ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi considerazioni sull’art. 7 del d.l. n. 105 del 2021 e la Cassazione Civile.
di Raffaele Frasca
1. L’intento di queste brevi note è di individuare gli effetti sulla trattazione dei procedimenti civili davanti alla Corte di Cassazione della recentissima proroga dello stato emergenziale disposta dal d.l. n. 105 del 2021.
L’art. 7 del d.l n. 105 del 2021, entrato in vigore il giorno 23 luglio 2021, per quello che interessa ai fini dei ricorsi civili, dopo avere disposto – con norma superflua nel suo comma 1 – che la disposizione di cui all’art. 23, comma 8-bis “primo, secondo, terzo e quarto periodo” del d.l. n. 137 del 2021, convertito con modificazioni, della legge n. 176 del 2021 continua ad applicarsi fino dalla data del 31 dicembre 2021 (risultato questo per la verità già assicurato dalla modifica del periodo di durata dello stato emergenziale, siccome disposto dall’art. 2 dello stesso d.l. che ha sostituito il termine indicato nell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 19 del 2020, convertito con modificazioni, dalla l. n. 35 del 2020 sostituendolo in entrambe le norme con quello espresso dalle parole <<31 dicembre 2021>>), ha disposto nel comma 2 che le disposizioni dello stesso comma 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo <non si applicano ai procedimenti per i quali l'udienza di trattazione è fissata tra
Il senso del disposto del comma 1 è che fino al 31 dicembre 2021 la trattazione dei procedimenti civili in cassazione secondo il regime dell’udienza pubblica resterebbero soggetti alle stesse disposizioni che la regolavano secondo il regime emergente dall’art. 23, comma 8-bis introdotto dal d.l. n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla le. N. 176 del 2021 e, dunque, al c.d. regime che rimetteva alle parti o al P.G. l’effettività della trattazione in pubblica udienza. In proposito mi sia consentito rinviare alle considerazioni ricostruttive del significato della norma che esposi in uno scritto dello scorso gennaio, nel contempo avvertendo che quel regime, essendo stato prorogato lo stato emergenziale fino al 31 luglio 2021, era destinato ad operare fino a tale data[1].
Il senso del disposto del comma 2, per come è enunciato, vorrebbe essere - naturalmente sempre per quanto attiene ai procedimenti civili di cassazione - quello di sottrarre invece l’ambito di applicazione che individua, cioè “i procedimenti per i quali l’udienza è fissata tra il 1° agosto e il 30 settembre 2021”, all’operare delle disposizioni enunciate dai periodi primo, secondo, terzo e quarto del comma 8-bis dell’art. 23, la cui vigenza è stata ribadita (come s’è detto superfluamente) dal comma 1.
Quindi, chi legge il comma 2 è tenuto ad individuare in primo luogo il significato e, dunque, la norma evincibile, dalla parte della disposizione che, come ho detto, vorrebbe individuarne l’ambito di applicazione.
2. L’interprete si deve, dunque, domandare che cosa abbia voluto intendere il legislatore con l’espressione (appunto la disposizione per chi ama la distinzione fra “disposizione” e “norma”) “i procedimenti per i quali l’udienza è fissata tra il 1° agosto e il 30 settembre 2021”.
Una prima risposta, quasi istintiva, potrebbe essere che si sia inteso alludere a procedimenti per i quali sia stata già fissata alla data dell’entrata in vigore del decreto legge n. 105, cioè al 23 luglio 2021, l’udienza e lo sia stata nel periodo fra il 1° agosto ed il 30 settembre 2021, con la conseguenza che tali procedimenti, già regolati dall’art. 23, comma 8-bis e, dunque, fissati secondo il regime da esso indicato e con soggezione ai periodi primo, secondo, terzo e quarto del detto comma, sarebbero sottratti alla loro efficacia regolatrice e ricondotti alla trattazione ai sensi dell’art. 379 c.p.c.
In pratica sarebbe ripristinata la trattazione “normale” in udienza pubblica secondo quanto dispone tale norma.
Dico subito che intendere la disposizione come somministrante una norma di questo contenuto non mi pare in alcun modo possibile.
3. In tanto, l’espressione letterale, cui pure bisogna prestare attenzione, supponendo che il legislatore sia consapevole del significato delle parole che usa, non allude ad “udienze già fissate”, ma ad “udienze che sono fissate”. Invero, fare riferimento a “i procedimenti per i quali l’udienza è fissata”, sottende in primo luogo l’assumere come oggetto di disciplina un’attività da compiersi e non già compiuta. Dire “è fissata” allude cioè ad un procedimento per il quale l’udienza si deve fissare e si fissa nel periodo temporale indicato.
Se il legislatore avesse voluto alludere invece a procedimenti per i quali l’udienza, al momento dell’entrata in vigore del d.l. era già fissata nel lasso di tempo indicato, avrebbe dovuto usare non il verbo al presente ma al passato prossimo. Oppure avrebbe dovuto scegliere un’espressione diversa e dire, ad esempio, “le udienze fissate nel periodo fra il 1° agosto ed il 30 settembre 2021 sono sottratte alla disposizione del comma 8-bis” oppure “saranno tenute senza cameralizzazione” oppure secondo le regole del codice di procedura civile, di cui all’art. 379 c.p.c. Il legislatore, peraltro, avrebbe dovuto preoccuparsi di stabilire la sorte di eventuali conclusioni scritte depositate dal P.G. e di eventuali memorie depositate dalle parti secondo il regime del comma 8-bis dell’art. 23. Al contrario, pur intervenendo con decreto legge, si è disinteressato dal regolare gli atti della sequenza procedimentale pendente secondo il regime di cui a quella norma.
4. In secondo luogo, occorre tenere presente che l’efficacia eccettuativa del comma 2 rispetto al disposto del comma 1 dell’art. 7 suppone che l’efficacia di questo si debba altrimenti dispiegare ed è palese allora che ciò che il comma 2 sottrae all’applicazione del comma 1 non può che essere quello che tale comma 1 avrebbe potuto altrimenti disciplinare.
Ebbene, al riguardo occorre riflettere sul resto della disposizione del comma 2, cioè su quello che esprime appunto il significato di ciò che il legislatore del d.l. n. 105 del 2021 ha inteso sottrarre all’applicazione del regime risultante dal comma 1 e, come si è detto, dalla stessa proroga temporale dello stato emergenziale disposta dall’art. 2 del d.l attraverso le sostituzioni sopra ricordate.
Occorre, dunque, considerare quello che prevedono il primo, il secondo, il terzo ed il quarto periodo del comma 8-bis dell’art. 23.
5. Il primo periodo di tale comma dispone che <
Ora, come ho sostenuto altrove commentando l’introduzione del comma 8-bis nell’art. 23[2], in quel periodo la pur atecnica espressione “ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica” evidenzia che l’oggetto di disciplina si concentra sull’attività, per così dire di “proposizione” della trattazione, piuttosto che sulla data dell’udienza (cioè della trattazione), e, poiché la “proposizione” si deve identificare con la fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 377 c.p.c., cioè con l’adozione del relativo decreto da parte del Primo Presidente o del Presidente Titolare della Sezione Semplice (successiva al 25 dicembre 2021), si deve intendere che il periodo in questione alluda alla emissione di tal decreto.
Se si condivide questa esegesi e risulta che la Corte di Cassazione Civile l’abbia condivisa, poiché il comma 1 dell’art. 7 in commento, nel disporre la disposizione del comma 8-bis e, dunque, quella di cui al suo primo periodo, si applica fino alla data del 31 dicembre 2021, avrebbe l’effetto di rendere applicabile il disposto di esso a tutti i decreti di fissazione di udienza pubblica emessi dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 105, cioè dal 23 luglio 2021, risulta palese che il comma 2 dell’art. 7, nel sottrarre all’applicazione del primo periodo del comma 8-bis dell’art. 23 i procedimenti per i quali l’udienza è fissata fra il 1° agosto ed il 30 settembre 2021, non può che avere assunto come oggetto di disciplina l’attività di fissazione di udienze pubbliche che il Primo Presidente ed i Presidenti Titolari delle Sezioni Civili potranno compiere in quel periodo. In pratica, il legislatore emergenziale, pur avendo prorogato il regime emergenziale fino al 31 dicembre del 2021, ha inteso derogarvi nel periodo fra il 1° agosto ed il 30 settembre 2021 con riferimento alle udienze pubbliche fissande in questo lasso di tempo, ma, naturalmente, per le date che saranno fissate nei decreti di fissazione adottati in esso.
Evidentemente, sotto la spinta augurale di una normalizzazione della situazione originata dalla pandemia si è legiferato nel presupposto della res sperata di una positiva evoluzione della situazione e ciò, naturalmente, essendo sempre possibile in caso contrario intervenire sulle situazioni procedimentali innescate dai decreti ex art. 377 c.p.c. nel periodo 1° agosto-30 settembre 2021.
6. La conseguenza di questa lettura del disposto normativo è che le udienze pubbliche già fissate per date comprese in quel periodo non sono in alcun modo regolate dal comma 2 e ciò per la ragione che le loro modalità di svolgimento sono soggette alla regola che operava secondo il regime anteriore all’intervento del decreto legge n. 105, in quanto disposte sulla base di esso e non possono rientrare nell’eccettuazione dalla proroga del regime disposta dal comma 1 dell’art. 7.
Com’è noto, la Cassazione Civile non tratta procedimenti nel periodo feriale e dunque non risultano fissate udienze pubbliche nel periodo 1°-31 agosto 2021, mentre sono state fissate sia davanti alle Sezioni sia davanti alle Sezioni semplici procedimenti in udienza pubblica secondo il regime del comma 8-bis. Esse, lo ribadisco, non sono in alcun modo interessate dal comma 2 dell’art. 7.
Allo stesso modo udienze pubbliche già fissate con decreti emessi prima del 23 luglio 2021 per il periodo successivo al 30 settembre 2021 restano regolate dal regime di c.d. disponibilità dell’udienza pubblica vigente al momento dell’emissione dei decreti di fissazione.
Non è dunque immaginabile che sia il P.G. sia le parti possano pensare di sottrarsi alla vigenza del regime del comma 8-bis dell’art. 23 e che si debba tenere udienza pubblica per dette udienze in mancanza di richiesta o del P.G. o di una delle parti.
7. La lettura dei periodi secondo, terzo e quarto del comma 8-bis non fa che confermare l’esegesi che sto prospettando.
Il secondo periodo, com’è noto, dice che <
Il terzo periodo del comma 8-bis dispone che <
In pratica, una volta ribadita l’esegesi del primo periodo del comma 8-bis dell’art. 23 che ho sopra richiamato e prima ancora richiamata quella dell’espressione del comma 2 dell’art. 7 si può dire che “tutto è rimasto o rimarrà come prima” per i procedimenti fissati con decreti ai sensi dell’art. 379 c.p.c. emessi prima del d.l. n. 105 del 2021 ed anzi, è da precisare, fino al 31 luglio 2021.
Il comma 2 dell’art. 7 riguarda solo i procedimenti per cui il decreto ex art. 377 sarà emesso nel periodo fra il 1° agosto ed il 30 settembre 2021.
8. Una piccola postilla: sono un civilista e non intendo commentare la norma dell’art. 7 del d.l. per quanto attiene alla disposizione del comma 8 dell’art. 23 più volte citato. Disposizione che disciplina il procedimento penale in Cassazione quanto all’udienza pubblica. Ma mi sembra che anche per essa debbano valere considerazioni ricostruttive dell’incidenza del comma 2 dell’art. 7 non diverse da quelle che ho qui espresso per il settore civile, atteso che, dato il tenore del comma 8, valgono le stesse considerazioni esegetiche qui proposte.
