesione dell’interesse creditorio al diligente esercizio della professione nell’osservanza delle relative leges artis (lesione nella quale si traduce l’inadempimento) non concreta di per sé il danno-evento, che si integra soltanto con la lesione del (diverso) interesse primario del cliente (interesse alla guarigione, nell’obbligazione del medico; alla vittoria della causa, in quella dell’avvocato) cui l’interesse corrispondente alla prestazione rimasta inesattamente adempiuta era strumentale.
Solo nell’ambito di tali fattispecie di responsabilità, pertanto, il danno-evento, quale lesione dell’interesse finale, costituirebbe un quid pluris rispetto all’inadempimento (lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c.) e sarebbe possibile, dunque, individuare tra i due requisiti costitutivi della fattispecie uno scollamento logico (ed eventualmente anche cronologico) che deve essere saldato dal nesso di causalità materiale.
Alla luce di tali rilievi, si delineano, con riguardo alle due tipologie di obbligazioni, due fattispecie di responsabilità strutturalmente diverse in relazione alla diversa morfologia del rapporto di causalità: a) nella fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di facere professionale, esso rapporto continua a scindersi nei due segmenti della causalità materiale e della causalità giuridica e di entrambi deve fornire la prova il creditore; b) invece, nella fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di dare o di facere non professionale, il rapporto medesimo si esaurisce nel solo nesso di causalità giuridica, poiché non è ravvisabile un danno-evento autonomamente configurabile rispetto al fatto di inadempimento, riducendosi conseguenzialmente l’area del tema di prova del creditore.
Il problema del nesso causale cessa, dunque, di costituire oggetto di una questione attinente soltanto alla ripartizione dell’onere della prova tra le due parti del rapporto obbligatorio e diviene una discriminante strutturale della fattispecie di responsabilità contrattuale, la cui morfologia muta al mutare della tipologia dell’obbligazione assunta.
3. Le pronunce giurisprudenziali che, in senso contrario, esprimono l’esigenza di contenere il sacrificio del debitore entro limiti di normalità e ragionevolezza
L’esigenza di mantenere entro limiti di normalità e ragionevolezza il sacrificio del debitore emerge, invece, dall’evoluzione degli orientamenti della giurisprudenza della Corte di cassazione (evoluzione in corso da circa un ventennio e apparentemente lontana dall’avviarsi ad approdare a soluzioni definitive) in ordine alla regola di ripartizione dell’onere della prova degli elementi costitutivi della responsabilità per inadempimento[5].
La stessa esigenza, inoltre, è alla base del ridisegnato regime della responsabilità per il fatto degli ausiliari (art. 1228 c.c.), operato dalla giurisprudenza della Terza Sezione civile della Suprema Corte sempre in relazione a fattispecie di responsabilità medica soggette alla disciplina anteriore a quella introdotta dalla legge n. 24 del 2017, ma con implicazioni di carattere generale.
La Cassazione, precisamente, nell’affrontare la questione della ripartizione interna del carico dell’obbligazione risarcitoria verso il paziente, nell’ipotesi di responsabilità solidale del medico autore del fatto dannoso (tenuto ai sensi dell’art. 1218 c.c.) e della struttura in cui il primo presta la sua opera (obbligata ai sensi dell’art. 1228 c.c.), è giunta a configurare la responsabilità contrattuale fondata sul rischio connesso all’appropriazione dell’attività altrui per i propri fini su un piano nettamente diverso rispetto alla responsabilità extracontrattuale fondata sull’omologo rischio.
Diversamente dalla responsabilità ex art. 2049 c.c. (che integra pacificamente una responsabilità oggettiva per fatto altrui), quella ex art. 1228 c.c. è stata infatti espressamente – ma innovativamente e, per certi versi, sorprendentemente – qualificata come responsabilità soggettiva per fatto proprio, sul rilievo che, a differenza del fatto del preposto, quello dell’ausiliario, espressamente qualificato come doloso o colposo, rileverebbe come fatto del debitore, in quanto intraneo alla sua sfera giuridica[6].
La finalità perseguita (escludere l’integralità della rivalsa del condebitore forte e applicare, salva la prova contraria, il principio di pari responsabilità di cui agli artt. 1298, secondo comma, e 2055, terzo comma, c.c.[7]) giustifica forse, sul piano economico, la ricostruzione operata dalla Corte di cassazione, ma essa resta comunque difficilmente spiegabile sul piano dogmatico, non potendo desumersi dal carattere doloso o colposo del fatto dell’ausiliario, la natura colposa della responsabilità del debitore, il quale risponde sulla base di un presupposto oggettivo (il rischio connesso con l’appropriazione dell’altrui attività per i propri fini) e non già in ragione della propria negligenza o imprudenza nella scelta del (o nella vigilanza sul) soggetto incaricato dell’esecuzione della prestazione.
La diretta imputazione del fatto dell’ausiliario al debitore, poi, oltre ad evocare la superata figura della responsabilità organica (la quale, proiettata fuori dalla peculiare fattispecie della responsabilità sanitaria, nella generalità dei rapporti obbligatosi verrebbe inconcepibilmente a trovare operatività anche nei casi in cui debitore ed ausiliario sono due persone fisiche)[8], conduce ad un corto circuito concettuale, poiché finisce per individuare il limite della responsabilità debitoria in un impedimento (l’impossibilità oggettiva della prestazione) incompatibile con il riconoscimento della sua natura colposa.
Per comprendere appieno tale contraddittoria implicazione dell’orientamento giurisprudenziale in esame, può essere opportuno ricordare che la regola generale della responsabilità per il fatto degli ausiliari non era contemplata dall’ordinamento privatistico ante c.c. 1942, il quale prevedeva siffatta responsabilità solo in tema di appalto (art. 1644 c.c. 1865) e di trasporto (art. 398 c. comm. 1882); peraltro, la prevalente dottrina soleva ammettere la sussistenza di un generale principio della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario (analogo a quello successivamente codificato nell’art. 1228 c.c. 1942) sulla base della norma che rendeva il debitore responsabile per l’inadempimento che non fosse derivato da una causa estranea a lui non imputabile (art. 1225 c.c. 1865) e della conseguente configurazione del fatto dell’ausiliario come fatto non estraneo alla sfera giuridica del debitore[9].
Il fondamento della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario veniva dunque individuato nella medesima norma (l’art.1225 c.c. 1865) in cui si ravvisava il limite stesso della responsabilità per inadempimento; il debitore, in sostanza, rispondeva del fatto dell’ausiliario perché questo fatto, pur traducendosi in un impedimento all’esatta esecuzione della prestazione, non integrava l’impossibilità oggettiva della stessa, cioè l’impossibilità derivante da una causa estranea al debitore medesimo e (quindi) a lui non imputabile.
La Corte di cassazione, nell’affermare che il fatto doloso o colposo dell’ausiliario rileva come fatto del debitore, sembra essere tornata ad una concezione del fondamento della responsabilità per il fatto dell’ausiliario molto vicina a quella maturata nel vigore del codice del 1865. Ma la circostanza che il debitore risponde del fatto doloso o colposo dell’ausiliario in quanto impedimento non estraneo alla sua sfera giuridica (e quindi non integrante l’impossibilità oggettiva della prestazione) non appare compatibile con la qualificazione della medesima responsabilità in termini di responsabilità soggettiva (cioè fondata sulla colpa), in relazione alla quale il limite dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile (e quindi liberatoria) dovrebbe essere individuato, invece, in qualsiasi impedimento – anche di carattere soggettivo – non prevedibile né superabile con la diligenza ordinariamente richiesta in ordine all’obbligazione assunta.
4. La qualificazione giurisprudenziale dell’inadempimento quale fenomeno oggettivo, estraneo al profilo soggettivo della colpa
L’adesione alla tesi della struttura oggettiva e monistica della fattispecie di responsabilità contrattuale, quale fattispecie esaurentesi nell’inadempimento (vicenda contenente in sé la lesione dell’interesse creditorio), si è tradotta, in una recentissima pronuncia della Terza Sezione civile, nell’affermazione del principio di diritto secondo il quale «nella responsabilità contrattuale, a differenza di quella aquiliana, la colpa non è elemento costitutivo della fattispecie, poiché non integra un criterio di accertamento dell’inadempimento – che, in quanto fenomeno oggettivo di mancata attuazione della regola contrattuale, resta estraneo al profilo soggettivo della colpa – ma piuttosto dell’imputabilità che ha impedito l’adempimento, sicché essa, non rilevando in sede di istituzione della responsabilità ma sul versante dell’esonero da essa, costituisce tema di prova del debitore che opponga il fatto estintivo dell’obbligazione diverso dall’adempimento»[10].
