ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia insieme pubblica il testo della sentenza delle Sezioni Unite civili n.24410/2021 che ha deciso una vicenda in tema di affissione del crocifisso all'interno delle aule scolastiche, in attesa dell'imminente commento alla decisione.
Il comunicato della Corte di Cassazione reso in data 9 settembre 2021:
"Con la sentenza n. 24414, pubblicata in data odierna, la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, si è occupata dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. In particolare, la questione esaminata riguardava la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. La Corte di cassazione ha affermato che la disposizione del regolamento degli anni venti del secolo scorso – che tuttora disciplina la materia, mancando una legge del Parlamento – è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi.
Il docente dissenziente non ha un potere di veto o di interdizione assoluta rispetto all’affissione del crocifisso, ma deve essere ricercata, da parte della scuola, una soluzione che tenga conto del suo punto di vista e che rispetti la sua libertà negativa di religione.
Nel caso concreto le Sezioni Unite hanno rilevato che la circolare del dirigente scolastico, consistente nel puro e semplice ordine di affissione del simbolo religioso, non è conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità. Ciò comporta la caducazione della sanzione disciplinare inflitta al professore. L’affissione del crocifisso – al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo – non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione.
Non è stata quindi accolta la richiesta di risarcimento danni formulata dal docente, in quanto non si è ritenuto che sia stata condizionata o compressa la sua libertà di espressione e di insegnamento".
Dopo aver indagato il tema della comunicazione, oggetto della rubrica della Rivista presentata con l’editoriale del 18 maggio 2021 attraverso il pensiero della magistratura di legittimità e di merito (si rimanda ai contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli) ed aver approfondito il valore della comunicazione e della parola quale mezzo di emancipazione dell’individuo e della società grazie allo scritto di Francesco Messina passando per un’analisi del tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta e della questione cruciale della comprensibilità e della conoscibilità dell’attività giurisdizionale attraverso il pensiero di Marcello Basilico, Giustizia insieme ha dedicato una serie di interviste ai professionisti della comunicazione e, facendo seguito a quelle di Rosaria Capacchione, Giovanni Bianconi, sono stati coinvolti i giornalisti Claudia Morelli e Giovanni Tizian
È seguito l'approfondimento di Edmondo Bruti Liberati sul drafting relativo all'attuazione della dir.UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza- La problematica attuazione della direttiva UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza-.
Oggi è la volta dell'Avvocato David Cerri, con un contributo dedicato alla comunicazione dell'Avvocato.
Giustizia e comunicazione. 12) La comunicazione dell’avvocato
di David Cerri
Sommario: 1. La comunicazione dell’avvocato - 2. La comunicazione delle associazioni - 3. La comunicazione delle istituzioni.
1. La comunicazione dell’avvocato
Argomento non semplice: già il titolo è equivoco. Perché dell’avvocato, e non degli avvocati o dell’avvocatura? Si tratta evidentemente di punti di vista differenti. C’è poi un’altra premessa da fare: chi scrive rappresenta solo se stesso, non ha certamente la pretesa di esprimere l’opinione dell’intera avvocatura italiana, nè di una sua parte presunta maggioritaria, tantomeno delle sue istituzioni.
Messo in guardia il lettore, affrontiamo comunque il tema, iniziando dal profilo citato per primo: la comunicazione del singolo professionista o del singolo studio richiama subito alla mente quella che di solito si definisce come la “pubblicità”. Si dica allora che questo tema, affacciatosi prepotentemente alla ribalta anche delle professioni forensi italiane negli ultimi anni, sulla scia di un facile entusiasmo per esperienze di altri ordinamenti (non ben conosciute né intese) alla prova dei fatti si è rivelato scarsamente interessante. Chi abbia infatti studiato come la questione della pubblicità dell’avvocato ci sia evoluta in ordinamenti come quello statunitense, dopo celebri sentenze della Corte Suprema degli anni ‘70, e faccia poi un paragone con l’attualità italiana, si rende subito subito conto di come la diversità non solo e non tanto degli ordinamenti, quanto piuttosto del contesto giuridico, delle relative tradizioni, e soprattutto dell’ambiente sociale ed economico abbia fatto sì che l’uso che se ne fa in quel paese (e anche in altri paesi europei, sia pur con tutt’altre modalità) non sia paragonabile né per qualità né per quantità alla nostra più recente esperienza. La motivazione a mio parere è piuttosto semplice: nel contesto eurounitario limitazioni alla concorrenza, anche sotto il profilo delle comunicazioni commerciali, sono ben previste (e direi a maggior ragione nelle professioni regolamentate rispetto alle imprese) in nome della tutela del pubblico interesse. La direttiva 2006/123/CE, cosiddetta Bolkenstein, espressamente ci rammenta all’art. 24 che “Le regole professionali in materia di comunicazioni commerciali sono non discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse generale e proporzionate”; se si legge come se ne è fatta applicazione in Italia col D.Lgs. n.59 del 2010 (art.34, c.3): “I codici deontologici assicurano che le comunicazioni commerciali relative ai servizi forniti dai prestatori che esercitano una professione regolamentata sono emanate nel rispetto delle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare, l'indipendenza, la dignità e l'integrità della professione, nonche' il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione” si vede inoltre come subito di seguito la norma si concluda con la pedissequa ripetizione del principio adottato in sede europea poco sopra riportato.
È questo infatti un caso esemplare nel quale la normativa deontologica aiuta l’ interpretazione e l’applicazione della legge statale. Il codice deontologico forense prevede all’art.17 in primo luogo il carattere essenziale della pubblicità dell’avvocato in Italia: quello informativo, e non meramente commerciale. L’art. 35 dettaglia poi l’applicazione di quel principio, i cui canoni sono quelli già conosciuti dalle discussioni sulle comunicazioni commerciali: trasparenza, veridicità, correttezza, non equivocità, non ingannevolezza, col divieto di informazioni denigratorie, suggestive o comparative.
Non è una singolarità del nostro ordinamento, perché lo stesso C.C.B.E., nel suo codice richiama all’art.2.6, 1 i criteri della veridicità e della correttezza, nonché i principi fondamentali della professione, sempre (come si ricava dall’intero sistema del codice e dal suo preambolo) a tutela del superiore pubblico interesse della tutela della collettività, mediante l’espresso riferimento allo “stato di diritto” ed alla “buona amministrazione della giustizia”; se si vuol declinare il termine di collettività in altro modo (francamente meno coinvolgente, a tacer della diversità ontologica) precisiamo allora: del consumatore.
Ancor meglio l’indagine svolta dalla Commissione sulla Concorrenza dell’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - O.C.S.E. (DAF/COMP/(2007)39) sulle restrizioni alla concorrenza nel settore legale, ha infatti evidenziato il fenomeno dell’adverse selection, cioè che a far maggior ricorso alla pubblicità sono i legali che mostrano di avere la minore qualità; ed ha affermato a chiare lettere che “la nozione di pubblico interesse è più ampia della necessità di correggere i difetti del mercato”, per concludere che tra gli argomenti a favore di (proporzionate) limitazioni alla pubblicità si staglia quello di “Prevent charlatans from obtaining business”… che non ha bisogno di traduzione.
Singolari e fortemente contestate dei professionisti sono state quindi, e comprensibilmente, le interpretazioni offerte dall’A.G.C.M. che in numerosi interventi ha avuto modo di ritenere assurdo il riferimento a criteri come decoro e dignità, propri invece di tutti gli ordinamenti professionali in Italia, in Europa, ed in generale non solo nel mondo delle democrazie occidentali. Assurdo, al contrario, mi è sempre parso voler identificare tout court le professioni forensi con il mondo delle imprese, in particolare per la paradossale conseguenza che a seguire quei ragionamenti ne risulterebbe che i clienti degli avvocati dovrebbero avere meno tutele dei clienti delle imprese, alle quali codici del consumo come quello italiano, direttive eurounitarie, strumenti di autoregolamentazione delle aziende consentono invece una tutela consolidata anche in normative direttamente applicabili (pensiamo soltanto alla disciplina delle comunicazioni ingannevoli). Anche tali punte polemiche, peraltro, sono andate stemperandosi di fronte alla costatazione - fatta propria in primo luogo dalle stesse principali agenzie pubblicitarie -che di queste modalità di marketing (concetto ben più ampio) gli avvocati italiani hanno fatto ben scarso uso; e se, come accennato all’inizio, parlare degli avvocati italiani in generale può sembrare un’affermazione troppo generica e totalizzante, diciamo meglio allora: della stragrande maggioranza di loro; le grandi law firms, le cui case madri sono spesso di matrice estera, in realtà dal punto di vista professionale ed in particolar modo sociologico hanno molto poco a che fare con l’avvocato come la maggior parte di noi lo conosce. Basterebbe leggere le cronache di questi giorni a margine dell’arbitrato Rizzoli/RCS, con le colorite descrizioni dei professionisti dei grandi studi che vi hanno partecipato, per rendersene meglio conto. Una dimostrazione è data ripetutamente dalle indagini del Censis, che continuano a registrare anche di recente come il principale strumento di acquisizione della clientela sia il cosiddetto passa parola. Tutto ciò non significa ignorare I tentativi, spesso un po’ penosi, di pubblicità fatta in casa da numerosi studi: basta una veloce carrellata in rete per rendersene conto. C’è molto da dubitare però che tali tentativi diano dei frutti consistenti, senza naturalmente voler qui considerare le limitazioni di natura normativa e deontologica pur esistenti. Anche a questo proposito, però, torna decisivo il richiamo al pubblico interesse, che dovrebbe essere meglio apprezzato proprio considerando l’esperienza degli ordinamenti che assai prima del nostro hanno riconosciuto questa possibilità ai professionisti. Mi piace allora ricordare quanto mi riferiva il professor Settis, notissimo storico dell’arte, nel corso di un’intervista di qualche anno fa per una rivista giuridica che curavo. A proposito della sua esperienza di amministratore del Getty Museum a Malibu - esperienza che lo portava naturalmente a contatti con grandi studi professionali di Los Angeles - il professore mi riferiva parlando di questi temi che proprio uno dei suoi interlocutori gli raccontava con una certa amarezza come il regime di ampia libertà nella rappresentazione pubblicitaria dei professionisti californiani provocasse un grave danno sociale a carico delle categorie meno dotate di strumenti per interpretare correttamente una reclame televisiva, un cartellone affisso in autostrada, un annuncio fatto su un giornale o su internet. In particolare vittime di professionisti con pochi scrupoli erano, a detta di quel legale, gli immigrati ispanici di recente ingresso, che cadevano vittime della scarsa conoscenza delle consuetudini statunitensi, affidandosi così inutilmente, se non con danno, ad avvocati che ricordavano il famoso Lionel Hutz dei Simpson (se vi ricordate, è quello il cui motto è “Cause vinte in 30 minuti o pizza gratis!”, e che Lisa Simpson definisce uno “schyster”, termine che non oso tradurre ad un uditorio raffinato come quello di questa Rivista. In effetti uno sguardo su quel mondo è piuttosto interessante, se lo si vede come una possibile anticipazione di quello che sarebbe potuto accadere anche in Europa e in particolare in Italia ove non ci fosse una cura particolare della tutela della collettività di fronte agli operatori economici, di ogni tipo, miranti esclusivamente ricavare un profitto dalle loro attività. In altre parole nessuna regola significherebbe averne una sola: massimo profitto col minimo sforzo, il che, mi si consentirà, non è la migliore soluzione. A pensar diversamente sono rimasti gli epigoni del momento d’oro del neoliberismo selvaggio.
La comunicazione informativa, allora: segue agevolmente ed in primo luogo anche nel nostro paese i canali internet, spesso senza dover ricorrere a specifiche professionalità tecniche (e si vede…); si attua prevalentemente con la presentazione dei siti degli studi, delle informazioni utili per la scelta del professionista, nonché di tutte quelle altre indicazioni di tipo pratico (un esempio banale, la sede dello studio con suggerimenti per raggiungerlo, i parcheggi, e così via); naturalmente le aree di prevalente attività dei professionisti (vedremo poi l’uso che sarà fatto dei titoli di specializzazione, quando anche questa possibilità sarà ampiamente sfruttata; sin d’ora mi sentirei di dire che i risultati, sotto questo profilo, saranno minori di quelli forse attesi, per il semplice fatto che la realtà italiana vede una miriade di studi composti da pochi professionisti, una diffusione sul territorio capillare (anche in relazione all’elevato numero di fori), ciò che comporta che il fregiarsi del titolo di specialista in un dato ambito potrebbe in realtà avere l’effetto controproducente di escludere l’ interesse del potenziale cliente sotto tanti altri profili, magari egualmente trattati dal medesimo professionista con apprezzabile competenza, benchè non “bollinata”: staremo a vedere.
C’è infine, anche un altro tipo di pubblicità formalmente informativa ma sostanzialmente commerciale: quella delle interviste fasulle, fenomeno non così irrilevante se alcuni Ordini territoriali avevano sentito già da tempo l’opportunità di dotarsi di apposite delibere sull’argomento. Questione peraltro superata – da chi se lo può permettere – con gli interventi più sinceramente sfacciati su riviste nate ad hoc, di solito patinate, e che mi spingono a ricordare il titolo dell’opera del critico formalista russo Viktor Šklovskij, Il punteggio di Amburgo, e la sua spiegazione: “Il punteggio di Amburgo è importantissimo. Tutti gli incontri di lotta sono truccati. Gli atleti si fanno mettere con le spalle a terra secondo le istruzioni dell’impresario. Ma una volta l’anno si riuniscono ad Amburgo in una osteria e lottano a porte chiuse, con le tende tirate.
Lottano a lungo, con ostinazione, senza eleganza. Il punteggio di Amburgo serve a stabilire la classe reale di ciascun lottatore e ad evitare il totale discredito. Anche in letteratura non se ne può fare a meno” concludeva Šklovskij, e neppure nel nostro ambito. Ed i migliori giudici sono anche per noi i colleghi, cui potrebbero aggiungersi i magistrati, seguendo l’esempio di altre formule, come Find a Lawyer della Law Society of England and Wales, fondate sul peer review.
2. La comunicazione delle associazioni
Finora ho cercato di tratteggiare la comunicazione tesa in gran parte all' acquisizione ed alla cura della clientela, e pertanto dal punto di vista del singolo studio; gli avvocati però, associati nelle loro forme di aggregazione, tendono a svolgere anche altri tipi di comunicazione, che solo in parte possono essere ricondotti ad una forma di “pubblicità di categoria” e/o della stessa singola associazione. In questa prospettiva gli interessi che si vogliono coltivare sono sovente, ed in linea generale, quelli della tutela della stessa categoria, se si vuole in un' ottica sindacale (più frequente per alcune e minore in altre), con un particolare interesse alle esigenze degli iscritti al singolo ente, di solito riunitisi per la comunanza dell’ attività prevalentemente svolta. Tra le associazioni specialistiche formalmente riconosciute come “maggiormente rappresentative“ in attuazione del Regolamento n.1/013 C.N.F., di applicazione dell’articolo 35 c.1 lett. s) L. n. 247/2012, si annoverano alcune tra le più note – come (sperando di non suscitare reazioni da parte delle altre che non ricorderò solo per motivi espositivi…) le Unioni delle Camere Penali e delle Camere Civili, e le diverse di avvocati della famiglia (come AIAF, ONDIF, Cammino ecc.) e del lavoro (come AGI); ma non mancano associazioni “generaliste” che vantano una diffusione capillare sul territorio, come - una per tutte - l‘AIGA. Ebbene, quelle di maggiori dimensioni ed “anzianità” godono di veri uffici stampa, che ne permettono la costante presenza non solo nella pubblicistica di settore, ma anche nella opinione pubblica, tramite frequenti e mirati interventi sui quotidiani di maggior notorietà sui temi dell' attualità politica e sociale. Un altro profilo, attentamente curato dalle associazioni - e che costituisce buona parte delle loro attività di proselitismo – è quello della formazione continua, dove l' allestimento di convegni ed incontri di studio costituisce non solo un importante mezzo di accrescimento culturale dell’intera categoria, ma indubbiamente anche uno strumento di promozione della singola associazione: mentre si rende un servizio, quasi sempre poco costoso se non gratuito , ci si presenta ai colleghi in termini di efficienza ed aggiornamento. Già la parzialissima enumerazione delle diverse associazioni fa comprendere come la comunicazione dei professionisti forensi italiani non sia comparabile con quella di altri operatori della giustizia, come i magistrati, che oltre ad avere regole dettate dal legislatore, per l'ovvio rilievo pubblico della loro funzione, hanno anche organi di autogoverno che consentono l'adozione di regole; regole che almeno nella loro ispirazione dovrebbero indirizzare i comportamenti dei membri di quell’ordine (penso anche soltanto alle Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale adottate dal CSM nel 2018). L’avvocatura, pur essendo una professione regolamentata, con la costituzione di un organo apicale e di organi territoriali regolati dalla legge, non ha certamente (in primo luogo forse per le sue dimensioni) la possibilità di esprimere con una sola voce le sue indicazioni: ciò che nel contempo è un male, per la sicura minore efficacia, ma anche un bene, perché le diverse opinioni vengono alla luce del sole ed a conoscenza diretta dell'opinione pubblica. Quest'ultima riflessione ci porta diritto all'ultimo paragrafo di questo intervento.
3. La comunicazione istituzionale
Le istituzioni forensi, in Italia, come tutti sanno sono regolate dalla legge, e non da oggi ma dal 1874, con la tragica parentesi fascista. La loro natura di organi pubblici è causa ed insieme effetto del loro ruolo; non ci si associa liberamente all’Ordine di appartenenza, ma lo si deve fare, perché il legislatore – in ossequio, oggi, ai principi costituzionali – ha ritenuto che dovesse essere assicurato alla collettività l’affidamento in professionisti “verificati” (con tutte le debolezze delle “verifiche”, delle quali non è questa la sede per parlare), aggiornati e corretti, svolgenti un ruolo sociale ineliminabile (almeno nelle nostre democrazie). Può quindi apparire non scontato che tale istituzioni svolgano, oltre a quella definibile come una consueta comunicazione istituzionale, (relativa alle informazioni necessarie allo svolgimento della professione – a livello locale e nazionale - , ai servizi per i cittadini, ai rapporti con gli altri protagonisti del sistema giustizia) un intervento più esplicito, destinato ad influenzare direttamente l’opinione pubblica e la politica. Sarebbe però veramente ingenuo pensare che, data l’occasione, essa non venga colta, al pari di quello che fanno gli altri operatori. Questa è la strada che da alcuni anni ha intrapreso anche il Consiglio Nazionale Forense, dapprima con il ricorso (non troppo felice) alla collaborazione di agenzie specialistiche, poi con l’iniziativa del quotidiano Il Dubbio, nato nel 2015 tra le polemiche di buona parte dell’avvocatura. Polemiche spesso dettate dai costi non modesti dell’impresa, ma anche da una contrarietà di fondo ad esprimere una presenza in senso lato “politica” della categoria, da riservare piuttosto, secondo alcuni ed in una prospettiva sindacale, alle libere associazioni. Non starò qui certamente a fare la storia dei rapporti tra C.N.F. ed O.U.A., prima, e O.C.F., dopo (sigle per iniziati che, appunto, sarebbe troppo lungo spiegare) ma oggi è innegabile che, nel succedersi di direttori (aveva iniziato Sansonetti) che hanno dato una propria impostazione alla pubblicazione, questa sia entrata di diritto tra quelle citate d’obbligo nelle rassegne stampa; conseguenza forse inevitabile della perenne querelle sullo stato comatoso della giustizia italiana, la cui lettura semplificata vede additare come responsabili ora la magistratura, ora l’avvocatura, ora l’esecutivo di turno, e spesso tutte e tre.
Di sicuro questo tipo di pubblicazione può contribuire alla crescita culturale della categoria ed insieme del paese (ho in mente, per esempio, interventi recenti e posti in adeguato risalto sulla lingua di genere, di Barbara Spinelli e Stefania Cavagnoli); si può essere più perplessi nell’insistenza da un lato su temi dell’attualità “spicciola” e, dall’altro, su battaglie capitali come quella per “l’introduzione dell’ avvocato in costituzione” (personalmente credo che l’avvocato ci sia già, eccome, e che forse è nella normativa ordinaria che dovrebbero essere apprestate più adeguate tutele e soprattutto risorse: ma – al solito: ormai lo si sarà capito come la penso…– nell’interesse principale della collettività, non in quello della categoria, che ne risulterà garantito di riflesso).
Ricordo infine come, al pari delle associazioni, e come ho già ricordato, anche le istituzioni forensi a tutti i livelli si presentino all’interno ed all’esterno della categoria con l’attività svolta per la formazione, tanto per l’accesso che continua. Un professionista competente per far fronte ai suoi obblighi necessita di una formazione iniziale e di un aggiornamento continuo di alto livello; non è un caso che con la dismissione dei poteri dei poteri disciplinari in favore dei nuovi Consigli Distrettuali gli Ordini territoriali abbia visto crescere esponenzialmente le iniziative formative, spesso tramite la costituzione di appositi enti (come le numerose Fondazioni) che danno continuità a strutture organizzativamente complesse, assai spesso in proficua collaborazione con le Università (anche indipendentemente dall’esistenza di apposite convenzioni) ed assicurandone la “tendenziale gratuità” richiesta. E’ questa attività formativa (anche per il coinvolgimento interdisciplinare di altre professioni e della magistratura, per quello di altre istituzioni pubbliche, e talvolta caratterizzata anche dall’apertura alla cittadinanza: un esempio le manifestazioni per la Giornata della Memoria) che mi pare costituisca il miglior biglietto da visita dell’avvocatura italiana, ed in ogni caso la forma di “comunicazione” che prediligo.
Precauzione e prevenzione: nel dedalo delle competenze comunali, regionali e statali si attenua la tutela dei (diritti fondamentali dei) cittadini.
di Giovanna Iacovone e Annarita Iacopino[1]
Sommario: 1. Inquadramento del tema a partire dagli interessi coinvolti. 2. Il potere di ordinanza sindacale subisce una dequotazione sulla base della (astratta) disciplina delle competenze e in virtù di una eventuale responsabilità a posteriori. 3. Precauzione e prevenzione: una lettura neutralizzante del rischio. 4. Il ruolo e i confini delle ordinanze contingibili e urgenti nella garanzia di efficacia del paradigma precauzionale: una interpretazione minimalista. 4.1. Il principio di precauzione e sua operatività. 4.2 Valutazione e gestione del rischio nel rapporto tra tecnica e diritto in funzione della effettività delle tutele…4.3 …ipotesi di coordinamento. 5. Riflessioni conclusive.
1. Inquadramento del tema a partire dagli interessi coinvolti
Con la sentenza n. 4802 del 23 giugno 2021 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha accolto l’appello presentato da Arcelor Mittal avverso la sentenza n. 249 del 13 febbraio 2021 resa dal TAR Lecce in relazione alla ordinanza contingibile e urgente n. 15 del 27 febbraio 2020 con la quale il Sindaco di Taranto, nell’esercizio dei poteri riconosciutigli dal TUEL, aveva ordinato una serie di prescrizioni all’ILVA fino alla sospensione delle attività.
L’analisi del supporto motivazionale della decisione del Consiglio di Stato non può prescindere, da un lato, dalla asettica ricostruzione del contesto fattuale dal quale (e nel quale) la decisione scaturisce, dall’altro dell’impianto logico motivazionale della sentenza di primo grado.
All’origine del rinnovato interessamento per la «vita» dell’ILVA da parte dell’amministrazione comunale vi era l’allarme sociale determinato da alcuni eventi emissivi che si erano verificati nel corso del 2019 e del 2020. Eventi rispetto ai quali l’ARPA Puglia – DAP di Taranto, nel valutare la connessione con «la tutela della salute», aveva sottolineato l’importanza del rispetto dei tempi di attuazione dei lavori di installazione dei filtri a manica del camino E312 dell’agglomerato dello stabilimento siderurgico, sottolineando l’opportunità di anticiparne i tempi di realizzazione. Opportunità confermata anche dallo stesso Dipartimento di prevenzione della ASL di Taranto – Spesal.
Successivamente la stessa ARPA, in relazione alle anomalie segnalate, aveva evidenziato il superamento del valore limite di emissione massima oraria per il parametro al camino E312.
Il Ministero competente, più volte sollecitato dalla stessa amministrazione comunale in relazione agli specifici eventi, aveva però sottolineato la conformità ai parametri previsti dall’AIA, rinviando all’ISPRA ogni valutazione della pericolosità e dell’impatto delle «problematiche emissive» sulla salute dei cittadini.
Si segnala, comunque, che lo stesso Ministero, sempre nel 2019, anno in cui gli eventi che hanno dato origine all’ordinanza si erano verificati, aveva, su sollecitazione dell’amministrazione comunale, avviato un procedimento di revisione dell’AIA.
Stante il mancato pronunciamento delle amministrazioni interpellate, e considerato anche il grado di allarme sociale generato dagli episodi richiamati, l’amministrazione comunale ha adottato l’ordinanza n. 15, prima ritenuta legittima dal TAR Lecce e poi annullata dal Consiglio di Stato.
Ai fini di una chiara definizione del quadro di contesto occorre richiamare la gradualità delle prescrizioni contenute nell’ordinanza di necessità e urgenza adottata ai sensi dell’art. 50 del TUEL.