[1] Si veda R. FRASCA, L’udienza pubblica “eventuale” della Cassazione Civile (cioè a libito di una parte e/o del Pubblico Ministero), In Questione Giustizia, 7 gennaio 2021.
[2] Rinvio ancora allo scritto citato sub nota 1.
Sulla inammissibilità del ricorso in Corte di cassazione del rifugiato politico o da proteggere sussidiariamente privo di certificazione della data di rilascio della procura: breve nota sul contrasto tra Sezioni Unite n. 15177 del 21 giugno 2021 e ordinanza n. 17920 del 23 giugno 2021 della Sezione III
di Claudio Cecchella
Sommario: 1. Il caso rimesso alle Sezioni Unite - 2. Il problema della compatibilità con le fonti costituzionali e dell’Unione - 3. Gli obiter dicta delle sezioni Unite e la valorizzazione (eccessiva) dei lavori preparatori: la soluzione nomofilattica imposta - 4. Contro il formalismo fine a sé stesso e in funzione della valorizzazione dello scopo dell’atto, raggiungibile anche aliunde - 5. La nuova via costituzionale - 6. La questione di costituzionalità sollevata dalla Sezione III - 7. La posizione del difensore smemorato.
1. Il caso rimesso alle Sezioni Unite
L’art. 35 bis, comma 13°, del decreto legislativo n. 25 del 2008, la cui introduzione è dovuta all’art. 6, primo comma, lett. g) della legge n. 46 del 2017, reca la seguente norma: “La procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato; a tal fine il difensore certifica la data di rilascio in suo favore della procura medesima”.
È noto infatti come le controversie sul riconoscimento della protezione internazionale siano devolute in camera di consiglio al Tribunale, che decide con decreto non reclamabile il quale, per il suo carattere decisorio su diritti soggettivi, è (espressamente) impugnabile innanzi al giudice di legittimità. È lo stesso legislatore che ammette il ricorso innanzi al giudice di legittimità (che perciò assume i caratteri della ordinarietà). Al 13° comma della norma cit. si legge infatti: “Il termine per proporre ricorso per cassazione è di giorni trenta e decorre dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria, da effettuarsi anche nei confronti della parte non costituita”, con una variazione sul termine di proposizione e sul dies a quo del termine breve di trenta giorni dalla comunicazione, anziché dalla notificazione.
La norma pone un espresso caso di inammissibilità del ricorso, nell’ipotesi in cui la procura sia rilasciata in data anteriore alla data di comunicazione del decreto, che dunque deve essere necessariamente successiva.
Sotto questo profilo nessuna diversità rispetto all’art. 365 c.p.c. che, nell’imporre una procura speciale per il ricorso ordinario, ad avvocato iscritto nell’Albo speciale, pone deroga al regime dell’art. 83 c.p.c. laddove ipotizza una procura generale conferita al difensore, dovendo essere la procura speciale, ovvero riferita esclusivamente al grado del giudizio innanzi al giudice di legittimità, quindi necessariamente successiva alla sentenza o altro provvedimento da impugnare.
La novità sta nell’imporre al difensore una certificazione espressa della data di conferimento della procura speciale.
Infatti la procura difensiva speciale innanzi alla S.C. che certamente deve contenere un riferimento espresso al procedimento da instaurare o alla sentenza da impugnare e non può essere generica procura riferita ad ogni grado di giudizio priva di tale riferimenti, non si preoccupa tuttavia di imporre al difensore la certificazione della data nella quale la procura è stata rilasciata, che è atto interno tra ricorrente e il suo difensore irrilevante nella disciplina comune.
Diversamente nella disciplina del ricorso in esame si impone all’avvocato una certificazione della data, con suo conseguente rilievo giuridico.
La ratio, secondo le Sezioni Unite, che giustifica il diverso regime, è quella di escludere la possibilità che la procura possa essere rilasciata senza la presenza dell’Avvocato e quindi in territorio italiano, attraverso una sorta di sottoscrizione in bianco, che l’avvocato possa riempire dopo che il decreto sia stato pronunciato, o di procura preventiva, priva di data certa, con la parte ormai rientrata nel paese di origine o in altro. In sostanza il contenzioso sarebbe giustificato solo dalla presenza della parte sul territorio, almeno al momento della proposizione, come espressione di un interesse attuale e consapevole alla tutela, che giustifichi un’attività dispendiosa com’è il procedimento giurisdizionale (con i carichi che ne derivano per il Supremo organo giurisdizionale) spesso con il ricorso agli oneri di patrocinio a carico dello Stato.
Si giustificherebbe così la modifica del comma 13 in commento, laddove inizialmente era richiesta, come unica forma possibile, il rilascio della procura a margine o in calce al ricorso (peraltro la procura a margine avrebbe comunque lasciato non pochi dubbi sulla sua anteriorità effettiva), dovuta alla legge n. 46 del 2017, modifica che ha imposto la certificazione espressa sulla data da parte del difensore.
D’altra parte, non è riproposta, come per il ricorso innanzi al tribunale, la norma che consente di ricorrere tramite una rappresentanza diplomatica o consolare (comma 2°), con procura rilasciata davanti all’autorità consolare, quindi essendo il ricorrente fuori dal territorio nazionale.
Ferma restando, dunque, la necessità di una sottoscrizione successiva della procura, resta cionondimeno di capire, all’esito della modifica, se la certificazione entri nella fattispecie che origina la inammissibilità del ricorso, oppure il problema sia sostanziale e non formale, potendo discendere la circostanza da altri elementi (il riferimento ad esempio espresso al provvedimento o al procedimento). Si tratta di capire se è sufficiente che nella “sostanza” la procura speciale sia conferita successivamente oppure se formalmente la certificazione apposta in calce alla firma, oltre ad attestare la sua autenticità, debba a pena di inammissibilità del ricorso attestare anche la data nella quale la procura è stata rilasciata, ovviamente quando è data con foglio materialmente congiunto al ricorso. Quindi la presenza sul territorio entri nella fattispecie che consente l’ammissibilità del ricorso.
Questo il caso rimesso alle Sezioni Unite e risolto dalla sentenza 1° giugno 20121, n. 15177
2. Il problema della compatibilità con le fonti costituzionali e dell’Unione
Risolto sul piano formale il problema posto dal caso, residua tuttavia un profilo ulteriore, quello della compatibilità di una disciplina severa che impone la presenza sul territorio del ricorrente dopo il provvedimento di diniego, con la disciplina costituzionale e delle fonti sovranazionali.
Implicato ne risulta il principio di uguaglianza e ragionevolezza ex art. 3, ma anche l’art. 24 e 111 Cost., sulla garanzia dell’azione e il giusto processo, e l’art. 10, comma 3° Cost, che è opportuno ricordare: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Sul piano dell’Unione invece, come evidenziano alcune delle ordinanze di rimessione, ha rilievo l’art. 46, par. 11 della Direttiva 2013/32/UE e l’art 28, in relazione alla possibilità concessa agli Stati membri di rilevare dal comportamento del richiedente una implicita volontà di ritirare il ricorso e di non averne più concreto interesse, in particolare quando si sia allontanato dal territorio dello Stato facendo perdere tracce di sé.
Ne risultano altresì implicati, gli artt. 18, 19 e 47 della Carta dei diritti UE e gli artt. 6, 7, 13 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
È evidente che la rimessione delle sezioni semplice ritiene risolta positivamente detta compatibilità, nel non affidare al giudice della Costituzionalità la questione e nel preferire una pronuncia nomofilattica, trattandosi di questione di massima importanza, delle Sezioni Unite.
3. Gli obiter dicta delle sezioni Unite e i lavori preparatori. La soluzione nomofilattica imposta
Le Sezioni Unite, non in perfetta linea con i canoni di sintesi, offrono una pronuncia di amplissimo spessore motivazionale, toccando temi come la mancanza del doppio grado o la riduzione del termine per impugnare oppure dedicando larga parte ad una prolissa rassegna delle pronunce sulla procura speciale innanzi alla S.C., che è tema certamente rilevante – a discapito dei primi – ma che deve cedere alle particolarità dell’art, 35 comma 13°, cit. in esame.
Infatti non è in discussione la specialità della procura difensiva innanzi alla S.C., con conseguente invalidità di una procura generale rilasciata in via preventiva o con una procura speciale rilasciata per tutti i gradi di giudizio, rendendosi necessario il suo rilascio specificamente per impugnare in sede di legittimità un provvedimento già reso.
Il tema è quello del formalismo indotto dalla certificazione anche della data di rilascio da parte del difensore, a pena di inammissibilità del ricorso.
Egualmente non pare di ausilio l’analisi dei lavori preparatori del decreto legge n. 13 del 2017, poi convertito nella legge n. 46 del 2017. Si sottolinea sul piano motivazionale il valore deflattivo del nuovo formalismo, con la novellazione del comma 13, volto a porre argine a ricorsi che muovono da procure rilasciate preventivamente o peggio ancora “in bianco”.
Se certamente questa è la ratio della disposizione – da unire all’effettività di interesse del ricorrente che è dato certamente dalla sua presenza sul territorio e di cui non si fa menzione nei lavori preparatori – non sembra tuttavia che essa giustifichi di per sé il formalismo estremo, potendo rimanere – in una visione che valorizzi lo scopo dell’atto, con efficacia sanante, a scapito del formalismo esasperato – un concetto materiale e non formale che consenta di verificare la posteriorità anche aliunde e non solo sulla base della certificazione.
Al contrario la S.C. nella sua massima formazione nomofilattica, sposa la tesi “formalistica”, valorizzando lavori preparatori che non paiono così univoci ed un dato esclusivamente letterale, che distingue dalla certificazione della firma, la certificazione della data.
In realtà proprio il dato letterale non convince, perché l’inammissibilità è chiaramente riferita al rilascio della delega prima del provvedimento e non alla mancanza di certificazione (che certamente risolve il problema, ma non può essere l’unica soluzione).
La circostanza sul piano normativo che sia contemplata un’ulteriore certificazione del difensore prova troppo, come anche l’argomento secondo il quale il sistema estende i poteri certificativi del difensore in numerose altre ipotesi. Essa consente semplicemente – a fronte di una mancata previsione letterale di inammissibilità in caso di mancanza – di dare certezza e soluzione, aggredibile solo con querela di falso, ma la norma non esclude altre soluzioni, se la prova della posteriorità può raggiungersi in altro modo, essendo comunque garantita la ratio della previsione (e lo scopo voluto raggiungere con il formalismo).
Residuerebbe per la sentenza nomofilattica la salvezza della sola ipotesi di una certificazione unica, di firma e data, nella quale emerga la duplice volontà certificatrice del difensore, unica concessione verso la effettiva posteriorità della data di rilascio della procura.
4. La via contraria ad un formalismo fine a sé stesso e in funzione della valorizzazione dello scopo dell’atto, raggiungibile anche aliunde
Le Sezioni Unite tengono in considerazione sul piano argomentativo la necessità di escludere un eccessivo formalismo dell’atto processuale civile, nelle sue prescrizioni di forma, in funzione dello scopo che quelle prescrizioni si prefiggono, con conseguente irrilevanza del loro mancato rispetto se lo scopo può essere raggiunto aliunde, ma non ne traggono le opportune conclusioni.