La colpa del debitore – soggiunge la pronuncia in esame – risiede, pertanto, non nell’inadempimento ma «nel non aver impedito che una causa, prevedibile, ed evitabile, rendesse impossibile la prestazione». Essa «non è fatto costitutivo della responsabilità, ma attiene alla conservazione della possibilità di adempiere».
In questa decisione, la prima delle due contrastanti tendenze giurisprudenziali, più sopra illustrate, raggiunge il suo estremo, poiché la Suprema Corte mostra esplicitamente di voler tornare alla teoria di Giuseppe Osti.
In questa teoria, infatti, assume posizione centrale la distinzione (che la pronuncia in esame – attraverso la chiara penna del suo valoroso estensore – rievoca e condivide) tra due distinti obblighi del debitore: quello di eseguire la prestazione (dalla cui violazione deriva la responsabilità per inadempimento vera e propria, quale responsabilità di natura oggettiva, prescindente dalla colpa); e quello di non renderla impossibile (dalla cui violazione deriva una responsabilità – non per inadempimento ma – per aver causato l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta, la quale presuppone bensì una colpa, ma una colpa estranea al contenuto della specifica obbligazione, perché consistente nella «inosservanza di un particolare dovere di diligenza collegato ad ogni rapporto obbligatorio»[11]).
La recentissima decisione appena ricordata si aggiunge, dunque, alla rilevante serie di pronunce che, pur vantando chiarezza, precisione e talora perfino raffinatezza negli argomenti e nelle soluzioni giuridiche che sorreggono le singole decisioni, dimostrano tuttavia che vi è ancora difformità di orientamenti in ordine alla questione della natura della responsabilità contrattuale e della struttura della relativa fattispecie.
Dinanzi a questo scenario, non sembra fuori luogo, allora, riaccostarsi, con predisposizione di discepoli, all’eredità scientifica lasciataci dagli scritti di alcuni grandi Maestri, per trarre dal loro insegnamento indicazioni utili a proseguire nel cammino della ricerca del fondamento di un istituto che assume una posizione di rilievo non solo nello specifico ambito del diritto delle obbligazioni, ma verosimilmente nell’intero sistema del diritto privato.
5. Il pensiero dei Maestri. Lo stato della riflessione dottrinale sullo scorcio dell’800 e agli inizi del 900
Nel saggio pubblicato nel 1918, Giuseppe Osti espose la sua concezione che attribuiva alla responsabilità per inadempimento natura di responsabilità oggettiva, quale responsabilità che prescinde dalla colpa, da cui il debitore viene liberato solo se si verifica un impedimento all’esecuzione della prestazione che assume i caratteri dell’impossibilità oggettiva e assoluta.
Questa concezione, che avrebbe avuto una influenza decisiva sulla formulazione della regola di responsabilità contrattuale nel nuovo codice civile del 1942, era però rivolta non solo al futuro, ma anche al passato, poiché intendeva sottoporre a revisione critica (di qui il titolo del saggio) le dottrine, di carattere soggettivo, che erano fiorite sullo scorcio dell’800 e agli inizi del 900.
Tali dottrine avevano avuto la propria ragione storica nei tumultuosi avvenimenti sociali e politici della fine del diciannovesimo secolo e avevano trovato humus favorevole sia nella scuola tedesca che in quella francese.
I codici liberali avevano recepito l’idea del Pothier, secondo cui il debitore è liberato soltanto dall’impossibilità assoluta della prestazione, la quale può materialmente verificarsi unicamente nelle obbligazioni di dare cose determinate e nelle obbligazioni di fare[12].
Questa idea – che nei rapporti commerciali aventi ad oggetto cose generiche, poneva il rischio della perdita della merce, per qualsiasi causa, in capo al debitore – presupponeva che nel sistema capitalistico l’ordinato svolgimento dei traffici potesse contare sia sulla pace sociale che sull’ordine internazionale.
L’idea entrò in crisi quando sia l’una che l’altro ricevettero turbamento a causa, rispettivamente, dei movimenti operai e della guerra: tali situazioni proiettavano il debitore di cose generiche in una condizione di particolare pericolo di pregiudizio, in quanto egli era tenuto non solo ad affrontare i rischi rientranti nella normale alea contrattuale, ma anche i rischi eccezionali, derivanti da cause indipendenti dalla sua sfera giuridica.
Il tentativo di individuare impedimenti, che pur non integrando ipotesi di impossibilità assoluta della prestazione, potessero tuttavia avere efficacia esimente per il debitore, portò a valorizzare l’aspetto soggettivo della responsabilità, dandosi così rilevanza alla diligenza nell’adempimento[13].
Nella dottrina francese, questa tendenza scientifica trovò la sua più rilevante attuazione nella formulazione, ad opera del Demogue[14], della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.
Questa distinzione – che era stata precorsa nel saggio dell’Osti e che riprendeva, mutandone la denominazione, la distinzione in esso contenuta tra obbligazioni di diligenza e obbligazioni di risultato – non era fondata (come lo sarebbe stata nelle successive teorizzazioni) sulla diversità del regime di responsabilità (soggettiva per le prime e oggettiva per le seconde), ma esclusivamente sulla diversità del contenuto della prestazione, da cui derivava una maggiore o minore difficoltà nell’assoluzione dell’onere probatorio spettante al creditore.
L’idea di fondo, infatti, che denotava una netta presa di distanza dal pensiero del Pothier, era quella che la responsabilità per inadempimento fosse, in generale, fondata sulla colpa del debitore e che di questa colpa, intesa come elemento costitutivo della fattispecie, dovesse sempre dare la prova il creditore, nel momento in cui agiva per il risarcimento del danno.
La diversità, quindi, stava solo nel diverso grado di difficoltà nell’assolvere all’onere probatorio, giacché, mentre nelle obbligazioni di risultato al creditore era sufficiente dimostrare il mancato raggiungimento di esso (nel che era implicita la prova della colpa), invece nelle obbligazioni di mezzi egli era tenuto a provare in positivo la violazione della regola della diligenza nell’adempimento[15].
La tendenza alla soggettivizzazione della responsabilità contrattuale si manifestò anche nella dottrina tedesca.
Il tradizionale insegnamento secondo cui l’idea prospettata dal Savigny individuava l’impedimento liberatorio del debitore nell’impossibilità obiettiva della prestazione[16] trae fondamento dal rilievo che il Maestro tedesco si rifaceva all’autorità dei precedenti romanistici, ed in particolare al noto passo di Venuleio, ove, nell’attribuire validità giuridica ed efficacia vincolante alla promessa assunta in mancanza della disponibilità di denaro, si riconosceva portata esimente agli impedimenti naturali, ma non alla mera difficoltà personale di eseguire la promessa[17].
Va tuttavia evidenziato che si deve proprio alla dottrina tedesca dello scorcio dell’800, l’inserimento della diligenza nella struttura del rapporto obbligatorio, sia pure non ancora nel senso di criterio oggettivo di determinazione della prestazione[18], ma piuttosto nel senso di modalità conformativa soggettiva del dovere del debitore. Nella teorizzazione dell’Hartmann, ad es., l’utilizzazione, in sede di adempimento, delle energie e dei mezzi richiesti dalla buona fede, è sufficiente perché si possa ritenere adempiuto il dovere debitorio, a prescindere dalla concreta realizzazione dello scopo dell’obbligazione e (quindi) dell’interesse creditorio[19].
Nella dottrina italiana del tempo la concezione soggettiva della responsabilità contrattuale fu recepita nell’elaborazione di Nicola Coviello, il quale intese il riferimento al “caso fortuito”, contenuto nell’art. 1226 c.c. 1865, in senso soggettivo, quale impedimento non superabile con la dovuta diligenza (casus= non culpa)[20].
La congerie culturale, in cui vide la luce il saggio dell’Osti, vedeva dunque il sopravvento dell’idea che attribuiva rilevanza al giudizio di colpa, la quale aveva progressivamente soppiantato la rigida concezione oggettiva di memoria pothieriana.
Alla revisione critica di questa idea fu indirizzato lo sforzo dogmatico del Maestro bolognese.
6. Le teorizzazioni oggettive: Giuseppe Osti, Emilio Betti, Luigi Mengoni
La teoria dell’Osti era fondata sull’esegesi di due norme del codice civile del 1865, l’art. 1225 e l’art. 1226: il primo onerava il debitore che volesse liberarsi dalla sua responsabilità della prova che l’inadempimento era stato determinato da una «causa estranea a lui non imputabile»; il secondo attribuiva efficacia esimente alla sopravvenienza di «una forza maggiore o di un caso fortuito».
In base a queste due norme, l’Osti individuò il limite della responsabilità debitoria nella prova dell’impossibilità oggettiva e assoluta.
L’impossibilità oggettiva è l’impedimento che non dipende da cause inerenti alla sfera della persona e dell’economia del debitore ma da cause estranee alla stessa e, quindi, a lui non imputabili.