Nell’ordinanza era espressamente previsto che «qualora siano state individuate le sezioni di impianto oggetto di anomalie e non siano state risolte le criticità riscontrate di cui in premessa: [ordina] di avviare e portare a completamento le procedure di sospensione/fermata delle attività nei tempi tecnici strettamente necessari a garantire la sicurezza e, comunque, non oltre ulteriori 60 gg. dalla presente degli impianti come sopra individuati (…) procedendo, laddove necessario per finalità legate a ragioni di sicurezza alla sospensione/fermata delle attività inerenti gli impianti funzionalmente connessi e gli impianti di cui sopra (…) qualora non siano state individuate le sezioni di impianto oggetto di anomalie e quindi non siano state risolte le criticità di cui in premessa: avviare e portare a completamento, nei tempi tecnici strettamente necessari a garantire la sicurezza, e comunque non oltre 60 gg. dal presente provvedimento, la procedura di fermata dei seguenti impianti Altiforni, Cokerie, Agglomerazione, Acciaierie».
L’elemento di rilevanza dell’ordinanza, e che poi si rileva come cardine su cui poggia la decisione di primo grado, secondo quanto espressamente previsto nel provvedimento impugnato, è rappresentato dalla pericolosità delle immissioni per la salute, dunque non solo per l’ambiente, valutate alla luce del principio di precauzione.
Nell’ordinanza si legge, infatti, che le «emissioni, percepite in città e oggetto di numerose segnalazioni, hanno procurato un forte odore diffuso (…) le attuali e persistenti criticità di carattere emissivo, non escludono possibili conseguenze di natura sanitaria e producono sempre più insistentemente situazioni di estremo disagio sociale, oltre che diffusa preoccupazione ed esasperazione della popolazione che vede minacciata la propria salute, specie nelle fasce più deboli».
Gli elementi sui quali occorre concentrare l’attenzione, ai fini della contestualizzazione delle della decisione di primo grado, sono rappresentati dalla valutazione del comportamento tenuto dalle amministrazioni a diverso titolo coinvolte, e in particolare dal Ministero e dall’ISPRA, nonché dalla funzione riconosciuta all’AIA e alla definizione della sua portata, nonché della sua valenza garantista rispetto al binomio ambiente/salute e, dunque, nella valutazione degli eventi segnalati in una prospettiva precauzionale mirata a garantire il diritto (fondamentale) alla salute.
Quanto al primo profilo, tanto il Ministero quanto l’ISPRA erano stati immediatamente interessati evidenziando, sin da subito, la richiesta di un intervento funzionale ad assicurare la tutela del diritto alla salute dei cittadini messo in pericolo dagli eventi emissivi imputabili, secondo quanto accertato dalle stesse amministrazioni coinvolte, al malfunzionamento degli impianti e delle attività di monitoraggio[2].
Dunque, una situazione relativa alle «concrete e attuali» condizioni dell’impianto all’origine di quella valutazione precauzionale operata dal sindaco, corroborata dai pareri espressi dall’ARPA e dalla ASL che sottolineavano, come detto, la necessità di una accelerazione dei tempi di realizzazione di alcuni interventi programmati evidenziando le criticità del funzionamento dell’impianto. Condizioni rispetto alle quali, nella stessa sentenza, si richiama non solo la peculiarità dell’impianto tarantino «unico sul territorio nazionale con alimentazione a carbone, risultando tutti i restanti stabilimenti siderurgici da tempo convertiti nell’alimentazione elettrica dei forni»[3], ma la stessa giurisprudenza CEDU che, nel 2019, riconoscendo la violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione aveva condannato l’Italia avendo «le Autorità nazionali (…) omesso di adottare tutte le misure necessarie per assicurare la protezione effettiva del diritto degli interessati al rispetto della loro vita privata»[4]. Una decisione che in realtà richiama un autorevole precedente specifico[5] e nella quale la connessione ambiente, benessere delle persone, diritto al godimento del loro domicilio è resa molto evidente[6] ed è ben delineata rispetto alla garanzia della «qualità della vita» che, sebbene concetto non ben definito, comunque presuppone e impone che «le autorità nazionali abbiano affrontato la questione con la diligenza dovuta e abbiano (…) affrontato la questione con la diligenza voluta e se abbiano preso in considerazione tutti gli interessi coesistenti», mentre, come si evidenzia nella stessa sentenza, «la gestione da parte della autorità nazionali delle questioni ambientali riguardanti l’attività di produzione della società (…) è tuttora in una fase di stallo», con la conseguenza di un pericolo per «la salute dei ricorrenti e più in generale, quella di tutta la popolazione residente nelle zone a rischio».
La considerazione di questo profilo rappresenta l’elemento dal quale muove il giudice di primo grado per considerare l’incidenza degli interessi e l’ ambito di valutazione cui è deputato il procedimento di AIA nell’ambito del difficile rapporto con il danno sanitario e con gli interessi economici che gravitano attorno alla attività imprenditoriale. Il Collegio, infatti, muovendo da precedenti specifici dello stesso giudice amministrativo[7], evidenzia come l’ambito di valutazione che rientra nel perimetro dell’AIA non è tale da garantire che si escluda il rischio o il danno sanitario[8], scardinando, dunque, l’assioma AIA/tutela della salute, alla cui base veniva individuata, dai ricorrenti, una carenza di potere dell’amministrazione comunale.
Dunque, un approccio sostanzialista che, proiettato in una dimensione precauzionale, porta a una valutazione complessiva, non solo degli specifici episodi emissivi, considerati «sintomatici di un incombente pericolo di reiterazione», ma dell’intera situazione relativa al funzionamento dell’impianto e della sistematica dei controlli attivati dalle competenti autorità. Significativamente sul punto il giudice di primo grado fa riferimento alla «perdurante pendenza del procedimento del riesame relativamente al monitoraggio del set integrativo», facendo emergere la necessità di adottare una decisione “di emergenza” per garantire l’effettività del sistema di precauzione, in una dimensione, dunque, orientata alla valutazione del rischio e non alla gestione (della già presente) emergenza. E così il giudice di primo grado tiene a precisare che «l’esercizio del potere contingibile e urgente da parte del Sindaco trova peraltro ulteriore supporto logico in considerazione del fatto che, anche a prescindere dalla rilevanza secondaria che nell’ambito dell’AIA – e ancor più nel caso della legislazione speciale prevista per l’ILVA, in quanto impianto strategico di interesse nazionale – riveste la valutazione del danno sanitario, il Sindaco ha comunque esercitato ogni iniziativa utile al fine di sollecitare un intervento di riesame dell’AIA, sulla base di qualificati pareri e relazioni ambientali e sanitarie, senza sortire tempestivi risultati e cui ha fatto riscontro, ad esempio la nota ISPA con cui quest’ultima assume di non avere competenza in campo sanitario».
Sembra, dunque, che nel dedalo di norme, competenze, interessi, confliggenti tra loro, stenti a trovare posto l’interesse (che sembrerebbe recedere) alla tutela della salute della collettività di cui si fa interprete, nella ordinanza impugnata, l’ente esponenziale ad essa più vicino in dichiarata applicazione del principio di precauzione[9] rispetto al «rischio» del verificarsi di un evento eccezionale (dannoso) la cui imprevedibilità non va intesa in senso assoluto, al fine di legittimare l’esercizio del potere di ordinanza, potendo quest’ultimo essere legittimato anche dalla sussistenza di un pericolo determinato da un «rischio perdurante»[10].
2. Il potere di ordinanza sindacale subisce una dequotazione sulla base della (astratta) disciplina delle competenze e in virtù di una eventuale responsabilità a posteriori
Ma è proprio quel dedalo di norme la base (formale) sulla quale il Consiglio di Stato ha poggiato la decisione con la quale è stata ribaltata la sentenza del TAR Lecce e riconosciuta l’illegittimità della ordinanza sindacale.
Infatti, l’intera struttura della decisione di secondo grado poggia su un paradigma diverso focalizzato primariamente sul potere, ritenuto carente in concreto, del Sindaco di emanare una ordinanza di necessità e urgenza operando una opzione interpretativa preliminare con la quale il thema decidendum viene limitato alla stretta verifica della legittimità del provvedimento impugnato escludendo espressamente «del complessivo impatto ambientale e sanitario determinato dalla presenza sul territorio dello stabilimento siderurgico tarantino, nonché delle questioni connesse (anche oggetto di separati giudizi in separate sedi giudiziali), le quali si stagliano sullo sfondo della questione qui controversa» e ciò nonostante questo elemento di contesto fosse un presupposto necessario, secondo la ricostruzione avanzata dal giudice di primo grado, per la valutazione del comportamento delle altre amministrazioni via via interessate e dell’impatto di quel comportamento sulla salute dei cittadini, elemento legittimante, ad avviso del giudice di prime cure, l’intervento sindacale.
Data questa premessa ermeneutica, il giudice di secondo grado, richiamando solo la decisione della Costituzionale n. 85 del 2013, valorizza l’AIA quale punto di equilibrio di una molteplicità di interessi tra cui il diritto (fondamentale) alla salute, qualificandola come «provvedimento per sua natura “dinamico”, poiché contiene un programma di riduzione delle emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato, al fine di recepire gli aggiornamenti delle tecnologie cui sia pervenuta la ricerca scientifica e tecnologica nel settore».
Una cornice teorica, ricostruita con profusi richiami normativi, anche del «diritto singolare» creato nel tempo ad hoc per l’ILVA sulla cui base viene interpretato, e limitato, il potere sindacale di ordinanza.
Nella sua ricostruzione il giudice di secondo grado, pur considerando i poteri di ordinanza come una «valvola di sicurezza del sistema», riconosciuto per gestire situazioni di pericolo altrimenti non fronteggiabili, fa leva sulla residualità che sarebbe correlata alla eccezionalità di tale potere[11] per individuare nello specifico i confini del potere esercitato dal Sindaco di Taranto.
Pur negando la completezza del quadro normativo e la sua sufficienza a «fronteggiare qualunque situazione di pericolo o di danno scaturente dall’attività produttiva in essere nello stabilimento siderurgico»[12] il Consiglio di Stato conferma un concetto ampio di contingibilità, legato alla impossibilità di ricorrere (e non alla inefficacia rispetto alle esigenze di tutela in concreto considerate) a rimedi pur esistenti al fine di fronteggiare una situazione di pericolo[13], in ciò negando il difetto di attribuzione o l’incompetenza del Sindaco a emanare la contestata ordinanza.
Purtuttavia, nel passare a considerare i presupposti che in concreto legittimerebbero l’esercizio del potere sindacale, il giudice si sofferma sulla portata dei requisiti della contingibilità e urgenza sottolineando come la prima debba essere riferita e valutata non solo con riferimento alla concreta esistenza di strumenti per far fronte alla situazione di pericolo, ma anche alla loro “adeguatezza”[14]; mentre la seconda vada solo intesa come la «materiale impossibilità di differire l’intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di danno a breve distanza di tempo»[15]. Presupposti a corollario dei quali sono poi stati individuati ulteriori caratteri, ampiamente richiamati dal Consiglio di Stato, quali la «straordinarietà dell’evento», la sua «imprevedibilità», la «necessaria temporaneità della misura adottata»[16] «volti a rimarcare il connotato fondamentale del potere di ordinanza, ossia la sua residualità rispetto ad altri rimedi tipici e nominati». Elementi che «Pur non costituendo requisiti necessari per il legittimo esercizio del potere rimangono, tuttavia, criteri di carattere logico adoperabili per lo scrutinio della legittimità in concreto del provvedimento».
Un inquadramento del potere di ordinanza che consente, sulla base della ricostruzione del quadro normativo, di escludere che, con riferimento alla immissione di «aria e fumi» provenienti dallo stabilimento, possa essere esercitato un potere di ordinanza da parte del sindaco, essendo lo stabilimento sottoposto ad AIA, la cui portata esautorerebbe ogni altra possibilità di tutela, con la conseguenza che l’esercizio del potere sindacale sarebbe circoscritto alle ipotesi in cui le situazioni di pericolo o danno per la salute derivino da «inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie», tra l’altro, secondo la interpretazione che ne dà il giudice amministrativo, solo dietro «comunicazione dell’autorità competente», dunque, almeno stando alla lettera della sentenza che affianca i due presupposti, non un potere autonomamente esercitabile da parte del Sindaco, ma, al contrario, una extrema ratio cui ricorrere solo a seguito dell’esaurimento dei rimedi posti in capo alla “autorità competente” e su richiesta di quest’ultima. Dunque, un potere condizionato che da un lato esclude l’applicabilità degli artt. 50 e 54 del TUEL, dall’altro risulta subordinato alla valutazione, in questo caso del Ministero, della osservanza delle prescrizioni autorizzatorie.
Un meccanismo che valorizzando lo «scivolamento» delle competenze di fatto rischia di frustrare la effettività del bene giuridico protetto, e cioè la salute pubblica la cui valutazione in concreto viene posta in secondo piano.
E questo è particolarmente evidente se si considera che, pur riconoscendo alle norme (incluso l’art. 217 del r.d. n. 1265/1934) la finalità di garantire una tutela «“anticipatoria” del bene giuridico», consentendo «alla autorità preposta (il Sindaco) di intervenire prima (“prevenire”) che si verifichi l’effettiva compromissione (“il danno”) del bene giuridico tutelato (“la salute pubblica”)», il Consiglio di Stato nega da un lato la esercitabilità del potere di ordinanza ex artt. 50 e 54 del TUEL - non essendo comprovata la inidoneità e la inefficacia degli altri rimedi predisposti dall’ordinamento -, dall’altro nega la possibilità di esercitare i poteri straordinari riconosciuti dall’art. 217 del r.d. n. 1265/1934 - non essendoci stata una comunicazione da parte dell’autorità competente, il Ministero, che al contrario aveva rilevato la insussistenza di una violazione delle prescrizioni contenute nell’AIA.
Una ricostruzione ineccepibile sotto il profilo formale, che non sottace la consapevolezza – del giudicante – del suo potenziale impatto sul bene salute. E questo sembra evidente proprio in quella parte della decisione in cui il Giudice comunque precisa che «va evidenziato che, qualora “l’autorità competente” non effettui la comunicazione di cui all’art. 29-decies, comma 10, d.lgs. n. 152 del 2006 oppure neghi erroneamente che sussistono i presupposti per procedervi, si assumerà evidentemente le relative responsabilità, qualora si dovesse poi inverare l’evento pregiudizievole paventato».
Dunque, uno schema formalmente corretto che non può però non far sorgere qualche perplessità, perché, con riguardo al bene della salute, difficilmente la tutela risarcitoria postuma potrà essere altrettanto satisfattiva della tutela del bene principale (che, considerata la tipologia, dovrebbe essere primario).
3. Precauzione e prevenzione: una lettura neutralizzante del rischio
Ma quello richiamato non è l’unico motivo di illegittimità riconosciuto in sede di appello della decisione assunta dal Sindaco di Taranto.
A supporto della riconosciuta incompetenza del sindaco ad adottare una ordinanza di necessità ed urgenza a tutela della salute della collettività, stante le precondizioni richiamate in precedenza, il Giudice sposta l’attenzione su una ritenuta assenza di lesività, quanto meno di prova di una diretta lesività, dei fatti emissivi rispetto al bene protetto, riproponendo sic et simpliciter il dilemma insito nello stesso principio di precauzione tra certezza, ragionevole certezza della lesività e, dunque, tra prova e indizio del rischio insito o comunque correlato a quella determinata attività.
Un equilibrio che sottende un certo non agevole bilanciamento tra interessi contrapposti, tra tutela della salute e tutela delle attività economiche.
A sostegno della propria decisione il giudice amministrativo richiama l’evoluzione giurisprudenziale sul principio di precauzione rimarcando la necessità che la valutazione dei rischi avvenga sulla base di «indizi specifici» che, pur nell’incertezza della regola scientifica, permettano di individuare, nella sostanza, l’esistenza di «un rischio specifico», intendendosi per tale quel rischio in base al quale «non possa escludersi che [l’intervento umano su un determinato sito] pregiudichi il sito interessato in modo significativo». Dunque, un grado di certezza che, almeno ad una prima lettura, supera i confini del principio di precauzione, lambendo quelli del correlato principio di prevenzione.
Dalla lettura della motivazione pare, infatti, che il Giudice contesti all’amministrazione comunale l’assenza di una valutazione del rischio tale da comprovare la sussistenza di una situazione di pericolo «potenziale o latente» in grado di incidere significativamente sulla salute dell’uomo. Dunque, una valutazione fondata su un grado di certezza del binomio rischio/necessarietà della misura, che evidentemente, considerata anche la opinabilità del dato scientifico che in questi casi ammanta le valutazioni tecniche, riduce sensibilmente l’ambito di applicazione del principio precauzionale, soprattutto con riferimento a quelle fattispecie insolite non note, per le quali non si registra un elevato grado di approfondimento scientifico incrinando così anche la valutazione della stessa proporzionalità della misura.
Una visione della proporzionalità che, però, almeno nella prospettiva in esame non sembra considerare appieno la dimensione e la configurazione che ne viene data nelle sedi eurounitarie, pur richiamate nel testo, che offrono del principio una prospettazione in parte diversa proprio della valutazione scientifica degli effetti potenzialmente negativi che nella descrizione offerta in quelle sedi si caratterizza per una quadrifasicità (identificazione del pericolo, caratterizzazione del pericolo, valutazione dell’esposizione e caratterizzazione del rischio) che in parte è funzionale alla attenuazione delle conseguenze determinate dalla incertezza scientifica rispetto alla quale i fattori di prudenza non portano a richiedere una “prova” del rischio, ma a prendere a riferimento il livello «as low as reasonably achievable» di rischio[17].
In particolare, rileva rimarcare, al fine di delineare con compiutezza la prospettiva in cui nelle sedi comunitarie il principio viene inteso, come ivi si sottolinei che «La mancanza di prove scientifiche dell’esistenza di un rapporto causa/effetto, un rapporto quantificabile dose/risposta o una valutazione quantitativa della probabilità del verificarsi di effetti negativi causati dall’esposizione non dovrebbero essere utilizzati per giustificare l’inazione»[18].
Dunque, una considerazione complessiva della situazione funzionale alla elaborazione di una strategia di gestione del rischio - pur senza sottovalutare i «principi generali di una buona gestione dei rischi», e cioè il principio di proporzionalità, il principio di non discriminazione, il principio di coerenza, l’esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione o dalla mancanza di azione, l’esame dell’evoluzione scientifica – che comporta anche un diverso inquadramento dello stesso onus probandi[19], essendo necessario distinguere tra decisione politica «di agire o di non agire e le misure risultanti dal ricorso al principio di precauzione, che devono rispettare i principi generali applicabili per qualunque misura di gestione dei rischi»[20]. Onere probatorio che, dunque, deve essere inteso non in senso assoluto, potendo, anzi dovendo, essere coniugato, bilanciato, con il principio di naturale incertezza correlato all’evento eccezionale[21].
Un quadro, quello sommariamente richiamato, che non si coglie nella decisione del Consiglio di Stato e che offre una diversa chiave di lettura per il bilanciamento degli interessi da porre a base della valutazione del rischio nel contesto della adozione di una misura precauzionale, se vogliamo più ampia di quella adottata dal giudice amministrativo che, richiamando alcuni propri precedenti, fa riferimento alla «esistenza di un rischio specifico all’esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura»[22]. E nella decisione di secondo grado si coglie con chiarezza questa tensione tra «rischio puramente ipotetico», cioè una mera supposizione non verificata in termini scientifici[23], e «rischio non pienamente provato a causa della (naturale) incertezza scientifica» rispetto al quale si sottolinea che la «significatività» dell’impatto è alla base delle oscillazioni negli approcci, che richiedono una prova della sussistenza di un possibile rischio non fronteggiabile con gli strumenti tipici predisposti dall’ordinamento e, in ultimo, nella garanzia di effettività del principio di precauzione. Una tensione che traspare nel riconoscimento di un difetto di istruttoria e di motivazione dell’ordinanza, in ragione della ritenuta mancata individuazione «delle cause che hanno comportato gli eventi emissivi presi in considerazione», rispetto alle quali neanche le note istruttorie dell’ARPA e della ASL, secondo quanto ritenuto dal giudice, evidenziano «chiare ed univoche indicazioni sull’eziogenesi» degli eventi, né una chiara e comprovata correlazione degli eventi occorsi e del rischio di una loro ripetizione a eventuali criticità per il diritto alla salute[24].
E in ciò a nulla rilevando, dunque, la stessa ripetizione degli eventi, che in sé avrebbero potuto da soli provare il rischio di reiterazione, né le risultanze della nota ministeriale nella quale «sono enumerate una serie di “non conformità” e di “eventi incidentali”» sulla base della considerazione che nella stessa nota «non viene (…) chiarita l’attinenza con gli eventi presupposto dell’ordinanza»[25].
Dunque, circostanze che, ad avviso del giudice, «non evidenziano un pericolo “ulteriore” rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività produttiva dello stabilimento industriale e gestita attraverso la disciplina dell’A.I.A.». Pericolo, dunque, che non risulterebbe corredato da un sufficiente apparato probatorio tale da rendere possibile la adozione di una misura straordinaria in applicazione del principio di precauzione poiché «quanto emerso è più incline ad escludere il rischio concreto di un eventuale ripetizione degli eventi e la sussistenza di un possibile pericolo per la comunità tarantina» in quanto gli eventi verificatisi risultano frutto di carenze procedurali, il primo evento emissivo, o di accadimenti non riconducibili comunque a violazioni dell’AIA. Dunque, una «situazione di assoluta e stringente necessità presupposta dall’ordinanza sindacale» non solo non provata ma tale da non giustificare un ritenuto aggravamento della situazione ambientale e sanitaria della città di Taranto le cui condizioni sono «un fatto che può reputarsi “pacifico”, a fini processuali», ma anche non giustificabile dalla ritenuta necessità di anticipare le realizzazioni intraprese[26] che, ad avviso del giudice, segnano una linea di discontinuità rispetto a quella situazione di stallo indicata dalla Corte europea menzionata in precedenza[27].
4. Il ruolo e i confini delle ordinanze contingibili e urgenti nella garanzia di efficacia del paradigma precauzionale: una interpretazione minimalista
Dai sintetici cenni richiamati in precedenza il primo elemento che si impone all’attenzione del lettore è la totale diversità di piani posta dal giudice di primo grado e dal Consiglio di Stato a base delle proprie valutazioni. Mentre nel primo grado a base della decisione di ritenuta legittimità dell’ordinanza sindacale vi è un approccio sostanzialista - che sottende una visione strumentale del diritto - nel quale nell’ambito del bilanciamento fra contrapposti interessi confluiscono diversi elementi tra i quali la considerazione della tempistica della attuazione del Piano approvato con D.p.c.M. nel quale sono contemplate una molteplicità di attività anche di tutela sanitaria; nel secondo grado prevale l’approccio formale, con una diversa conseguente rilevanza dello stesso paradigma precauzionale rispetto al quale, in questa sede, non si può non rimarcare la portata e la necessità di una contestualizzazione in una dimensione di (strumento di) garanzia dello sviluppo sostenibile, dove la sostenibilità, però, non va riferita soltanto alla finalizzazione ambientale dell’azione, ma a una connotazione di sistema che includa la valutazione dei profili e degli impatti sociali ed economici della decisione anche amministrativa[28].
In questo contesto la riflessione deve necessariamente stratificarsi su una molteplicità di piani che rendono anche complessa una lettura critica dei due approcci: il primo, a carattere più generale, relativo al grado di attuazione ed efficacia che il nostro sistema intende prioritariamente garantire attraverso il paradigma precauzionale e, a monte, attraverso la sistematica del rischio; l’altro relativo al potere di ordinanza[29], strumento tradizionalmente considerato irrinunciabile per la gestione e regolazione delle emergenze e, al contempo, la sua normalizzazione per la gestione di eventi eccezionali e non solo e di cui normalmente si criticano gli abusi imputabili proprio alla mancata visione sistemica del rischio.
4.1. Il principio di precauzione e sua operatività
La vicenda oggetto delle sentenze menzionate nei paragrafi precedenti è certamente emblematica dell’approccio complesso e conflittuale del nostro sistema rispetto al paradigma della precauzione e, a monte, della gestione del rischio. Un tema sul quale si è soffermata la dottrina soprattutto a seguito del realizzarsi degli eventi pandemici «scoprendo», in ciò sollecitati certamente dalla dimensione ultra-statuale del fenomeno, delle criticità intrinseche del nostro sistema, già emerse in occasione di eventi eccezionali che hanno interessato aree circoscritte del nostro territorio.
Senza ripercorrere in questa sede i diversi passaggi che hanno caratterizzato il percorso che ha portato alla lenta applicazione del principio di precauzione nel nostro ordinamento, la problematicità che lo caratterizza si innesta su due piani, quello a carattere generale, se vogliamo di sistema, relativo appunto all’approccio che si ha rispetto alla considerazione e ponderazione del rischio, l’altro a carattere puntuale e operativo relativo alla assunzione della singola decisione precauzionale e al correlato rapporto conflittuale tra tecnica e diritto e alla ricerca, da parte di quest’ultimo, di un dato di certezza che spesso la prima non può offrire.