Secondo tale, più condivisibile, impostazione (coerente anche con un interpretazione costituzionalmente orientata, che deve valutare pure il bene giuridico del diritto di azione giurisdizionale, tra l’altro a tutela di diritti personalissimi che implicano la vita, la libertà e l’incolumità della persona[1]) si deve ritenere bastevole anche il solo riferimento al provvedimento o alla sua comunicazione nel testo della procura, senza imporre la espressa indicazione della data o peggio ancora la sua formale certificazione. Infatti lo scopo della norma è comunque fatto salvo.
Egualmente, anche e a maggior ragione, quando la data è apposta prima della firma del ricorrente, ancorché l’autentica si sia limitata alla solo certificazione della firma senza una formula sacramentale che si riferisca anche alla data.
Diversa la sola ipotesi di una totale mancanza di data nella procura, neppure desumibile da riferimenti di contenuto che chiariscano la posteriorità del rilascio rispetto alla data del provvedimento: in tal caso per mancato raggiungimento dello scopo e salvezza della ratio della norma, non sarebbe possibile scongiurare l’inevitabile inammissibilità del ricorso.
5. La via della incostituzionalità
L’insuperabilità (che pure qui si mette in dubbio) del dato letterale, secondo le Sezioni Unite non consentirebbe neppure la via di un interpretazione costituzionalmente orientata, ma allora ne deriva l’inevitabile questione da valutare con attenzione di una incostituzionalità del testo letterale.
Il profilo invero è attentamente analizzato, ma con un impostazione che non ha evitato, a distanza di pochi giorni, alla Sezione III di sollevare – in contrapposizione con le Sezioni Unite – la questione di costituzionalità (ci riferiamo alla ordinanza n. 17970 del 23 giugno 2021).
Invero il ragionamento delle Sezioni Unite non si limita ai profili di incostituzionalità, ma anche di compatibilità con le norme dell’Unione ed in particolare della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, secondo la sua applicazione da parte della Corte di Giustizia.
In particolare si valorizza la ritenuta non necessità di un doppio grado, quando è assicurata una via giurisdizionale che analizzi con cognizione piena le questioni di fatto e di diritto applicate, come anche la irrilevanza di un diverso trattamento, nel diritto interno, tra vie giurisdizionali destinate alla sua applicazione e vie giurisdizionali offerte all’applicazione di norme europee o internazionali, relegando tali profili alla sfera della discrezionalità del legislatore.
In tal modo, secondo le Sezioni Unite, è scongiurato ogni profilo di effettività della tutela, assicurata ampiamenti dal primo grado di giudizio e non ostacolata dal formalismo di introduzione del sindacato di legittimità.
Non sarebbe inoltre valicato – alla luce dell’art. 6 della Convenzione – il limite di una giurisdizione eccessivamente formalistica che impedisca l’accesso alla vita di tutela giurisdizionale dei diritti, perché la prescrizione è stabilita ex ante e la sua applicazione agevole da parte del ricorrente e del suo difensore.
Se si può convenire con tale impostazione, salvo l’eccessivo formalismo interpretativo, che potrebbe eviterebbe, in considerazione della convincente lettura anche letterale diversa, le ire della Corte europea, il problema della costituzionalità appare a nostro sommesso parere più complesso e giustificata la reazione della Sezione III.
Entra così in gioco lo sviamento derivante dalla finalità di liberare le aule della S. C., dall’alluvione dei ricorsi, che non può essere criterio a cui ispirare il giudizio nomofilattico.
È il principio di eguaglianza e razionalità ad essere intensamente colpito, in modo da non tenere proprio.
Che senso un primo grado di giudizio anche non in presenza e un grado di legittimità che impone la presenza dello straniero sul territorio al momento del rilascio. Qui è in discussione non solamente il profilo formale della procura con data certificata ma la sostanza della regola e la sua ratio. Se il senso è quello di rendere effettiva la volontà di ottenere il beneficio protettivo che scaturirebbe dalla presenza sul territorio, perché tale previsione non è contemplata pure in relazione al primo grado di giudizio?
Ciò senza dovere entrare nell’argomento, pure risolto dalle sezioni unite, di una doverosità di eguale trattamento del cittadino rispetto allo straniero: è la diversità di trattamento rispetto ai diversi gradi di giudizio ad avere rilievo sul piano della razionalità.
Non pare inoltre rilevante la discrezionalità del legislatore nello stabilire i presupposti di diritto sostanziale della ospitalità dello straniero migrante e della sua protezione, che non è in discussione, trattandosi di valutare diritti processuali della parte e la loro coerenza nel sistema delle tutela giurisdizionale. Su questi diritti non può esservi “una politica nazionale in tema di emigrazione”, che ha i suoi fondamenti sul piano del diritto sostanziale e non del diritto processuale, che è ben altra cosa.
È come se il diverso trattamento del lavoratore rispetto al datore di lavoro sul piano sostanziale, in funzione della tutela di diritti fondamentali del primo, debba travasarsi nel processo con un eguale diverso trattamento: nel processo le parti sono eguali, sul piano dei principi che governano il diritto di difesa, il contraddittorio e il diritti di impugnare i provvedimenti giurisdizionali.
6. La questione di costituzionalità sollevata dalla Sezione III
La sezione III con l’ordinanza n. 17970 del 2021 pone in serio dubbio la costituzionalità della disposizione funditus, come si è fatto cenno nel par. che precede.
Sul piano della rilevanza della questione, non può non condividersi l’iniziativa, poiché la sezione semplice non ha altra via, dovendo dare applicazione al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, non potendo operare autonomamente un’interpretazione costituzionalmente orientata. La via della incostituzionalità, che è prerogativa di qualsiasi giudice anche in contrasto con le sezioni unite, è una via corretta e necessariamente percorribile.
Certamente la lettura costituzionalmente orientata è ben possibile (cui pure si è fatto cenno nel par 5 che precede), ma a questo punto al giudice della costituzionalità è destinata una valutazione di compatibilità del “diritto vivente”, che discende proprio dalla pronuncia delle Sezioni Unite.
I dubbi della Sezione III sono di grande rilievo.
Anzitutto sul piano della garanzia dell’azione, non permanendo l’effetto sospensivo del provvedimento di diniego allo status di rifugiato o di persona soggetta a protezione sussidiaria dopo il rigetto del ricorso in primo grado (potendo questo essere solo confermato a seguito di introduzione del giudizio di cassazione con apposita istanza del ricorrente), si potrebbe prospettare la necessità di un allontanamento del richiedente il beneficio, onde evitare il provvedimento di espulsione e il rischio di un rientro verso il proprio Paese di origine, che impedirebbe il rilascio della procura per la introduzione del giudizio di legittimità.
Peraltro si constata come la norma non risolva affatto la ragione per cui è posta, sul piano della razionalità, perché la presenza sul territorio al momento del rilascio della procura, non assicura la sua attualità al momento dell’effettiva decisione (potendo passare mesi se non anni), se come si vorrebbe alla presenza sul territorio si attribuisce il senso di un effettivo interesse al beneficio (dovendosi al massimo assicurare con una dichiarazione di attualità della permanenza al momento della decisione, che manca nella legge), oppure il senso di una sorta di tacita rinuncia alla impugnazione, poiché essa può scaturire, anche secondo la normativa europea che l’ammette, da un’espressa previsione del legislatore , che è del tutto mancante[2].
L’ordinanza analizza poi una serie di ipotesi che conducono a ritenere violato anche il principio di eguaglianza, il procedimento di apolidia regolato nel decreto legislativo n. 13 del 2017; il procedimento in tema di protezione umanitaria, per i quali non è contemplato l’inasprimento del formalismo per la introduzione del giudizio di legittimità. Ne discenderebbe un regime peggiorativo nell’esercizio dell’azione, non solo rispetto al cittadino, ma anche rispetto ad altre categorie di stranieri.
7. La posizione del difensore smemorato
Da ultima pare opportuno sottolineare come la ratio della norma sia individuata dalle sezioni unite anche nel tentativo di neutralizzare il “malcostume” degli avvocati ispirati ad introdurre impugnazioni infondate, nel tentativo di lucrare la parcella a spese dello Stato.
Sembra che la Corte di Cassazione, nella sua Suprema formazione, ignori l’entità delle parcelle liquidate in sede di gratuito patrocinio, che fanno dell’attività difensiva una prestazione di vero e proprio volontariato, e soprattutto i ben diversi strumenti offerti, per porre argine ai ricorsi manifestamente infondati, come l’art. 96 c.p.c. oppure la precisa violazione di norme deontologiche, la cui applicazione può essere sollecitata anche su segnalazione all’Ordine dell’organo giurisdizionale.
Un rilievo meno gravoso per gli avvocati suggeriscono invece le Sezioni Unite, rispetto alla condanna al regime del c.d. doppio contributo, che in alcune pronunce era stato fatto gravare sul difensore dimentico di data e certificazione, ma che le sezioni risolvono nell’attribuirne il riferimento esclusivamente, come obbligato, al ricorrente, poiché – questa volta correttamente – una procura senza data certificata può dirsi, seppure imperfetta, esistente con la conseguente esclusione del caso della procura inesistente, unico a giustificare una condanna personale del difensore.
[1] È l’impostazione che si rinviene In Foronews, 14 giugno 2021, con nota di F. Del Rosso, Procura speciale e controversie in materia di immigrazione. La risposta delle sezioni unite (un doveroso richiamo ed un sentito ricordo agli scritti di un Autore che ci ha lasciato prematuramente e che, con la sua preparazione e la sua sensibilità, ha dato un contributo prezioso allo studio del processo per la tutela dei diritti dei richiedenti protezione) e in L. Minniti e M. Flamini, La certificazione dell’autenticità della data di rilascio della procura da parte del difensore per i soli procedimenti in materia di protezione internazionale: ragionevolezza e conformità a Costituzione degli elementi di “specialità” della norma, in www.questionegiustizia.it (1 luglio 2021). Sul tema v. anche I. Caposella, Sulla certificazione della data della procura speciale dei ricorsi in tema di protezione internazionale, in www.ilprocessocivile.it e l’interessante scritto diE,R.P. Iafrate, Sulla certificazione della data della procura speciale dei ricorsi in tema di protezione internazionale, in www.judicium.it
[2] Sul piano della ragionevolezza ha avuto modo già di pronunciare un’incostituzionalità Corte Costituzionale sentenza n.186 del 2020 in materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, commentata da F. Mangano in www.questionegiustizia.it
RAPPORTO SULLA VIOLENZA DI GENERE E DOMESTICA NELLA REALTÀ GIUDIZIARIA[1]
di Maria Monteleone
Analisi delle indagini condotte presso le Procure della Repubblica, i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi.[2]
Sommario: Premessa - 1. Le Procure della Repubblica - 1.1. Il quadro emerso dai dati - 1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure - 1.3. Osservazioni conclusive - 2. I Tribunali ordinari - 2.1. Il quadro emerso dai dati - 2.3. Osservazioni conclusive - 3. I Tribunali di sorveglianza - 3.1. Osservazioni conclusive - 4. La formazione degli operatori - 4.1. La Magistratura - 4.2 - L’avvocatura - 4.3. Gli Psicologi - 5. Conclusioni.
1. Premessa
Il “monitoraggio sulla concreta attuazione della Convenzione di Istanbul” costituisce uno dei compiti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, per queste ragioni l’attività di indagine non poteva che prendere le mosse dall’esame della realtà giudiziaria, partendo da dati certi, al fine di rilevare con quali modalità il nostro Paese contrasta il fenomeno della violenza di genere e domestica.