L’impossibilità assoluta è l’impedimento invincibile e insuperabile (non da parte del solo debitore ma da parte di chiunque) con qualsiasi sforzo umano e con qualsiasi mezzo economico.
Finché questi due limiti non si integrino – finché, cioè, la prestazione non divenga oggettivamente ed assolutamente impossibile – il debitore è tenuto ad eseguirla, non potendo invocare, in senso liberatorio, le sopravvenienze che abbiano reso più difficile l’adempimento, quand’anche esso richieda mezzi economici sproporzionati rispetto a quelli contemplati dal vincolo contrattuale originariamente assunto.
Il fondamento di questa concezione risiede nel rilievo che il debitore non può pretendere di trasferire sul creditore i rischi della propria economia individuale, sicché, per quanto oneroso possa essere divenuto l’impegno assunto in conseguenza di eventi sopravvenuti al sorgere dell’obbligazione, esso deve essere assolto.
Efficacia esimente possono invece avere gli impedimenti che esulano dalla sfera individuale del debitore purché assumano carattere assoluto, cioè siano invincibili e insuperabili da parte di qualunque persona. In tal senso alla nozione di caso fortuito si attribuisce una connotazione oggettiva del tutto diversa da quella assunta nella teorizzazione soggettiva del Coviello[21].
L’individuazione di questo fondamento permise all’Osti di escludere completamente la rilevanza della colpa dalla fattispecie di responsabilità per inadempimento.
Nella teorizzazione del Maestro bolognese, peraltro, la colpa torna nuovamente in giuoco allorché dalla responsabilità per inadempimento vera e propria si passa alla responsabilità per aver causato (o per non avere impedito) la sopravvenuta impossibilità della prestazione[22].
Quando il debitore provoca l’impossibilità assoluta della prestazione o non evita una causa prevedibile ed evitabile che determina tale impossibilità, risponde non per inadempimento (giacché non vi può essere responsabilità per l’inadempimento di una obbligazione estinta) ma per aver provocato (commissivamente od omissivamente) l’estinzione dell’obbligazione. Titolo di responsabilità, qui, è la colpa, intesa come violazione del dovere generale di diligenza collegato ad ogni rapporto obbligatorio, dunque estraneo al contenuto specifico dell’obbligazione estinta.
Questa specificazione della teorica dell’Osti è stata ritenuta di difficile comprensione ed è stata criticata già dalla dottrina contemporanea[23].
Essa, peraltro, ad avviso di chi scrive, ha una notevole rilevanza sistematica, come si vedrà più avanti.
La caratterizzazione dell’impedimento liberatorio come assoluto, nel senso sopra precisato, consente di distinguere la formulazione dell’Osti da quelle degli altri Maestri che hanno aderito alla stessa concezione della responsabilità contrattuale come responsabilità prescindente dalla colpa.
Queste ulteriori formulazioni, infatti, pur inserendosi nel genus delle teorie oggettive della responsabilità per inadempimento, si pongono nella prospettiva di temperarne il rigore.
Esse introducono il concetto di impossibilità (pur sempre oggettiva, ma) relativa.
Nella formulazione di Emilio Betti, l’impedimento liberatorio va individuato in relazione al tipo di obbligazione assunta.
Fermo restando che non rilevano gli impedimenti attinenti alla persona o all’economia del debitore (non potendosi attribuire efficacia liberatoria all’impossibilità soggettiva) e fermo restando che nessun impedimento rilevante può configurarsi nelle obbligazioni generiche (ove l’esecuzione della prestazione resta sempre possibile), il debitore è responsabile se l’impedimento, pur avendo reso più oneroso il sacrificio richiestogli, può comunque essere superato attraverso uno sforzo che può ritenersi ricompreso nell’impegno di cooperazione dovuto in base al tipo di vincolo obbligatorio assunto. Reciprocamente, egli è liberato se, per essere superato, l’impedimento richiede uno sforzo superiore a quello tipicamente dovuto in relazione a quella data specie di obbligazioni.
Per il Betti, l’impossibilità liberatoria andrebbe dunque individuata, non già nell’impedimento non superabile da alcuno con qualunque sforzo umano ed economico (impossibilità assoluta), ma nell’impedimento non superabile con lo sforzo richiesto dal tipo di obbligazione assunta (impossibilità relativa)[24].
Nella formulazione di Luigi Mengoni, l’impedimento liberatorio va individuato in relazione alla buona fede.
Il debitore è liberato se l’adempimento richiede mezzi che, secondo una valutazione di buona fede, egli non è tenuto ad impiegare.
Anche in questa teorizzazione l’impossibilità liberatoria non cessa di essere oggettiva (in quanto non si attribuisce rilievo agli impedimenti individuali) ma può qualificarsi relativa, in quanto l’efficacia esimente dell’impedimento non è subordinata alla sua assoluta insuperabilità con qualsiasi sforzo, ma alla non esigibilità, secondo buona fede, del sacrificio necessario per superarlo[25].
Sia la teorizzazione del Betti che quella del Mengoni furono oggetto di critiche da parte dell’Osti.
Questi, infatti, in un saggio pubblicato 36 anni dopo quello del 1918, divenuto altrettanto celebre, ribadì vigorosamente la concezione della responsabilità debitoria sino al limite dell’impossibilità oggettiva ed assoluta.
Sull’assunto che il nuovo codice civile, nell’art. 1218, aveva sicuramente recepito quella concezione, l’Osti intese denunciare le «deviazioni dottrinali» in cui erano incorsi numerosi autori che, pur a fronte del mutato testo legislativo, avevano nondimeno continuato ad attribuire rilevanza alla colpa del debitore inadempiente[26].
L’Osti, però, prese posizione anche sulla tesi del Betti (cui, anzi, prestò «particolare attenzione critica»[27]), e, sia pure in modo marginale, su quella del Mengoni, illustrata nel recentissimo Studio critico sulle obbligazioni di mezzi e di risultato, sebbene queste tesi gravitassero all’interno della concezione oggettiva della responsabilità.
Individuando l’impedimento liberatorio in quello non superabile con l’impegno di cooperazione esigibile dal debitore in relazione al tipo di obbligazione assunta, il Betti avrebbe confuso la responsabilità per inadempimento con quella per impossibilità sopravvenuta imputabile al debitore, fondata sulla colpa.
Analogamente il Mengoni, introducendo il riferimento allo sforzo esigibile secondo buona fede, avrebbe confuso l’impossibilità della prestazione, quale causa di esonero della responsabilità del debitore, con la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, che riguarda, non già l’obbligazione in sé, ma la sua fonte contrattuale.
Secondo il Maestro bolognese, infatti, quando in ragione di eventi sopravvenuti al sorgere dell’obbligazione, la prestazione dovesse subire un aggravio economico talmente eccessivo da rendere inesigibile lo sforzo del debitore, il rimedio a disposizione di quest’ultimo, ove ne ricorressero tutte le condizioni, sarebbe quello della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, mentre egli non potrebbe invocare l’impossibilità liberatoria della prestazione, che rimarrebbe sempre possibile, sia pure a costo dell’impiego di mezzi anomali e di un sacrificio economico sproporzionato.
La critica rivolta dall’Osti al Mengoni, in ultima analisi, riguarda la surrettizia introduzione di cause estintive dell’obbligazione di fonte contrattuale diverse dalla impossibilità della prestazione, le quali, però, operano sull’obbligazione solo indirettamente, in quanto incidono, anzitutto, sul sinallagma contrattuale (e sempre che se ne verifichino tutte le condizioni legislativamente previste), sicché esse vanno tenute distinte dall’impossibilità della prestazione quale causa di estinzione del rapporto obbligatorio in sé considerato, a prescindere dalla sua fonte[28].
Questa critica, peraltro, trova un limite concettuale nella circostanza che essa tende a dimostrare un risultato (il carattere necessariamente assoluto dell’impossibilità liberatoria), che coincide con il presupposto da cui prende le mosse; la presunta confusione, rimproverata al Mengoni, tra impedimenti che incidono sulla possibilità della prestazione e vicende che incidono sul sinallagma contrattuale, infatti, può ritenersi effettivamente esistente soltanto se la necessità del carattere assoluto dell’impossibilità liberatoria si accetta come punto di partenza del ragionamento.
Se, invece, l’impossibilità si individua già nell’impedimento che, per essere superato, richiede l’impiego di mezzi che esulano dallo sforzo dovuto dal debitore, il verificarsi di sopravvenienze comportanti un simile aggravio non dovrebbe inquadrarsi nella categoria della eccessiva onerosità sopravvenuta, ma nella categoria dell’impossibilità[29].
7. Le teorizzazioni soggettive: Michele Giorgianni, Cesare Massimo Bianca
Si suole ripetere che nel dettare la nuova disciplina dell’inadempimento il codice civile del 1942 avrebbe integralmente recepito la concezione dell’Osti, sancendo il principio della responsabilità debitoria sino al limite dell’impossibilità oggettiva ed assoluta[30].