Rispetto al primo profilo richiamato, come si evince già da una rapida lettura del quadro normativo, incluso il Codice di protezione civile[30], è subito evidente che lo spazio riservato agli eventi eccezionali si incentra prevalentemente sulla gestione del momento critico successivo all’evento negativo secondo una visione parziale, difficilmente compatibile con l’obiettivo di un sistema riflessivo che, oltre a pregiudicare la completezza del discorso, pone sullo stesso sistema una vera e propria ipoteca, condizionandone la prospettiva e gli elementi di valutazione, anche in relazione al (possibile) ruolo del livello istituzionale.
Una visione dell’evento eccezionale, quella richiamata, che, nella corretta valutazione della dimensione del rischio, e non solo dell’emergenza, non potrebbe prescindere dalla considerazione dei momenti antecedenti al suo verificarsi, in considerazione cioè di un modello programmatorio e regolatorio flessibile effettivamente in grado di costruire un sistema istituzionale e infrastrutturale pienamente funzionale che consenta di garantire la gestione delle conseguenze del verificarsi dell’evento eccezionale con i parametri e le garanzie dell’ordinarietà, evitando lo sconfinamento, o meglio l’abuso, di strumenti eccezionali, quali anche le stesse ordinanze di necessità ed urgenza.
Ma questa rapida considerazione si pone a latere rispetto alla decisione del Consiglio di Stato, né appare, rebus sic stantibus, sufficiente o idonea a confutare la correttezza formale della ricostruzione operata dal giudice d’appello.
4.2. Valutazione e gestione del rischio nel rapporto tra tecnica e diritto in funzione della effettività delle tutele…
Infatti, in questa prospettiva, di un diritto del rischio[31], la gestione dell’emergenza, e quindi la piena attuazione del paradigma precauzionale, anche eventualmente attraverso l’esercizio del potere (residuale) di ordinanza, conta un momento antecedente nel quale il binomio precauzione/prevenzione gioca un ruolo fondamentale secondo una dinamica circolare che, anche in ragione della complessità dei fatti considerati, presuppone un coordinamento tra diversi soggetti, anche privati, soprattutto al fine di acquisire una adeguata acquisizione delle indispensabili conoscenze scientifiche e tecniche che rappresentano l’indefettibile presupposto per la predisposizione di misure (normative e provvedimentali), di procedure adeguate rispetto al fine. Misure la cui elasticità risulta precondizione necessaria per consentire un adeguamento in parallelo al progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche che ne rappresentano il presupposto[32] e che sono il nucleo problematico di lettura e interpretazione della complessità nonché alle mutate condizioni oggettive che potrebbero verificarsi, e che si sono verificate nel caso di specie.
Tale riflessione si fonda, oltre che sulla evidenziata relazione strutturale e complementare tra i due principi di precauzione e di prevenzione, su una piana interpretazione del chiaro massaggio proveniente dall’Europa secondo cui « è generalmente riconosciuto che, in alcuni casi, la sola valutazione scientifica del rischio non è in grado di fornire tutte le informazioni su cui dovrebbe basarsi una decisione di gestione del rischio e che è legittimo prendere in considerazione altri fattori pertinenti, tra i quali aspetti di natura sociale, economica, tradizionale, etica e ambientale nonché la realizzabilità dei controlli»[33].
Si intercetta così una ulteriore criticità, quella del rapporto tra tecnica e diritto, che ipoteca il dato della effettività della tutele e che si coglie con maggiore evidenza nel passaggio al piano della decisione sul caso singolo, rispetto alla quale l’incertezza del dato scientifico va ad alimentare quel dato di complessità proprio della decisione, spesso acquisendo un peso (politico) rilevante nella individuazione del bilanciamento tra contrapposti interessi, come del resto è evidentissimo proprionell’avvicendarsi delle decisioni attraverso cui può ricostruirsi (fino a questo momento) la “storia” dell’impianto ILVA .
Dalle osservazioni sin qui svolte è evidente che non è intenzione di chi scrive riproporre una lettura del paradigma precauzionale estremizzante, secondo una esegesi paralizzante, cioè astrattamente idonea a bloccare qualsiasi attività anche solo potenzialmente pericolosa, interpretazione giustamente esclusa anche dalla stessa Corte costituzionale[34]. L’obiettivo di queste brevi riflessioni è solo quello di contribuire a porre l’attenzione sugli elementi che potrebbero, anche alla luce delle decisioni assunte nelle sedi comunitarie, consentire un ragionevole e prevedibile bilanciamento dei contrapposti interessi, evitando che nella lettura di contrapposte decisioni, come nel caso di specie, si abbia la sensazione che in esse (decisioni amministrative) possa aver avuto un peso decisivo una valutazione politica degli interessi in gioco.
E a tal fine occorre ritornare brevemente sui parametri che via via sono stati elaborati con riferimento all’applicazione del principio di precauzione nella sua ascesa a principio generale dell’azione[35]. Parametri la cui formulazione «ampia» (si pensi al grado di certezza richiesto e alla differente portata che la diversa dimensione lessicale «rischio specifico» - che deve emergere da indizi specifici – «probabilità di un danno reale» comporta) lascia, come è evidente nel caso in esame, un margine molto ampio di manovra, tanto alle amministrazioni quanto ai giudici chiamati ad esaminare la legittimità, formale e sostanziale, della decisione amministrativa, e dunque dell’assetto degli interessi in essa consacrato.
4.3. …ipotesi di coordinamento
Superato il dato (formale) relativo alla competenza, nel confronto delle decisioni richiamate nei paragrafi precedenti, il principale nucleo problematico si addensa proprio attorno al conflittuale rapporto strutturale tra tecnica e diritto funzionale alla prevedibilità (in astratto) dell’evento dannoso. Un rapporto intrinsecamente condizionato da una molteplicità di fattori che vanno dalla incertezza del risultato dell’analisi scientifica, ai rischi connessi alla tecnica, e alla sua mutabilità, e che comporta anche che si proiettino il rischio e la sua valutazione nella complessa dimensione della probabilità/improbabilità del verificarsi dell’evento che, per garantire la ragionevolezza e la stessa proporzionalità della scelta consacrata nella decisione amministrativa, deve concorrere alla valutazione complessiva del fatto assieme ad ulteriori elementi - quali l’impatto sociale, politico e anche economico delle decisioni che sono assunte - alcuni dei quali, per loro stessa natura, sono caratterizzati da una più facile prevedibilità, soprattutto nel medio periodo, e quindi finiscono per avere un peso specifico maggiore nel contesto della decisione.
Ed è in questa prospettiva che occorre riflettere sulla portata (reale) di quel decalogo della precauzione elaborato dalla giurisprudenza[36] e in particolare sul grado di certezza (del rischio di danno) che viene richiesto per ritenere raggiunta quella «valutazione scientifica obiettiva», che nel caso in esame viene definita come «rischio specifico» tale, però, da garantire il principio «better safe than sorry». E ciò in quanto la valutazione posta a base della decisione non può prescindere dall’assunzione di una prospettiva nella quale si considerano gli effetti sistemici, anche di medio e lungo periodo, delle decisioni assunte, nella consapevolezza che la valutazione parziale dei rischi ha influenze distorsive della stessa efficacia delle decisioni di non poco momento, come del resto il caso della città di Taranto emblematicamente dimostra. Una portata che, in maniera più evidente proprio nel settore ambientale va definita e integrata con (ma non deve sostituire) quelle decisioni improntate al diverso principio di prevenzione inteso tanto in senso negativo quanto positivo[37] che, muovendo da una più concreta e certa definizione del rischio, impongono regole di condotta e comportamenti agli attori, di norma consacrate nei regimi autorizzatori, nei quali certamente rientra anche l’AIA, che, grazie alla revisione periodica, dovrebbero garantire una effettività della tutela degli interessi sensibili (ambientali e sanitari).
Nella decisione del Consiglio di Stato, l’opzione ermeneutica del giudice amministrativo, porta, invece, ad escludere la utilizzabilità della ordinanza sindacale di necessità ed urgenza per fini precauzionali per un duplice ordine di ragioni: le prime di pura legittimità essendo la gestione delle situazioni emergenziali relative all’impianto oggetto di una specifica disciplina che prevede l’intervento di soggetti diversi le cui competenze, anche in caso di inerzia, non possono, secondo quanto si legge in sentenza, essere esautorate dall’ordinanza sindacale[38]; e in ogni caso difettando, ad avviso del giudice, quei requisiti propri del potere extra ordinem, quali la contingibilità, l’urgenza, la straordinarietà dell’evento nonché la sua imprevedibilità non risultando, tra l’altro, nel merito, adeguatamente supportato da un corredo probatorio il rischio di ripetizione degli eventi emissivi, la pericolosità per la salute della cittadinanza degli stessi rispetto a una situazione di gravità e pericolosità già conclamata e quindi tale da non legittimare una qualificazione in termini di emergenza della condizione (abituale) del territorio.
La distanza siderale tra le due impostazioni riflette il diverso approccio rispetto ai beni giuridici primari oggetto di tutela. Un approccio evidentemente sostanzialista, quello del primo giudice, più condizionato da un approccio formale al principio di legalità il secondo che pare addirittura trovare un momento di chiusura in una valutazione della proporzionalità effettuata considerando (normale) la situazione (emergenziale) in cui quel territorio versa.
Una opzione interpretativa, quella del Consiglio di Stato, che si discosta, ad esempio, da alcune applicazioni del principio effettuate proprio nel periodo pandemico nelle quali la mancanza di «acclarate e solide conoscenze scientifiche in ordine alle modalità di trasmissione del coronavirus» sono state ritenute sufficienti per giustificare decisioni restrittive in applicazione proprio del principio di precauzione[39] nella sua dimensione finalistica correlata al principio di responsabilità che, in astratto dovrebbe guidare la interpretazione del paradigma precauzionale. Infatti, proprio facendo leva sulla presupposta ordinarietà delle condizioni di partenza valutata, prevalentemente, nella dimensione ambientale e solo di riflesso rispetto al diritto fondamentale alla salute e al diritto alla sicurezza invocato dalla cittadinanza[40], è stata negata la proporzionalità della misura precauzionale[41].
Un approccio che, se si supera la pur ineccepibile dimensione formale, risulta frustrare lo stesso profilo teleologico del principio di precauzione, e cioè una anticipazione di tutela finalizzata a prevenire, o quanto meno contenere, il danno, o anche un suo aggravamento[42], avendo il vaglio sui confini del potere di ordinanza reso impossibile una valutazione sul merito e dunque un bilanciamento tra contrapposti interessi, ivi includendo anche la considerazione dei tempi di risposta delle amministrazioni competenti, secondo lo schema richiamato dal giudice di secondo grado che, non a caso, incidentalmente, e solo come mero richiamo di un principio, ne ricorda la responsabilità in caso di danno causato da una loro inazione. Una ricostruzione quella proposta in appello che, assumendo la lente del giudice di primo grado, pare porsi in contrasto con quella necessaria sistemicità della tutela invocata dalla Corte costituzionale proprio con riferimento all’ILVA[43] che non può prescindere, dunque, anche nella considerazione della necessarietà dello strumento eccezionale, dalla valutazione del contesto, senza dimenticare che già in passato, nel bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro, la compressione del diritto fondamentale era stata tollerata, o meglio era divenuta ragionevole in quanto temporanea e funzionale a prevenire un’altra emergenza (quella lavorativa). Una posizione non condivisa proprio dalla Corte europea per i diritti dell’uomo nella sentenza richiamata in precedenza in ragione di una diversa prospettiva assunta da quest’ultima, incentrata sulla valutazione della effettiva violazione del diritto fondamentale[44]. Una sistemicità che, però, anche in considerazione delle circostanze concrete, e forse anche del tempo trascorso, ad esempio a distanza di 6 anni ha portato la Corte costituzionale, nella sentenza 58/2018 a porre su una diversa base giuridica lo stesso bilanciamento costituzionale e dunque la valutazione della ragionevolezza e proporzionalità della decisione secondo un percorso di analisi più improntato a una concezione strumentale del diritto e, dunque, spinto maggiormente dal pensiero della necessità[45]. Approccio che trova un chiaro sostrato filosofico-concettuale nella decisione del giudice di primo grado[46].
5. Riflessioni conclusive
Dalle osservazioni svolte in precedenza è evidente che l’opzione ermeneutica dei due giudici non può essere valutata secondo un tradizionale e radicale paradigma interpretativo giusto/sbagliato, ma spinge piuttosto l’interprete a una riflessione di carattere generale sui canoni di convivenza tra principi e valori formativi della convivenza collettiva e diritti individuali, valorizzando proprio il compito della jurisprudenzia di «realizzare positivamente la “pratica concordanza” delle diversità e persino delle contraddizioni»[47] valorizzando quella funzione degli stessi diritti individuali e la loro diretta funzionalizzazione alla implementazione di un ordine sociale giusto[48]. In questo contesto ci si deve infatti domandare quanto le regole, quali quelle che disciplinano la competenza, possono risultare pregiudizievoli della efficacia ed effettività dei principi che, non avendo una fattispecie, assumono una operatività nel momento in cui si confrontano con un caso concreto e che, data la loro portata strutturale, non possono essere ridotti a meri accessori, assumendo una sostanza valoriale che non può essere frustrata (o esclusa) dalla regola[49].
Proprio l’esigenza di non neutralizzare principi fondamentali ha indotto l’ordinamento a delineare provvedimenti extra ordinem anche in deroga alle regole sulla competenza[50].
E su questo dovrebbe aprirsi una riflessione sulla razionalità materiale del potere in concreto esercitato dal giudice, quella razionalità non orientata alla forma e alla opposizione qualitativa vero-falso, ma al contenuto, alla ragionevolezza dell’assetto degli interessi che quella determinata decisione dà al rapporto amministrativo, stando ben attenti a non scardinarlo comunque dal diritto positivo, ma senza abdicare alla funzione pratica, rivalutando quella concezione articolata che pone l’interprete a servizio dell’ordinamento giuridico, tanto nella sua dimensione riferita alle regole (ex parte potestatis), quanto nella sua dimensione riferita ai principi (ex parte societatis). Dunque, non un giudizio etico, né un giudizio fondato su un acritico positivismo, ma sullo specifico accadimento, sullo specifico problema amministrativo di cui va inteso il senso e il valore[51], intendendo per senso quella logica sociale dell’azione e, dunque, le conseguenze che ne derivano e che rappresenta il nucleo attorno al quale ruota il percorso per la formulazione di una scelta (decisione) ragionevole e proporzionata[52], il che non vuol dire aprire la via a una visione soggettivistica dell’interpretazione con buona pace del principio di certezza, ma aprire una più ampia riflessione sul «reale» oggetto del giudizio amministrativo, e ciò anche in considerazione del fatto che la ragionevolezza (paradigma della proporzionalità)[53] della decisione è (e non potrebbe non essere) il risultato di una «categorizzazione dei fatti che tiene conto di tutti i principi che essi mettono in movimento»[54].
[1] Sebbene sia frutto di una riflessione condivisa sulle tematiche, i paragrafi sono così distribuiti: parr. 1, 2 e 3 Annarita Iacopino; par. 4, 4.1, 4.2, 4.3 e 5 Giovanna Iacovone.
[2] Nella sentenza di primo grado si legge, infatti, «deve ritenersi quindi provato che i fenomeni emissivi indicati nell’impugnata ordinanza sono stati determinati da malfunzionamento tecnico, difettosa attività di monitoraggio e di pronto intervento, nonché criticità nella gestione del rischio e nel sistema delle procedure di approvvigionamento di fornitura e di negligente predisposizione di scorte di magazzino».
[3] Nella decisione si sottolinea come la scelta di mantenere l’alimentazione a carbone «risulti funzionale agli interessi economici dell’indotto complessivo dell’acciaio, che beneficiano dei relativi prodotti differenziali».
[4] Rileva la Corte EDU che «il giusto equilibrio da assicurare tra, da una parte, l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme, non è stato rispettato. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione». Sul punto si rinvia all’analisi critica svolta da S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso ILVA, nota a C. eur. Dir. Uomo, sez. I, 24 gennaio 2019, Cordella e altri, in Diritto penale contemporaneo, 2019.
[5] Il riferimento è alla sentenza della Corte di giustizia UE del 31 marzo 2011 (causa C-50/10) nella quale si era riconosciuto che l’Italia si era sottratta agli obblighi cui era tenuta in forza della direttiva 2008/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla prevenzione e alla riduzione integrate dell’inquinamento avendo omesso, l’Italia, di adottare le misure necessarie grazie alle quali le autorità competenti avrebbero potuto controllare gli impianti industriali esistenti funzionassero conformemente a un sistema di autorizzazioni previsto dalla direttiva. Una posizione espressa anche in un parere motivato del 16 ottobre 2014 nel quale la Commissione aveva evidenziato che l’Italia si era sottratta agli obblighi di garantire che l’acciaieria fosse conforme ai requisiti della direttiva sulle emissioni industriali.
[6] La Corte EDU ha infatti che «una doglianza difendibile dal punto di vista dell’articolo 8 può sorgere se un rischio ecologico raggiunge un livello di gravità che riduce notevolmente la capacità del ricorrente di godere del proprio domicilio o della propria vita privata o famigliare» che riconduce in capo agli stati non solo un obbligo negativo di astensione dello Stato da ingerenze arbitrarie, ma anche un obbligo positivo «in particolare nel caso di un’attività pericolosa, di mettere in atto una legislazione adattata alle specificità di tale attività, in particolare al livello di rischio che potrebbe derivarne. Tale legislazione deve disciplinare l’autorizzazione, la messa in funziona, lo sfruttamento, la sicurezza e il controllo dell’attività in questione, nonché imporre a ogni persona interessata da quest’ultima l’adozione di misure di ordine pratico idonee ad assicurare la protezione effettiva dei cittadini la cui vita rischia di essere esposta ai pericoli inerenti al settore in causa» (in linea con questa impostazione Oneryildiz c. Turchia, [GC], n. 48939/99, § 90, CEDU 2004-XII, e Brincat e altri c. Malta, nn. 60908/11 e altri 4, §§ 101-102, 24 luglio 2014).
[7] In particolare, si richiama l’orientamento del Consiglio di Stato per il quale «nell’ambito del procedimento del rilascio dell’AIA in via generale non è obbligatorio procedere alla valutazione sanitaria (prescritta nelle sole ipotesi disciplinate dall’art. 9 della L. 221/15) salvo che, in base al principio di precauzione, concrete evidenze istruttorie dimostrino l’insussistenza di un serio pericolo della salute pubblica. Resta ovviamente fermo che, ove l’apporto consultivo dei predetti enti (ndr: ARPA, ASL, ISPRA) venga comunque acquisito, l’autorità procedente è tenuta ad una autonoma valutazione dei pareri resi quantomeno nell’ipotesi in cui intenda discostarsene» (IV, 11 febbraio 2019, n. 983; IV, 28 agosto 2019, n. 5985).
[8] Nella sentenza si precisa che «l’AIA costituisce un atto amministrativo di natura autorizzatoria finalizzato all’esercizio o prosecuzione di attività produttiva, con il quale vengono stabilite le specifiche prescrizioni che delimitano le condizioni di esercizio dell’attività; tali prescrizioni costituiscono l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento nel quale (…) devono trovare simultanea applicazione i principi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA con le sue caratteristiche di partecipazione, pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione.
Una volta raggiunto tale equilibrio diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni; Ciò chiama in causa la funzione di controllo dell’amministrazione (…) Le prescrizioni e misure contenute nell’AIA possono rivelarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità soggettiva» (Corte cost., 9 aprile 2013, n. 85).
[9] Un profilo condiviso dal giudice di primo grado il quale rileva che «tale principio impone che, allorché ricorrano incertezze o ragionevoli dubbi in ordine al rischio per la salute delle persone, possono essere adottate misure di tutela del bene protetto ancor prima che risulti pienamente dimostrata l’esistenza e gravità delle fonti di rischio (cfr. C.d.S. sez. III n. 3.20.2019 n. 6655; TAR Sardegna sez. I 16.11.2020 n. 628)».
[10] Rileva sul punto il giudice di primo grado, sulla scia di chiari precedenti giurisprudenziali (Cons. Stato, V, 25 maggio 2012, n. 3077) che «il fatto che una situazione fonte di rischio sia protratta nel tempo non rende per questo illegittimo il provvedimento contingibile e urgente del Sindaco, atteso che in determinate situazioni il trascorrere del tempo o lo stato di perdurante rischio non elimina da sé il pericolo per la salute dei cittadini potendo viceversa aggravarlo».
[11] Rileva il giudice di secondo grado che «Il potere in questione è icasticamente definito “derogatorio”, proprio per il peculiare tratto distintivo di “esorbitare” dalle regole che scandiscono l’attività amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. II, 15 febbraio 2021, n. 1375; sez. IV, 11 gennaio 2021, n. 344; sez. II, 11 luglio 2020, n. 4474; sez. V, 4 febbraio 2015, n. 533).
Esso pone, perciò, delicati problemi di raccordo con il principio di legalità (…) del quale costituiscono corollari, per l’appunto, il principio di tipicità e nominatività dei poteri dell’amministrazione e il principio di competenza».
[12] Rileva, infatti, il giudice che «La panoplia di rimedi predisposta dal legislatore non esaurisce il novero delle ipotesi nelle quali, astrattamente, la pubblica incolumità o la salute della collettività possono essere poste in pericolo o subire un danno dallo svolgimento di un’attività produttiva legittimamente autorizzata».
[13] Sul punto cfr. Cons. Stato, II, 11 luglio 2020, n. 4474; T.A.R. Campania, Napoli, 9 novembre 2020, n. 5066 «I presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente risiedono nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché nella provvisorietà e nella temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento, non essendo pertanto possibile adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità».
[14] Una prospettiva chiaramente delineata dallo stesso Consiglio di Stato, da ultimo nella decisione, IV, 11 gennaio 2021, n. 344 nella quale si sottolinea che «Il principio di precauzione, ferma restando l’assoluta rilevanza nel diritto ambientale interno ed eurounitario, non legittima di per sé, in difetto di specifiche disposizioni normative, l’esercizio da parte del Sindaco, di un potere “innominato” di inibizione di attività amministrative e/o economiche, qualora non sussista, con sufficiente certezza alcun pericolo attuale, concreto ed irreparabile per la pubblica incolumità, ed in particolare per la salute pubblica».
[15] Cons. Stato, II, 15 febbraio 2021, n. 1375.
[16] Nella sentenza in commento si sottolinea che «La giurisprudenza ha individuato ulteriori “presupposti” del potere di ordinanza quali, per l’appunto, la “straordinarietà dell’evento”, la sua “imprevedibilità (da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 15 febbraio 2021, n. 1375; sez. V, 16 aprile 2019, n. 2495; anche allorché la situazione di emergenza fosse sorta in epoca antecedente, secondo Cons. Stato, sez. II, 11 luglio 2020, n. 4474, o la situazione di incuria si fosse protratta da tempo, come in Cons. Stato, sez. IV, 25 settembre 2006, n. 5639) oppure la “necessaria temporaneità della misura adottata” (sempre secondo Cons. Stato, sez. II, 11 luglio 2020, n. 4474; Cons. Stato, sez. VI, 15 novembre 2016, n. 4705, e, per tutti, Corte cost., 2 luglio 2956, n. 8; contra Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 2009, n. 828, secondo cui “nulla esclude che la specificità della situazione richieda l’adozione … di misure di carattere definitivo, atteso che quello che rileva è l’idoneità della misura in relazione alla situazione da fronteggiare”; v. pure sez. IV, 9 novembre 2019, n. 7665; sez. V, 6 marzo 2013, n. 1372; sez. V, 25 maggio 2012, n. 3077; sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4402)».
[17] Il richiamo è alla Comunicazione nella quale si legge espressamente che «Il principio di precauzione presuppone: l’identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno, da un prodotto o da un procedimento; una valutazione scientifica del rischio che, per l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loro imprecisione, non consente di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione» (15).
[18] In particolare, la Commissione rileva che «Una valutazione delle potenziali conseguenze dell’inazione e delle incertezze della valutazione scientifica dovrebbe essere compiuta dai responsabili al momento di decidere se intraprendere azioni basate sul principio di precauzione.
Tutte le parti in causa dovrebbero essere coinvolte nel modo più completo possibile nello studio delle varie opzioni di gestione del rischio, una volta che i risultati della valutazione scientifica e/o della valutazione del rischio siano disponibili. La procedura dovrebbe essere quanto più possibile trasparente» (17).
[19] Nella Comunicazione la Commissione richiama, accanto alle ipotesi di autorizzazione preventiva quei casi in cui «non è prevista una simile procedura [e] può spettare all’utilizzatore, persona privata, associazione di consumatori o di cittadini o al potere pubblico di dimostrare la natura di un pericolo e il livello di rischio di un prodotto o di un procedimento. Un’azione adottata in base al principio di precauzione può comportare in alcuni casi una clausola che preveda l’inversione dell’onere della prova sul produttore, il fabbricante o l’importatore; tuttavia, un tale obbligo non può essere sistematicamente previsto in quanto principio generale». (22)
[20] «La Commissione ritiene inoltre che qualunque decisione debba essere preceduta da un esame di tutti i dati scientifici disponibili e, se possibile, da una valutazione quanto più possibile obiettiva e completa del rischio. Decidere di ricorrere al principio di precauzione non significa che le misure siano fondate su base arbitraria o discriminatoria» (22).
[21] Sul punto cfr. CGUE, sentenze del 5 maggio 1998, cause C-157/96 e C-180/96 nella quale si sottolinea che «si deve ammettere, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi” (punto 99 della motivazione).