Non è un caso che la stessa Convenzione dedichi una specifica disposizione - l’art. 11 alla “raccolta dati e ricerca”, impegnando gli Stati firmatari ad effettuare rilevazioni statistiche sul fenomeno, per consentirne una conoscenza reale, ma anche per verificare l’efficacia delle misure adottate, le tendenze delle varie forme di violenza, stimolare la cooperazione.
In effetti , quando nel 2019 la Commissione di inchiesta ha attenzionato questo aspetto specifico, non si poteva neppure prevedere cosa –in breve tempo- sarebbe accaduto e quale rilievo il suo esito avrebbe assunto.
Ci si riferisce non tanto alla modifica del quadro normativo conseguente all’entrata in vigore della L.n.69/2019, quanto alla diffusione pandemica del Covid 19 , che per molteplici ragioni ha prodotto gravi effetti sia sulla diffusione dei delitti di violenza domestica che sulla capacità di reazione e di contrasto dell’ attività giudiziaria.
Per questi motivi si ha ragione di ritenere che l’esito dell’indagine svolta assuma un rilievo ancora maggiore , in questo particolare momento storico, nel quale il nostro Paese è impegnato nello studio di interventi e modifiche legislative sulla giustizia ed ha in valutazione piani di investimenti finanziari che non possono non riguardare anche questo specifico settore.
I principi indicati dalla Convenzione di Istanbul come “qualificanti” nell’azione di contrasto alla violenza domestica e di genere sono:
a) la specializzazione di tutti gli operatori;
b) adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese "le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri e le autorità incaricate dell’applicazione della legge";
c) la possibilità di monitorarne l’applicazione attraverso una effettiva rilevazione statistica e la conseguente valutazione dei dati rivelatori del fenomeno.
La Commissione ha quindi ritenuto importante accertare, attraverso la verifica della qualità della risposta giudiziaria ad alcune specifiche problematiche, “se” e “come”
i principi fondamentali della stessa Convenzione abbiano assunto concreto rilievo traducendosi nella realtà operativa.
Come è evidente l’interesse non è meramente conoscitivo e valutativo dell’attuazione della Convenzione stessa ma anche prodromico alla formulazione di conseguenti rilievi e proposte anche operative.
Per queste ragioni sono stati acquisiti i dati riguardanti alcuni aspetti maggiormente qualificanti dell’attività di alcuni uffici giudiziari più importanti, proprio in quanto sintomatici del grado di efficacia dell’azione di contrasto; nello stesso tempo l’attenzione si è focalizzata sul tema centrale della "formazione" e della "specializzazione" dei diversi protagonisti dell’attività di contrasto: i magistrati, gli avvocati ed i consulenti tecnici (nello specifico gli psicologi).
Sulla base di questionari appositamente redatti, le indagini hanno riguardato le Procure ed i Tribunali Ordinari, i Tribunali di Sorveglianza, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Scuola Superiore della Magistratura, il Consiglio Nazionale Forense e gli Ordini degli Psicologi ed hanno focalizzato l’attenzione sul triennio 2016-2018.[3]
1. Le Procure della Repubblica
Gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, per le funzioni inquirenti attribuite dall’ordinamento giudiziario, sono le Procure della Repubblica, uffici competenti, insieme agli organi di polizia giudiziaria, nell’assicurare l’intervento dello Stato nella immediatezza della commissione dei reati e nel conseguente svolgimento delle attività di indagine. Per questo motivo un’attenzione particolare è stata rivolta all’esame degli aspetti più qualificanti dell’attività investigativa e dell’organizzazione delle Procure.
Si sono dapprima evidenziati come determinanti i temi della effettiva specializzazione dei pubblici ministeri e delle modalità di assegnazione dei relativi procedimenti.
Si è inoltre verificato “se e quanto” sia diffusa la coscienza della complessità della materia e la conoscenza della specificità dei reati tipici, ed anche “se e quanto” siffatta consapevolezza si sia tradotta in modelli organizzativi idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei procedimenti. Ciò in coerenza anche con i principi di efficienza ed effettività dell’intervento giudiziario.
Ci si è poi concentrati sull’accertamento del grado di coinvolgimento degli esperti (quasi esclusivamente psicologi) chiamati a prestare la loro attività anche nel procedimento penale, e quindi ci si è soffermati sulla verifica del ruolo agli stessi riservato, su quanto siano diffusi ed omogenei i comportamenti più virtuosi: modalità di scelta dell’esperto, adozione di quesiti standard oggetto dell’incarico, elaborazione dello stesso con altri interlocutori istituzionali.
La carenza o la inidoneità di tali elementi, infatti, contribuisce a rendere concreto il rischio di inadeguatezza della risposta giudiziaria, con conseguenti ulteriori effetti negativi per le vittime vulnerabili, con particolare riguardo alla inderogabile esigenza di garantirne l'effettiva protezione.
Dall’analisi degli esiti dell’indagine emerge una situazione molto variegata tra i diversi Uffici di Procura. Come verrà esposto in seguito, è stato possibile individuare gruppi di Procure che si trovano in stadi diversi di consapevolezza e azione. Un percorso di cambiamento è stato comunque avviato, sebbene ancora largamente incompleto.
Emerge, nel complesso, una insufficiente consapevolezza della complessità della materia, sicchè solo un significativo cambiamento culturale consentirà un salto di qualità nell'azione degli uffici.
È fondamentale fare in modo che i comportamenti virtuosi, pur presenti, non restino episodici e strettamente dipendenti dall’iniziativa personale e che le best practices, oggi troppo frammentate e isolate, possano svolgere, se adeguatamente supportate, un importante ruolo di "traino" per gli altri uffici giudiziari.
Si delinea, quindi, la necessità di una doppia strategia: da un lato un percorso di tipo culturale che porti alla condivisione della complessità e della rilevanza della materia; dall’altro, la messa a punto di azioni ed interventi strutturali, anche di tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti ed adeguati.
I segnali positivi che emergono nelle Procure appartenenti ai gruppi più "virtuosi" assumono una grande rilevanza in quanto potrebbero svolgere un ruolo di impulso per le altre Procure meno preparate, ma anche per i Tribunali Ordinari, nei quali, come si vedrà la situazione complessiva appare più critica.
1.1. Il quadro emerso dai dati
Come riferito la rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018, il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 98,6% (138 Procure su 140).
Su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare -nel 2018- la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero il 22% del totale. Tuttavia, come si evince dai dati, non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto della materia della violenza di genere e domestica e, viceversa, non necessariamente detti procedimenti sono sempre assegnati a magistrati specializzati. Inoltre, la situazione risulta molto variabile tra i diversi Uffici.
Nel 10,1% delle Procure (14 su 138), tutte di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati nella materia e questo implica che i procedimenti sono assegnati a tutti i sostituti indistintamente.
Nel 90 % (124 su 138) delle Procure, invece, è stato costituito un gruppo di magistrati specializzati che tratta la materia della violenza di genere contro le donne, tuttavia insieme ad altre materie riguardanti i cosiddetti "soggetti deboli o vulnerabili".
Solo una minoranza degli uffici, pari al 12,3% (ovvero 17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni) segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma ciò non esclude che, soprattutto nelle piccole Procure, essi trattino anche procedimenti di altre materie.
Dove esiste un gruppo di magistrati che si occupa – con le altre o esclusivamente – della materia della violenza di genere e domestica, ovvero nel 90% delle Procure, ci si dovrebbe aspettare che i procedimenti in materia vengano assegnati necessariamente a magistrati specializzati, tuttavia non è sempre così. Infatti nel 20% delle Procure nelle quali esiste un gruppo di magistrati specializzati, non sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica sono assegnati a detti magistrati.
Ciò significa che i responsabili della organizzazione degli uffici giudiziari non hanno ancora raggiunto una adeguata consapevolezza della particolare complessità che la trattazione della materia della violenza di genere e domestica richiede, tanto che il 62% delle Procure dichiara di equipararla alle altre materie nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i magistrati.
Questo dato appare rilevante, in quanto il mancato riconoscimento della complessità della materia potrebbe contribuire all’innescarsi di circoli viziosi: non adeguatezza ed efficienza della risposta giudiziaria, non tempestività dell’intervento, aggravio/sbilanciamento nel carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di una disaffezione nei confronti della materia e di un disincentivo a trattarla.
Strettamente connesso è il tema del ruolo svolto, anche nella fase delle indagini preliminari, dai consulenti tecnici, figure professionali rappresentate, nella quasi totalità dei casi, dagli psicologi. Tali figure nel tempo hanno assunto in questa materia una rilevanza sempre maggiore che si esplica non soltanto nello svolgimento di accertamenti di tipo specialistico (accertamento tecnico o perizia), ma anche nella funzione di "ausilio" alla polizia giudiziaria, al Pubblico Ministero o al difensore, nella raccolta di informazioni da minorenni o persone offese in condizione di "particolare vulnerabilità", con diretti riflessi sull’assunzione della prova dichiarativa (testimonianza) nel procedimento penale.
Significativi sono i deficit nel loro impiego nello svolgimento delle consulenze psicologiche sui minori, e in primis il fatto che la nomina non avviene sempre sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.
Il 25% delle Procure sceglie i CTU sempre e soltanto tra quelli iscritti all’Albo dei periti del Tribunale, albo che non contiene una sezione o un elenco di esperti specializzati nella materia, né prevede che tale competenza sia verificata in sede di richiesta di iscrizione all’albo stesso.
Inoltre, è ancora troppo poco diffusa l’adozione di "quesiti standard" nel conferire incarichi ai consulenti nella materia della violenza di genere e degli abusi sui minorenni. Questa scelta pare auspicabile, in primo luogo perché è garanzia di omogeneità nell’azione giudiziaria (e ciò è particolarmente significativo negli uffici di medie e grandi dimensioni), in secondo luogo perché consente di assicurare, soprattutto in un settore così complesso, una corretta individuazione dell’oggetto dell’incarico e, quindi, di garantire, al meglio, il rispetto dei confini tra l’accertamento peritale e la funzione giurisdizionale riservata al magistrato.
Solo il 18% degli uffici (25 Procure su 138) ha adottato un quesito standard e soltanto l’11% (15 su 138) – come pure richiesto – lo ha inviato alla Commissione.
Dove pure si ricorre a quesiti condivisi, solo in casi marginali (10 su 25) questi sono stati elaborati con il contributo di altri interlocutori del processo (ad esempio gli stessi specialisti o gli ordini professionali) come invece sarebbe auspicabile.
Complessivamente, quindi, soltanto il 7% degli Uffici ha adottato un quesito standard redatto dalla Procura con l’utile e importante contributo degli specialisti e di altre figure professionali.
Da una valutazione dei quesiti trasmessi (in totale 15 Uffici) emerge che in più di un quarto di essi (4 su 15) si profilano aspetti problematici circa il loro contenuto, potendosi prospettare il possibile rischio di uno sconfinamento dal ruolo assegnato dalla legge alla consulenza tecnica a scapito del corretto esercizio della funzione giurisdizionale.
1.2 Le differenze tra diversi gruppi di Procure
L’analisi multivariata dei dati ha evidenziato un panorama fortemente variegato, all’interno del quale emergono stadi diversi di consapevolezza di azione che si esprimono in cinque raggruppamenti di Procure.
Dei gruppi individuati, due - di piccole dimensioni - risultano fortemente contrapposti: il più virtuoso, che si colloca in uno stadio avanzato nel processo di adeguamento a standard di efficienza, e quello più critico, composto da Procure in cui tale processo deve ancora essere avviato.
Nell’ambito intermedio si colloca quasi l’80% delle Procure suddivise in tre gruppi di diverse dimensioni, ognuno dei quali si caratterizza per alcuni elementi positivi ed altri più critici.