A questo assunto credette in primo luogo lo stesso Osti, il quale, sul presupposto che nel nuovo art. 1218 c.c. fossero state recepite le sue idee, denunziò, con il saggio del 1954, le “deviazioni dottrinali” degli studiosi che, nonostante tutto, continuavano a dare rilevanza alla colpa del debitore.
Le vigorose critiche del maestro bolognese non risparmiarono autori che costituivano il gotha della civilistica italiana, come il Barassi, il Candian, il Messineo, il Torrente, il Trabucchi. Come si è visto, inoltre, ricevettero critiche anche coloro – come il Betti e il Mengoni – che, pur aderendo alla concezione oggettiva, avevano tentato di mitigarne il rigore.
Paradossalmente, invece, non fu sottoposta a critica la tesi che un giovane studioso avrebbe esposto qualche anno più tardi, la quale, più di altre, si sarebbe mostrata idonea a fornire un’interpretazione alternativa della nuova disciplina codicistica e a minacciare scientificamente il fondamento dell’idea dell’Osti.
Lo studioso era Michele Giorgianni e la sua tesi che, pur essendo stata elaborata sin dalla seconda metà degli anni cinquanta, sarebbe stata compiutamente esposta nel classico volume sull’inadempimento, uscito nel 1975, non poteva essere presa in considerazione dall’Osti nel saggio del 1954.
Neppure successivamente, tuttavia, il Maestro bolognese si occupò ex professo della teoria del Giorgianni, limitandosi a semplici segni di dissenso.
Le ragioni di questo comportamento ci sono state svelate da un altro grande Maestro, che del Giorgianni era stato discepolo, Cesare Massimo Bianca.
«Le ragioni del dissenso – ci dice il Bianca – erano profonde in quanto la concezione del Giorgianni si poneva in netta antitesi rispetto alla concezione della responsabilità oggettiva, ma forse la grande stima che l’Osti aveva per il Giorgianni lo indusse a risparmiargli le pesanti critiche rivolte ad altri autori»[31].
Nella riflessione del Giorgianni, l’art.1218 pone bensì la regola della responsabilità debitoria sino al limite dell’impossibilità «assoluta ed obiettiva», ma questa regola non costituisce la regola generale di disciplina dell’inadempimento. Essa si applica, invece, soltanto a quel pur «vasto territorio» di rapporti in cui l’inadempimento si manifesta nella forma dell’impossibilità sopravvenuta, costituito dalle obbligazioni «aventi per oggetto la consegna di una cosa certa e determinata», nonché dall’obbligazione di custodire la cosa depositata. La prestazione che forma oggetto di queste obbligazioni, infatti, consiste principalmente nell’evitare il perimento della cosa che deve essere consegnata o restituita, e cioè proprio nell’impedire il verificarsi dell’impossibilità oggettiva e assoluta.
In tutti gli altri rapporti obbligatori, in cui l’inadempimento si manifesta «attraverso un’azione del debitore, ovvero attraverso una attività non idonea a soddisfare integralmente l’interesse del creditore», la responsabilità del debitore deve essere determinata in applicazione del criterio della colpa, di cui all’art. 1176 c.c., in quanto «in tali rapporti la regolamentazione dell’adempimento viene data … attraverso l’indicazione dello sforzo che il debitore è tenuto a compiere per soddisfare l’interesse del creditore»[32].
A Cesare Massimo Bianca si deve la riaffermazione della regola della colpa come regola generale di determinazione della responsabilità per inadempimento.
Secondo il caro Maestro, l’assunto secondo cui l’art. 1218 avrebbe recepito la concezione oggettiva, sarebbe infondato, giacché, al di là dell’intenzione subiettiva del legislatore, nella sua formulazione positiva la norma si limiterebbe ad indicare come esimente di responsabilità l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, senza ulteriormente precisare se tale impossibilità debba rivestire i caratteri dell’assolutezza e dell’oggettività (come vorrebbe la tesi dell’Osti) o se possa già ravvisarsi in qualsiasi impedimento non prevedibile né superabile con la diligenza richiesta dalla legge e dalla natura del rapporto (come già aveva anticipato, sullo scorcio delll’800, il Coviello)[33].
Il dubbio sul significato del riferimento normativo all’impossibilità sopravvenuta va sciolto – continua il Bianca – individuando il contenuto assunto dalla norma nella sua concreta operatività, e cioè cogliendo la regola di diritto effettivo che presiede al giudizio di responsabilità contrattuale, di cui sono indice le concrete applicazioni giurisprudenziali.
L’analisi giurisprudenziale, che il caro Maestro conduce in modo sistematico sugli orientamenti di legittimità (con particolare riferimento ai tipi di rapporti obbligatori in relazione ai quali con maggiore vigore è stata affermata l’operatività del principio di responsabilità oggettiva, come le obbligazioni generiche, le obbligazioni pecuniarie e le obbligazioni di risultato[34]) indurrebbe a ritenere che, nel diritto effettivo, l’impossibilità liberatoria si identifica con «l’impedimento non prevedibile né superabile con la dovuta diligenza».
Tenendo conto del significato in cui l’art.1218 è stato recepito nella concreta realtà dell’ordinamento e della portata che esso ha effettivamente assunto nelle decisioni dei giudici, dovrebbe, dunque, addivenirsi all’enunciazione di un principio unitario, valevole per ogni tipo di obbligazione: il principio per cui il debitore risponde perché in colpa.
8. La responsabilità per inadempimento come responsabilità fondata sulla colpa
Il principio per cui il debitore risponde perché in colpa costituisce il fondamento dell’istituto generale della responsabilità contrattuale nel nostro ordinamento.
Il rilievo posto a fondamento della tesi opposta – formulato nel senso che «ogni soggetto sopporta i rischi della propria economia individuale»[35], di guisa che il debitore non potrebbe pretendere di trasferire i suoi rischi a carico di un terzo – è dogmaticamente inesatto, poiché trasferisce sul piano dell’obbligazione il principio del rischio del proprietario (casum sentit dominus), estendendo una regola che disciplina i rapporti giuridici fondati su situazioni soggettive finali ai rapporti giuridici fondati su situazioni soggettive strumentali, come il diritto di credito.
Nella situazione finale che contraddistingue la proprietà, al carattere assoluto del diritto del proprietario corrisponde, in capo agli altri soggetti dell’ordinamento (erga omnes) una situazione soggettiva passiva indifferenziata di astensione. Si comprende, dunque, che l’eventuale distruzione del bene che forma oggetto del diritto comporta un pregiudizio che ricade sul proprietario (determinando l’estinzione o la modificazione della situazione soggettiva attiva di cui egli è titolare) e il rischio di tale evento non può essere trasferito sui terzi.
Invece, nella situazione strumentale che contraddistingue il credito quale diritto relativo, grava sul debitore una situazione soggettiva passiva di obbligazione che gli impone un dovere di cooperazione, in funzione del soddisfacimento dell’interesse del creditore.
Il debitore, quindi, non può pretendere di trasferire sul creditore (come su qualsiasi altro terzo) i rischi di eventi che estinguano o modifichino le proprie situazioni soggettive attive (ad es. la distruzione della sua azienda) ma quando tali eventi incidano sulla possibilità di eseguire la prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio, oltre a verificarsi un pregiudizio che ricade nella sfera giuridica del debitore, si verifica un ulteriore pregiudizio che ricade direttamente nella sfera giuridica del creditore, perché modifica la sua situazione soggettiva attiva di credito, compromettendo o rendendo più difficile il conseguimento della prestazione. La questione se debba essere sopportato dal debitore un rischio di pregiudizio ulteriore, ricadente sulla sfera giuridica del creditore, non può essere risolta, allora, applicando il principio del rischio del proprietario, poiché l’applicazione di tale principio condurrebbe alla soluzione opposta rispetto a quella formulata dai fautori della tesi della responsabilità oggettiva: proprio perché il rischio deve rimanere sul titolare del diritto e non può essere trasferito a terzi, esso dovrebbe essere sopportato dal creditore.
Non si tratta, quindi, di stabilire se il debitore può trasferire ad altri i rischi della sua economia ma di stabilire, tutt’al contrario, in quali limiti il creditore può pretendere che sia sopportato dal debitore un pregiudizio che riguarda il proprio diritto.
Tale questione deve essere risolta, non in applicazione del principio del rischio del proprietario, ma in applicazione della disciplina dell’obbligazione[36]: poiché il soddisfacimento dell’interesse del creditore viene realizzato grazie all’adempimento del dovere di cooperazione del debitore, occorre, infatti, stabilire i limiti di tale dovere, e cioè chiarire quale sia il sacrificio economico e personale che l’adempimento dell’obbligazione richieda a seguito di impedimenti sopravvenuti[37].