Questa considerazione è corroborata dall’articolo 130R, n. 1, del Trattato CE, secondo il quale la protezione della salute umana rientra tra gli obiettivi della politica della Comunità in materia ambientale. Il n. 2 del medesimo articolo dispone che questa politica, che mira a un elevato livello di tutela, è fondata segnatamente sui principi della precauzione e dell’azione preventiva e che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitarie” (punto 100 della motivazione).
[22] Cons. Stato, III, 3 ottobre 2019, n. 6655.
[23] Cons. Stato, IV, 14 luglio 2020, n.4545; III, 7 maggio 2021, n. 3597.
[24] Sul punto il Giudice di secondo grado rileva come «L’unica criticità segnalata avente queste caratteristiche è quella relativa alla ritenuta insufficienza delle procedure predisposte dal gestore per l’individuazione e la correzione delle anomalie di funzionamento dell’attuale sistema di abbattimento delle polveri e alla necessità “non solo” di rispettare i tempi di installazione dei filtri a maniche, ma, anzi, di “anticiparli” e “accelerarli”».
[25] Nella motivazione si legge che «Ad una lettura di quest’atto [la nota del Ministero del 13 agosto 2020], emerge una congerie eterogenea di accadimenti, collegati all’attività dello stabilimento siderurgico e rilevanti, dunque, nell’anzidetta prospettiva del controllo sull’osservanza del titolo abilitativo o sulla necessità di una sua revisione, ma non attinenti alla legittimità del provvedimento gravato».
[26] «La sollecita anticipazione dell’adozione di alcune di queste misure (in particolare, dei filtri a maniche), evidenziata nella prima parte del provvedimento gravato (…) non risulta coercibile mediante l’adozione di provvedimenti “paralleli” a quelli invece preordinati alla loro pianificazione.
Tale anticipazione potrà avvenire, rebus sic stantibus e salvo ulteriori procedimenti di revisione del titolo, solamente con un ulteriore impegno assunto volontariamente dal gestore dell’impianto, in una prospettiva di pianificazione della complessa situazione sociale venutasi a creare a causa del problema di lungo corso che affligge la città di Taranto, e che tuttavia non esonera il giudicante dal dovere di valutare l’operato dei soggetti pubblici, e nella specie in particolare del Comune, applicando esclusivamente i parametri della legittimità amministrativa».
[27] Rileva sul punto il Giudice che «Con riferimento alla situazione attuale, le misure previste dal Piano risultano in corso di realizzazione e non emergono, dagli atti endoprocedimentali o dal provvedimento gravato, particolari ritardi o inadempimenti rispetto alla loro attuazione».
[28] Sul punto cfr. L. Giani, Dalla cultura dell’emergenza alla cultura del rischio. Potere pubblico e gestione delle emergenze, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, a cura di L. Giani, M. D’Orsogna, A. Police, Napoli, 2018, 21-22, secondo cui «[l]a questione della “mancata previsione” […] va ricondotta alla individuazione e contestualizzazione dei principi generali di “precauzione”, “prevenzione” e “sostenibilità” letti attraverso la lente del principio di “responsabilità” rispetto al quale deve ritenersi superata la ritenuta irrilevanza etica del rapporto dell’uomo con “il mondo extraumano”, fondata sulla non necessarietà, in favore di una impostazione che non può prescindere dalla valutazione delle conseguenze a lungo termine delle azioni umane, con il conseguente mutamento dell’imperativo categorico nel senso di non poter rischiare “il non essere d elle generazioni future” garantendo la sostenibilità, anche per le generazioni presenti, delle scelte».
[29] Sul potere di ordinanza si veda, per tutti, R. Cavallo Perin, Potere di ordinanza e principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità e urgenza, Giuffrè, Milano, 1990; C. Marzuoli, Il diritto amministrativo dell’emergenza: fonti e poteri, in Annuario AIPDA 2005, Milano, 2006, 16 ss.
[30] Si veda l’analisi condotta da S. Cimini, I soggetti del sistema: intreccio di competenze e regolazione delle emergenze, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 99 ss.
[31] Sul punto sia consentito rinviare all’analisi condotta nel volume AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit.
[32] Sul punto cfr. L. Giani, Dalla cultura dell’emergenza alla cultura del rischio: potere pubblico e gestione delle emergenze, cit., che, proprio in relazione, a tale rapporto specifica che si tratta di «Un percorso, dunque, che si colloca su un terreno di indagine assai delicato, nel quale la chiave di lettura va ricercata nel rapporto interferenziale che imporrebbe una necessaria e reciproca comunicazione fra i due, fino al punto di contribuire a determinare la prima i contenuti del secondo, o quanto meno quegli atti regolatori e provvedimentali che del secondo sono attuazione; definendo per tale via il rapporto che dovrebbe sussistere tra scienza e diritto, al fine di interrogarsi su alcuni profili problematici, primo fra tutti la incidenza che la prima dovrebbe avere sui contenuti del secondo, inteso in senso ampio, inclusivo della vasta gamma dei provvedimenti (anche non a carattere normativo) che possono essere assunti nel quadro dei diversi livelli di governo, senza determinare una automatica prevalenza del profilo economico» (18).
[33] 19° Considerando, Reg. 178/2002, cit.
[34] Il richiamo è a Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85.
[35] Sul punto si rinvia all’analisi condotta da P. Gargiulo, Brevi riflessioni sulla natura giuridica e sul contenuto dei principi di precauzione e di prevenzione nel diritto internazionale, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 31 ss.; F. De Leonardis, Tra precauzione, prevenzione e programmazione, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 49 ss. Con specifico riferimento alla materia ambientale, W. Giulietti, I principi di prevenzione e precauzione nella materia ambientale, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 237 ss.
[36] Parla di decalogo della precauzione F. De Leonardis, op. cit.: «Quando dunque l’art. 301 cod. amb. prevede espressamente che il rischio probabile è quello accertato come tale a seguito di una “valutazione scientifica obiettiva” si può dire che tale norma codifichi gli esiti di una copiosa giurisprudenza europea che si potrebbe sintetizzare in una sorta di “decalogo” della precauzione: 1) si deve sempre partire dai dati tecnico-scientifici disponibili; 2) i risultati da cui si parte devono essere recenti e devono essere rivisti assai spesso; 3) gli organi che si pronunciano sul rischio devono essere tecnicamente competenti (eccellenza dell’organo tecnico); 4) gli organi tecnici devono essere indipendenti (indipendenza dell’organo tecnico); 5) vi deve essere un numero ragionevole di pareri tecnico-scientifici; 6) per la decisione dell’organo tecnico collegiale non vale il principio della maggioranza; 7) l’onere della prova in ordine al rischio spetta alla p.a.; 8) occorre svolgere un’analisi costi benefici; 9) la misura deve essere proporzionata; 10) la motivazione deve dare ampio conto di quanto innanzi espresso» (67-68).
[37] Per questa distinzione si rinvia alle riflessioni di P. Dell’Anno, Prevenzione dall’inquinamento ambientale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986, 206 ss.
[38] Si ricorda, infatti che i fatti che hanno dato origine al ricorso risalgono al 2019 quando viene trasmessa una valutazione di danno sanitario da parte di ARPA Puglia alle autorità competenti. A seguito della trasmissione di detto documento il Sindaco del Comune di Taranto ha richiesto al Ministero competente il riesame dell’AIA dello stabilimento emessa nel 2017, affinché fossero introdotte misure di tutela delle condizioni sanitarie. Nelle more del procedimento di revisione dell’AIA, avviato a seguito dell’istanza avanzata dal Comune di Taranto, si sono verificati due episodi emissivi a seguito dei quali l’amministrazione comunale si è rivolta all’APRA Puglia e alla ASL per ottenere delucidazioni sul profilo tecnico nonché indicazioni sulle «possibili azioni da intraprendere».
Contestualmente il Comune di Taranto si è rivolto al Ministero al fine di sollecitare una verifica sull’eventuale violazione dell’AIA, onde poter assumere le misure necessarie previste dall’art. 217 del r.d. 1265/1934. Nonostante il riscontro negativo offerto dal Ministero, a seguito del verificarsi di ulteriori episodi emissivi nel corso del 2020 il Comune ha adottato l’ordinanza all’origine del contenzioso in questa sede esaminato.
[39] TAR Campania, Napoli, V, 22 aprile 2020, n. 826. Sul punto, cfr., in senso contrario, Cons. Stato, II, 15 febbraio 2021, n. 1375 nella quale si afferma che “Il potere in discorso, come si è visto volto a fronteggiare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, trova legittima espansione in presenza di un preventivo accertamento della situazione, fondato su prove concrete e non su mere presunzioni. I sopra indicati presupposti non ricorrono, laddove il Sindaco possa fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero laddove la situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti apprestati dall’ordinamento. Il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente trova, per effetto delle riferite coordinate interpretative, fondamento nella dimostrata presenza dell’esigenza di fronteggiare con immediatezza una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle misure ordinarie), ovvero una condizione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente dalla circostanza che la situazione di emergenza sia sorta in epoca antecedente”.
[40] Sul punto cfr. C.R. Sunstein, Laws of Fear. Beyond the recutionary Principle, Cambridge, 2005. Sulla portata del principio di precauzione cfr. Corte Giust. UE (Grande Sezione), 1.10.2019, Mathiew Blaise e a., C-616/17, par. 41: «sebbene l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE preveda che la politica in materia ambientale è fondata, in particolare, sul principio di precauzione, tale principio è applicabile anche nel contesto di altre politiche dell’Unione, segnatamente della politica di protezione della salute pubblica nonché quando le istituzione dell’Unione europea adottano, nell’ambito della politica agricola comune o della politica del mercato interno, mirese di protezione per la salute umana».
[41] Sulla correlazione logica tra i due principi cfr. Cons. St., sez. III, 9.3.2020, n. 1692, sul noto caso Xylella fastidiosa, che al punto 9.3. ribadisce che il principio di precauzione deve essere applicato «tenendo conto del principio di proporzionalità, in quale esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione e quelli adottati dalle amministrazioni nazionali in conseguenza non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno gravosa, e che gli inconvenienti causati non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti».
[42] Sul punto cfr. Cons. St., sez. II, 11.5.2020, n. 2964 che nel richiamare la Corte di Giustizia rileva che «la disciplina di tutela ambientale e della salute dei cittadini deve ritenersi ormai orientata da tale principio» e che lo stesso si sostanzia «quale obbligo giuridico di assicurare un elevato livello di tutela ambientale con l’adozione delle migliori tecnologie disponibili finalizzato ad anticipare la tutela, poi da apprestarsi in sede legislativa, a decorrere dal momento in cui si profili un danno da riparare, ai fini sia della sua prevenzione, ove possibile, sia del suo contenimento» (in senso analogo Cons. St., sez. II, 6.4.2020, n. 2248 e Cons. St., sez. IV, 18.7.2017, n. 3559).
In particolare, «[q]ualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito, a causa della natura non concludente dei risultati sugli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per la salute pubblica nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive» (Cons. St., sez. III, 9.3.2020, n. 1692, che cita Corte Giust. UE, 17.12.2015, Neptune Distribution SNC c. Ministre de l’Economie et des Finances, C-157/14).
[43] Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, in particolare punto 9 dove si afferma che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Tra i numerosi commenti si rinvia a D. Pamelin, Il difficile bilanciamento tra diritto alla salute e libertà economiche: i casi ILVA e TEXACO-Chevron, in Costituzionalismo.it, n. 2/2017; D. Morana, I rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale nella garanzia dei diritti sociali, in Amministrazione In Cammino, 2015; A. Ciervo, Esercizi di neo-liberismo: in margine alla sentenza della Corte costituzionale sul caso ILVA, in Questione giustizia, n. 2/2015, 134 ss..; B. Deidda – A. Natale, Introduzione: il diritto alla salute alla prova del caso ILVA. Uno sguardo d’insieme, in Questione Giustizia, n. 2/2014, 67 ss.; A. Morelli, Il decreto Ilva: un drammatico bilanciamento tra principi costituzionali, in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2013, 7 ss. In senso contrario ai commenti richiamati V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente. Nota a Corte costituzionale, Sentenza n. 85 del 2013, in Giurisprudenza costituzionale, 2013, fasc. 3, 1494 ss. La Corte ha poi ribadito la medesima impostazione nella sentenza 182/2017 sulla quale cfr. E. Verdolini, Il Caso ILVA Taranto e il fil rouge degli interessi costituzionali: commento alla sentenza 182 del 2017 della Corte Costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali del 24.2.2018; D. Servetti, Il fattore tempo nel bilanciamento tra lavoro e salute. Alcune note alla nuova sentenza della Corte costituzionale sull’Ilva di Taranto, in Costituzionalismo.it, 2018, 193 ss.
[44] Sulla asimmetria prospettica tra i due giudizi si rinvia all’analisi svolta da A. Ruggieri, La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale, in Diritti Comparati, 2012, 6; E. Scoditti, Se un diritto umano diventa diritto fondamentale: la CEDU come parametro interposto di costituzionalità, in Foro it., 2013, I, 788 ss.; R. Dickmann, Corte costituzionale e controlimiti al diritto internazionale. Ancora sulle relazioni tra ordinamento costituzionale e Cedu (dalle sent. nn. 348-349 del 2007 alla sent. n. 264 del 2012), in federalismi.it, 2013.
[45] P. Häberle, Demokratische Verfassungstheorie im Lichte des Möglichkeitsdenkens, 1977, ora in ID., Die Verfassung des Pluralismus, Königstein, 1980, pp. 1 ss.
[46] Sul punto non si può non richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di emissioni elettromagnetiche rispetto alle quali, a fronte del riconoscimento che «la massimizzazione della tutela dell’ambiente esigerebbe che non vi fosse alcuna emissione elettromagnetica artificiale e pertanto nessun apparato/antenna idonea a produrlo; quella al corretto assetto del territorio che non vi fossero pali, tralicci o altre strutture più o meno impattanti; quella della salute imporrebbe, sulla scorta del principio di precauzione, di evitare qualsiasi tipo di emissione elettromagnetica in quanto potenzialmente dannosa», il Giudice amministrativo ha statuito che: «posto che i dati scientifici attualmente a disposizione non dimostrano in modo certo che le emissioni elettromagnetiche siano dannose per la salute; posto che il principio di precauzione impone comunque di adottare ogni cautela in vista di danni ipoteticamente possibili, allora occorre definire i limiti oltre i quali, precauzionalmente, non sono legittime le emissioni. Tali limiti segnano la misura dell’incomprimibilità del diritto alla salute. La massimizzazione del diritto alla comunicazione troverebbe quindi in essi un primo confine invalicabile: le emissioni delle antenne dovranno essere sempre inferiori ai limiti cautelativi posti sulla base delle risultanze scientifiche anzidette. D’altra parte, dato che il diritto alla comunicazione non può essere arbitrariamente e ingiustificatamente compresso o limitato, le amministrazioni preposte al corretto governo del territorio dovranno trovare le soluzioni che di volta in volta meglio consentano il minor sacrificio dello stesso e, allo stesso tempo, la massima tutela del diritto alla comunicazione. Sorge quindi, a quest’ultimo proposito, la necessità di individuare un bilanciamento» (Cons Stato, VI, ord. 27 marzo 2019, n. 2033).
[47] Così G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, in particolare 14 il quale individua il diritto come «l’insieme delle condizioni entro il quale le attività pubbliche e private devono necessariamente essere collocate in vista di interessi materiali indisponibili. È un ordine oggettivo previsto per limitare la fluttuazione della volontà» (124).
[48] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, 125, in particolare 138 ss. dove a proposito del mutamento del rapporto tra uomo e ambiente, rileva che «la volontà non può essere tutelata come diritto senza limiti intriseci poiché non è ormai più illimitato il campo fisico “naturale” in cui essa si esercita. (…) I diritti-volontà non si muovono, perciò, nell’assenza di limiti e regole, secondo la loro schematizzazione classica, quali residui dello Stato di libertà naturale compatibili con il pactum societatis. I diritti il cui esercizio incide sulla natura materiale del mondo presuppongono oggi, al contrario di un tempo, il riferimento a un quadro obiettivo entro i quali sono situati: per garantirne la sopravvivenza e assicurarne un’equa e generalizzata utilizzazione» (140).
[49] Significative, nella prospettiva proposta nel testo, le illuminanti parole di G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit. (160) il quale sottolinea come «l’”essere”, illuminato dal principio, non contiene in sé, ancora, il suo “dover essere”, cioè la sua regola, ma almeno l’indicazione di una direzione lungo la quale deve porsi la regola per non contravvenire al valore contenuto nel principio».
[50] Sul punto v. R. Cavallo Perin, in R. Cavallo Perin, A. Romano (a cura di), Commentario breve al T.U sull'ordinamento degli Enti Locali, Padova, 2006, 365.
[51] «Per il diritto, quindi il caso non è qualcosa che debba semplicemente essere registrato ma è qualcosa che deve essere risolto. La risoluzione è richiesta dall’esistenza del problema. Come in tutti i problemi, anche i problemi giuridici devono essere “compresi” (…) Ai fini dell’applicazione (e, ancor prima, dell’individuazione tramite l’interpretazione) della regola di diritto, la comprensione del caso presuppone che se ne intenda il “senso” e gli si dia un “valore” attraverso categorie, appunto, di senso e di valore di cui disponga l’interprete. La caratterizzazione del caso alla luce di esse indicherà così in quali direzioni e in vista di quali risultati dovrà cercarsi nell’ordinamento la regola adatta ad essere applicata» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit. 187).
[52] «Il fatto, di per sé, nella sua semplice realtà storico-materiale (…) non avanza pretese, è muto e non postula alcuna “adeguatezza”. Le cose cambiano, però, una volta che tale fatto sia sottoposto a quella categorizzazione attraverso la quale esso viene “inteso”, “compreso” ed “esperito”» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., 189).
[53] Sul punto cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, nota 29, 216. Una prospettiva ripresa da S. Cognetti, Potere amministrativo e principio di precauzione fra discrezionalità tecnica e discrezionalità pura, in AA.VV., Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, 130; Id., Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.
[54] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., 204. Il senso e la portata delle affermazioni richiamate nel testo emergono con estrema chiarezza dalle riflessioni svolte da G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., il quale appunto sottolinea che «Nel concreto dell’applicazione giudiziaria, il carattere “ragionevole” del diritto viene in evidenza in entrambi i suoi momenti: nella categorizzazione dei casi alla luce dei principî e nella ricerca della regola da applicare al caso. Ragionevole è la categorizzazione dei fatti che tiene conto di tutti i principi che essi mettono in movimento; ragionevole è la regola, individuata entro le condizioni costringenti del diritto come ordinamento, che risponde alle esigenze del caso. Nella ricerca di questa complessiva “ragionevolezza” consiste l’opera di unificazione del diritto che è data come compito alla giurisprudenza».
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI - parte terza - Organizzazione degli uffici giudicanti di merito
di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. Contenuto delle tabelle. Organizzazione degli uffici giudicanti di merito - 1.1. La composizione dell’ufficio, la ripartizione per settori e l’eventuale suddivisione in sezioni - 1.2. Le sezioni specializzate - 1.3. Direttive riguardanti le Corti di appello - 1.4. Gli incarichi direttivi e semidirettivi. Organizzazione del lavoro nelle sezioni - 1.5. Criteri di assegnazione dei magistrati - 1.6. Permanenza massima nei posti tabellari - 1.7. I criteri di assegnazione degli affari. - 1.8. Funzioni particolari - 2. Giudici onorari - 3. Supplenze, applicazioni e tabelle infradistrettuali.
1. Contenuto delle tabelle. Organizzazione degli uffici giudicanti di merito
1.1. La composizione dell’ufficio, la ripartizione per settori e l’eventuale suddivisione in sezioni
Dalle tabelle deve risultare innanzi tutto la composizione dell’ufficio, la ripartizione dei magistrati tra il settore civile e quello penale (tenendo conto delle esigenze determinate dalla qualità e quantità degli affari, come esaminate nella relazione organizzativa generale dell’ufficio e ferma la necessità di considerare autonomamente, sotto il profilo organizzativo, il settore relativo alle controversie di lavoro), l’eventuale suddivisione in sezioni[1], la costituzione di ognuna delle quali, fatta eccezione per la sezione g.i.p./g.u.p., richiede l’assegnazione di non meno di cinque magistrati, escluso il presidente di sezione, ai sensi dell’art. art. 46, quinto comma ord. giud[2].
Per gli uffici di più ridotte dimensioni sono possibili, purché giustificate da concrete e motivate esigenze di funzionalità del servizio, sezioni composte da cinque magistrati compreso il presidente.
La determinazione del numero delle sezioni e dei magistrati assegnati a ciascuna di esse deve avvenire sulla base di specifiche esigenze organizzative, tenendo conto degli altri strumenti previsti per far fronte alle esigenze di servizio e, specificamente, della possibilità, derivante dalla normativa sulle tabelle infradistrettuali[3], di disporre in via ordinaria l’assegnazione congiunta di magistrati a più uffici aventi la medesima competenza, e di quella di avvalersi dell’apporto collaborativo dei giudici onorari nei limiti e per le attività previste dagli articoli 179 e 180 della circolare.
La situazione concreta dei singoli uffici e le esigenze di funzionalità del servizio debbono presiedere alla ripartizione del lavoro tra le diverse sezioni, con possibilità di attribuire ad una stessa sezione affari sia civili sia penali solo qualora il numero dei procedimenti sia tale da non giustificare la trattazione esclusiva di una soltanto delle due materie.
All’interno delle sezioni i magistrati svolgeranno funzioni sia collegiali sia monocratiche, potendo essere destinati a svolgere in via esclusiva funzioni collegiali o monocratiche in ragione di concrete esigenze organizzative dell’ufficio o di specifiche condizioni personali; e ciò vale anche per i magistrati ordinari al termine del tirocinio.
Per le funzioni particolari di magistrato collaboratore nel coordinamento dell’ufficio del giudice di pace; referente informatico[4] e magistrato di riferimento per l’informatica; referente per la formazione; componente della Struttura tecnica per l’organizzazione; componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione; di commissario agli usi civici cfr., infra, il par. 6.8.
1.2. Le sezioni specializzate
Oltre alla naturale ripartizione tra il settore penale e quello civile, nell’organizzazione degli uffici deve essere favorito l’affinamento di competenze specialistiche per materie omogenee e predeterminate. La costituzione, ove possibile, di sezioni specializzate, e l’accorpamento per materie omogenee (ovvero, comunque, di ruoli specializzati) sono considerati al riguardo i modelli organizzativi più idonei, secondo le indicazioni contenute negli artt. 56 - 58 della circolare[5].
Regole specifiche sono poi dettate:
- per la sezione lavoro ed i magistrati che vi sono destinati (artt.61- 62);
- per quelle addette alla materia della famiglia e dei diritti della persona (art. 63);
- per le sezioni specializzate in materia di impresa (artt. 64 - 66) istituite con il d.lgs. n. 168/2003 (così come sostituito dall'articolo 2, comma 1, lett. d, del d.l. n. 1/2012 convertito, con modificazioni, nella legge n. 27/2012, n. 27) presso i Tribunali e le Corti d'appello di Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Campobasso, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova, L’Aquila, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trento, Trieste e Venezia; presso il Tribunale e della Corte di Appello (sezione distaccata) di Bolzano; presso il Tribunale e la Corte d'appello di Torino per il territorio compreso nella regione Valle d'Aosta/Vallé d'Aoste;
- per le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea in relazione alle materie di cui all’art. 3 del d.l. n. 13/2017 convertito, con modificazioni, nella legge n. 46/2017 e successive modifiche, operanti presso i Tribunali distrettuali (artt. 67-69);
- per la sezione g.i.p./g.u.p., da istituire in tutti i tribunali organizzati in opiù di due sezioni e che, nei casi in cui non sia diretta da un Presidente di sezione, è coordinata da un magistrato designato ai sensi dell’art. 71 della circolare[6](artt. 70 - 74);
- per la sezione o le sezioni del tribunale incaricate della decisione sulle richieste di riesame e appello delle misure cautelari personali o reali ex artt. 309, 10, 312 bis e 324 c.p.p.) (artt.75 -77)[7];
- per la composizione ed il funzionamento del collegio di cui all’art. 1 legge cost. 1/1989 (c.d. “tribunale dei Ministri”), da prevedere nella proposta tabellare relativa al tribunale del capoluogo di ogni distretto di Corte d’appello (artt.78 -81)[8].
1.3. Direttive riguardanti le Corti di appello
Anche alle Corti d’appello si applicano, in quanto compatibili, le regole organizzative dettate per i tribunali (tra cui, in particolare, quelle relative alla specializzazione), con specifiche previsioni volte a favorire la composizione specializzata per la sezione che giudica sulle impugnazioni dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni ed alla quale sono attribuite le altre funzioni previste dal c.p.p. nei procedimenti a carico di imputati minorenni, e per la sezione o i collegi incaricati della trattazione dei ricorsi di cui alla legge 89/ 2001 (equa riparazione in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo. Amplius, artt. 82 - 83 della circolare).