Il gruppo più virtuoso include il 12% delle Procure (16 su 138) accomunate sia da un’elevata attenzione alla materia della violenza di genere e domestica – che riesce anche a tradursi in azione tramite l’assegnazione della materia a magistrati specializzati - sia da un elevato grado di omogeneità dell’intervento giudiziario all’interno della stessa Procura, assicurato anche attraverso l’adozione di quesiti standard.
All’interno del gruppo, l’87,5% delle Procure assegna sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati e ben l’81% ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, sebbene in nessun caso tale quesito sia stato redatto con l’utile contributo di altre figure professionali (ad es. psicologi ).
Alcuni segnali positivi si riscontrano sul fronte della selezione dei CTU, poiché solo nel 19% delle Procure di questo gruppo la scelta dei CTU cade sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, nel 50% ciò avviene solo a volte, ma soprattutto nel 31% di queste Procure i CTU non sono mai selezionati solo se iscritti all’albo, segnale di una particolare attenzione al requisito della specializzazione.
Si evidenzia che il processo che dovrebbe portare dalla consapevolezza della particolare complessità della materia alla garanzia di un effettivo bilanciamento dei carichi di lavoro tra i magistrati è ancora ad uno stadio iniziale per tutti i gruppi individuati, pur con differenti gradualità tra gli stessi.
Nel gruppo più virtuoso, si attesta al 44% la quota di Procure che dichiara di tenere conto della particolare complessità della materia nella distribuzione dei carichi di lavoro, mentre nel restante 56% la materia della violenza di genere e domestica è equiparata a tutte le altre.
All’estremo opposto si colloca un gruppo ancora lontano dall’avvio del processo di cambiamento, non solo culturale, nei confronti della materia della violenza di genere e domestica. Il gruppo racchiude il 10% delle Procure (14 su 138) - tutte di piccole dimensioni - che evidenziano forti criticità su tutti i fronti, tra cui il più grave è rappresentato dalla sostanziale mancanza di attenzione nei confronti della materia specializzata.
In queste Procure non esistono, infatti, magistrati specializzati in violenza di genere e domestica e i procedimenti della materia vengono equiparati agli altri al momento della loro assegnazione e nella distribuzione del carico di lavoro tra magistrati. A ciò si aggiunge, da un lato, la mancanza di uniformità interna segnalata anche dall’assenza di quesiti standard nell’affidamento delle consulenze tecniche e, dall’altro, un’attenzione più bassa della media nei confronti della specializzazione dei CTU.
Tra questi due estremi, si osservano tre ulteriori gruppi.
Un primo gruppo intermedio, il più numeroso, include il 42% delle Procure (58 su 138) qualificate per "attenzione alle professionalità ma con qualche ritardo nella uniformità dell’azione interna". Il gruppo si caratterizza, infatti, per una forte attenzione alla specializzazione e alla professionalità di tutti gli attori in campo - dai magistrati agli psicologi - ma si rivela ancora in ritardo sul processo di uniformità dell’azione dell’ufficio.
I connotati positivi di questo gruppo, in ogni caso, sono molto significativi poiché garantiscono un elevato grado di competenza nella trattazione dei casi di violenza di genere e domestica: il 98% di queste Procure assegna sempre i procedimenti in materia a magistrati specializzati e soltanto l’1,7% seleziona i CTU sempre dall’Albo dei periti del tribunale.
Si rileva, poi, un secondo gruppo intermedio - poco numeroso (6%, 9 su 138) - che si caratterizza per la "elevata omogeneità nell’azione ma il non adeguato bilanciamento nei carichi di lavoro".
In questi uffici risulta acquisita la buona prassi del ricorso ad un quesito standard "di qualità", ovvero redatto in collaborazione con figure professionali competenti in materia, segnale, questo, di un particolare avanzamento nel processo di uniformità interna.
Il gruppo appare inoltre caratterizzato da una buona consapevolezza dell’importanza della specializzazione dei magistrati, tanto che il 78% degli appartenenti al gruppo riesce ad assegnare sempre i procedimenti in materia di violenza di genere e domestica a magistrati specializzati.
Tuttavia, gli elementi virtuosi messi in atto non riescono a tradursi in un bilanciamento del carico di lavoro dei magistrati che tenga conto della complessità della materia, aspetto che si prospetta centrale per fare un salto in avanti nel percorso di efficienza ed effettività nel contrasto ai fenomeni criminosi in esame.
Vi è, infine, un terzo gruppo intermedio di uffici che si connota per la "scarsa consapevolezza della specializzazione". Il gruppo risulta abbastanza consistente in quando comprende il 30% delle Procure (41 su 138).
In esso prevalgono comportamenti che denotano un ritardo nel percorso positivo intrapreso dai componenti dei cluster più virtuosi. Nello specifico, si tratta di uffici che non hanno ancora acquisito una sufficiente consapevolezza dell’importanza della specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che soltanto la metà di essi ne affida la trattazione a magistrati specializzati.
Inoltre, si riscontra una tendenza all’utilizzo dell’albo dei periti per la scelta dei CTU: ciò avviene nel 56% delle Procure del gruppo, a fronte di una media del 25%. Nessuna delle Procure del gruppo ricorre ad un quesito standard nella nomina dei CTU, segnale, questo, di ritardo anche sul fronte dell’uniformità interna.
1.3 Osservazioni conclusive
L’analisi multivariata ha consentito di ricomporre un panorama di comportamenti frammentati da parte delle Procure.
Un processo di adeguamento e aggiornamento richiesto dalla necessità di un efficace contrasto alla violenza di genere e domestica è stato avviato negli uffici inquirenti che evidenziano, però, stadi diversi di avanzamento in un quadro caratterizzato da non poche criticità.
Emerge infatti un ampio numero di Uffici nei quali occorre investire risorse – sia di personale che di mezzi - per consentire alle procure di raggiungere migliori standard operativi, così che possano anche assumere un importante ruolo propulsivo per gli altri uffici giudiziari con effetti anche nei successivi gradi di giudizio.
È fondamentale rimarcare l’esigenza che sia effettiva la perequazione dei carichi di lavoro e che le migliori modalità operative sperimentate dagli uffici di Procura più virtuosi non restino loro patrimonio esclusivo, né rimangano una esperienza locale ed occasionale, strettamente connessa alla attenzione e sensibilità dei singoli uffici, ma diventino "strutturali" e condivise.
Un ruolo molto rilevante può essere svolto in questo senso dal Consiglio Superiore della Magistratura.
In questo contesto è decisivo interrogarsi sulla compatibilità con le disposizioni della Convenzione di Istanbul che richiedono la specializzazione di tutti gli operatori - quindi anche dei magistrati - delle vigenti disposizioni[4] secondo le quali (fatta eccezione solo per gli uffici di più ridotte dimensioni) è fatto divieto ai magistrati, anche a chi ricopre le funzioni di Pubblico Ministero, di rimanere in servizio nel medesimo gruppo di lavoro – quindi anche quello specializzato nella violenza di genere e domestica – per più di dieci anni
2. I tribunali ordinari
Uno dei temi centrali nella Convenzione di Istanbul è quello della "cooperazione inter istituzionale", tanto che vi è (articolo 15) l’espresso incoraggiamento ai legislatori dei Paesi firmatari ad inserire tale materia nella formazione, al dichiarato fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti da seguire nei casi di violenza, ed è anche posto a carico degli Stati (articolo 18) l’obbligo di garantire "adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applicazione della legge".
Detta cooperazione riguarda, ovviamente, anche l’ambito e le competenze interne alla giustizia, cioè quella civile, penale e minorile.
Per queste ragioni si è posta l’attenzione a come il tema della unicità della giurisdizione assuma rilievo nei nostri Tribunali, e specificamente nelle cause civili davanti al tribunale ordinario, per verificare se e in che misura la violenza domestica e di genere emerga e quanto venga presa in considerazione nelle decisioni dei giudici, al fine anche di accertare, attraverso un focus sui rapporti tra la giurisdizione penale e quella civile, quale considerazione e quale rilievo le siano riservati nei casi di nuclei familiari in cui è agita la violenza domestica.
Attraverso i questionari ci si è concentrati, in particolare, sulla verifica di quanto la violenza nelle relazioni familiari emerga nelle cause civili, quanto sia conosciuta, quanta importanza assuma nell’attività istruttoria e quale rilievo abbia nelle decisioni dei giudici. In sintesi: quale sia la risposta che viene data in questo settore, con una attenzione specifica al ruolo svolto dai CTU nominati dal giudice ed ai rapporti con il procedimento penale eventualmente pendente tra le stesse parti.
Non può sfuggire come la violenza – sia fisica che psicologica- nelle relazioni familiari, sia tema che pone in stretta correlazione le cause civili in materia con i procedimenti penali - instaurati o da instaurarsi - tra le medesime persone della relazione familiare portata all’attenzione del giudice civile.
E’ stato quindi analizzato il flusso delle informazioni tra le due autorità giudiziarie e sulla coerenza dei provvedimenti adottati dai diversi giudici competenti, in funzione anche della effettiva protezione delle persone più vulnerabili, siano esse minorenni che maggiorenni.
Di questa esigenza si è fatto carico il legislatore che, con la legge n. 69 del 2019, ha introdotto nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale l’obbligo di trasmettere determinati atti del procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato (articolo 64 bis).
L’ambito dei rapporti tra le diverse autorità giudiziarie e la ripartizione delle rispettive competenze presenta profili molto complessi che coinvolgono anche fondamentali principi costituzionali.
Sempre in tema di unicità della giurisdizione, è parso centrale anche evidenziare il ruolo svolto dal Pubblico Ministero nel processo civile, riguardo al quale – come è noto – l’articolo 70 del codice di procedura civile prevede che "deve intervenire a pena di nullità […] nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi".
Per ragioni più che evidenti, pare essenziale che questi debba essere un magistrato specializzato nella violenza di genere e domestica, come pure si ritiene fondamentale una nuova e significativa riconsiderazione del ruolo che effettivamente può e deve svolgere anche nelle indicate cause civili.
Si è quindi considerato di rilievo l’accertamento di quanto sia effettivo il suo intervento nelle cause civili di separazione ed in quelle riguardanti i minorenni, nella veste di "parte pubblica", chiamata a garantire effettività di tutela e protezione di tutti gli interessi in gioco, ma soprattutto (sebbene non solo) dei minori eventualmente coinvolti in relazioni familiari caratterizzate da violenza, concorrendo, in tal modo, ad assicurare che in tutte le decisioni – anche in sede civile – si tenga nel debito conto effettivamente e concretamente del "superiore interesse del minore", come richiesto anche dalla normativa internazionale.
Si tratta, indubbiamente, di un tema complesso e di non facile soluzione che coinvolge anche profili organizzativi di rilievo; tuttavia deve considerarsi come, in questo momento storico, meriti la massima attenzione, potendo incidere significativamente sulla qualità della risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere, ancor più ove coinvolga soggetti minorenni.
Un altro aspetto che soprattutto negli ultimi anni, con l’espandersi della violenza domestica, ha assunto una importanza non trascurabile è quello del ruolo riservato nelle medesime cause civili al Consulente tecnico d'ufficio (CTU) nominato dal giudice civile, quasi sempre un esperto in psicologia, con particolare riferimento alle modalità con le quali è scelto e, non certo da ultimo, al ruolo che nella realtà gli viene attribuito e che concretamente svolge.