9. L’argomento esegetico
Escluso il fuorviante riferimento al principio del rischio del proprietario, l’esame della disciplina dell’obbligazione conduce ad individuare il fondamento della responsabilità contrattuale nel principio della colpa.
In tal senso, militano anzitutto ragioni desumibili dalla diretta esegesi della norma deputata a tale disciplina. Conformemente a quanto rilevato da Cesare Massimo Bianca, va infatti ribadito che l’assunto secondo il quale l’art. 1218 c.c. abbia recepito la concezione oggettiva, non trova riscontro nella formulazione della norma, la quale onera il debitore di fornire la prova liberatoria dell’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, ma non qualifica affatto tale impossibilità come oggettiva ed assoluta.
Si può dire, anzi, che lungi dal recepire la tesi dell’Osti, la formulazione della regola, si presenta, sul piano squisitamente esegetico, di più difficile decifrazione rispetto ai suoi precedenti normativi, dal momento che non è stato ripetuto il riferimento alla causa estranea alla sfera del debitore contenuto nell’art. 1225 c.c. 1865, in base al quale si era potuta agevolmente escludere l’efficacia esimente degli impedimenti cc.dd. individuali.
Se, dunque, un indice esegetico volesse trarsi dalla differenza tra l’attuale e la vecchia formulazione delle regole codicistiche in tema di responsabilità contrattuale, esso dovrebbe essere piuttosto inteso in senso inverso al recepimento della tesi dell’Osti: il mancato riferimento al carattere necessariamente estraneo dell’impedimento liberatorio potrebbe, infatti, aver dato ingresso, tra le cause di esonero della responsabilità, anche alla impossibilità c.d. soggettiva.
Del resto, il riferimento al limite dell’assolutezza e dell’oggettività si mostrava inappagante proprio nel momento in cui, nella sua più coerente applicazione, giungeva ad escludere l’efficacia esimente di impedimenti superabili con una attività illecita o con il sacrificio dell’integrità personale del debitore, in quanto impedimenti non estranei alla sua sfera, e dunque rientranti, a rigore, nell’ambito dell’impossibilità soggettiva.
Di tale eccessiva implicazione lo stesso Osti si affrettò a prevenire il rischio, avvertendo che il carattere dell’assolutezza va riferito all’impossibilità che non può essere superata da nessuno sforzo umano lecito, e che nelle obbligazioni di fare infungibile la sopravvenuta inettitudine della persona del debitore (per malattia fisica o mentale) determina un impedimento di carattere oggettivo (e dunque liberatorio), perché collegato al contenuto intrinseco della prestazione[38].
Nella concezione oggettiva, un altro limite dell’affermazione circa la presunta irrilevanza della colpa, si manifesta proprio nel momento in cui si verifica la fattispecie liberatoria.
Quando, infatti, si integra l’impedimento estraneo alla sfera del debitore e insuperabile da chiunque, il debitore stesso è liberato, non per assenza di colpa, ma per impossibilità oggettiva e assoluta; dunque, non perché è stato superato il limite del sacrificio esigibile ma perché nessun sacrificio potrebbe ormai consentire la realizzazione dell’intesse creditorio, sicché l’obbligazione deve ritenersi estinta.
Qui, l’Osti avverte che non possono essere messi sullo stesso piano, sotto il profilo della responsabilità, il debitore incolpevole e il debitore colpevole. Egli, dunque, come già si è veduto, distingue l’ipotesi in cui l’impossibilità (oggettiva e assoluta) non dipenda da una condotta commissiva od omissiva del debitore dall’ipotesi in cui sia stato proprio il debitore a dare causa o a non evitare l’impossibilità. Solo nel primo caso il debitore è veramente liberato dall’impossibilità verificatasi, mentre nel secondo egli è ancora responsabile. Secondo l’Osti, però, non si tratterebbe della responsabilità per inadempimento (venendo in considerazione una obbligazione ormai estinta) ma di una responsabilità per l’impossibilità sopravvenuta[39].
Si tratta di una superfetazione concettuale. In questa ipotesi, infatti, il debitore risponde per avere causato l’impossibilità oggettiva ed assoluta della prestazione (condotta commissiva) o «per non avere previsto e/o evitato l’operare della causa»[40] (evidentemente, prevedibile ed evitabile) che l’ha determinata (condotta omissiva). Il metro per misurare la prevedibilità o l’evitabilità della causa è, secondo l’Osti, il dovere di diligenza, sia pure estraneo al contenuto della specifica obbligazione estinta, ma collegato «ad ogni rapporto obbligatorio»[41].
La violazione di questo dovere di diligenza integra la colpa. Il debitore, in altre parole, risponde se l’impedimento che ha determinato l’impossibilità della prestazione, da lui non impedito o evitato, poteva essere superato con la diligenza richiesta in relazione ad ogni rapporto obbligatorio; egli, invece, è liberato se tale impedimento era insuperabile con quella stessa diligenza.
Il rilievo che il carattere “oggettivo” della responsabilità per inadempimento non sarebbe intaccato da questa specificazione della teorica dell’Osti[42], non sembra fondato.
È vero, infatti, che l’Osti «tende a distinguere» la vera e propria responsabilità per inadempimento da quella che egli chiama responsabilità per l’impossibilità sopravvenuta; così come è vero che egli tiene a precisare che in questa seconda ipotesi viene in considerazione una colpa estranea al contenuto dell’obbligazione ormai estinta.
Tali precisazioni non mutano, peraltro, la sostanza del giudizio di responsabilità, che resta un giudizio fondato sulla colpa, intesa in senso oggettivo quale obiettiva deviazione da un modello comportamentale ordinariamente adeguato.
La circostanza che il modello comportamentale rimasto oggettivamente inosservato non sia quello richiesto in relazione alla specifica obbligazione ma quello richiesto in relazione «ad ogni rapporto obbligatorio», non conferisce alla colpa in questione il carattere di colpa extracontrattuale (come nella polemica espressione del Segré, ripresa dal Mengoni e dal Castronovo), ma rafforza anzi la connotazione soggettiva del giudizio di responsabilità per inadempimento, quale giudizio fondato sulla colpa nella generalità dei rapporti obbligatori[43].
10. L’argomento sistematico
Nel concludere la ricordata relazione al convegno in ricordo del centenario del saggio dell’Osti, Cesare Massimo Bianca riconosceva l’attualità del suo insegnamento, soprattutto per averci consegnato l’«idea fondamentale … che la responsabilità contrattuale è il correlato del contenuto dell’obbligo cui è tenuto il debitore»[44].
Ed in effetti l’Osti, ancora nel saggio del 1954, evidenziava che «il fondamento e i limiti della responsabilità del debitore per inadempimento dell’obbligazione non sono se non l’aspetto negativo del vincolo in cui si riassume il contenuto del rapporto»[45].
Tale insegnamento è prezioso perché indica all’interprete il sentiero sistematico per giungere all’individuazione del fondamento (e, con esso, dei limiti) della responsabilità contrattuale. Solo l’individuazione, in positivo, del contenuto dell’obbligazione, consente infatti, di individuare altresì, in negativo, il fondamento della responsabilità per il mancato adempimento di essa.
Il contenuto (o l’oggetto) dell’obbligazione è la prestazione, la quale varia a seconda delle diverse tipologie di obbligazioni, ma può generalmente definirsi come il programma materiale o giuridico che il debitore è tenuto a svolgere per realizzare l’interesse del creditore, al quale deve corrispondere (art.1174 c.c.).
Il contenuto di questo programma è determinato dal titolo, dagli usi e dalla legge. Quest’ultima, in particolare, non solo ne fissa i necessari elementi costitutivi, da cui dipende l’esistenza stessa dell’obbligazione (patrimonialità, liceità, possibilità, determinatezza o determinabilità: artt.1174 e 1346 c.c.), ma concorre alla predetta determinazione attraverso criteri generali (valevoli per tutte le obbligazioni) e criteri particolari.
Criterio legale generale di determinazione della prestazione è la diligenza (art.1176 c.c.), la quale indica l’intensità dello sforzo che può pretendersi dal debitore in funzione del soddisfacimento dell’interesse del creditore.
In tal senso, la tradizionale espressione, ancora significativamente presente nel nostro codice (secondo cui il debitore deve generalmente osservare la diligenza del buon padre di famiglia o quella professionale valutata in relazione alla natura dell’attività esercitata), può essere tradotta nel principio per cui il debitore è tenuto all’impiego normalmente adeguato, in conformità ad oggettivi canoni sociali e professionali di comportamento, dei mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse del creditore.
Il criterio della diligenza, così come costituisce, in positivo, il criterio legale fondamentale di determinazione della prestazione obbligatoria, allo stesso tempo integra, in negativo, il criterio per la formulazione del giudizio di responsabilità nell’ipotesi in cui essa rimanga ineseguita.