1.4. Gli incarichi direttivi e semidirettivi. Organizzazione del lavoro nelle sezioni
Nel capo III della circolare, agli artt. 84 – 108 è contenuta la disciplina concernente i compiti dei presidenti di Corte di Appello e dei presidenti di tribunale, ribadendosi tra l’altro la regola secondo cui nelle proposte tabellari dovrà essere predeterminata, con la specificazione dell’entità e dell’impegno relativi, l’attività giudiziaria ad essi riservata[9]; la direzione della sezione e la presidenza dei collegi che il Presidente del tribunale, se l’ufficio è organizzato in sezioni, intenda riservare a se stesso; sempre nei tribunali organizzati in sezioni, le attività di direzione dell’ufficio ex art. 47 ord. giud. che il Presidente del Tribunale intenda esercitare direttamente e quelle, invece, per le quali ritenga di farsi coadiuvare dai Presidenti di sezione con specifico incarico di coordinamento conferito ai sensi dell’articolo 98[10]; la delega per le funzioni presidenziali in materia di famiglia garantendo le modalità necessarie ad assicurare il coordinamento con gli altri giudici assegnati al settore; la previsione secondo cui l’assegnazione di più presidenti di sezione ad una stessa sezione può essere ammessa solo quando tutte le sezioni, civili e penali, abbiano un presidente e la presenza di più presidenti trovi giustificazione in base al numero dei magistrati addetti alla sezione e alla natura e quantità delle materie trattate e quelle secondo cui l’assegnazione allo stesso magistrato della presidenza di più sezioni può essere giustificata solo allorché non sia possibile assegnare un presidente a ciascuna sezione; l’indicazione del lavoro giudiziario cui i Presidenti di sezione debbono necessariamente concorrere[11].
Nella circolare vengono espressamente richiamati i compiti che i presidenti di sezione di Tribunale, oltre al lavoro giudiziario nella misura indicata, sono tenuti ad esercitare ai sensi dell’art. 47-quater ord. giud., sorvegliando l'andamento dei servizi di cancelleria ed ausiliari; distribuendo il lavoro tra i giudici e vigilando sulla loro attività; curando lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all'interno della sezione; coordinando le ferie dei magistrati appartenenti alla sezione; collaborando con il Presidente del tribunale nell'attività di direzione dell'ufficio anche per il raggiungimento degli obiettivi del documento organizzativo generale; verificando annualmente lo stato di realizzazione dell’obiettivo di riduzione delle pendenze di cui all’articolo 7, comma 1, lett. b) con riferimento al ruolo di ciascun giudice. Nella proposta tabellare debbono essere altresì indicate le modalità organizzative con le quali i Presidenti di sezione intendono realizzare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno delle sezioni e verificare l’andamento del servizio, allo scopo di raccogliere suggerimenti e approntare i più opportuni rimedi, con la precisazione che tra i magistrati assegnati alla sezione deve essere realizzato, anche con modalità telematiche e con cadenza almeno bimestrale, un incontro di cui deve essere data tempestiva comunicazione al dirigente dell’ufficio, al quale è inviata una relazione sull’esito delle riunioni con allegati i relativi verbali.
Con riguardo ai presidenti di sezione di Corte d’appello, ai quali si applicano in quanto compatibili le disposizioni dettate per i presidenti di tribunale, viene precisato che essi debbono provvedere – secondo le modalità indicate nel documento organizzativo generale - a una selezione preliminare delle impugnazioni, in ragione della data di iscrizione a ruolo, dell'importanza delle questioni proposte e di una definizione anticipata del procedimento, con la precisazione che nelle sezioni penali la selezione deve essere effettuata ai fini dell'eventuale immediata dichiarazione di inammissibilità a norma dell’articolo 591 c.p.p., dell'eventuale applicazione dell’articolo 568, quinto comma, c.p.p., o delle ulteriori possibili decisioni camerali a norma dell’articolo 599 c.p.p.[12]
Negli artt. 99 e 100 sono indicati i criteri per la designazione del magistrato destinato a sostituire il Presidente del tribunale in caso di mancanza o impedimento.
È infine da evidenziare che negli uffici di grandi dimensioni, i presidenti di tribunale e di corte di appello che non possano avvalersi dei presidenti di sezione, hanno la possibilità di farsi coadiuvare da magistrati che collaborano a specifiche attività presidenziali non espressamente riservate ai presidenti di sezione (cfr. gli artt. 107 e 108 della circolare, ove si precisa tra l’altro che l’incarico di collaborazione può durare un anno, ed è rinnovabile una sola volta.
Richiamando considerazioni già svolte in altre occasioni[13], pare opportuno ribadire infatti che le funzioni direttive non potrebbero essere compiutamente ed efficacemente esercitate senza un metodo partecipativo ed al di fuori di una gestione collegiale, di cui è parte essenziale, soprattutto negli uffici di maggiori dimensioni, un appropriato sistema di deleghe volto non solo ad agevolare e ad assicurare effettività allo svolgimento di quelle funzioni, ma insieme a coinvolgere in un’opera di diffusa responsabilizzazione i molteplici attori che, a vario titolo, concorrono all’amministrazione della giustizia. Il metodo partecipativo, la gestione collegiale e un appropriato sistema di deleghe che coinvolga anche i magistrati non investiti di funzioni semidirettive e che – sul versante delle figure amministrative – ha portato, in diversi uffici, alla creazione di interrelazioni concentriche tra la figura del dirigente e i direttori amministrativi, tra questi e i funzionari addetti ai diversi settori, tra i funzionari e i responsabili delle cancellerie, non solo hanno contribuito a creare una rete diffusa di responsabilizzazione, favorendo e incentivando una visione unitaria dei problemi dell’ufficio e dando maggior senso anche al lavoro individuale (una rete tanto più preziosa quanto più sono andate crescendo le difficoltà organizzative causate dalla scarsità delle risorse), ma hanno costituito una concreta palestra di esercitazione, che vale per tanti versi a sdrammatizzare la questione (tornata ad essere particolarmente accesa in questi tempi in cui è tornata a riproporsi con forza, ed anche a causa di gravi e note vicende, la necessità di contrastare la spinta al “carrierismo”[14]) degli incarichi semidirettivi e della “tabellarizzazione” da alcuni auspicata. Tutto ciò giova, nel contempo, a costituire un importante strumento di formazione e un prezioso veicolo di informazione rispetto ai pareri che i consigli giudiziari sono chiamati a esprimere e alle scelte che il CSM è tenuto a effettuare all’atto del conferimento dei relativi incarichi; ed in un sistema in cui la formazione professionale è particolarmente curata e incentivata anche con riguardo alle funzioni direttive, e nel cui ambito i tramutamenti dei magistrati dall’uno all’altro ufficio si dimostrano idonei a funzionare essi stessi quale veicolo di scambio delle prassi organizzative (senza necessità di ricorrere alla nomina a dirigente di un magistrato proveniente da altro ufficio per assicurare tale finalità), potrebbe prendere consistenza la previsione secondo cui la nomina del dirigente ad un determinato ufficio venga effettuata attribuendo - pur restando nell’ambito di una procedura concorsuale - un peso particolare all’appartenenza del magistrato, in base ad un numero di anni da stabilire, a quell’ufficio, sul presupposto che ciò possa assicurare una migliore conoscenza dei problemi a questo relativi.
Tale criterio varrebbe a stemperare la spinta carrieristica, incentivando la dedizione al servizio per i magistrati che, all’interno di un determinato ufficio, si proponessero di presentare domanda alle funzioni di dirigente, (temporaneamente) diverse ma allineate orizzontalmente a quelle esercitate in precedenza. Quanto alla nomina dei semidirettivi, a parte l’opportunità di una riduzione del numero relativo, che appare esorbitante rispetto alle necessità organizzative[15], nel contesto più sopra descritto non sembrerebbe da escludere a priori e, comunque, meriterebbe un approfondimento l’ipotesi di una “tabellarizzazione” secondo criteri di rotazione interna all’ufficio.
Alla giusta preoccupazione di innescare in questo modo il rischio di accentuazione di improprie gerarchie interne, accentuando i poteri del capo dell’ufficio, potrebbe essere data risposta rendendo più tempestivo e rigoroso il controllo tabellare da parte dei consigli giudiziari prima e del CSM dopo, prevedendo eventualmente una corsia prioritaria alla parte delle proposte tabellari dedicate alla designazione dei semidirettivi. Mantenendo invece, l’attuale sistema concorsuale di nomina, anche con riguardo agli incarichi semidirettivi dovrebbe essere attribuito un rilievo specifico all’appartenenza del magistrato all’ufficio ed alla conoscenza che dei relativi problemi egli abbia acquisito, tenuto conto di una determinata anzianità di permanenza nell’ufficio medesimo.
1.5. Criteri di assegnazione dei magistrati
I magistrati addetti agli uffici giudiziari non possono essere trasferiti, senza il loro consenso, ad una sezione o ad un settore di servizio diversi da quello al quale sono assegnati, salvo che ricorrano le ipotesi di trasferimento d’ufficio di cui all’ art. 153 della circolare[16].
L’assegnazione dei magistrati alle diverse sezioni e ai diversi settori del servizio[17], attualmente regolata dagli artt. 109-145 della circolare della circolare che mirano a favorire “una ragionata e moderata mobilità interna che, accanto alla valorizzazione delle specializzazioni, assicuri la diffusione delle competenze”, avviene sulla base di concorsi interni[18], i quali presuppongono la pubblicazione della vacanza del posto da ricoprire e la comunicazione a tutti i magistrati dell’ufficio legittimati a proporre domanda, ivi compresi quelli che vi siano destinati dal Consiglio e che non vi abbiano ancora preso possesso[19]. Nel dare comunicazione dei posti da coprire - con modalità tali da assicurare l’effettiva conoscenza ed indicando nel bando la data da cui si è determinata la vacanza - il dirigente dell’ufficio deve invitare tutti gli interessati a proporre domanda di assegnazione o di tramutamento mediante il sistema informatico anche per posti diversi da quelli indicati nel bando, pur se attualmente non vacanti; in tal caso le domande potranno essere accolte limitatamente alla copertura dei posti rimasti scoperti per effetto di trasferimenti e non mantengono efficacia per i successivi concorsi[20]. Per esigenze di servizio, da motivare espressamente nella proposta tabellare, l’efficacia del provvedimento di tramutamento può essere differita al momento in cui il posto lasciato vacante sia stato a sua volta ricoperto con l’assegnazione di altro magistrato. Il differimento non può comunque superare il termine massimo di sei mesi.
L’assegnazione alle diverse sezioni ed ai diversi settori del servizio, nel caso in cui vi siano più aspiranti all’assegnazione o al tramutamento, avviene sulla base dei seguenti criteri.
Nel caso in cui vi siano più aspiranti, ai fini dell’assegnazione o del tramutamento si tiene conto dell’attitudine all’esercizio delle funzioni inerenti al posto da coprire, criterio che nell’assegnazione di posti diversi da quelli indicati negli artt. 127, 128, 129 e 130 della circolare (funzioni di Gip/Gup; posti che comportino la trattazione di procedimenti in materia di famiglia, lavoro, società, esecuzioni, fallimento e immigrazione; sezioni specializzate in materia d’impresa; sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea), si applica soltanto in mancanza di aspiranti con un’anzianità di ruolo di otto anni superiore agli altri; diversamente, prevale in ogni caso l’anzianità di ruolo[21].
Per l’assegnazione dei posti indicati negli artt. 127, 128, 129 e 130, a parità di requisiti attitudinali ivi indicati prevale in ogni caso l’anzianità di ruolo.
Nella valutazione delle attitudini viene attribuito particolare rilievo alle specifiche competenze e materie trattate dal magistrato e qualificanti in relazione al posto messo a concorso; e sono preferiti i magistrati che abbiano maturato esperienze nella giurisdizione relative ad aree o materie uguali od omogenee al posto da ricoprire. Viene attribuita prevalenza ai magistrati aventi una specifica esperienza nel settore del posto da coprire, privilegiando la specializzazione in materia civile per i posti che comportino esercizio della giurisdizione civile, e in materia penale per i posti che comportino esercizio della giurisdizione penale[22].
Nell’assegnazione dei magistrati trasferiti presso il Tribunale e provenienti da un ufficio di Procura, si applica la disposizione di cui all’articolo 13, quarto comma, del d.lgs. n. 160/2006, n. 160[23]. La successiva attribuzione di funzioni penali non è ammessa prima del decorso di cinque anni.
L’assegnazione dei magistrati deve essere effettuata avendo riguardo altresì alle incompatibilità disciplinate dagli articoli 18 e 19 del r.d. n. 12/1941, n. 12 e casi analoghi di cui alla Circolare P.12940 del 25 maggio 2007, e precisando, conseguentemente, i settori ai quali è necessario non destinarli.
La proposta di assegnazione o di tramutamento deve essere adeguatamente motivata, anche con attribuzione di specifici punteggi con riguardo ai singoli criteri, mediante l’indicazione delle ragioni che hanno condotto all’individuazione del magistrato prescelto, e la puntuale enunciazione degli elementi da cui risultano le qualità professionali generiche e specifiche che lo rendono idoneo a ricoprire il posto messo a concorso, valutate in comparazione a ciascuno degli altri concorrenti. Essa deve contenere per ciascun posto una graduatoria completa in relazione ad ogni aspirante, e va comunicata per iscritto a tutti coloro che hanno presentato domanda.
Criteri specifici valgono poi per l’assegnazione dei magistrati di nuova destinazione (artt. 137-138); per la riassegnazione al medesimo ufficio a seguito di ridestinazione alle funzioni giudiziarie dopo un precedente collocamento fuori ruolo (art. 139 della circolare, ove è previsto che il magistrato sia assegnato alla destinazione tabellare di provenienza, se vacante[24]); per l’assegnazione di presidenti di sezione (art. 141) e per quella dei magistrati all’atto del conferimento delle funzioni giurisdizionali (artt. 142-145), che le circolari circondano di particolari cautele al fine di individuarle - insieme alle sedi di destinazione - già durante lo svolgimento del tirocinio[25].
Possono svolgere le funzioni di giudice incaricato dei provvedimenti previsti per la fase delle indagini preliminari nonché di giudice dell'udienza preliminare solamente i magistrati che hanno svolto per almeno due anni funzioni di giudice del dibattimento o funzioni ad esse equiparate ai sensi dell’art. 114, secondo comma della circolare.
La proposta di assegnazione o di tramutamento deve essere adeguatamente motivata, anche con attribuzione di specifici punteggi relativamente ai singoli criteri, mediante l’indicazione delle ragioni che hanno condotto all’individuazione del magistrato prescelto, e la puntuale enunciazione degli elementi da cui risultano le qualità professionali generiche e specifiche che lo rendono idoneo a ricoprire il posto messo a concorso, valutate in comparazione a ciascuno degli altri concorrenti. Essa deve contenere per ciascun posto una graduatoria completa in relazione ad ogni aspirante, e va comunicata per iscritto a tutti coloro che hanno presentato domanda.
In base all’art. 122 della circolare, è possibile lo scambio di posti quando non vi ostino esigenze di servizio e non risultino pregiudicate le posizioni degli altri magistrati dell’ufficio che avrebbero diritto ad essere preferiti nei concorsi per la copertura dei posti scambiati.
La situazione dei magistrati donna in gravidanza e quella dei magistrati che provvedano alla cura di figli minori in via esclusiva o prevalente costituiscono oggetto di specifiche previsioni dirette a rendere compatibili le necessità organizzative con le esigenze familiari e i doveri di assistenza verso la prole (cfr., infra, il par. 10 e gli artt. artt. 256-270 della circolare sul benessere organizzativo, la tutela della genitorialità e quella della salute, in cui sono contemplate anche la situazione dei magistrati aventi documentati motivi di salute che possano impedire loro lo svolgimento di alcune attività di ufficio, e quella dei magistrati che siano genitori di prole con situazione di handicap grave accertata ai sensi della legge 104/1992).
1.6. Permanenza massima nei posti tabellari
Salvo che non si vertesse in presenza di funzioni specializzate per legge, come ad esempio quelle relative ai posti specializzati di giudice del lavoro, in base alle direttive impartite dal Csm già da diversi anni la permanenza del magistrato per periodi eccessivamente prolungati (comunque superiori ai dieci anni) era ammessa soltanto nell’ipotesi in cui il trasferimento ad altro posto del medesimo ufficio potesse provocare disservizi significativi, mentre era da escludere in ogni caso quando si trattasse delle sezioni fallimentari, di quelle che si occupavano della materia societaria e delle sezioni distaccate.
La temporaneità nell’esercizio delle funzioni è stata poi espressamente introdotta dalla riforma dell’ordinamento giudiziario (supra, par. 4) che, generalizzando la previsione della durata massima già prevista per il g.i.p./g.u.p. dalla legge, e che il Csm aveva anticipato in via più generale con le circolari sulla tabelle “ha ritenuto opportuno proporre una figura di magistrato non identificabile nel lungo periodo con un’unica funzione, promuovendo al tempo stesso la circolarità dei singoli incarichi e l’arricchimento professionale che ne consegue, grazie alla positiva trattazione di diverse materie”.
La permanenza massima del magistrato nel medesimo incarico è ora disciplinata dal regolamento del Consiglio Superiore della Magistratura in data il 13 marzo 2008 e succ. mod., regolamento emanato sulla base della delega legislativa ed al quale fa esplicito riferimento l’art. 146 dell’attuale circolare sulle tabelle.
Il limite di permanenza massima non trova applicazione nei confronti:
- dei magistrati che svolgono funzioni di legittimità sia in Corte di cassazione sia nella Procura Generale presso la Corte di cassazione, trattandosi di Uffici in cui non si esercitano funzioni di primo e secondo grado, le uniche esplicitamente indicate dalla legge;
- dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, trattandosi di articolazione interna alla Suprema Corte con funzioni di supporto rispetto all’attività svolta dai giudici di legittimità, a cui la disciplina dei termini massimi di permanenza non si applica per esplicito dettato normativo;
- dei magistrati facenti parte della Direzione Nazionale Antimafia, le cui funzioni (qualificate nella precedente versione dell’art.11, 4° co. d. lgs. 160 del 2006 come requirenti di secondo grado), nel nuovo testo dell’art. 10, 13° co. del d. lgs. medesimo, come sostituito dall’art. 2, 4° co. della legge 111/2007 vengono individuate come direttive requirenti di coordinamento, così distinguendosi dalle funzioni requirenti e giudicanti di primo e secondo grado, le uniche soggette ai limiti di permanenza massima;
- dei magistrati distrettuali requirenti e giudicanti, relativamente ai quali non è configurabile una posizione tabellare.
Sono inoltre esclusi:
- i magistrati addetti agli uffici requirenti di secondo grado, posto che l’art. 19 della legge 111/2007 menziona i termini massimi di permanenza soltanto in relazione ai gruppi di lavoro, struttura organizzativa che non si attaglia alle Procure Generali;
- i giudici presso il tribunale ordinario composto da un’unica sezione, fatta eccezione per le posizioni tabellari - cui si applica il termine di permanenza massimo - di giudice fallimentare, giudice addetto alle esecuzioni civili, g.i.p./g.u.p., g.i.p. in via esclusiva, g.u.p. in via esclusiva;
- il giudice del lavoro di pianta organica;
- il giudice presso il tribunale per i minorenni, fatta eccezione per chi svolga funzioni esclusive di g.i.p../g.u.p.;
- il giudice presso l’ufficio di sorveglianza;
- il sostituto procuratore della Repubblica presso un ufficio di procura composto da magistrati in numero fino a otto unità compreso il procuratore della Repubblica;
- il giudice presso la corte d’appello composta da un’unica sezione.
Il termine di permanenza massima è fissato, in via generale, in dieci anni.
Gli artt. 150-152 della circolare contengono le disposizioni volte ad assicurare la permanenza massima nel medesimo incarico.
La proroga di cui all’art. 19 d.lg. n. 160/2006 per la trattazione degli affari pendenti è disposta dal Csm su richiesta adeguatamente motivata e documentata del dirigente dell’Ufficio, da presentarsi almeno sei mesi prima della scadenza del termine massimo di permanenza.
Determinano l'efficacia sospensiva dei termini di permanenza massima nella stessa posizione tabellare: il periodo di astensione obbligatoria per maternità e quella facoltativa per un periodo superiore a tre mesi; il periodo di astensione facoltativa per maternità qualora, anche se intervallato da ferie e/o malattie, unito al periodo di astensione obbligatoria, determini una assenza continuativa dal lavoro per maternità nel complesso superiore ai tre mesi; i periodi superiori a tre mesi trascorsi in congedo straordinario, in supplenza e in applicazione a tempo pieno; tutte le altre ipotesi in cui, per effetto di provvedimenti di esonero totale dal lavoro deliberati dal CSM e/o oggetto di specifica previsione di Legge, il magistrato risulti effettivamente assente dall’ufficio per un periodo continuativo superiore a mesi sei. La sospensione dei termini di permanenza massima non potrà comunque avere durata complessiva superiore agli anni due.
Il magistrato trasferito a seguito del superamento dei termini massimi può tornare nella medesima posizione tabellare o nello stesso gruppo di lavoro soltanto dopo che siano trascorsi cinque anni dalla presa di possesso nel nuovo incarico.
1.7. I criteri di assegnazione degli affari
I principi di buona amministrazione, e la garanzia del giudice naturale, potrebbero essere elusi in mancanza non solo di regole generali dirette ad assicurare la trasparenza e l’obiettività delle procedure nell’assegnazione dei magistrati alle diverse sezioni o ai diversi settori del servizio, ma anche di regole volte a sottrarre alla discrezionalità dei dirigenti l’assegnazione degli affari alle diverse articolazioni interne degli uffici ed ai singoli magistrati. Ed è per questo che il Csm, fin dalla circolare n. 5520/1977 (supra, par. 3) e con direttive sempre più precise (cfr., attualmente, gli artt.157-174 della circolare per il triennio…..), ha prescritto che gli affari debbono essere assegnati alle sezioni, ai collegi ed ai giudici, monocratici ovvero componenti i collegi (ivi compresi i presidenti degli uffici ed i presidenti delle sezioni) in base a criteri oggettivi e predeterminati, e che qualora la stessa materia sia assegnata a più sezioni (ovvero, nel caso di sezione unica, a più giudici) debbono essere indicati i criteri di ripartizione degli affari della materia tra le diverse sezioni ed i diversi magistrati[26].
Tra i magistrati, com’è naturale, possono esservi diversi livelli di capacità ed un diverso grado di preparazione; ma a tali esigenze occorre far fronte non con la discrezionalità del “capo”, quanto invece con strumenti diretti a garantire la professionalità, la formazione, la specializzazione, la corretta applicazione dei criteri di accesso alle sezioni ed ai diversi settori del servizio. La garanzia del giudice naturale non consiste per l’utente nel fatto che la sua causa sia trattata dal giudice più bravo in assoluto, ma nel fatto che, qualunque sia il giudice che la sorte gli riserva, egli potrà comunque contare su un giudice professionalmente adeguato[27].
Peraltro i criteri di assegnazione degli affari, in caso di comprovate esigenze di servizio, possono essere derogati con provvedimenti adeguatamente e specificamente motivati.
Nel caso di provvedimenti diretti a riequilibrare i carichi di lavoro -in base alla procedura, nei limiti ed alle condizioni di cui agli artt. 167-170 della circolare - vanno indicate le ragioni di servizio che li giustificano[28], in base a criteri a loro volta oggettivi e predeterminati che dovranno, in particolare, mirare a consentire la definizione prioritaria dei procedimenti assicurando, al contempo, la conservazione dell’attività processuale già svolta.
La scelta della distribuzione degli affari tra i magistrati addetti alla sezione lavoro, atteso che essi sono tutti qualificati da omogenea competenza, deve avvenire in base a criteri automatici, salvi i correttivi diretti ad assicurare evidenti esigenze di funzionalità (ad esempio, cause connesse da riunire), nonché a garantire la genuinità dell’automatismo, al fine di evitare sia la prevedibilità dell’assegnazione, sia la possibilità che il sistema automatico venga utilizzato in modo da consentire la scelta del giudice ad opera della parte.
Criteri specifici sono previsti per ripartizione degli affari all’interno dell’ufficio g.i.p./g.u.p., negli uffici minorili e nei Tribunali ed uffici di sorveglianza (artt. 164-166) sempre tuttavia con la salvaguardia dei principi di obiettività e predeterminazione i quali implicano altresì (artt. 190-202) che siano preventivamente individuate le regole in base alle quali provvedere alla sostituzione dei magistrati assenti, impediti, astenuti o ricusati, alla formazione dei calendari e dei ruoli delle udienze, sia monocratiche sia collegiali[29], ed alla composizione dei collegi[30]: calendari e udienze che nel settore penale debbono essere predisposti anche in base ad opportuni criteri di raccordo tra le Procure, gli Uffici g.i.p., i Tribunali, il Dirigente della cancelleria ed il Presidente dell’Ordine degli avvocati, al fine di garantire le esigenze di continuità ed il miglior utilizzo delle risorse della procura come indicato nell’art. art. 192 della circolare.
Regole particolari, nell’ambito di tali disposizioni, sono dettate con riguardo alla precostituzione dei collegi negli uffici minorili, nei tribunali di sorveglianza, nelle sezioni di sorveglianza, nelle sezioni agrarie, e con riguardo ai collegi bis per le Corti di assise e per le Corti di assise d’appello.