Il codice di procedura civile (articolo 61) prevede che la consulenza tecnica di ufficio sia disposta quando il giudice ritiene necessario "farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica", e quanto al compito affidatogli l’articolo 62 del codice di procedura civile precisa che questi "compie le indagini che gli sono commesse dal giudice".
Il ricorso a questo istituto è sostanzialmente riservato alle cause di separazione giudiziale e a quelle riguardanti i figli, che sono caratterizzate da relazioni interpersonali familiari particolarmente complesse e conflittuali e/o nelle quali sono agite condotte di violenza.
Da qui il rilevante e significativo interesse a conoscere chi siano i professionisti "dotati di particolare competenza tecnica" ai quali il Giudice ricorre in questi casi, se e come viene valutata la loro competenza tecnica ed anche specialistica, come si procede alla loro nomina, quale l’incarico conferito, ed anche quale rilevanza assumano sulla decisione del giudice le conclusioni della CTU.
Si comprende, pertanto, come sia centrale il tema dei criteri con i quali il giudice individua il consulente da nominare. Se di norma la scelta deve avvenire tra le persone iscritte negli appositi albi istituiti presso ogni tribunale, purtuttavia è evidente che parimenti dovrebbe essere garantita l’esigenza che essa ricada sul consulente che possieda non solo una professionalità generica adeguata, ma anche una specializzazione nella materia da trattare.
In questo contesto assume significativa importanza il contenuto del quesito formulato da ciascun giudice, che è oggetto dell’incarico, e anche le modalità attraverso le quali sia elaborato ed individuato.
È rilevante, infatti, accertare se esso sia stato condiviso tra i magistrati del medesimo ufficio, se sia eventualmente frutto di una elaborazione partecipata con gli stessi esperti o figure specializzate, o se, invece, sia individuato dal singolo giudice. In quest'ultimo caso c'è il rischio di una qualche sottovalutazione della complessità della materia, specie se il giudice in questione non possieda una specializzazione sufficiente nella materia della violenza di genere e domestica.
Si tratta, all’evidenza, di aspetti complessi e problematici perché coinvolgono direttamente il ruolo giurisdizionale riservato al magistrato, il suo rapporto con l’accertamento tecnico, ancora più pregnante di significati e di conseguenze nella materia della famiglia e delle persone, soprattutto ove coinvolga soggetti minorenni.
Riflessioni del tutto specifiche si impongono riguardo all’"ordine di protezione contro gli abusi familiari" (articolo 342 bis del codice civile), provvedimento attribuito alla competenza del giudice civile che nelle intenzioni del legislatore era chiaramente finalizzato a contrastare la violenza nelle relazioni familiari.
Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale "invisibilità" della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle Procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più.
2.1. Il quadro emerso dai dati
La rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018. Il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 99% (130 Tribunali su 131).
Nel 95% dei Tribunali non vengono quantificati i casi di violenza domestica emersi nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate quelle in cui il Giudice dispone una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) nella materia.
Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della materia, per lo più invisibile nei Tribunali. Il che può destare preoccupazione ove si consideri che generalmente l’intervento del CTU riguarda le cause civili nelle quali le relazioni familiari e genitoriali sono più complesse e difficili, soprattutto se coinvolgono minorenni.
Il 95% (124 su 130) dei Tribunali non è in condizione di indicare in quante cause[5] il Giudice abbia disposto una CTU.
L’esame dei 27 quesiti trasmessi dai Tribunali ha consentito di rilevare alcune significative circostanze circa l’oggetto dell’incarico al CTU e, quindi, il contenuto delle "indagini" che il Consulente è incaricato di svolgere e la sfera di "operatività" che gli viene attribuita. I quesiti riguardano, prevalentemente, tre temi: l’accertamento delle capacità genitoriali delle parti, la natura delle "indagini" che sono "commesse" al CTU e gli accertamenti di natura psicologica.
In 18 quesiti, l’incarico al CTU è espressamente finalizzato alla valutazione della "capacità genitoriale" delle parti: in alcuni casi l’incarico è formulato in termini più generici, in altri più dettagliati, quale, ad esempio, anche quello di "accertare le competenze genitoriali delle parti attraverso diagnosi psicologica", "la capacità di ciascuno, di svolgere il proprio ruolo genitoriale in modo da garantire una crescita sana ed equilibrata del figlio", ovvero "di realizzare, mantenere e consolidare la unità genitoriale nei riguardi dei minori".
In 20 quesiti, il Giudice ha delegato al CTU il compimento di varie attività di indagine, tra le quali anche l’esame degli atti e documenti, l’ascolto delle persone, l’acquisizione di ogni informazione utile anche presso uffici pubblici, le visite domiciliari, gli accessi nelle strutture scolastiche e colloqui con gli educatori e gli insegnanti, ma anche deleghe molto più ampie quali "compiuto ogni necessario accertamento... compiute tutte le indagini del caso, estese anche ai rispettivi ambiti familiari".
Ancora più considerevole il contenuto di alcuni quesiti che attengono ad aspetti di natura squisitamente tecnica, quali "procedere alla valutazione della personalità dei genitori in funzione dell’accertamento della loro capacità di svolgere la funzione genitoriale", "valutare il profilo psicologico di ciascun genitore, valutare "le sue vicende familiari", effettuare "ogni accertamento necessario sotto l’aspetto fisico, psichico, morale ed ambientale [al fine di accertare] se la parte presenti disturbo del comportamento o nei tratti della personalità o disturbi di identità".
L’analisi qualitativa dei quesiti evidenzia molte "criticità" delle "indagini" oggetto dell’incarico al consulente. Tali criticità destano gravi riserve se correlate ai dati acquisiti presso i Tribunali e sopra riportati riguardo alle modalità di scelta dei CTU, al profilo della loro professionalità, alla mancata verifica di una formazione in materia forense e di una specializzazione nella materia della violenza domestica.
Peraltro le criticità evidenziate e le problematicità che ne conseguono hanno trovato riscontro nell’esito degli accertamenti presso gli Ordini degli psicologi (di cui si dirà in seguito) dove sono emerse carenze nella formazione degli psicologi nel campo della violenza di genere e domestica, riconducibili anche alla mancanza di una specializzazione mirata e continuativa.
Nel panorama descritto non mancano alcuni uffici che si connotano in termini positivi - quanto meno sotto il profilo metodologico - in quanto contestualizzano l’incarico esplicitando dettagliatamente le ragioni della scelta istruttoria nella singola causa, delineando il perimetro nel quale il CTU deve operare e le finalità dello specifico incarico.
Quanto rilevato indica chiaramente che nei Tribunali civili si ritiene sufficiente che il Consulente possieda una professionalità di tipo generico e che non sia considerato né rilevante né tantomeno essenziale che egli possieda anche una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica.
La circostanza è molto significativa se si considera che il ricorso a questo strumento è sostanzialmente riservato alle ipotesi che evidenziano situazioni altamente conflittuali o violente, che meriterebbero una elevata e specifica competenza da parte di tutti gli attori del processo.
Criticità si riscontrano anche riguardo il profilo dei rapporti tra procedimento penale e civile, tant’è che soltanto nel 31,5% dei Tribunali (41 su 130) vengono sempre acquisiti atti e/o provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica.
I dati evidenziano anche che l’acquisizione di tali atti non assicura che essi siano sempre oggetto di valutazione da parte del CTU. Infatti, solo nel 76% dei Tribunali che dichiarano di acquisirli sempre, gli atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espletamento dell’incarico, percentuale che scende al 61% nei Tribunali in cui gli atti sono acquisiti solo a volte.
Altro aspetto di sicuro interesse e rilievo è il ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili.
L’esito dell’indagine sul ruolo del Pubblico Ministero nelle cause civili evidenzia che il flusso delle informazioni tra civile e penale non avviene quanto sarebbe necessario: troppo poco il Pubblico Ministero viene informato dal giudice civile nei casi di violenza e troppo poco il Pubblico Ministero, benché informato, si attiva intervenendo nella causa civile. A ciò si aggiunga che, nei limitati casi in cui interviene, non sono state riferite – sebbene richieste – le modalità con le quali ciò avviene.
Particolarmente preoccupante appare quanto dichiara l’11% dei Tribunali (14 su 130) in riferimento al fatto che il Pubblico Ministero non sia mai stato informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica
Tuttavia, anche nei casi in cui il Pubblico Ministero ha avuto conoscenza di una situazione di violenza domestica, quindi violenza agita nelle relazioni familiari e di convivenza, tale circostanza non determina necessariamente un suo intervento nella causa civile, anzi, nel 9% dei Tribunali il Pubblico Ministero, benché informato, non è intervenuto in nessun caso, nel 32% è intervenuto solo a volte, mentre nel 58% è intervenuto tutte le volte che è stato informato.
Complessivamente quindi, la partecipazione del Pubblico Ministero nelle cause civili nelle quali emergono situazioni di elevata conflittualità e di violenza domestica – evenienze che renderebbero auspicabile il suo intervento a tutela soprattutto dei minori – sembra essere occasionale e non adeguata.
A ciò si aggiunga il fatto che il 60% dei Tribunali non ha risposto alla richiesta della Commissione di esplicitare le modalità dell’eventuale intervento del Pubblico Ministero nella causa civile, sebbene la domanda fosse stata riferita soltanto ai casi in cui si era precedentemente dichiarato che tale intervento fosse avvenuto ("sempre" o "a volte").
Preso atto, altresì, che la maggior parte dei Tribunali non è in grado di riferire in cosa consista la partecipazione del Pubblico Ministero in dette cause civili, trovano conferma le difficoltà nelle relazioni tra processo civile e processo penale.
In tale contesto, con riguardo specifico al tema del coordinamento tra le istituzioni, si è posta attenzione ad alcune forme di collaborazione istituzionale e, in particolare, alla eventuale adozione di linee guida, accordi o protocolli che regolino i rapporti tra gli uffici interessati.
Dall’indagine emerge che soltanto il 25% dei Tribunali (32 su 130) ha dichiarato di applicare linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia, della violenza di genere e/o domestica, e soltanto 20 Tribunali li hanno allegati alle risposte ai questionari, come richiesto dalla Commissione.
Per converso è positivo il fatto che alcuni Tribunali si siano resi interpreti della rilevanza di siffatte problematiche (anche a seguito di interventi del Consiglio Superiore della Magistratura con Delibere e Risoluzioni in materia) e hanno realizzato virtuose forme di collaborazione con altri organismi ed attori del processo (Ordini degli Avvocati, Ordini degli Psicologi e Centri Antiviolenza) che hanno condotto alla redazione di utili linee guida, protocolli o accordi. In questo ambito si segnalano le best practices dei Tribunali di Benevento, Bologna, Enna, Macerata, Palermo e Roma.
Nel panorama del contrasto alla violenza di genere e domestica nel processo civile, un istituto che ha sostanzialmente disatteso le aspettative è quello degli "ordini di protezione" che - durante il triennio 2016-2018 - ha avuto scarsa rilevanza.
In primo luogo, infatti, solo in 35 Tribunali (pari al 27%) esiste un registro sulle richieste degli "ordini di protezione contro gli abusi familiari" e, di questi, solo 21 sono stati in grado di quantificare gli ordini di protezione richiesti e adottati nei tre anni di riferimento.
Complessivamente, i 21 Tribunali hanno dichiarato di aver richiesto 125 ordini di protezione nel 2016, 127 nel 2017 e 149 nel 2018.
Ancora meno le richieste accolte: 40 nel 2016, 53 nel 2017 e 68 nel 2018.