Il debitore, precisamente, è responsabile quando abbia mancato allo sforzo volitivo e tecnico ordinariamente richiestogli, tenendo una condotta inosservante degli standards di comportamento socialmente e professionalmente dovuti in base all’obbligazione assunta. Egli invece è liberato se si sono verificati impedimenti che, pur non assurgendo all’ipotesi estrema dell’impossibilità oggettiva ed assoluta, non erano prevedibili né superabili mediante quello sforzo.
Il giudizio di colpa, intesa in senso oggettivo quale obiettiva difformità dal modello di condotta ordinariamente diligente, costituisce, in negativo, il fondamento della responsabilità per inadempimento, come il criterio della determinazione in base alla normale diligenza, costituisce la manifestazione, in positivo, del fondamento del vincolo obbligatorio.
L’obbligazione è infatti socialmente intesa quale vincolo improntato a limiti di normalità e ragionevolezza, come dimostra anche la limitazione del risarcimento al danno prevedibile, se l’inadempimento non dipende da dolo del debitore (art. 1225 c.c.).
Il creditore, quindi, può pretendere l’impegno di cooperazione normalmente e ragionevolmente adeguato alla realizzazione del suo interesse, ma non può esigere un sacrificio che oltrepassi il limite della diligenza ordinariamente dovuta in ordine all’obbligazione assunta[46].
La prova dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile richiesta al debitore dall’art. 1218, corrisponde, pertanto, alla prova dell’impedimento non prevedibile e non superabile con la dovuta diligenza: si tratta, in una parola, della prova dell’assenza di colpa.
La necessità di guardare al contenuto dell’obbligazione per individuare, come suo correlato, il fondamento della responsabilità per inadempimento, induce, sul piano squisitamente interpretativo, ad una lettura reciprocamente integrata degli artt. 1176 e 1218 c.c.
In tale prospettiva, mentre va osservata l’esortazione dell’Osti a considerare l’art.1218 come applicabile a tutte le obbligazioni[47], non può invece essere condivisa la sua idea che tale disposizione costituisca l’unica regola deputata alla disciplina della responsabilità per inadempimento, così come altrettanto incondivisibile appare l’idea, parzialmente diversa, del Giorgianni, secondo cui bisognerebbe distinguere le obbligazioni di dare cose certe e determinate (cui si applicherebbe l’art. 1218) dalle altre obbligazioni (in cui il giudizio di responsabilità dovrebbe essere formulato sulla base dell’art.1176).
Il giudizio di responsabilità deve infatti essere un giudizio unitario, in relazione al quale le tralatizie distinzioni tra le diverse tipologie di obbligazioni assumono una rilevanza solo descrittiva e classificatoria, che tiene conto della diversità del contenuto della prestazione, ma alle quali non corrispondono altrettanti singolari statuti di responsabilità[48].
La lettura dell’art. 1176 e dell’art.1218 come norme reciprocamente integrantisi quali criteri di determinazione della prestazione e quali criteri di responsabilità, va ulteriormente arricchita, sul piano dell’interpretazione sistematica, con il necessario rilievo che deve darsi alle ulteriori disposizioni recate dalla disciplina codicistica dell’obbligazione e, in particolare, a quelle contenute nel capo sull’inadempimento.
Tra queste ultime rilevano, anzitutto, l’art. 1225 e l’art. 1227, primo comma.
La prima disposizione, nel limitare il risarcimento al danno prevedibile se l’inadempimento non dipende dal dolo del debitore, implicitamente assume che la nascita dell’obbligazione risarcitoria presuppone quanto meno la colpa.
La seconda disposizione, nel prevedere la riduzione del risarcimento in ipotesi di concorrente fatto colposo del creditore, subordina la rilevanza causale di questo fatto alla circostanza che esso sia “colposo”.
11. Il contenuto dell’obbligazione e la struttura della fattispecie della responsabilità per inadempimento
Se, nella prospettiva dell’idea fondamentale tramandataci dall’Osti, si consideri la responsabilità contrattuale come correlato del contenuto dell’obbligazione, la colpa deve essere intesa come elemento strutturale della fattispecie di responsabilità.
La prestazione del debitore, infatti, quale oggetto del rapporto obbligatorio, ne integra un elemento costitutivo, al pari delle due posizioni correlative di credito e di debito, nonché dell’interesse del creditore, cui deve corrispondere (art. 1174 c.c.).
La diligenza, dunque, riguardata come criterio legale di determinazione della prestazione, entra nella struttura del rapporto obbligatorio; riguardata come criterio di responsabilità, entra nella struttura della relativa fattispecie.
Non può essere pertanto condivisa la recente affermazione giurisprudenziale secondo cui la colpa, «non rilevando in sede di istituzione della responsabilità ma sul versante dell’esonero da essa, costituisce tema di prova del debitore che opponga il fatto estintivo dell’obbligazione diverso dall’adempimento» [49].
L’impedimento opposto dal debitore è giustamente indicato quale fatto estintivo dell’obbligazione, in quanto incide sulla prestazione, rendendola impossibile. Ma la colpa, da cui dipende l’imputabilità o meno dell’impedimento (e quindi la sua efficacia esimente), è elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità.
In altre parole, non bisogna cadere nell’equivoco di confondere la struttura del rapporto obbligatorio con la struttura della fattispecie di responsabilità per inadempimento. Il debitore, chiamato alla prova liberatoria dall’art. 1218, oppone anzitutto l’impedimento che ha reso impossibile la prestazione, il quale rileva come fatto ulteriore, avente carattere estintivo della fattispecie integrativa del rapporto obbligatorio, poiché incide su uno dei suoi elementi costitutivi (la prestazione), privandolo di un requisito legale necessario (la possibilità). Il debitore, inoltre, oppone che quell’impedimento non era prevedibile né superabile con la dovuta diligenza: questa seconda allegazione non corrisponde alla deduzione di un fatto ulteriore avente carattere estintivo (o modificativo o impeditivo) del rapporto obbligatorio, ma alla deduzione della mancanza della colpa, quale elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, la cui sussistenza è, però, legalmente presunta e dunque sottratta alla regola ordinaria di ripartizione dell’onere probatorio.
L’invenzione dell’elemento della colpa nella fattispecie di responsabilità contrattuale consente di affermare che anche questa fattispecie, come quella dell’illecito aquiliano, ha una struttura pluralistica.
La struttura pluralistica, deve aggiungersi, è integrata non solo dalla presenza della colpa (da intendersi, beninteso, non quale reprensibile stato psicologico del soggetto, ma quale obiettiva inosservanza della diligenza ordinariamente dovuta secondo un modello sociale o professionale di condotta), ma anche dalla scissione degli elementi propriamente obiettivi della fattispecie nei diversi momenti del fatto (l’inadempimento), del danno (nelle due species di danno-evento e danni-conseguenza) e del nesso causale (nei due segmenti della causalità materiale e della causalità giuridica).
La tesi sostenuta in dottrina (ed in parte recepita, come si è veduto, in giurisprudenza), secondo la quale nella struttura dell’illecito contrattuale non troverebbe spazio la causalità materiale, non può essere condivisa.
La configurazione della struttura della fattispecie di responsabilità come fattispecie monistica (costituita dal solo inadempimento quale vicenda oggettiva di mancata attuazione della regola obbligatoria e di lesione dell’interesse creditorio) non appare compatibile, infatti, con la previsione di un rimedio giudiziale (l’azione di risarcimento del danno) diverso dall’azione di adempimento e – limitatamente alle obbligazioni derivanti da contratti sinallagmatici – dall’azione di risoluzione del contratto. La circostanza che, invece, il rimedio risarcitorio possa sempre essere utilizzato unitamente agli altri due rimedi contro l’inadempimento (tra i quali invece sussiste un rapporto di alternatività: art. 1453 c.c.) dimostra che i presupposti dell’uno e degli altri rimedi sono diversi, richiedendosi, per quello risarcitorio, oltre l’inadempimento imputabile (cioè colpevole), anche il danno, che deve necessariamente essere legato all’inadempimento dal rapporto di causalità materiale.
Il rilievo che il nesso di causalità che interessa la responsabilità contrattuale non è solo quello giuridico ma anche quello materiale, trova poi un’esplicita conferma positiva nel disposto dell’art. 1227, primo comma, c.c., che stabilisce una riduzione del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare” il danno, ritenendosi tradizionalmente[50] che tale disposizione, a differenza di quella contenuta nel secondo comma del medesimo articolo, si riferisca al “danno-evento” e non al “danno-conseguenza”.