È infine previsto che di uno stesso collegio non possa far parte più di un magistrato applicato ai sensi dell’articolo 110, quinto comma, del r. d. n. 12/1941, salvo che si tratti di applicazioni disposte ai sensi degli articoli 17 e 18 della circolare consiliare del 20 giugno 2018 dettata in materia; che di uno stesso collegio non possa far parte più di un magistrato supplente ai sensi dell’articolo 97, quarto comma r. d. citato, mentre vi possono far parte un magistrato applicato e uno supplente; che di uno stesso collegio possono far parte più magistrati coassegnati o più magistrati distrettuali, ovvero un magistrato applicato e uno o più coassegnati o magistrati distrettuali, oppure un supplente e uno o più magistrati coassegnati o distrettuali.
In base all’art. 268 della circolare non possono essere assegnati affari al magistrato nel periodo di congedo di maternità, paternità o parentale di cui agli artt. 16,17, 28 e 32 t.u. 151/2001, salvo che si provveda alla sua sostituzione[31].
Specifiche disposizioni (artt. 171-174 della circolare) attengono poi ai provvedimenti da adottare al fine di prevenire o porre rimedio ai casi di significativo ritardo nel deposito dei provvedimenti da parte dei magistrati addetti all’ufficio.
1.8. Funzioni particolari
Negli artt. 203- 219 sono dettate disposizioni specifiche con riguardo ai criteri di scelta del magistrato collaboratore nel coordinamento dell’ufficio del giudice di pace; dei referenti informatici e dei magistrati di riferimento per l’informatica, con la specificazione della loro posizione tabellare all’interno dell’ufficio[32]; del referente per la formazione. con la specificazione della sua posizione tabellare all’interno dell’ufficio[33]; del componente della Struttura tecnica per l’organizzazione[34] (Sto); di componente dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione[35]; di commissari agli usi civici [36].
2. Giudici onorari
Nel Capo VII della circolare sono contenute le disposizioni relative ai giudici onorai che tengono conto degli sviluppi normativi in materia e che, probabilmente, dovranno subire ulteriori modificazioni quando il quadro relativo alla magistratura onoraria sarà finalmente definito con un progetto chiaro, preciso e coerente da parte del legislatore.
Gli artt. 176 e 177 disciplinano la destinazione nell’ufficio per il processo, costituito ai sensi dell’articolo 10 della circolare, dei giudici onorari di pace nominati dopo l’entrata in vigore del d. lgs.n. 116/2017 nonché – per quelli in servizio presso il tribunale già in data anteriore - l’assegnazione di procedimenti[37] e la possibilità di integrare i collegi, nei limiti consentiti dagli articoli 11, 12 e 30 del medesimo d.lgs. n. 116/2017[38].
Per quanto concerne l’attività giurisdizionale dei giudici onorari di pace nominati dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017, l’assegnazione di procedimenti civili e penali e la destinazione nei collegi civili e penali può svolgersi soltanto se ricorrono i presupposti indicati nell’art. 179 della circolare, attuativo degli articoli 11 e 12 del decreto legislativo citato, che consente tra l’altro – a determinate condizioni – la possibilità per i giudici onorari di essere nominati nei collegi come relatori dei procedimenti ed estensori dei relativi provvedimenti.
Le funzioni di coordinatore e di referente dei giudici onorari in servizio presso il tribunale sono esercitate dal presidente dell’Ufficio o, su sua delega, da un presidente di sezione.
L’utilizzo dei giudici onorari di pace nell’ufficio per il processo è disciplinato dall’art. 180 della circolare, ove sono richiamate le funzioni di cui all’articolo 10, comma 10, del d.lgs. n 116/2017, tra le quali deve essere dato particolare rilievo alla predisposizione delle minute dei provvedimenti[39].
La supplenza da parte dei giudici onorari di pace, nei casi di assenza o impedimento temporanei dei giudici professionali, può avvenire solo in presenza di specifiche esigenze di servizio e nei limiti indicati dall’art. 180 della circolare[40] .
Nelle proposte tabellari debbono essere specificati i criteri oggettivi e predeterminati di assegnazione degli affari devoluti ai giudici onorari e di sostituzione dei giudici professionali (art. 182 della circolare).
Gli artt. 183 -188 contengono poi le indicazioni relative alla destinazione ed alle funzioni dei giudici ausiliari di Corte d’appello”, ma sul punto occorre tener conto della sentenza n.17/2021con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che hanno previsto, come magistrati onorari, i giudici ausiliari presso le Corti d’appello, precisando tuttavia – al fine di evitare il grave pregiudizio all'esercizio della funzione giurisdizionale che deriverebbe dall'annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari – che le corti d'appello potranno continuare ad avvalersene fino a quando il legislatore non avrà posto mano alla riforma organica della magistratura onoraria, comunque entro e non oltre il termine del 31 ottobre 2025.
Con l’art. 189, infine. i dirigenti degli uffici giudiziari, sia in sede centrale, sia in sede decentrata, sono chiamati a favorire le attività dirette alla formazione professionale dei giudici onorari.
3. Supplenze, applicazioni e tabelle infradistrettuali
Per far fronte alle esigenze di servizio sono previsti gli istituti della supplenza e dell’applicazione, il primo dei quali permette di porre rimedio all’assenza o all’impedimento temporaneo di un magistrato, mediante la sua sostituzione in via contingente e temporanea, con altro magistrato che fa parte del medesimo ufficio ovvero - nel caso di tabella infradistrettuale - di altri uffici del medesimo distretto, mentre l’”applicazione” determina l’inserimento, sempre in via temporanea, di un magistrato all’interno di un ufficio, indipendentemente dalla integrale copertura del relativo organico e dalla assenza o impedimento di magistrati ad esso appartenenti, sempre che le esigenze di quest’ultimo ufficio siano imprescindibili e prevalenti. I provvedimenti di supplenza ed applicazione possono essere adottati solo nel rispetto di specifici presupposti ed in base a regole procedimentali che il Csm ha disciplinato analiticamente nelle proprie circolari, e vanno sottoposti a controllo dello stesso Consiglio.
Sono possibili anche applicazioni di magistrati di un distretto ad uffici di un distretto diversi (c.d. applicazioni extradistrettuali) alle condizioni e nei limiti indicati dall’art. 110 ord. giud. e succ. modificazioni.
La materia è stata negli ultimi anni disciplinata dal CSM con una prima circolare in tema di “applicazioni, supplenze, tabelle infradistrettuali e magistrati distrettuali” che ha inserito organicamente i diversi istituti in un apposito ed autonomo corpus regolamentare (circolare n. P. 19197/2011 del 27 luglio 2011 e succ.mod. di cui alla circolare n P. 8377/2013 del 19 aprile 2013, mediante la quale è stato introdotto anche l’istituto dell’”assegnazione interna” (capo III, art. 17) e, quindi, con successiva circolare deliberata il 20 giugno 2018[41].
Nei tratti principali la disciplina della supplenza, la cui durata deve sempre avvenire per un periodo e/o in relazione ad attività determinate, e non può superare in alcun caso i sei mesi, è la seguente:
- possono essere destinati a svolgere compiti di supplenza di magistrati mancanti o impediti solo i magistrati professionali, con l’osservanza dei requisiti per l’espletamento delle funzioni monocratiche penali e di g.i.p./g.u.p., e quelli con qualifica inferiore alla prima valutazione solo nell’ipotesi in cui non sia possibile provvedere con magistrati di qualifica superiore, mentre l’utilizzazione dei giudici onorari di pace in supplenza dei giudici professionali deve avvenire in conformità a quanto previsto dall’art. 181 della circolare:
- le proposte tabellari, anche infradistrettuali, devono indicare specificamente, in forma nominativa o con altri criteri oggettivi, i magistrati destinati a svolgere compiti di supplenza, in modo da permettere l’automatica identificazione del supplente per ciascun magistrato;
- il magistrato destinato in supplenza è incaricato della trattazione degli affari assegnati al magistrato assente o impedito, partecipa alle udienze che questi avrebbe dovuto tenere e continua a svolgere i compiti che rientrano nelle funzioni assegnategli, secondo le previsioni di tabella ed i turni di servizio riguardanti sia il magistrato supplente sia il magistrato sostituito.
- alla mancanza ed all’impedimento temporaneo deve porsi rimedio tramite la supplenza interna (provvedendo, per le funzioni monocratiche, mediante magistrati professionali ovvero mediante magistrati onorari compatibilmente con i limiti di legge previsti per il loro utilizzo), mentre alla supplenza infradistrettuale è possibile fare ricorso solo nel caso in cui la mancanza o l’impedimento si presuma di durata superiore a sette giorni.
La supplenza di durata superiore a sessanta giorni deve essere disposta solo qualora non sia possibile provvedere mediante l’assegnazione congiunta, mentre la supplenza esterna può essere disposta soltanto qualora non sia possibile provvedere mediante quella interna;
- la supplenza disposta in base alle previsioni tabellari ovvero a norme di legge determina il subentro “ope legis” del supplente nelle funzioni svolte dal magistrato assente o impedito, mentre negli altri casi è disposta con provvedimento specifico e motivato e comporta l’adozione del procedimento di variazione tabellare soltanto nel caso di durata superiore a sessanta giorni (anche per effetto di più provvedimenti successivi di supplenza) ovvero nel caso in cui, in concomitanza con l'attuazione della supplenza o anche per effetto di essa, si renda opportuna l’adozione di modifica delle tabelle o dei turni di servizio;
- il potere di disporre la supplenza interna spetta al dirigente dell’ufficio, e quello di disporre la supplenza infradistrettuale dal Presidente della Corte d’appello per gli uffici giudicanti e dal Procuratore generale per gli uffici requirenti;
- nell’adozione del provvedimento di supplenza, il dirigente deve assicurare, eventualmente anche mediante rotazioni, che il supplente continui a svolgere, sia pure “part time”, i compiti connessi al proprio ufficio;
- l’adozione del provvedimento non richiede il consenso del magistrato designato quale supplente. Peraltro, ove non esistano specifiche e motivate ragioni di urgenza, tutti i magistrati dell’ufficio devono essere posti in condizione di manifestare il loro consenso, segnalando eventualmente i titoli preferenziali, ovvero indicando i motivi che potrebbero rendere opportuna la loro designazione, ed il supplente deve essere scelto tra i magistrati che hanno prestato il loro consenso, salvo che ragioni di servizio ed esigenze organizzative, da indicare espressamente, non impongano una differente soluzione;
- il provvedimento di supplenza, con le eventuali osservazioni dell’interessato, deve essere trasmesso per il previsto parere al Consiglio giudiziario e quindi insieme alle eventuali osservazioni dei magistrati interessati al Consiglio superiore della magistratura per l’approvazione.
Non debbono essere trasmessi i decreti di supplenza meramente esecutivi delle previsioni tabellari, nei confronti dei quali non siano state proposte osservazioni, e quelli non meramente esecutivi se di durata fino a sessanta giorni nel caso in cui non vi siano state osservazioni e il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità.
Regole specifiche sono dettate con riguardo alle supplenze infradistrettuali (titolo IV, capo II della circolare)[42] le quali consentono di destinare in sostituzione del magistrato mancante o impedito un magistrato appartenente ad un ufficio diverso compreso nella medesima tabella infradistrettuale e quivi indicato in modo da assicurare la sostituzione con criteri di automatismo, alle supplenze dei titolari di funzioni direttive e semidirettive (artt. 37-39), a quella esterna per la Corte d’appello (art. 42) ed a quelle dei componenti privati di organi giudiziari specializzati (art. 43).
Per quanto concerne, poi, l’applicazione, la quale comporta l'attribuzione al magistrato applicato di funzioni che divengono sue proprie, anche quando coincidono con quelle di cui era precedentemente titolare un altro magistrato temporaneamente assente o impedito e che, se disposta a tempo pieno, determina il temporaneo abbandono dell'ufficio di cui il magistrato applicato è titolare, si osserva che:
- salvo quanto precisato negli artt. 107 e 108, possono essere destinati in applicazione infradistrettuale tutti i magistrati in servizio[43];
- l’applicazione può essere infradistrettuale o extradistrettuale, secondo che il magistrato destinato in applicazione faccia parte o no di un ufficio compreso nello stesso distretto dell’ufficio di destinazione.
L’applicazione infradistrettuale può essere disposta soltanto qualora si accerti l’impossibilità di provvedere mediante l’assegnazione interna o l’assegnazione congiunta dei magistrati a due o più uffici prevista dalla tabelle infradistrettuali o mediante l’assegnazione di un magistrato distrettuale, e quella extradistrettuale solo quando si accerti l’impossibilità di soddisfare le esigenze di servizio con i magistrati che già operano nel medesimo distretto della Corte d’appello;
- l’applicazione implica, di regola, una variazione tabellare e, se del caso, una variazione dei turni d’udienza o di servizio, nonché, eventualmente, anche una variazione tabellare relativa all'ufficio di provenienza.
Essa non può superare la durata di un anno, e per necessità dell’ufficio al quale il magistrato è applicato può essere rinnovata per un periodo non superiore ad un anno;
- il procedimento per l’adozione dei provvedimenti di applicazione endodistrettuale è regolato dagli artt. 97 e segg. della circolare;
- l’applicazione extradistrettuale può essere disposta, indipendentemente dall’integrale copertura dell’organico dell’ufficio, quando le esigenze di servizio dell’ufficio di destinazione sono imprescindibili e prevalenti rispetto a quelle dell’ufficio di provenienza e non sia possibile farvi fronte con la supplenza, anche infradistrettuale, l’assegnazione interna, la coassegnazione infradistrettuale oppure mediante l’assegnazione di un magistrato distrettuale o l’applicazione infradistrettuale.
L’istituto è regolato dagli artt. 109 e segg. della circolare, dove è tra l’altro previsto che l’applicazione extradistrettuale non può avere durata superiore ad un anno (con possibilità di proroga per un periodo non superiore ad un altro anno nei casi di necessità dell’ufficio al quale il magistrato è applicato[44]) e che è disposta dal Consiglio Superiore della Magistratura, su richiesta motivata del Ministero della Giustizia ovvero del Presidente o, rispettivamente, del Procuratore Generale presso la Corte di Appello nel cui distretto ha sede l'organo o l'ufficio al quale si riferisce l'applicazione, sentito il Consiglio Giudiziario del distretto nel quale presta servizio il magistrato che dovrebbe essere applicato.
Cfr., amplius, gli artt. 131 e 132 per le applicazioni in esito a trasferimento ad altro distretto, e per la definizione di uno o più processi già incardinati; gli artt. 133 - 160 per i magistrati distrettuali: gli art. 149 e segg. per l’applicazione dei magistrati requirenti ai fini della trattazione di procedimenti riguardanti delitti di criminalità organizzata o con finalità di terrorismo e in materia di misure di prevenzione; gli artt. 161-166 per le applicazioni presso le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea; gli artt. 167-172 per le disposizioni speciali relative alle Corti d’assise; agli Uffici di sorveglianza; agli uffici minorili; ai magistrati assegnati alla trattazione delle controversie di lavoro; per gli uffici in cui è stata disposta l’avocazione a causa del mancato esercizio dell’azione penale; per gli uffici giudiziari della provincia di Bolzano.
Delle misure destinate ad assicurare la funzionalità del servizio giudiziario fanno parte anche le previsioni relative ai magistrati distrettuali, istituiti con gli artt. 4 – 8 della legge n. 48/2001 (“Aumento del ruolo organico e disciplina dell’accesso in magistratura”), al fine di far fronte alle assenze dei magistrati dal servizio che fisiologicamente si verificano per cause diverse e che provocano significativi disfunzioni nella gestione dei ruoli dei procedimenti[45], e che compongono una pianta organica autonoma presso ciascun distretto di Corte di appello, distinta per le funzioni giudicanti e per quelle requirenti [46].
[1] L’indicazione dell’organico sezionale deve ricomprendere anche i posti non coperti,
[2] Nei casi in cui vi siano esigenze di riconversione, il magistrato assegnato a una sezione civile o penale può essere a sua domanda coassegnato parzialmente ad altra sezione o a diverso settore per finalità formative. La coassegnazione non dà diritto ad esonero, salvo che in caso di coassegnazione a diverso settore; in quest’ultimo caso, il magistrato ha diritto a un esonero del 20% dell’attività relativa al settore di provenienza, per un tempo non superiore ai tre mesi antecedenti alla data di presa di possesso.
Nella composizione della sezione sono indicati anche i giudici onorari assegnati alla sezione stessa nonché i componenti privati.
[3] Cfr. infra, par. 8
[4] I referenti informatici, la cui nomina trae origine dal d. lg. 39/1993 (che prevedeva l’individuazione di un responsabile per i servizi informativi automatizzati per ogni amministrazione e prescriveva anche l’ individuazione di dirigenti amministrativi che coordinassero i sistemi informativi sotto la direzione del primo) e dal d.p.r. 748/1994 n. 748 sulla progettazione, sviluppo e gestione dei sistemi informativi automatizzati dell'Amministrazione della giustizia, vennero designati per la prima volta con circolare del 2 febbraio 1995 che dispose l’inserimento delle relative figure nelle tabelle di composizione degli uffici. Con circolare del 10 novembre 1995 furono definite più analiticamente le competenze dei magistrati referenti per l'informatica ai quali furono quindi trasferite, mediante circolare del 17 luglio 1997, le competenze già attribuite agli U.D.A.
Con risoluzione del 7 giugno 2000 il ruolo dei referenti per l'informatica è stato ridefinito, valorizzandone, tra l'altro, le funzioni di formazione e aggiornamento, di cura e impulso dei progetti e dell'attività di informatizzazione, nonché di vigilanza della situazione logistica degli uffici giudiziari in funzione dell'efficienza dei sistemi informatici. Con delibera del 3 luglio 2003 il Csm si è proposto di attualizzare i compiti e le prospettive del referente informatico le cui funzioni, per la verità, non sono state valorizzate come sarebbe stato necessario.
[5] Nei tribunali organizzati con una sola sezione civile ed una sola sezione penale è possibile istituire singoli ruoli specializzati cui sono attribuite specifiche materie, purché l’analisi dei flussi lo consenta e nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 57, comma 2 della circolare volto a garantire comunque la trattazione della stessa materia da parte di più di un magistrato.
In tale ipotesi, alla scadenza del termine di permanenza massimo nella medesima posizione tabellare, è possibile la permanenza all’interno della stessa sezione, a condizione che il nuovo ruolo tratti materie diverse almeno per il 60 % del carico, in modo tale da determinare un effettivo e prevalente cambiamento della specializzazione che, compatibilmente con l’analisi dei flussi, deve essere tendenzialmente il più ampio possibile.
[6] Alle sezioni Gip/Gup dei tribunali, per assicurarne la piena funzionalità tenuto conto, in particolare, dei compiti gravanti sul tribunale capoluogo del distretto e delle attuali competenze del giudice per le indagini preliminari e del giudice dell’udienza preliminare, è assegnato un numero di magistrati adeguato alle esigenze e ai flussi degli affari, e non inferiore ad un terzo rispetto al numero di magistrati previsti in organico presso la relativa Procura della Repubblica e a un decimo rispetto all’organico dell'intero tribunale. Tale percentuale - al fine di assicurare la massima celerità nella trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 51, 3 - bis c.p.p - è maggiorata in misura non inferiore ai 2/5 rispetto all’organico della Procura per gli uffici del tribunale capoluogo del distretto presso il quale opera la direzione distrettuale antimafia; ed ai magistrati destinati alla sezione GIP/GUP non devono essere assegnate funzioni di giudice del dibattimento, salvi i casi di oggettiva impossibilità di provvedere altrimenti, da motivare con indicazione espressa delle ragioni che non permettono di adottare una diversa soluzione. La sezione del giudice per le indagini preliminari e per l’udienza preliminare non può essere articolata componendo la sezione con ruoli separati per le funzioni del giudice per le indagini preliminari e quelle del giudice dell’udienza preliminare. Il divieto non opera per i tribunali per i minorenni (amplius, art. 74 della circolare).
[7] Ove è previsto tra l’altro che i criteri organizzativi della sezione debbono mirare a permettere la formazione di più collegi, facendo in modo che siano chiamati a farne parte tutti i magistrati assegnati alla sezione stessa, al fine di evitare possibili situazioni di incompatibilità e di assicurare comunque - ove la dimensione dell’ufficio e la concreta situazione dell’organico non consentano l’istituzione di una sezione autonoma - criteri di rotazione, concentrando, ove possibile, in capo al medesimo collegio tutti i ricorsi relativi al medesimo procedimento e garantendo in ogni caso che il giudice chiamato a decidere l’impugnazione avverso le ordinanze cautelari non faccia parte del collegio del dibattimento.
[8] Al sorteggio per la costituzione del collegio partecipano tutti i magistrati in servizio nel distretto, compresi i magistrati dei tribunali per i minorenni e quelli dei tribunali di sorveglianza, che hanno conseguito almeno la seconda valutazione di professionalità, con funzioni direttive, semidirettive e di giudice, mentre ne restano esclusi i magistrati addetti alle procure della Repubblica.
[9] L’entità dell’esonero dal lavoro giudiziario è commisurata all’impegno richiesto per i compiti di direzione dell’ufficio, anche in considerazione del numero dei magistrati dell’ufficio e della presenza di presidenti di sezione e dei compiti ad essi assegnati. In ogni caso, negli uffici di grandi dimensioni (cfr. art. 85, quarto comma della circolare) l’esonero dal lavoro giudiziario non può essere superiore al 90%, e negli altri uffici al 70%, del lavoro dei magistrati dell’ufficio.
Per quanto concerne il Presidente della sezione ed il Presidente aggiunto della sezione Gip cfr. l’art. 102 della circolare.
[10] Si tratta di incarichi consistenti nella direzione di più sezioni che trattano materie omogenee; nel coordinamento di uno o più settori dei servizi o di gestione del personale; in ogni altra attività collaborativa in tutti i settori nei quali essa sia ritenuta opportuna.
[11] L’esonero dal lavoro non può superare il 50% degli affari assegnati ai magistrati della sezione quando quest’ultima abbia un solo presidente, ed al 25% in caso di assegnazione ad essa di più presidenti.
[12] I risultati di tale attività sono valutati ai fini della conferma nelle funzioni direttive o semidirettive ai sensi degli articoli 45 e 46 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160.
[13] Cfr. Magistrati e “carriera”: ritrovare l'orgoglio delle funzioni "ordinarie", richiamato in nota 9; Carlo Verardi e l’attualità del suo esempio, in Speciali di Questione Giustizia, ottobre 2019,http://questionegiustizia.it/articolo/carlo-maria-verardi-e-l-attualita-del-suo-esempio.
[14] Rinvio per richiami al mio La crisi dell’associazionismo giudiziario e la necessità di risalire la china, in Questione Giustizia, 3 ottobre 2019 https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-crisi-dell-associazionismo-giudiziario-e-la-necessita-di-risalire-la-china
[15] Tenendo conto altresì, come ricordato, della possibilità, almeno per gli uffici di più grandi dimensioni, di organizzare le sezioni secondo aree tematiche più ampie e quella di avvalersi della figura dei magistrati collaboratori.
[16] Il magistrato trasferito ad altro ufficio o ad altra posizione tabellare o collocato fuori ruolo trasmette al presidente di sezione o, laddove non previsto in organico, al dirigente dell’ufficio, sintetica relazione sullo stato del ruolo, evidenziando eventuali urgenze e le controversie di maggiori complessità. Tale relazione deve essere poi trasmessa, a cura del dirigente dell’ufficio, al magistrato che sia subentrato, in tutto o in parte, nel ruolo del magistrato trasferito. Il mancato adempimento da parte del magistrato al dovere in esame è preso in considerazione in sede di valutazione di professionalità e negli ulteriori pareri attitudinali demandati al Consiglio Giudiziario.
[17] Anche quando si tratta dell’istituzione di nuove sezioni, di accorpamento o soppressione di sezioni o collegi, che i dirigenti dell’ufficio possono proporre per esigenze di servizio, così come - a fronte di una evidente riduzione del numero e delle pendenze complessive di una sezione o di un settore - può essere disposta la sospensione dell’attività di una o più sezioni, ovvero di uno o più collegi, con la destinazione dei magistrati assegnati ad altre sezioni o a collegi (amplius, art. 134-136 della circolare).
[18] I concorsi ordinari sono svolti almeno due volte l’anno e in modo da assicurare il coordinamento con le pubblicazioni dei posti di tramutamento ordinario deliberati dal Csm e in essi debbono confluire anche i concorsi relativi ai trasferimenti ai sensi degli articoli 148, 149 e 150 della circolare.
[19] Il magistrato non può essere assegnato ad altra sezione o ad altro settore di servizio se non siano decorsi almeno due anni dal giorno in cui ha preso effettivo possesso della posizione tabellare cui è attualmente addetto, salvo eccezioni per comprovate e motivate esigenze di servizio e salva l’ipotesi in cui la stessa sia stata ritardata per effetto del posticipato possesso disposto ai sensi dell’articolo 10-bis del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12. Nel caso in cui il magistrato sia stato assegnato o tramutato d’ufficio. l’assegnazione ad altra sezione o settore dell’ufficio può avvenire decorso un anno dall’effettiva presa di possesso. Il termine, annuale o biennale, deve essere calcolato con riferimento alla data in cui si è verificata effettivamente la vacanza del posto da ricoprire, indipendentemente dal momento in cui il dirigente dell’ufficio decida di provvedere alla sua copertura.
Non è legittimato a partecipare al bando di concorso dell’ufficio di appartenenza chi si trova in applicazione extradistrettuale con durata residua pari o superiore a quattro mesi calcolata alla data di scadenza del bando.