In ogni caso, il 93% degli ordini adottati nel 2018 (96% nel 2017 e 89% nel 2016) sono stati emessi a carico di un uomo.
L’esperienza concreta dei Tribunali riguardo agli "ordini di protezione" non è incoraggiante e sconta probabilmente le difficoltà di adattamento del processo civile alle tematiche della violenza domestica che storicamente erano riservate al procedimento penale, e che, di fatto, richiederebbero una concreta collaborazione tra giudice ordinario civile, Pubblico Ministero ed anche giudici minorili.
L’analisi multivariata[6] ha dato come esito la suddivisione dei 130 Tribunali ordinari in quattro gruppi omogenei internamente, ma differenziati tra loro rispetto ai comportamenti adottati nel trattamento della materia della violenza di genere e domestica.
A differenza di quanto è emerso per le Procure, nessun gruppo (o cluster) di Tribunali è caratterizzato da soli comportamenti virtuosi.
Emergono, infatti, tre elementi negativi che accomunano tutti i gruppi, il primo dei quali è la diffusa impossibilità di nominare CTU che possiedano una specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica, tanto che in nessun gruppo la quota di Tribunali che riesce "sempre" o "nella maggioranza dei casi" a nominare CTU specializzati supera il 27%.
Un secondo elemento che accomuna tutti i cluster è l’arretratezza nel processo per uniformare l’azione interna, evidenziata dal carente ricorso ad un quesito standard nella nomina del CTU nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli. La percentuale di Tribunali che adotta un quesito standard oscilla nei quattro gruppi tra il 18% e il 37%.
Terzo e ultimo elemento negativo comune è la scarsa applicazione di linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia e/o della violenza di genere e domestica che regolino i rapporti tra civile, penale e minorile[7]. In nessun cluster è prevalente la quota di Tribunali che ha adottato almeno una misura tra quelle citate.
I quattro gruppi si distinguono tra loro riguardo alla prevalenza di comportamenti positivi o negativi: in due gruppi prevalgono quelli positivi e in due quelli negativi. Ogni gruppo, comunque, è contraddistinto da proprie specificità che di seguito si descrivono nel dettaglio.
Quanto ai due gruppi che presentano diversi elementi positivi, il primo è composto da pochi Tribunali (11 su 130, pari all’8,5%), che possono definirsi "attenti alla materia e coerenti nell’azione". E si caratterizza per il particolare riguardo riservato alla materia, soprattutto per lo sforzo – rilevante poiché molto raro nel complesso – di monitorare il fenomeno attraverso la quantificazione delle cause[8] nelle quali sono emerse situazioni di violenza domestica[9] e nelle quali è stata disposta la consulenza tecnica di ufficio[10].
Elevato è il coinvolgimento del Pubblico Ministero da parte del Giudice civile: nel 91% dei Tribunali del gruppo il Pubblico Ministero è stato sempre informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica. D’altro canto, è caratteristica del gruppo anche un’elevata partecipazione del Pubblico Ministero alla causa civile.
Un ulteriore elemento che si può considerare positivo, se posto a confronto con gli altri gruppi, va ravvisato nel fatto che "solo" il 45,5% dei Tribunali del gruppo dichiara di nominare i CTU soltanto se iscritti all’albo dei periti (dato medio: 75%).
Appare critico, invece, il comportamento di questi uffici rispetto alla acquisizione degli atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui siano emerse situazioni di violenza domestica: solo il 9% ha dichiarato che ciò avviene sempre[11].
Inoltre, il grado di uniformità dell’azione interna ai Tribunali del gruppo è basso: solo il 18% adotta un quesito standard nella nomina dei CTU e solo il 18% regola i rapporti tra civile, penale e minorile con l’applicazione di almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione.
Per quanto attiene alla specializzazione dei CTU, solo il 27% - dato modesto sebbene superiore alla media - afferma di riuscire sempre o nella maggioranza dei casi[12] a nominare CTU specializzati in materia di violenza di genere e domestica.
Il secondo gruppo in cui prevalgono le caratteristiche positive su quelle negative si caratterizza per il fatto che vi è un "buon coordinamento tra penale e civile", e racchiudendo il 40% dei Tribunali ordinari (52 su 130), risulta il più numeroso.
Nel complesso, questi uffici appaiono i più avanzati nella gestione del rapporto tra le diverse attività giudiziarie, che non si ferma al piano formale, ma si traduce in uno scambio concreto che coinvolge tutti gli attori in campo, infatti positivo è il coinvolgimento e l’intervento del Pubblico Ministero nella causa civile[13], e frequente l’acquisizione degli atti del procedimento penale nella causa civile[14], e soprattutto detti atti sono generalmente conosciuti e presi in considerazione dai CTU nell’espletamento dell’incarico.
Inoltre, per quanto riguarda il coordinamento tra penale, civile e minorile, nel 42% dei Tribunali del cluster è applicata almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione, quota incoraggiante sebbene comunque minoritaria nel cluster stesso.
Come in tutti gli altri gruppi, si evidenzia un modesto ricorso all’adozione di quesiti standard nella nomina dei CTU e una bassa professionalità specifica dei CTU in materia di violenza di genere e domestica.
Particolarmente critico l’aspetto della selezione dei CTU, che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nell’86,5% dei tribunali appartenenti al gruppo.
Sintomatico della "invisibilità" della violenza di genere e domestica emersa complessivamente dall’indagine è il fatto che nessuno dei Tribunali del gruppo si è rivelato in condizione di indicare quanti casi di violenza domestica sono emersi nel triennio 2016-2018 nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come anche nessuno disponeva del dato relativo al numero delle cause nelle quali il Giudice ha disposto la Consulenza Tecnica di Ufficio nella materia.
I due gruppi restanti, che racchiudono nel complesso poco più del 50% dei Tribunali, si caratterizzano per la netta prevalenza di comportamenti critici, infatti nessuno dei Tribunali appartenenti ai due gruppi si dichiara in grado di quantificare le cause in cui è emersa violenza di genere e domestica, né quelle nelle quali il Giudice ha disposto una consulenza tecnica d’ufficio con riferimento al triennio 2016-2018.
Tutto questo evidenzia una grave lacuna informativa, che impedisce oggettivamente di conoscere le dimensioni del fenomeno e, quindi, di potere effettuare le valutazioni conseguenti.
In entrambi i gruppi, inoltre, il doppio flusso informazione-intervento che dovrebbe coinvolgere il Giudice civile e il Pubblico Ministero non avviene quanto auspicato e solo sporadici Tribunali all’interno dei due gruppi dichiarano di applicare almeno una linea guida/protocollo/accordo di collaborazione per regolare i rapporti tra civile, penale e minorile.
Tra i due, il gruppo che si colloca in uno stadio meno arretrato è costituito dal 31,5% dei Tribunali (41 su 130) e si connota per un atteggiamento migliore rispetto alla media, seppur minoritario anche in questo cluster, rispetto all’adozione dei quesiti standard (37% a fronte di una media del 29%) e alla selezione dei CTU[15].
Il cluster più critico, composto dal 20% dei Tribunali (26 su 130), è invece ancora lontano dall’avvio di percorsi che consentano di migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere attraverso una corretta lettura della violenza stessa e l'utilizzo di modalità operative - anche in collaborazione con le altre istituzioni interessate - necessarie per contrastarla.
2.3. Osservazioni conclusive
La situazione, come sopra rappresentata, evidenzia complessivamente uno stato in cui gli aspetti critici sono senz’altro prevalenti, fatte salve pochissime eccezioni.
Preoccupa il fatto che non sia possibile rilevare quali e quante siano le cause in cui emergono situazioni familiari nelle quale si agisce la violenza, così come la mancanza di qualsiasi garanzia che nelle nomine del CTU sia assicurata sempre la professionalità e la specializzazione necessarie, come pure appare critica la tipologia delle indagini delegate da alcuni giudici.
In tale contesto si prospetta il rischio che l’attività ed il ruolo del CTU sconfinino, anche solo in parte, nell’area delle competenze riservate al Giudice.
Non mancano però segnali incoraggianti. I Tribunali ordinari appaiono divisi in due "macro gruppi" della stessa dimensione.
Nel primo si collocano quelli caratterizzati da alcune scelte positive, che andrebbero però incoraggiate e messe a regime, così da compiere un salto di qualità e migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere. Nel secondo gruppo si collocano quei Tribunali in situazione più arretrata e, quindi, critica rispetto alla condivisione di comportamenti e modalità operative adeguate ed efficaci, funzionali ad assicurare un efficace contrasto e protezione delle vittime.
È necessario supportare i Tribunali che stanno attuando degli sforzi virtuosi, incoraggiandoli a proseguire in tal senso, e - soprattutto - è auspicabile che le buone prassi adottate ed i modelli organizzativi positivamente sperimentati diventino patrimonio comune sia attraverso interventi efficaci ed operativi anche del Consiglio Superiore della Magistratura, sia attraverso azioni positive che assicurino una effettiva formazione e specializzazione dei magistrati.
3. I Tribunali di sorveglianza
La Commissione ha ritenuto importante verificare se e quanto, nella concessione dei benefici penitenziari, i Tribunali di Sorveglianza valutino la specificità del trattamento penitenziario di detti condannati e, soprattutto, quale rilievo sia dato all’inderogabile esigenza di protezione delle vittime.
La prospettiva nella quale ci si muove è che sia necessaria, anche durante la fase dell’esecuzione penale, una piena sensibilizzazione, anche culturale, ed una adeguata formazione di tutti gli operatori coinvolti, non disgiunte dalla consapevolezza della specifica pericolosità sociale dei condannati.
Ci si riferisce, in particolare, al tema centrale del rischio di recidiva specifica che li caratterizza, strettamente connesso, da un lato, alla abitualità delle condotte criminose, e, dall’altro, anche al rapporto personale-familiare-affettivo tra l’autore della violenza e la persona offesa, che spesso si viene a trovare in una condizione di "particolare vulnerabilità" proprio a causa della violenza subita.
È noto anche che, per le caratteristiche proprie di questa forma di violenza, soprattutto nei casi in cui le condotte si siano protratte per molto tempo e con ripetitività, l’autore non sempre acquisisce piena consapevolezza del disvalore dei suoi comportamenti, spesso non si ritiene colpevole, non comprende la condanna e difficilmente modifica le proprie condotte.
In questo contesto la concessione dei benefici penitenziari, dal "permesso premio" alla "semilibertà", non può prescindere da un fondato accertamento che essi non mettano a rischio la sicurezza delle persone offese dal reato.
Per tali ragioni si è ritenuto importante verificare se e con quali modalità le indicate problematiche assumano rilievo davanti alla magistratura competente, quanto incidano sulle richieste del condannato di accedere a misure di esecuzione penale esterna, ed anche quanto si tenga conto dell’evoluzione dei rapporti del condannato con la vittima, ivi compreso l’accertamento del loro stato al momento della decisione del Tribunale.
In sintesi, appare centrale conoscere le modalità con le quali la magistratura di sorveglianza valuta il rischio di recidiva specifica ai fini della concessione dei benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975.
L’analisi dei dati pervenuti ha evidenziato, nel complesso, una scarsa attenzione all’esigenza di protezione delle vittime di violenza domestica e di genere.
Il quadro emerso dai dati, che fanno riferimento alla quasi totalità (27 su 28) dei Tribunali di Sorveglianza che hanno risposto all’indagine, evidenzia come soltanto in un numero limitatissimo di Tribunali di Sorveglianza vi sia la buona prassi rappresentata dal coinvolgimento anche delle vittime nell' istruttoria finalizzata alla concessione dei benefici penitenziari: ciò conferma la mancanza di una seria e concreta valutazione della loro esposizione a pericolo connessa alle decisioni che riguardano la concessione delle misure alternative alla detenzione.