La tesi che vorrebbe escludere la causalità materiale dalla fattispecie di responsabilità contrattuale ritiene che, nella relativa disciplina, diversamente che in quella della responsabilità aquiliana, ove il debitore non riesca a fornire la prova liberatoria prevista dall’art. 1218 (e solo allora), si porrebbe unicamente un problema di causalità giuridica, ovvero della quantificazione dell’entità del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Questa ricostruzione si infrange, peraltro, sul rilievo logico che la prova del rapporto di causalità giuridica presuppone necessariamente l’individuazione, quale suo primo elemento, dell’evento lesivo, il quale intanto assume importanza quale causa delle conseguenze negative, in quanto costituisca a sua volta la conseguenza dell’inadempimento.
Si conferma pertanto l’autonoma rilevanza del nesso di causalità materiale quale elemento generale della fattispecie della responsabilità contrattuale, di cui deve ribadirsi la struttura soggettiva e pluralistica con riguardo alla generalità dei rapporti obbligatori.
L’esigenza di assegnare un fondamento unitario al giudizio di responsabilità impone anzitutto il superamento delle recenti classificazioni giurisprudenziali che delineano fattispecie di responsabilità strutturalmente diverse in relazione alla diversa morfologia del rapporto di causalità.
[1] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 e ss.; 313 e ss., 417 e ss.
[2] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, in Riv. dir. civ., 2019, 1277 e ss.
[3] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1294.
[4] Cfr., ad es., Cass. 11 novembre 2019, nn. 28991 e 28992.
[5] Questa evoluzione, che trova evidenza soprattutto nelle pronunce della Terza Sezione civile in tema di responsabilità professionali – e specialmente in tema di responsabilità medica – può essere così sinteticamente riassunta: a) agli inizi del secolo il tradizionale contrasto sul tema della ripartizione dell’onere probatorio (tema che vedeva diviso l’orientamento maggioritario, il quale muoveva dalla necessità di tenere rigorosamente conto della struttura della fattispecie, dall’orientamento minoritario, il quale invocava l’armonizzazione del regime dei diversi rimedi contro l’inadempimento dell’obbligazione) era stato composto dando prevalenza all’indirizzo minoritario (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533); b) questa pronuncia aveva comportato uno sbilanciamento dell’onere probatorio a favore del creditore (esonerato dalla prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento) e a sfavore del debitore, richiesto di provare l’esatto adempimento; c) lo sbilanciamento era aumentato alla luce dei successivi arresti, i quali avevano statuito che il debitore non solo avrebbe dovuto provare l’esatto adempimento ma, nell’ipotesi in cui non vi fosse riuscito, avrebbe dovuto dimostrare l’irrilevanza causale dell’eventuale inesatto adempimento (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577); d) tale sbilanciamento aveva creato ripercussioni economico-sociali specialmente nei casi in cui la prova dei requisiti costitutivi della fattispecie di responsabilità si presenta più complessa, vale a dire nelle responsabilità professionali e, in particolare, nel delicatissimo campo della responsabilità medica, ove la posizione sfavorevole e processualmente svantaggiata del debitore (medico e struttura sanitaria) e la conseguente proliferazione di pronunce di accertamento della responsabilità e di condanna al risarcimento del danno in favore dei pazienti, aveva generato effetti negativi sia sulla spesa pubblica (cresciuta a dismisura per effetto dell’aumento degli oneri assicurativi) sia sulla tutela del diritto alla salute, messa in pericolo dal deprecabile fenomeno della c.d. medicina difensiva; e) sull’onda di queste ripercussioni – e verosimilmente anche in ragione del recente intervento legislativo (l. n. 24 del 2017) che ha dichiaratamente indicato la sua ratio proprio nell’esigenza di rimediare agli effetti indesiderati del prevalso orientamento giurisprudenziale – la Corte di cassazione ha fatto registrare negli ultimi tempi un notevole revirement, in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio, riconducendo la prova di quello più sfuggente tra i requisiti costitutivi della fattispecie di responsabilità contrattuale (il nesso causale) nell’ambito dell’onere gravante sul creditore (tra le altre: Cass. 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704, Cass. 20 agosto 2018, n. 20812; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. 11 novembre 2019, n. 28989).
[6] Cass. 11 novembre 2019, n. 28987 e, ancor più perspicuamente, Cass. 20 ottobre 2021, n. 29001: «In tema di responsabilità medica, nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, la responsabilità della struttura sanitaria, integra, ai sensi dell’art.1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario, la quale trova fondamento nell’assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall’utilizzazione di terzi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che deve essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l’imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell’art.2049 c.c.; pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., atteso che, diversamente opinando, la concessione di un diritto di regresso integrale ridurrebbe il rischio di impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio di insolvibilità del medico convenuto con l’azione di rivalsa, e salvo che, nel relativo giudizio, la struttura dimostri, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell’evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall’altro, l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell’adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati».
[7] La giurisprudenza muove dal presupposto che l’art. 2055 c.c. trovi applicazione in tutte le ipotesi di responsabilità solidale: dunque non solo nell’ipotesi di solidarietà passiva ex delicto, o mista (ex delicto e ex contractu), ma anche in quella esclusivamente ex contractu. Peraltro, il criterio della ripartizione in misura paritaria in base alla presunzione di cui al terzo comma della disposizione in esame, non troverebbe applicazione nel caso di concorso tra responsabile oggettivo e responsabile per colpa; dunque, con particolare riferimento al concorso tra la responsabilità del medico e quella della struttura nel settore della responsabilità sanitaria, ove la seconda fosse chiamata a rispondere sulla base di un criterio di imputazione riconducibile alla responsabilità oggettiva, beneficerebbe, verso il medico, responsabile per colpa, di un diritto di regresso integrale, ritenuto inconciliabile con il rischio di impresa da essa assunto.
È agevole, peraltro, osservare che non vi è alcun ostacolo dogmatico a ritenere operativa la presunzione di cui all’art. 2055, terzo comma, c.c. anche nell’ipotesi di responsabilità oggettiva del corresponsabile, venendo in considerazione un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde dall’accertamento, in concreto, dalla colpa del coobbligato. In altre parole, non dovrebbe essere il responsabile per colpa, nel momento in cui è convenuto in regresso dal responsabile oggettivo che abbia adempiuto all’obbligazione risarcitoria, a dover eccepire e provare la sussistenza, in concreto, anche della colpa dell’adempiente, al fine di sgravarsi di una parte del carico della prestazione; al contrario, dovrebbe essere il responsabile oggettivo, che agisce per l’integralità della rivalsa, ad allegare e provare la sua assenza di colpa, vincendo la presunzione di cui al terzo comma dell’art. 2055 c.c.
[8] Per il sostanziale superamento di questa figura anche nel settore (che costituirebbe il suo proscenio naturale di operatività, grazie alle elaborazioni fondate sull’applicazione dell’art. 28 Cost.) della responsabilità della pubblica amministrazione per gli illeciti commessi dai pubblici dipendenti, v. Cass., Sez. Un., 16 maggio 2019, n. 13246.
[9] In tal senso v., ad es., F. Ferrara, Responsabilità contrattuale per fatto altrui (1903), in Scritti giuridici, II, Milano 1954, e V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma 1915, 336.
[10] Cass. 2 dicembre 2021, n. 38089. Il provvedimento, redatto con esemplare perspicuità e con pregevolezza di precisione dottrinale, ricorda che «è stato scritto che “la pretesa di affiancare al sindacato di inadempimento un ordine di valutazione imperniato sulla regola di condotta della diligenza equivale ad introdurre un secondo livello di normatività del tutto superfluo: l’obbligazione contiene già al suo interno i criteri di imputazione del danno da inadempimento, identificandoli nella mancata o inesatta attuazione del contenuto della prestazione”».
[11] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 418.
[12] R.J. Pothier, Traité des obligations, in Oeuvres de R.J. Pothier, Bruxelles, 1829, 36.
[13] Per riferimenti alla situazione storica e agli sconvolgimenti politici e sociali che, sullo scorcio del secolo diciannovesimo, concorsero ad abbandonare la «concezione rigida della responsabilità contrattuale» fondata sulla elaborazione del Pothier, cfr. C.M. Bianca, Diritto civile 5, La responsabilità, Milano 2012, 20.
[14] R. Demogue, Traité des obligations en général, I, Sources des obligations, V, Paris, 1925, 538 e ss.
[15] In tal senso, per l’interpretazione della distinzione enunciata dal Demogue come fondata sulla minore o maggiore semplicità della prova della colpa del debitore, v. G. D’Amico, nella relazione tenuta al medesimo convegno celebrativo del centenario del saggio dell’Osti richiamato al par. 1, il cui testo (dal titolo La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti) è pubblicato in Riv. dir. civ., 2019, 1 ss., part.11.
[16] C.F. Savigny, Le obbligazioni (tr. it. di G. Pacchioni), Torino, 1912, 357.
[17] (Liber I stipulationum), in D.45.1.137.4. Per riferimenti, cfr. C.M. Bianca, diritto civile, 5, cit., 18, nota 14.