[20] Nel caso di presentazione di domande per più posti, deve essere indicato, a pena d’inammissibilità, l'ordine di preferenza. Non è ammessa la revoca della domanda dopo l'assegnazione di uno dei posti richiesti.
[21] Per anzianità di ruolo s’intende quella determinata dal decreto ministeriale di nomina e, all’interno del medesimo decreto ministeriale di nomina, dalla collocazione nella relativa graduatoria di concorso. Per ulteriori specificazioni, cfr. l’art. 125, quarto comma della circolare
[22] Nella valutazione delle attitudini non si tiene conto dell’esperienza maturata a seguito della destinazione in assegnazione interna ai sensi dell’art. 138, comma 2 della circolare.
[23] In base al quale il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.
[24] Tale disposizione si applica, se richiesto dall’interessato, anche nel caso di cessazione da un incarico direttivo o semidirettivo e di riassegnazione all’ufficio occupato prima del conferimento dell’incarico direttivo o semidirettivo, come pure nel caso di cessazione da un incarico semidirettivo e di permanenza nel medesimo ufficio ove il magistrato svolgeva detto incarico, fermo il termine decennale di cui al Regolamento approvato in data 13 marzo 2008 e successive modifiche.
[25] Subito dopo la comunicazione relativa all’elenco delle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio, i dirigenti degli uffici interessati individuano i posti da riservare loro, tenendo conto delle esigenze generali dell’ufficio e professionali degli assegnatari, comunicando gli esiti dei concorsi interni al Consiglio Superiore della Magistratura, con indicazione della tipologia di affari dei ruoli da ricoprire. I posti così individuati sono immediatamente assegnati consentendo ai magistrati ordinari in tirocinio destinati all’ufficio la scelta, in ordine di ruolo. Le proposte di variazione tabellare, la cui efficacia resta differita alla data in cui gli stessi, completato il periodo di tirocinio, prenderanno possesso dell’ufficio assegnatogli, sono senza indugio comunicate, al Consiglio Superiore della Magistratura, al Consiglio giudiziario competente e ai magistrati interessati. Esse sono vincolanti e non possono essere successivamente modificate o derogate (con provvedimento da comunicare tempestivamente al Consiglio giudiziario e al Consiglio Superiore della Magistratura, che può annullarlo ove non lo ritenga giustificato) se non per gravi motivi di servizio dell’ufficio o di salute del magistrato non altrimenti superabili.
La violazione di tale disposizione è segnalata ai titolari dell’azione disciplinare.
I magistrati ordinari all’esito del tirocinio non possono esser destinati alle funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare, salvo che non ricorrano imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio, da rappresentare al Consiglio Superiore della Magistratura con richiesta motivata subito dopo la comunicazione relativa all’elenco delle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio. La deroga non è possibile ove nell’ufficio vi siano magistrati che abbiano maturato i requisiti di cui all’articolo 111, commi 1 e 2.
[26] L’assegnazione alle sezioni viene fatta dal magistrato dirigente dell’ufficio; all’interno delle sezioni, dai rispettivi presidenti di sezioni ovvero al magistrato che la dirige ai sensi dell’articolo 47 quater r. d. n. 12/1941.
In caso di ricorso a strumenti informatici automatizzati di assegnazione degli affari, il dirigente vigila sul rispetto dei criteri oggettivi e predeterminati contenuti nella proposta tabellare, nonché sull’equa e funzionale distribuzione del carico di lavoro, tenuto conto della quantità e della qualità degli affari assegnati.
[27] Il presidente del collegio tiene conto della specifica condizione soggettiva del magistrato e non assegna la redazione del provvedimento quando il termine di deposito venga a scadere nel periodo di astensione obbligatoria per maternità. Trova inoltre applicazione l’articolo 268 della circolare sul divieto di assegnazione di affari nel periodo di congedo di maternità, paternità o parentale.
[28] Ragioni tra le quali rientra anche l’esigenza di definire i procedimenti che abbiano superato i termini di cui all’articolo 2, comma 2 bis, legge n.89/2001 (cd. legge Pinto), nonché i procedimenti di cui all’articolo 19, d. lgs. 1° settembre 2011, n. 150 (in tema di riconoscimento della protezione internazionale),
[29] Nella circolare si precisa che in ogni distretto le proposte tabellari negli uffici giudicanti, sia in primo sia in secondo grado, debbono contenere l’indicazione di almeno sei giorni liberi di udienza per ogni anno, da destinare alle esigenze della formazione decentrata.
[30] L'autonomia nell’organizzazione e nella gestione delle udienze riconosciuta al giudice civile dagli articoli 175 e 168 bis, quinto comma c.p.c. e dagli articoli 81 e 81 bis disp. att. c.p.c. non esclude che il magistrato sia tenuto a celebrare le udienze individuate nel progetto tabellare, salve motivate e specifiche esigenze da comunicare tempestivamente al capo dell’ufficio.
[31] L’ingiustificata violazione di tale divieto è valutata ai fini della conferma del dirigente o del conferimento di ulteriori incarichi.
[32] La proposta tabellare deve indicare la misura e le modalità relative alla concreta applicazione dell’eventuale riduzione dal lavoro ordinario, che può consistere anche nell’esenzione da specifiche attività, così come previsto dall’articolo 6 della circolare in materia di magistrati referenti distrettuali e dei magistrati di riferimento per l’innovazione (RID e MAGRIF).
[33] Nella proposta tabellare deve essere precisato se il referente abbia a disposizione una struttura organizzativa e da quali risorse, materiali ed umane, sia composta. Il referente per la formazione usufruisce di un esonero parziale dall’attività giurisdizionale ordinaria, che tiene conto dell’ampiezza del distretto e può consistere in una percentuale non inferiore al 10% e non superiore al 25% del carico di lavoro. L’esonero non è rinunciabile, e l’incarico è incompatibile con quello di referente informatico.
[34] La proposta tabellare deve indicare le funzioni giudiziarie che essi svolgono, la misura dell’effettivo esonero parziale dall’attività giudiziaria ordinaria, stabilita nel 25%.
L’esonero non è rinunciabile, e l’incarico è incompatibile con quello di referente informatico, di referente per la formazione e di componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione.
[35] L’incarico di componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione è incompatibile con quello di referente informatico, di referente per la formazione, di componente del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura e di componente della struttura tecnica per l’organizzazione. Il magistrato che venga eletto componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione direttivo deve rinunciare, entro la prima seduta, agli incarichi non cumulabili (tra cui rientrano quelli di collaborazione ex articolo 28 del R.A.C. del Consiglio Superiore della Magistratura) di cui sia titolare, operando in mancanza la decadenza automatica dagli incarichi diversi da quello di componente del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione; e non può concorrere per il conferimento di uno degli incarichi non cumulabili per tutto il periodo di durata della consiliatura o fino alle loro anticipate dimissioni.
[37] Non possono essere comunque assegnati ai giudici onorari di pace:
- per il settore civile: a) i procedimenti cautelari e possessori, fatta eccezione per le domande proposte nel corso della causa di merito e del giudizio petitorio nonché dei procedimenti di competenza del giudice dell’esecuzione nei casi previsti dal secondo comma dell’articolo 615 del codice di procedura civile e dal secondo comma dell’articolo 617 del medesimo codice nei limiti della fase cautelare; b) i procedimenti di impugnazione avverso i provvedimenti del giudice di pace; c) i procedimenti in materia di rapporti di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie; d) i procedimenti in materia societaria e fallimentare; e) i procedimenti in materia di famiglia; f) i procedimenti in materia di protezione internazionale;
- per il settore penale:
a) i procedimenti diversi da quelli previsti dall’articolo 550 del codice di procedura penale; b) le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare; c) i giudizi di appello avverso i provvedimenti emessi dal giudice di pace; d) i procedimenti di cui all’articolo 558 del codice di procedura penale e il conseguente giudizio.
[38] Relativamente ai collegi civili, i giudici onorari di pace possono essere inseriti – ma non come relatori o estensori di provvedimenti - nei collegi concernenti le materie di cui all’articolo 11, comma 6, del decreto legislativo n. 116/2017 e la materia della famiglia, ivi compresi i collegi per i procedimenti di cui all’articolo 710 del codice di procedura civile ed all’articolo 9 della legge n. 898/1970, mentre ne è preclusa la possibilità di destinazione ai collegi relativi alla materia fallimentare ed alle sezioni specializzate, ivi compresa la protezione internazionale
Per quanto concerne i collegi penali, i giudici onorari di pace non possono essere inseriti nei collegi del tribunale del riesame ovvero qualora si proceda per i reati indicati nell’articolo 407, comma 2, lett. a), del codice di procedura penale.
[39] Nel settore civile e del lavoro il giudice professionale può delegare ai giudici onorari, concordando ove possibile le direttive cui essi dovranno attenersi, le attività istruttorie indicate all’articolo 10, comma 11, del d.lgs. n. 116/2017, la pronuncia di provvedimenti definitori nei casi indicati dall’articolo 10, comma 12, del medesimo d.lgs., con la precisazione che può trattarsi anche di cause di lavoro aventi ad oggetto il mero pagamento di somme di danaro, purché non connesse a domande di natura costitutiva ed a cause in materia di licenziamento.
[40] Ove è previsto che, in ogni caso, i giudici onorari di pace non possono essere destinati in supplenza per ragioni relative al complessivo carico di lavoro ovvero alle vacanze nell’organico dei giudici professionali.
[41] Le tabelle infradistrettuali sono state introdotte dalla legge 4 maggio 1988, n. 133 (recante tra l’altro “incentivi ai magistrati trasferiti o destinati d’ufficio a sedi disagiate”), che ha modificato l’art. 7 bis ord. giud. al fine di assicurare un più adeguato funzionamento degli uffici giudiziari requirenti e giudicanti. Esse consentono l’assegnazione congiunta di magistrati a due o più uffici nonché la supplenza di magistrati appartenenti ad uffici tra loro accorpati, allo scopo di assicurare maggiore possibilità di funzionamento soprattutto agli uffici di più piccole dimensioni. In base alla tabella infradistrettuale il magistrato può essere assegnato anche a più uffici aventi la medesima attribuzione o competenza, ma la sede di servizio principale, ad ogni effetto giuridico ed economico, é l'ufficio del cui organico egli fa parte. Gli uffici giudiziari rientranti nella medesima tabella infradistrettuali sono stati individuati dal Csm con delibera dell’8 luglio 1998 sulla base dei criteri determinati dalla legge (l’organico complessivo degli uffici ricompresi non deve essere inferiore alle quindici unità per gli uffici giudicanti; le tabelle infradistrettuali debbono essere formate privilegiando l'accorpamento tra loro degli uffici con organico fino ad otto unità se giudicanti e fino a quattro unità se requirenti; nelle esigenze di funzionalità degli uffici si deve tener conto delle cause di incompatibilità funzionali dei magistrati; si deve tener conto altresì delle caratteristiche geomorfologiche dei luoghi e dei collegamenti viari, in modo da determinare il minor onere per l'erario).
Le tabelle infradistrettuali, introdotte con la finalità di sopperire almeno in parte ai problemi di funzionalità degli Uffici giudiziari, risentono non solo dei limiti conseguenti all’impossibilità di sopperire con rimedi apparenti alla necessità di interventi strutturali e coerenti sul piano delle risorse, ma anche dello spirito burocratico che ne caratterizza - a livello della stessa normazione regolamentare da parte del CSM - la concreta attuazione, stentando a crescere una visione capace di assumerle come fattore stabile e permanente di un’organizzazione, in cui la logica della mera comparazione numerica degli affari, della quantità delle pendenze, dell’entità delle coperture e scoperture degli organici, pur rilevante e significativa, ceda il passo a valutazioni più approfondite idonee a giustificare le scelte con riguardo agli effetti complessivamente determinati in ordine al funzionamento della giustizia nell’intero distretto.
Verso tale visione dovrebbero spingere, tra l’altro, non solo il processo telematico, che in alcune sedi giudiziarie ha dato origine anche alla formazione di protocolli distrettuali e che, in realtà, postula esigenze di uniformità sull’intero territorio nazionale, ma anche le conferenze distrettuali sui criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, di cui alla delibere del CSM richiamate infra, al par. 11 e, segnatamente, in nota 110.
Sul tema del processo civile telematico il CSM è intervenuto in più occasioni, per favorirne l’attuazione e verificarne lo stato di realizzazione. Cfr. tra le più recenti, la Relazione sullo stato della giustizia penale telematica e la Relazione sullo stato della giustizia civile telematica, di cui alle delibere in data 9 gennaio 2019. Cfr, inoltre, in argomento - e sempre tra le delibere più recenti - la circolare in materia di magistrati referenti distrettuali e magistrati di riferimento per l’innovazione (RID e MAGRIF) approvata il 6 novembre 2019.
[42] Salvo che ricorrano particolari esigenze di servizio che rendano necessario provvedere diversamente, le supplenze infradistrettuali possono essere disposte esclusivamente nei casi nei quali la mancanza o l’impedimento del magistrato sia destinato a protrarsi per più di sette giorni, non sono soggette al vincolo della "medesima competenza" stabilito per l’assegnazione congiunta, vengono adottate con provvedimento di competenza dei presidenti di Corte d’appello e dei Procuratori generali, su richiesta del dirigente dell’ufficio di destinazione del supplente, sentito il dirigente dell’ufficio di provenienza; debbono essere adeguatamente motivate e sono sottoposte - qualora non costituiscano mera attuazione della previsione tabellare – al parere del Consiglio giudiziario ed all’approvazione del Consiglio superiore della magistratura.
[43] Nei casi in cui non sia possibile provvedere con magistrati di qualifica superiore, i magistrati che non abbiano conseguito la prima valutazione di professionalità possono essere applicati solo dopi il decorso del promo anno dalla presa di possesso nell’ufficio di titolarità e per svolgere esclusivamente le stesse funzioni eserciate nell’ufficio di provenienza.
Non possono essere applicati magistrati che esercitano funzioni direttive o semidirettive, salvo i magistrati che svolgono funzioni semidirettive in soprannumero i quali, invece, poteranno essere applicati conservando le funzioni precedentemente svolte.
[44] In casi di eccezionale rilevanza, l’applicazione può essere disposta – limitatamente alla trattazione dei soli procedimenti per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 bis del codice di procedura penale – per un ulteriore periodo massimo di un anno.
[45] In base alla legge istitutiva i magistrati distrettuali possono essere utilizzati in sostituzione di magistrati assenti dal servizio in una delle ipotesi contemplate dagli artt. 5 (aspettativa per malattia o per altra causa; astensione obbligatoria o facoltativa dal lavoro per gravidanza o maternità ovvero le altre ipotesi disciplinate dalla legge 8 marzo 2000, n. 53; tramutamento ai sensi dell’articolo 192 r. d. 12/1941 non contestuale all’esecuzione del provvedimento di trasferimento di altro magistrato nel posto lasciato scoperto; sospensione cautelare dal servizio in pendenza di procedimento penale o disciplinare; esonero dalle funzioni giudiziarie o giurisdizionali deliberato ai sensi dell’articolo 125-ter r. d. 12/1941 e succ. mod.) e 7 (applicazione in uno degli uffici del distretto, possibile solo in mancanza dei presupposti previsti per l’assegnazione in sostituzione di un magistrato assente ovvero in compiti – del tutto residuali - di ausilio al Consiglio giudiziario).
[46] Alla legge istitutiva dei magistrati distrettuali ha fatto seguito il D.M. 23 gennaio 2003, con il quale il Ministro della giustizia ha determinato un primo quantitativo complessivo degli organici in 103 unità, di cui 72 giudicanti e 31 requirenti. Con Circolare n. P-13726/2003 del 4 luglio 2003 il Csm ha dettato le prime direttive in ordine ai criteri ed alle forme di utilizzazione dei magistrati distrettuali.
Nel recente PNRR (Piano nazionale di resistenza e resilienza viene ricordato l’incremento della dotazione organica dei magistrati, pari a 600 unità, previsto dalla Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Bilancio 2019) all'articolo 1, comma 379, e l’istituzione di un contingente distrettuale di magistrati (pari a 176 unità) destinato ad ovviare alle “criticità di rendimento” rilevate in determinati uffici giudiziari.
Accertamento penale ed accertamento amministrativo in caso di lottizzazione abusiva (Nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 19 luglio 2021, n. 5403) di Maria Baldari
sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto e la vicenda giudiziaria. – 3. La decisione del Consiglio di Stato. – 4. La lottizzazione abusiva tra diritto penale e diritto amministrativo. – 5. Considerazioni conclusive e spunti di riflessione.
1. Premessa
Con la sentenza che qui si annota il Consiglio di Stato, ritenendo infondate le censure avanzate dagli appellanti, compie talune importanti precisazioni in merito alle differenze tra accertamento in sede penale e in sede amministrativa della lottizzazione abusiva.
L’illecito de quo, sebbene abbia frequentemente suscitato l’attenzione sia della dottrina che della giurisprudenza, risulta qui analizzato in relazione ad un profilo peculiare che ne rende opportuno l’approfondimento.
2. Il fatto e la vicenda giudiziaria
Nel 2008 gli appellanti acquistavano un terreno agricolo sito nel Comune di Olbia, collocato in un’area classificata con la destinazione urbanistica Zona E- Agricola[1].
A distanza di circa tre anni, gli stessi cedevano una parte ad un familiare e in un secondo momento effettuavano, sulla restante porzione, alcune opere di miglioramento fondiario. Tali ultime venivano dapprima certificate da un agronomo e successivamente verificate, mediante sopralluogo, dal Comune di Olbia.
In seguito, sempre nell’ambito del miglioramento fondiario del terreno, gli appellanti presentavano un progetto edilizio concernente la realizzazione di una casa colonica, ottenendone il relativo permesso nell’aprile 2015.
Con ordinanza n. 26 del 17/10/2015 il Comune di Olbia disponeva la sospensione dei lavori di lottizzazione abusiva sull’area, inclusa la proprietà degli appellanti. Questi ultimi impugnavano tale provvedimento dinnanzi al T.a.r. Sardegna.
Con sentenza n. 1065/2018 il T.a.r. respingeva il ricorso; avverso la sentenza, gli originari ricorrenti proponevano appello per i seguenti motivi.
Con il primo motivo, gli appellanti lamentavano la violazione e l’errata applicazione dell’art. 30 del D.P.R. n. 380/2001, ritenendo che gli argomenti valorizzati dall’amministrazione non fossero sufficienti a dimostrare l’intento illecito.
Dalla vendita delle due proprietà, isolatamente considerata, non potrebbe infatti ricavarsi in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio né, quindi, una ipotesi di lottizzazione abusiva. E ciò anche in considerazione del fatto che non vi sarebbe alcun riscontro della realizzazione di opere in violazione degli strumenti urbanistici; anzi, gli interventi di miglioramento fondiario sarebbero stati ritenuti dallo stesso Comune di Olbia conformi ai parametri urbanistico-edilizi generali e alle previsioni di cui all’art. 13-bis, L.R. 23 ottobre 2009, n. 4[2].
Inoltre, la consistenza e le modalità del frazionamento sarebbe avvenuta in modo conforme alle prescrizioni dettate dal programma di fabbricazione comunale e regionale, secondo una estensione non inferiore al cd. lotto minimo.
Ancora, difformemente da quanto dichiarato in sentenza, gli appellanti sostenevano che la presenza di una strada per l’accesso ai lotti frazionati - peraltro preesistente all’acquisto effettuato nel 2008 - non potesse costituire, in assenza di ulteriori indici, elemento idoneo da cui dedurre l’esistenza di un fenomeno lottizzatorio.
Con il secondo motivo gli appellanti deducevano inoltre la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, denunciando la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento la cui ricezione avrebbe consentito loro di far valere - tramite osservazioni, critiche e deduzioni - la totale infondatezza dell’illecito già nella fase formativa del provvedimento amministrativo.
3. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, nel rigettare i motivi di gravame, precisa innanzitutto come ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. n. 380/2001[3] possano in astratto configurarsi due diverse tipologie di lottizzazione abusiva: una di natura “materiale” e un’altra di carattere “formale o cartolare”.
La prima si verifica allorquando vengano realizzate opere che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni, in violazione delle prescrizioni urbanistiche ovvero in assenza della necessaria autorizzazione. La seconda si configura quando, pur non essendo ancora avvenuta una trasformazione di carattere materiale, se ne siano già realizzati i presupposti: vale a dire il frazionamento, la vendita o altri atti ad essi equiparati in lotti che evidenzino in modo non equivoco la destinazione ad uso edificatorio.
L’interesse protetto dalla norma è quello a garantire un ordinato sviluppo urbanistico del tessuto urbano, in coerenza con le scelte espresse negli strumenti urbanistici ed in particolare nel piano attuativo. Quest’ultimo svolge infatti la funzione di precisare zona per zona «le indicazioni di assetto e sviluppo urbanistico complessivo contenute nel piano regolatore, di attuarle gradatamente e razionalmente e di garantire che ogni zona disponga di “assetto ed attrezzature rispondenti agli insediamenti”, ovvero delle opere di urbanizzazione»[4]. In siffatto contesto, la lottizzazione abusiva sottrae all’amministrazione il suo potere di pianificazione attuativa.
La giurisprudenza ha delineato poi una ulteriore ipotesi di lottizzazione cd. “mista” che si caratterizza per la compresenza delle attività materiali e negoziali indicate dall’art. 30 D.P.R. n. 380/2001. Tale eventualità si configura nelle ipotesi in cui si verifichi «un’attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti seguita dalla edificazione dello stesso terreno»[5].
Proprio quest’ultima sembra essere la situazione su cui si fonda il provvedimento impugnato[6], non potendo essere accolti i motivi di appello con cui veniva prospettata la separata sussistenza di una lottizzazione materiale e di una cartolare[7].
I giudici di Palazzo Spada si preoccupano poi di chiarire – e su tale aspetto, su cui si tornerà più avanti, si fonda l’interesse per la pronuncia in commento - come l’oggetto del giudizio sia rappresentato dal provvedimento amministrativo, allo scopo di verificarne la legittimità. Tale precisazione si rende necessaria a fronte della parziale sovrapposizione del sindacato del giudice amministrativo rispetto a quello svolto, con riferimento alla fattispecie criminosa di cui all’art. 44 D.P.R. n. 380/2001, dal giudice penale.
Nel processo finalizzato ad accertare la responsabilità penale dell’imputato, infatti, risulta necessario il raggiungimento della prova oltre ogni ragionevole dubbio. Di contro, proprio in ragione dell’assenza di una connotazione penalistica delle conseguenze derivanti dal provvedimento impugnato, il sindacato del g.a. dovrebbe essere effettuato secondo il canone di credibilità razionale della decisione amministrativa.
E, sotto tale profilo, la giurisprudenza ha precisato come i principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza possano venire in rilievo in relazione alla applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica di cui all’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, ma non anche al fine della irrogazione della sanzione amministrativa prevista dall’art. 30, co. 8 del D.P.R. n. 380/2001[8].
Tanto chiarito, i giudici ritengono che dai fatti globalmente considerati emergano elementi gravi, precisi e concordanti che attestano l’integrazione dell’illecito e, quindi, la finalità abusiva degli autori[9].
L’insieme delle circostanze accertate dalla p.a. denota infatti l’intento di mutare la destinazione agricola dell’area in spregio agli strumenti urbanistici che la disciplinano. Il provvedimento impugnato trova un adeguato supporto istruttorio negli elementi fattuali, senza che i motivi addotti dagli appellanti siano idonei ad inficiarne la coerenza logica[10].
Risulta inoltre significativo che il frazionamento dell’area abbia comportato la formazione di lotti di dimensioni inferiori rispetto al minimo previsto dall’art. 13bis della L.R. n. 4/2009 e all’art. 3 del D.P.G.R. 3 agosto 1994, n. 228[11]. Parimenti rilevante appare la circostanza che gli acquirenti non fossero imprenditori agricoli.
Peraltro, secondo la giurisprudenza prevalente, non occorre che gli elementi comprovanti la presenza di una lottizzazione cartolare siano tutti presenti, essendo sufficiente che ve ne sia anche uno solo – nel caso di specie consistente nella vendita e nell’ulteriore frazionamento in lotti di ridotte dimensioni - purché rilevante ed idoneo a comprovare, con margini di plausibile veridicità, la volontà di procedere a lottizzazione[12].
Né può assumere rilievo la circostanza che gli appellanti abbiano ottenuto l’autorizzazione ad eseguire singole opere edilizie, poiché a rilevare sono non tanto le singole porzioni isolatamente considerate quanto piuttosto lo stravolgimento della destinazione di zona nel suo complesso[13].
Da ultimo, la connessione funzionale tra edificazione e costruzione agricola del fondo risultava smentita da un lato, dalla rilevazione di 100 piante di ulivo a fronte delle 200 dichiarate nella relazione agronomica; dall’altro, dalla prevalenza di zona incolte e improduttive del terreno, da cui si evince una attività agricola di tipo “hobbistico”.
Per quanto attiene infine al secondo motivo di appello relativo alla asserita violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, il Consiglio riteneva infondata anche tale censura. Innanzitutto, in quanto per il procedimento in esame parte della giurisprudenza esclude la necessità della comunicazione di avvio[14]; in secondo luogo, poiché nell’ordinanza n. 26 del 17 ottobre 2016 del Comune si dava atto che la comunicazione di avvio fosse stata inviata ad entrambi gli appellanti.
4. La lottizzazione abusiva tra diritto penale e diritto amministrativo
La fattispecie incriminatrice di lottizzazione abusiva[15] è descritta dall’art. 30, co. 1 D.P.R. n. 380/2001 il quale, con una norma di carattere definitorio, ne indica le caratteristiche strutturali[16]. La sanzione penale, che si aggiunge alla sanzione amministrativa di cui all’art. 30, co. 8 del D.P.R. n. 380/2001[17], è fissata invece dall’art. 44, co. 1 lett. c)[18].
L’aspetto maggiormente problematico della figura in esame concerne, tradizionalmente, la configurabilità del reato de quo nelle ipotesi in cui l’autorizzazione, pur essendo stata concessa, presenti profili di illegittimità; questione, tale ultima, che si inserisce nella più ampia tematica relativa al sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi con effetti in malam partem[19].
Sul punto, giova sinteticamente ricordare come inizialmente la tesi prevalente fosse quella cd. “processualistica”, in ossequio alla quale il giudice dovrebbe limitarsi alla verifica circa l’esistenza dell’atto sulla base della esteriorità formale, con conseguente utilizzo dell’istituto della disapplicazione exart. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E[20].
A far data dalla storica sentenza Giordano[21] si afferma invece l’idea, rimasta pressoché immutata fino ad ora[22], della natura sostanziale della questione in esame. Da tale premessa deriva la conseguenza che il giudice possa valutare la sussistenza dell’atto quale elemento normativo della fattispecie e conoscerne la eventuale illegittimità, in maniera non dissimile da quanto accade con gli altri elementi essenziali della fattispecie criminosa[23]. E ciò anche quando, secondo una ricostruzione prospettata in via interpretativa, l'illegittimità dell'atto amministrativo non sia espressamente contemplata dalla disposizione incriminatrice quale componente del reato[24].
Con riferimento specifico alla lottizzazione abusiva, è stata a tal proposito elaborata la tesi del reato “a consumazione alternativa”, configurabile cioè sia in caso di difetto di autorizzazione sia nel caso in cui questa contrasti con la legge o gli strumenti urbanistici[25].
Anche in tal caso il giudice non effettua alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo ma «si limita ad accertare la conformità del fatto concreto alla fattispecie astratta descrittiva del reato, poiché una volta che constati il contrasto tra la lottizzazione considerata e la normativa urbanistica, giunge all’accertamento dell’abusività della lottizzazione prescindendo da qualunque giudizio sull’autorizzazione» [26].
Il caso esaminato dal Consiglio di Stato attiene tuttavia ad un profilo che, sebbene collegato al tema indicato, non appare del tutto coincidente con esso. In particolare, nella vicenda sottoposta all’attenzione dei giudici di Palazzo Spada, trattandosi di un giudizio generale di legittimità, l’oggetto è rappresentato proprio dal provvedimento amministrativo medesimo.
In relazione al sindacato del giudice amministrativo non vengono in rilievo i medesimi limiti ai quali va incontro il giudice penale, né può applicarsi il principio processualpenalistico di cui all’art. 533 c.p.p. che richiede il raggiungimento della prova oltre ogni ragionevole dubbio.
Infatti, mentre il giudizio penale concerne l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, cui consegue l’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale; il giudizio amministrativo attiene invece alla legittimità del provvedimento stesso. Da tale diversità deriva allora l’impossibilità di far valere nell’ambito del processo amministrativo principi propri del diritto penale, ed in particolare, secondo quanto prospettato dagli appellanti, il principio di buona fede e di presunzione di non colpevolezza[27].
Il procedimento penale ed il procedimento amministrativo, sebbene destinati ad incidere sullo stesso bene giuridico, proseguono “su binari paralleli”, in ragione della profonda diversità che attiene alla causa petendi. Del resto, lo stesso Consiglio di Stato aveva in passato chiarito come la comminazione di sanzioni sul piano amministrativo ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. n. 380/2001 non richieda alcuna pregiudiziale verifica circa la sussistenza della responsabilità penale ai sensi dell’art. 44, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001[28].
In un passaggio della motivazione, il Consiglio di Stato fa poi rapido accenno alla eventualità di giungere a conclusioni diverse nelle ipotesi in cui il provvedimento impugnato dovesse assumere dei risvolti penalistici. Tale ultima puntualizzazione appare opportuna alla luce dell’orientamento, di derivazione sovranazionale, tendente all’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene anche alle sanzioni amministrative aventi natura sostanzialmente penale[29]. La questione tuttavia non risulta approfondita in ragione della mancata prospettazione in tal senso, ad opera degli appellanti, in relazione alla misura di cui all’art. 30. co. 8 del D.P.R. n. 380/2001.
5. Considerazioni conclusive e spunti di riflessione
Come si è tentato di chiarire, la sentenza in commento si preoccupa di mettere in evidenza le diversità del perimetro di indagine del giudice penale rispetto a quelle del giudice amministrativo, avendo cura di specificare come quest’ultimo abbia accesso diretto al provvedimento.
Secondo il Consiglio di Stato, il sindacato del giudice amministrativo attiene infatti «alla piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione, al fine di verificare l’esattezza materiale degli elementi di prova invocati dall’amministrazione, la loro affidabilità e la loro coerenza», secondo il canone di valutazione «di credibilità razionale della decisione amministrativa alla luce degli elementi posti dall’amministrazione a giustificazione della stessa»[30].
Tali precisazioni, sebbene siano da salutare con favore nella misura in cui sgombrano il campo da incertezze interpretative, non appaiono tuttavia risolutive della totalità dei problemi.
Una volta appurato che l’oggetto del giudizio amministrativo sia il provvedimento e la sua eventuale illegittimità, si ripropone infatti la questione inerente al tipo di sindacato esperibile dal g.a. sulla discrezionalità amministrativa, la quale può essere “pura” o “tecnica”[31]. A tale ripartizione, com’è noto, corrisponde una diversa intensità di sindacato sull’operato della p.a., che si mostra più incisivo nel caso di discrezionalità tecnica[32].
Il tema, poi, si complica ulteriormente ove si consideri come non sia agevole qualificare il tipo di discrezionalità di cui gode l’ente locale in materia di pianificazione edilizia.
Al riguardo, secondo una prima tesi si tratterebbe di una discrezionalità di tipo “misto”, nella quale si fondono elementi di discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa[33]. Il potere esercitato dall'Amministrazione dovrebbe tenere conto non soltanto dei vari interessi, pubblici e privati, che possono venire in rilievo nella valutazione, ma altresì di una serie di profili tecnici[34].
Aderendo a tale orientamento, pertanto, il tipo di sindacato si differenzierebbe a seconda dello specifico profilo attenzionato: nella prima fase, la discrezionalità tecnica sarebbe infatti censurabile fino all’errore o alla inattendibilità scientifica della soluzione prescelta; nella seconda fase, invece, la discrezionalità pura incontrerebbe il solo limite dell’eccesso di potere.
La tesi ormai prevalente ritiene tuttavia che il potere della p.a. in materia di pianificazione edilizia sia riconducibile ad una discrezionalità “pura” di carattere piuttosto ampio, che sembra sfociare in uno spazio di elevata libertà a favore dell’ente locale[35].
In quest’ottica, allora, il sindacato sarebbe piuttosto “debole”, potendo il g.a. verificare, al più, la presenza di una figura sintomatica dell’eccesso di potere senza disporre, invece, degli strumenti necessari per vagliare appieno le scelte compiute dalla p.a.
In base ad una massima ormai consolidata, infatti, «le scelte effettuate dall'Amministrazione Pubblica nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità» [36].
Ma, se così è, la pregnanza del controllo sul provvedimento edilizio da parte del giudice amministrativo - tanto enfatizzata dalla sentenza in commento – sembra destinata, almeno in parte, ad essere ridimenzionata.
[1] Secondo il Programma di Fabbricazione, nell’area in questione sarebbero ammessi «fabbricati ed impianti destinati alla produzione agricola o zootecnica del fondo, all’itticoltura, alla valorizzazione e alla trasformazione delle produzioni aziendali, nonché fabbricati residenziali per imprenditori e conduttori agricoli».
[2] Ai sensi della quale occorre la presenza di una effettiva connessione funzionale tra l’edificazione e la conduzione agricola e zootecnica del fondo.
[3] «Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti ,denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio».
[4] Cons. di Stato, sez. VI, 19 luglio 2021 n. 5403, punto 9.
[5] Così Cass., Sez. III, n. 6080 del 7/02/2008.
[6] Il giudice di primo grado aveva infatti ravvisato la sussistenza di una lottizzazione abusiva “mista”, ricavabile «dal frazionamento di tre macro lotti a destinazione agricola in venticinque lotti, nella creazione di una strada abusiva di collegamento di tutti i nuovi lotti, nella vendita di questi ultimi e nell’inizio sugli stessi di attività edilizia, nella maggior parte dei casi senza titolo autorizzatorio».
[7] In particolare, la tesi degli appellanti distingueva i singoli momenti: da un lato, quello del frazionamento e della vendita; dall’altro, quello della parziale edificazione di taluni lotti. Per il Consiglio di Stato, tali momenti dovrebbero invece essere intesti come tasselli del complessivo disegno lottizzatorio, posto in essere in spregio alla destinazione impressa alla zona dal P.R.G. Cfr., in tal senso, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021 secondo cui «la lottizzazione abusiva è un fenomeno unitario che trascende la consistenza delle singole opere di cui si compone e talora ne prescinde, come nel caso del mutamento di destinazione d’uso di complessi edilizi regolarmente assentiti, e assume rilevanza giuridica per l’impatto che determina sul territorio interferendo con l’attività di pianificazione, conservazione dei valori paesistici e ambientali, dotazione e dimensionamento degli standard, di guisa che la diversa conformazione materiale che deriva dall’attività di lottizzazione, se non rimossa, da un lato impedisce la realizzazione del diverso progetto urbanistico stabilito dagli organi preposti al governo del territorio, dall’altro impone l’adeguamento delle infrastrutture esistenti o la realizzazione di nuove per far fronte al carico urbanistico derivante dalla lottizzazione».
[8] Così Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878; Cons. Stato, sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n.4320, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021.
[9] Nello specifico, dal rapporto n. 56070 del 13 giugno 2016 redatto dagli agenti comunali emergevano le seguenti circostanze: tra il 2008 e il 2009 nel territorio comunale classificato come Zona E- Agricola il proprietario dei mappali originari aveva provveduto alla realizzazione di una strada sterrata, al frazionamento di tre lotti di terreno fino a generare 25 lotti e alla successiva stipulazione di altrettanti atti di compravendita; la strada, realizzata senza alcun titolo edilizio e non censita in Catasto, risultava oggetto di servitù di passaggio in tutti gli atti di compravendita dei singoli lotti; le superfici dei mappali frazionati variavano da un massimo di HA 1.29.93 ad un minimo di Ha 00.05.30 (con la sola eccezione di un terreno di superficie pari a Ha 03.00.00); quattro dei 25 lotti risultavano edificati; l’amministrazione era intervenuta con due provvedimenti di diniego di altrettante istanze di concessione edilizia per la realizzazione di edifici ad uso residenziale nonché con un annullamento in autotutela di un titolo autorizzatorio erroneamente emanato, tutti motivati con riferimento ad un fenomeno lottizzatorio abusivo nella zona in esame; sui terreni in esame era stata riscontrata la presenza di piccoli manufatti ma non di attività agricole o zootecniche connesse con la destinazione urbanistica della zona agricola; il succedersi di richieste di concessione edilizia sui lotti in questione nel periodo successivo alla entrata in vigore della Legge Regionale n.4/2009 la quale aveva ripristinato l’edificabilità nella zone E con lotto minimo di 1 ettaro.
[10] In particolare, con riferimento all’obiezione secondo cui dalle mappe non potrebbe essere escluso che il fondo fosse collegato alla viabilità pubblica già prima della realizzazione della strada abusiva, la p.a. aveva provveduto a depositare apposita documentazione che sconfessava la tesi degli appellanti. Tale documentazione dimostrava infatti come prima del 2008 non fosse presente alcuna via pubblica di accesso al Mappale oggetto di causa e che l’unico accesso alla proprietà dei ricorrenti avvenisse per il tramite della abusiva strada sterrata non censita al Catasto, la quale costituisce oggetto di servitù di passaggio nell’atto di compravendita. La realizzazione abusiva della strada che collega i vari lotti rappresenterebbe pertanto un idoneo elemento probatorio dell’intento lottizzatorio.
[11] Nello specifico, la superficie minima di intervento era fissata in un ettaro, salvo per quanto riguarda la destinazione per impianti serricoli, impianti orticoli in pieno campo e impianti vivaistici, per i quali era stabilita in ettari 0,50.
[12] In particolare, la vendita di lotti di ridotte dimensioni contraddiceva esplicitamente la vocazione agricola del terreno in quanto, nella logica del mercato agricolo, possedere un terreno di notevoli dimensioni risulta maggiormente proficuo; il frazionamento planimetrico del fondo, pertanto, farebbe emergere l’intento di voler procedere a lottizzazione abusiva. Sul punto, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV del 11.7.2016 n. 3073; v. anche Corte Cass. n. 389 del 25/05/1990 che ha ritenuto idonei elementi attestanti la lottizzazione «la predisposizione di un piano di frazionamento, nella superficie esigua di ogni singola frazione - poco compatibile con una utilizzazione agricola del terreno acquistato - nella appartenenza a famiglia contadina solo di due dei tredici acquirenti, nella prossimità del terreno frazionato rispetto all'abitato»; nella medesima direzione, v. anche, più di recente, Corte Cass. 15205 del 15/11/2019 relativa alla realizzazione di edifici residenziali in zona agricola, mediante frazionamenti ed accorpamenti di fondi non contigui, asserviti per soddisfare il requisito della estensione minima del lotto, da parte di soggetti privi del requisito necessario di imprenditore agricolo.
[13] Cfr. Cons. St., n. 26 del 18 gennaio 2016. Peraltro, in occasione del sopralluogo seguito dagli agenti del Comune in data 10/03/2016 era stata riscontrata la presenza, oltre che del menzionato edificio residenziale, anche di una serie di opere ulteriori eseguite in assenza di Scia e di permesso di costruire, ed in particolare di: un pozzo, una cisterna idrica, un tubolare un cemento per l’attraversamento di un piccolo corso d’acqua presente all’interno del lotto e uno scavo di sbancamanto di notevoli dimensioni.
[14] Cfr. in tal senso Cons. Stato, Sez. IV, n. 3073/2016.
[15] Per un maggiore approfondimento della fattispecie de qua si rinvia, fra gli altri, a De Gioia -Casa, Violazioni edilizie. Responsabilità e sanzioni amministrative e penali. Effetti civili. Profili fiscali, Torino, 2011; G. Trapani, La circolazione giuridica dei terreni: analisi delle linee direttrici dello statuto di tali beni, in Riv. notariato, fasc.6, 2003, pag. 1483; F. Parente, Trasformazione del territorio e tipologie lottizzatorie abusive, in Riv. notariato, fasc.5, 2003, pag. 1145.
[16] Come anticipato, la lottizzazione può attuarsi sia con opere « che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione », sia mediante « il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio ». Viene così delineata la distinzione di fondo tra la lottizzazione abusiva cd. “materiale” e quella cd. “negoziale” (o “cartolare”).
[17] Consistente nella acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune.
[18]Il quale prevede l’arresto fino a due anni e l’ammenda da €15.493 a €51.645.
[19] In argomento, si rinvia, fra gli altri, a F. De Leonardis, Il sindacato del giudice penale sugli atti di autorizzazione e concessione: alcune riflessioni “partendo dalla fine”, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc.4, 2020, pag. 893; G. Tropea, Concessioni balneari e diritto europeo: nuovi “lati oscuri” della disapplicazione del giudice penale, nota a Cass. pen., sez. III, 12 aprile 2019, n. 25993, in www.dirittifondamentali.it, n. 1/2020; Id., Aree di non sindacabilità e principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa, in Diritto Costituzionale, n. 3/2018; F. Francario, Illecito urbanistico e edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in Riv. giur. ed., 2015, 99; B. Tonoletti, La pubblica amministrazione sperduta nel labirinto della giustizia penale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 77; G. Contento, Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, con particolare riferimento agli atti discrezionali, in Quad. csm, 1, 1991; A. Romano, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Diritto Processuale Amministrativo, 1983, 22; F. R. Villata, “Disapplicazione” dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1980.
[20] Cfr. in tal senso Cass., sez. III, 15 febbraio 1960, Guidi; Cass., sez. III, 16 marzo 1970, Agnello; Cass., sez. VI, 7 dicembre 1984, Ambrogi; sez. III, 10 gennaio 1984, Tortorella; Cass., sez. III, 13 marzo 1985, Meraviglia; 31 marzo 1986, Ainora. In dottrina, si rinvia a A. Cioffi, Il problema della legittimità nell'ordinamento amministrativo, Padova, 2012; A. Romano, A proposito dei vigenti artt. 19 e 20 della l. n. 241/90: divagazioni sull'autonomia dell'amministrazione, in Dir. amm., 2006, 490 ss.; Id., voce “Autonomia” nel diritto pubblico, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, 1987, 31 ss.; S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947.
[21] Cass., Sez. Un., 31 gennaio 1987, n. 3.
[22] Cfr, fra le altre, Cass., sez. III, 19 luglio 1994, Cremona; 30 giugno 1995, n. 17565, Di Pasquale; 29 settembre 1994, n. 1822, Ruotolo; 3 maggio 1996, n. 4421, Oberto; 20 luglio 1996, n. 7310, Vené; 23 dicembre 1997, n. 11988, Controzzi; sez. III, 21 marzo 2006, n. 21487, Tantillo; 28 settembre 2006, n. 40425, Consiglio; 2 ottobre 2007, n. 41620, Emelino; 9 maggio 2008, n. 28225, Di Stefano; 27 giugno 2008, n. 35389, Gallo; 13 gennaio 2009, n. 9177, Corvino; 20 gennaio 2009, n. 14504, Sansebastiano e altri; 2 luglio 2009, n. 34809, Giombini e altro; 14 luglio 2010, n. 35391, Di Domenico; 16 febbraio 2012, n. 28545, Cinti; 14 maggio 2013, n. 37847, Sonni; 16 giugno 2015, n. 36366, Faiola.
[23]Cfr. G. Cocco, Dalla disapplicazione dell'atto amministrativo alla disapplicazione della fattispecie incriminatrice - I parte, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.1, 2021, pag. 6; Id., Dalla disapplicazione dell'atto amministrativo alla disapplicazione della fattispecie incriminatrice - II parte, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.2, 2021, pag. 358; R. Garofoli, Il controllo giudiziale, amministrativo e penale dell’amministrazione, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, fasc.2, 2020, pag. 405; B. Tonoletti, la pubblica amministrazione sperduta nel labirinto della giustizia penale, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, fasc.1, 2019, pag. 76; G.D. Comporti, E. Morlino, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019; R. Tumbiolo, Il sindacato del Giudice penale sul titolo edilizio e paesaggistico: dal profilo formale a quello di legittimità, in Rivista Giuridica dell'Ambiente, fasc.6, 2013, pag. 705; R. Villata, Le Sezioni Unite della Cassazione penale mettono fine alla c.d. «disapplicazione» della concessione edilizia (assente) illegittima nel processo penale, in Diritto Processuale Amministrativo, 1987, 441 ss.
[24] Peraltro, se in occasione della sentenza “Giordano” del 1987 le SU ritennero insussistente il reato edilizio in caso di concessione illegittima, identificando come bene giuridico tutelato dalla norma la sottoposizione dell’attività edilizia al preventivo controllo della p.a.; nella successiva sentenza “Borgia” del 1993 le stesse SU giunsero a conclusioni opposte, e ciò sulla base di una diversa connotazione del bene giuridico, individuato questa volta nella tutela dell’assetto del territorio in conformità alla normativa urbanistica.
[25] Sul punto cfr. D. Guidi, Lottizzazione abusiva e sindacato del giudice penale sulle decisioni degli enti territoriali in materia di pianificazione attuativa, in Riv. giur. edil., 2019, 353; G.D. Comporti - E. Morlino, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019.
[26] Così Sez. Un., 8 febbraio 2002, n. 5115. Secondo le Sezioni Unite infatti è la «descrizione normativa del reato di lottizzazione abusiva, che impone un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa; di tal che il giudice penale, nel valutare la liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria, indipendentemente dalla circostanza che la lottizzazione sia o meno autorizzata».
[27] In questo senso, v. Cons. di Stato, sez. II, 17 maggio 2019, n. 3196; Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n.4320, CGARS Sez. giur. n. 93 del 8 febbraio 2021.
[28] Sul punto, cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, 23 marzo 2018, n. 1878.
[29] Tale tematica è stata oggetto di recente approfondimento da parte della letteratura giuridica; fra gli altri, si rinvia a F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018; G. Martini, Potere sanzionatorio della PA e diritti dell’uomo. I vincoli CEDU all’amministrazione repressiva, Napoli 2018; S.L. Vitale, Le sanzioni amministrative tra diritto nazionale e diritto europeo, Giappichelli, Torino, 2018; P. Cerbo, La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016; Cagnazzo- Toschei, La sanzione amministrativa. Principi generali, Giappichelli, 2012.
[30] Cons. di Stato, sez. VI, 19 luglio 2021 n. 5403, punto 10.
[31]Appare appena il caso di precisare che la discrezionalità è detta “pura” quando la p.a. è tenuta ad effettuare valutazioni di opportunità e di convenienza nella scelta della misura più idonea a soddisfare le finalità pubbliche perseguite; la discrezionalità è invece definita “tecnica” quando la p.a. verifica, sulla base di canoni scientifici e tecnici, la presenza dei presupposti necessari ai fini della emanazione di un determinato atto. Sull’argomento la letteratura è ricca; fra gli altri, si rinvia a R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2017; G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della legge n. 124/2015, in Dir. amm., n. 1-2/2016; B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013; F. Merusi, Ragionevolezza e discrezionalità amministrativa, Napoli, 2011; G.C. Spattini, Le decisioni tecniche dell'amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 2011, 133 ss.; F. Cintioli, Discrezionalità tecnica (dir. amm.), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, 484 ss.; F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2008, 791 ss.; A. Giusti, Contributo allo studio di un concetto ancora indeterminato. La discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione,Napoli, 2007; A. Travi, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubbl., 2004, 439 ss.; L. Perfetti, Ancora sul sindacato giudiziale sulla discrezionalità tecnica, in Foro amm., 2000, 424 ss.
[32]Nello specifico, mentre nel caso della discrezionalità “pura” il giudice, lungi dall’ingerirsi nelle scelte di merito della p.a., può esercitare al più un controllo estrinseco sui profili di legittimità dell'azione pubblica correlati all'eccesso di potere, basandosi sulle cd. “figure sintomatiche”; in relazione alla discrezionalità tecnica egli può invece spingersi a sindacare la correttezza delle regole tecniche applicate nonché dell’iter logico seguito nel compimento della valutazione. Cfr. G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali. Modelli di sindacato sul potere pubblico e sui poteri privati a confronto, Napoli, 2012; S. Giacchetti, Discrezionalità amministrativa e controllo giudiziario nell'attuale fase evolutiva dell'ordinamento, in V. Parisio (a cura di), Potere discrezionale e controllo giudiziario, Milano, 1998, 241 ss.
[33]Da un lato, infatti, nel valutare in sede di pianificazione urbanistica se determinate opere edilizie debbano essere realizzate con intervento “diretto” (con convenzione o meno) oppure previa adozione di un “piano di lottizzazione” (o con altra tipologia di piano attuativo), il Comune compie una valutazione che non può prescindere da cognizioni e criteri di natura tecnica. Dall'altro lato, una volta esaurito l'apprezzamento dei fatti sulla base di una corretta individuazione e applicazione delle regole tecnico-specialistiche di settore, l'ente locale resta libero di individuare il tipo di intervento più opportuno per il miglior perseguimento dell'interesse pubblico. In questo senso, v. T.A.R. Piemonte, Sez. II, 9 maggio 2014 n. 821; T.A.R. Basilicata, Sez. I, 7 dicembre 2017 n. 758.
[34] Peraltro, la categoria concettuale della “discrezionalità mista” è stata espressamente riconosciuta anche dal Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 giugno 2011 n. 3884; Sez. VI, 25 febbraio 2013 n. 1129.
[35] La pianificazione urbanistica sarebbe oggetto di una discrezionalità “peculiare”, individuata nella comparazione e ponderazione di interessi localizzati sul territorio ed avrebbe come destinatari una pluralità indefinita di soggetti. In questo senso, cfr. S. Civitarese - P. Urbani, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Giappichelli, 2020; G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè, 2019; G. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè, 2014; G. Cartei, La disciplina dei vincoli paesaggistici: regime dei beni ed esercizio della funzione amministrativa, in Urbanistica e Paesaggio, a cura di G. Cugurra, E. Ferrari, G. Pagliari, Napoli, 2005.
[36] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 luglio 2018 n. 4071; Id. Sez. IV, 16 febbraio 2018 n. 991; Id., 18 agosto 2017 n. 4033; T.A.R. Sicilia, Sez. I, 21 agosto 2018 n. 1722; T.A.R. Sardegna, Sez. II, 26 settembre 2017 n. 593; Cons. Stato, Sez. IV, 11 ottobre 2017 n. 4707. In dottrina, cfr. P. Lombardi, Il Governo del Territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012; G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000.
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