[18] Così, invece, nella dottrina moderna, C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1990, 90.
[19] G. Hartmann, Die Obligation. Untersuchungen über ihren Zweck und Bau, Erlangen, 1875, 249.
[20] N. Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla estinzione delle obbligazioni, Lanciano, 1895, 12.
[21] Per il rilievo che quando l’Osti parla di mezzi per l’adempimento si riferisce (non già all’impiego dei mezzi adeguati al soddisfacimento dell’interesse creditorio, secondo un modello di comportamento diligente, ma) proprio e solo all’onere economico che il debitore deve sostenere, il quale, secondo la sua concezione, «è giusto che ricada» sempre sul debitore, con l’unico limite dell’impedimento «non superabile da alcuno», v. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 2 e, ivi, nota 2. Il D’Amico aggiunge che in questa teorizzazione l’Osti si era riallacciato all’orientamento del Polacco e del Ferrara (già richiamato, supra, al par. 3) nell’interpretazione delle norme contenute negli artt. 1224, 1225 e 1226 c.c. 1865, in contrapposizione alle concezioni del Coviello e del Chironi, che affermavano la rilevanza della colpa nella responsabilità per inadempimento.
[22] Per il rilievo che nella concezione dell’Osti, neppure l’impossibilità oggettiva e assoluta libera il debitore se essa deriva da sua colpa, v. C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 14.
[23] Puntualmente richiamata da G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 14 e, ivi, nota 28, il quale identifica la colpa che contraddistingue la ostiana figura della responsabilità per impossibilità sopravvenuta come “colpa extracontrattuale” rievocando la polemica espressione del Segré (G. Segré, Sulla teoria dell’impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1919, I, 760).
[24] E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, 107: «l’impossibilità deve intendersi come relativa», avuto riguardo «al tipico impegno di cooperazione».
Nella prospettiva del Betti si sono posti, successivamente, Francesco Galgano (F. Galgano, in Contr. e impr., 1989, 32) e, di recente, Fabrizio Piraino (F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 630), il quale, peraltro, non riferisce il parametro della valutazione dell’impossibilità liberatoria al tipo o alla specie di obbligazione assunta, ma «al contenuto del piano dell’obbligazione».
[25] L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, I, 185. La tesi è stata successivamente ribadita dal Maestro trentino nella storica Voce Responsabilità contrattuale, in Enc. dir. XXXIX, Milano, 1988. All’agevole obiezione che non viene chiarito il significato della buona fede richiamata, «e quindi non è chiarito come questa dovrebbe segnare la linea di confine tra ciò che il creditore può pretendere e ciò che non può pretendere» (così C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 17), il Mengoni replica che «il contenuto delle clausole generali, in quanto consistente in una direttiva che rinvia il giudice a standards sociali, si sottrae a determinazioni concettuali secondo la tecnica definitoria della fattispecie» (L. Mengoni, Responsabilità contrattuale, cit., 1086).
Nella medesima prospettiva del Mengoni si pone C. Castronovo, La responsabilità per inadempimento da Osti a Mengoni, in Europa e dir. priv., 2008, 1 e ss., part. 26, il quale rimprovera all’impossibilità assoluta di marca ostiana, l’essere espressione di una ideologia positivista ostile all’utilizzo delle clausole generali e preclusiva di ogni apertura all’introduzione della discrezionalità del giudice.
[26] Di qui il titolo dello storico saggio: G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. proc., 1954, 593 e ss.
[27] Così C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1279.
[28] Per il rilievo che l’Osti considera l’obbligazione «astratta dal titolo da cui essa deriva», mentre il Mengoni «considera la prestazione (che forma oggetto dell’obbligazione) senza disgiungerla dalla fonte da cui essa scaturisce», v. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 5, il quale ne fa derivare l’implicazione che, ampliando in tal modo il concetto di impossibilità, la tesi del Mengoni si traduce in una sostanziale elusione della normativa sulla risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, in quanto tale rimedio viene reso operativo, pur in assenza di tutti i presupposti di legge. Per evitare questa implicazione, occorrerebbe, dunque, restringere il concetto di impossibilità, ritenendo che la c.d. impossibilità “relativa” altro non sia che un’ipotesi di «assenza dell’obbligo», perché «non esisteva ab origine l’obbligo di eseguire la prestazione oltre un certo limite che risulta superato alla luce delle “sopravvenienze”».
[29] Per tali rilievi v. C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1283, il quale esemplifica con riguardo al caso di scuola dell’anello caduto in fondo al mare, recuperabile con l’impiego di mezzi anomali e con un costo particolarmente gravoso per il custode tenuto alla sua restituzione. In tal caso, la qualificazione della prestazione come prestazione divenuta eccessivamente onerosa o come prestazione divenuta impossibile dipende dal fatto di accedere, rispettivamente, alla concezione dell’impossibilità assoluta (la prestazione sarebbe ancora possibile e il rimedio utilizzabile, ricorrendone le condizioni, sarebbe quello della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta) o alla concezione dell’impossibilità relativa (la prestazione sarebbe divenuta impossibile e l’obbligazione sarebbe estinta, residuando soltanto la necessità di accertare se l’impossibilità sia stata determinata da causa imputabile o meno al debitore).
[30] Questo assunto (recentemente ribadito, ad es., da G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 1) sembra trovare conferma nella Relazione al c.c., n.571, secondo cui l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, oggetto della prova liberatoria del debitore, prevista dall’art.1218, consisterebbe nella «impossibilità della prestazione in sé e per sé considerata. Di guisa che non può, agli effetti liberatori, essere presa in considerazione l’impossibilità di adempiere l’obbligazione originata da cause inerenti alla persona del debitore o alla sua economia».
[31] Così C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1283.
[32] M. Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975, 228 e ss., part.236.
[33] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1281-1282; Più in generale, Id., Diritto civile, 5, cit., 24.
[34] C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 28 e ss.: l’indagine è allargata all’esame dei cc.dd. «impedimenti giurisprudenzialmente tipizzati» e all’esame delle interpretazioni giurisprudenziali delle norme specifiche dettate nella disciplina dei principali contratti tipici. Nella recente relazione al convegno celebrativo del centenario del saggio dell’Osti, l’analisi giurisprudenziale è stata ripetuta tenendo presenti le diverse fenomenologie dell’inadempimento, quale adempimento inesatto, ritardo e inadempimento definitivo (C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1286-1294).
[35] G. Osti, Deviazioni dottrinali ecc., cit., 614.
[36] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1284: «il pregiudizio che cade sul creditore viene traslato sul debitore non per effetto del rischio del proprietario ma per effetto della disciplina dell’obbligazione».
[37] C.M. Bianca, Diritto civile, 5, cit., 16.
[38] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 217.
[39] G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., 418.
[40] Così G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 14.
[41] G. Osti, ult. cit.
[42] V. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 15.
[43] In realtà, l’impossibilità sopravvenuta assume rilievo autonomo dall’inadempimento soltanto allorché non sia imputabile alle parti del rapporto obbligatorio (artt.1256 e 1463 c.c.). Quando invece essa sia imputabile al debitore, come nella distinzione dell’Osti, rientra tra i rimedi contro l’inadempimento e comporta l’obbligo del risarcimento del danno sulla base di un giudizio di responsabilità fondato sulla colpa. Nella prova liberatoria, spettante al debitore sulla base dell’art. 1218 c.c., è compresa la prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore. Il principio trova una consolidata applicazione giurisprudenziale nella responsabilità extracontrattuale attraverso la regola della causa successiva ipotetica, ma che esso non sia estraneo alla responsabilità contrattuale lo dimostra il fatto che la sua “positivizzazione” si rinviene proprio nel diritto delle obbligazioni, attraverso la configurazione di quello che la vecchia dottrina identificava come l’istituto della “perpetuatio obligationis” e che il codice del 1942 ha incluso tra gli effetti della mora debendi (art.1221).
[44] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1294.
[45] G. Osti, Deviazioni dottrinali ecc., cit., 614.
[46] C.M. Bianca, Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, cit., 1285: «chi si obbliga nei confronti altrui assume un impegno normalmente adeguato al soddisfacimento dell’interesse del creditore, non quindi l’impegno a soddisfare tale interesse a costo di qualsiasi sacrificio personale od economico e anche della propria rovina».
[47] Sul punto, v. G. D’Amico, La responsabilità contrattuale: attualità del pensiero di Giuseppe Osti, cit., 18.
[48] La tendenza dell’ordinamento ad assegnare un fondamento unitario al giudizio di responsabilità, è rilevata dal Di Majo (cfr. A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja e Branca, artt. 1175-1176, Bologna, 1988, 454).
[49] Cass. 2 dicembre 2021, n. 38089.
[50] Cfr. già Cass. 9 gennaio 2011, n. 240.
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