Il 26% (7 su 27) dei Tribunali di Sorveglianza non acquisisce mai notizie e informazioni dalle persone offese, il 63% (17 su 27) afferma che non è sempre possibile acquisirle e solo l’11% (3 su 27) dichiara di acquisire sempre tali informazioni (Figura 14).
Alla richiesta di indicare quali atti e documenti sono presi in considerazione per valutare il rischio di recidiva specifica, soprattutto se la condanna attiene a delitti caratterizzati da abitualità delle condotte, il 22% dei Tribunali (6 su 27) non ha risposto alla domanda.
In ogni caso si segnalano alcune significative, e condivisibili, esperienze riguardo alle modalità attraverso le quali l’esigenza prospettata assume rilievo nella realtà giudiziaria, in quanto risulta che alcuni Tribunali di sorveglianza:
"verificano i rapporti con la vittima anche successivi alla condanna" (Torino);
"valutano anche il contesto familiare e sociale nel quale il condannato dovrebbe rientrare" (Roma);
"ascoltano anche il congiunto (il coniuge) ove la difesa del condannato asserisca il completo superamento della conflittualità familiare" (Trento);
"valutano le risultanze circa i rapporti con la vittima" (Brescia);
"valutano l’attuale rapporto con la vittima del reato ed anche il luogo in cui abita la vittima stessa" (Genova);
"valutano i rapporti attuali con la persona offesa" (Lecce);
Inoltre, alcuni Tribunali (Roma, Genova, Lecce, Sassari, Trento e Trieste) riferiscono che l’attenzione del Giudice è rivolta in vario modo a valutare il profilo criminologico del condannato, mentre uno (Sassari) precisa di monitorare anche la sua condotta successiva al reato.
Per quanto attiene al rischio di recidiva specifica, la Commissione ha ritenuto di dover rilevare il grado di attenzione riguardo ad una categoria particolare di soggetti, cioè dei minorenni vittime di violenza sessuale.
Si è, quindi, ritenuto utile acquisire i dati sull’applicazione e l’esecuzione delle "misure di sicurezza personali" previste dall’articolo 609 nonies del codice penale quali "l’imposizione di restrizioni dei movimenti e della libera circolazione", "il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati da minori", "il divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto abituale con minori" e anche l’obbligo di informare le forze dell’ordine sui propri spostamenti, misure che, come è noto, devono essere eseguite dopo l’espiazione della pena detentiva.
Durante il triennio 2016-2018, soltanto nel 26% dei Tribunali (7 su 27) è stata eseguita almeno una delle misure previste dalla citata disposizione per i condannati per violenza sessuale.
Va comunque registrato un incremento nell’applicazione di dette misure di sicurezza che passano da 3 nel 2016 a 21 nel 2018.
3.1. Osservazioni conclusive
I profili delle persone in stato di detenzione per reati di violenza di genere e domestica si caratterizzano per una particolare pericolosità sociale. Pertanto, appare di estrema importanza che, nella concessione dei benefici penitenziari - dal "permesso premio" alla "semilibertà" - i magistrati di Sorveglianza considerino prioritaria la protezione della persona offesa.
Preoccupa che in sede di valutazione delle richieste del condannato di ammissione ai benefici previsti dalla legge n. 354 del 1975 il tema non sia centrale e che non sempre venga accertato lo stato dei suoi rapporti con la vittima, tanto che in un quarto dei Tribunali di Sorveglianza non vengono mai acquisite notizie ed informazioni dalle persone offese.
Anche nella fase esecutiva della pena non si può abbassare la guardia ed è necessario un impegno costante perché le buone prassi adottate da alcuni Tribunali di Sorveglianza diventino un patrimonio comune, proprio perché l’autore di delitti di violenza domestica e di genere presenta tratti caratteristici del tutto tipici, sia riguardo alle condotte che alla personalità, ed entrambi detti tratti si riflettono sulla sua pericolosità sociale condizionandola significativamente.
Analogamente a quanto già evidenziato per le Procure ed i Tribunali Ordinari, è necessario assicurare circolarità delle buone prassi e delle migliori linee operative sperimentate in alcuni uffici più virtuosi, non disgiunte da adeguati interventi nella formazione dei giudici e degli operatori penitenziari.
4. La formazione degli operatori
La formazione degli operatori è tema centrale nella Convenzione di Istanbul e sebbene il nostro Paese se ne sia fatto interprete in una recente disposizione normativa – articolo 5 della legge n. 69 del 2019 - riguardo soltanto alla formazione degli “operatori di polizia”, è di tutta evidenza come non possa non riguardare tutti i professionisti che hanno competenze nell’attività di contrasto alla violenza domestica e di genere.
In particolare la Convenzione, nella disposizione sulla “formazione delle figure professionali” (articolo 15) richiede agli Stati di “fornire e rafforzare” la formazione delle figure professionali che si occupano sia delle vittime che degli autori di violenza di genere e domestica, come pure di incoraggiare e inserire nella formazione la materia della “cooperazione coordinata e inter istituzionale”.
Nell'analisi della effettiva operatività nel nostro Paese di questi principi è apparso importante ed utile la verifica di come siffatto obbligo sia stato attuato riguardo soprattutto alle figure più direttamente coinvolte nel processo: magistrati, avvocati e psicologi. Una parte dei questionari è stata pertanto focalizzata proprio sull' approfondimento di questa tematica.
4.1. La Magistratura
Riguardo alla magistratura l’offerta formativa appare, nel complesso, piuttosto carente.
Le magistrate sono risultate più interessate alla materia della violenza di genere e domestica, più sensibili a questo tema e più impegnate nella formazione, come attesta la maggiore partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale.
Quanto all’offerta formativa della Scuola Superiore della magistratura è risultato che nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati soltanto 6 corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere e domestica, di cui 2 rivolti sia al settore civile che penale, e 4 esclusivamente al settore civile.
Le magistrate hanno frequentato i corsi formativi in numero di gran lunga superiore ai colleghi uomini: in media, nel triennio analizzato, il 67% dei partecipanti sono donne, a fronte dei una proporzione di donne in magistratura pari al 52%.
Significativo il fatto che le principali problematiche affrontate dalla Scuola Superiore della Magistratura abbiano privilegiato il settore civile, quindi quello delle separazioni, dei divorzi e dei provvedimenti riguardo i figli.
L’offerta di formazione appare, così, piuttosto scarsa, soprattutto riguardo al settore penale.
Peraltro, il numero limitato dei magistrati partecipanti che esercitano funzioni giudicanti potrebbe essere sintomatico di una insufficiente attenzione e specializzazione del Giudice, a cui è fondamentale porre rimedio, e ciò con riguardo a tutti i gradi del giudizio, quindi anche all’appello, se si vuole che l’azione di contrasto sia efficace ed effettiva in tutte le fasi processuali.
La circostanza è del tutto coerente con quanto sopra riferito circa l’esito dell’indagine riguardo agli uffici di Procura e dei Tribunali Ordinari che ha consentito di rilevare come le Procure siano più attente alla specializzazione ed abbiano anche raggiunto, in numero significativo, standard qualitativi importanti, mentre non può dirsi lo stesso per i giudici, per i quali i dati qualificanti della specializzazione sono meno diffusi.
Oltre ai 6 corsi erogati a livello centrale, la Scuola Superiore della Magistratura segnala che, nel triennio 2016-2018, sono state anche realizzate 25 iniziative formative a livello distrettuale – cioè locale - sul tema della violenza di genere, che hanno visto il coinvolgimento di circa il 13% dei magistrati (1.198 presenze su una media di 8.891 magistrati nel triennio).
Tenuto conto del fatto che i dati acquisiti riguardano un periodo anteriore alla emergenza sanitaria determinata dalla pandemia Covid-19, non può non rilevarsi come nell’aggiornamento e nella specializzazione dei magistrati il ruolo più incisivo – ma ancora limitato - sia effettivamente svolto dalla formazione decentrata: 13% di magistrati partecipanti a fronte del 5% che hanno frequentato i corsi organizzati e svolti dalla scuola centrale.
Si tratta di una evidenza molto significativa ed importante che indica chiaramente il netto interesse dei magistrati per l’aggiornamento in sede locale, ascrivibile non solo a ragioni di tipo logistico ma, verosimilmente, anche al maggiore interesse per l’offerta formativa delle sedi distrettuali.
Appare quanto mai auspicabile una estensione della offerta formativa anche attraverso una doverosa sensibilizzazione di tutti i magistrati, soprattutto uomini, ancora di più se delegati a trattare la materia specialistica, particolarmente ove esercitino funzioni di Giudice per le indagini preliminari, quindi di Giudice che svolge un ruolo di essenziale rilievo in un doveroso raccordo con il Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari (è, ad esempio, competente ad emettere le misure cautelari, ad autorizzare le intercettazioni telefoniche, a disporre l’incidente probatorio speciale per l’ascolto delle vittime) e che per tale ragione non può non essere “specializzato”.
Analoghe le considerazioni per la figura del Giudice per la udienza preliminare, che, frequentemente, è il Giudice nei riti alternativi, la cui mancata specializzazione appare non pienamente in linea con i principi della Convenzione di Istanbul.
4.2. L'Avvocatura
Per quanto attiene agli Avvocati, sulla base dei dati forniti dal Consiglio Nazionale Forense, deve prendersi atto che si dispone di informazioni piuttosto generiche, purtuttavia sintomatiche di una carenza di offerta formativa in materia, e, quindi, di una insufficiente attenzione al tema della violenza di genere e domestica.
Infatti si riferisce che dal 2016 al 2018 sono stati organizzati in tutto il Paese "più di 100 eventi in materia di violenza di genere e domestica, che vi hanno partecipato oltre 1.000 avvocati", (su un totale di 243.000 circa), di cui oltre l’80% donne, ed in maggioranza civiliste.
In tre anni, dunque, lo 0,4% degli avvocati ha partecipato ad eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, per l’80% donne.
Pa6.re evidente che i dati riferiti siano sintomatici di scarsa sensibilità della classe forense, soprattutto maschile, per il fenomeno della violenza di genere e domestica, e come prevalga nella richiesta ed attenzione formativa il settore civile nel quale pure sono largamente protagoniste le donne avvocate.
Inoltre, alla domanda circa l’istituzione di elenchi di avvocati specializzati nella materia il Consiglio ha riferito che sono pochi gli elenchi istituiti, come pure gli sportelli dedicati alla materia aperti presso i Consigli degli Ordini professionali. Anche nel caso dell’avvocatura si rilevano iniziative individuali meritorie ed utili che necessiterebbero di sostegno per essere valorizzate, strutturate e estese imprimendo una svolta culturale già ad iniziare dai percorsi di studio ed universitari.
4.3. Gli Psicologi
Evidenti criticità si registrano, quanto alla formazione, anche riguardo agli psicologi, e ciò sia per quanto attiene alla formazione, sia riguardo alla costituzione di gruppi di lavoro mirati sull’attività di consulenza giuridico-forense nell’ambito della violenza di genere e domestica.
I dati acquisiti sono sintomatici di una generalizzata sottovalutazione circa la necessità che gli psicologi, ove svolgano attività di consulenza e peritale nel processo, sia civile che penale, possiedano anche una formazione di tipo specialistico forense ed anche competenze adeguate ove operino nella materia della violenza di genere e domestica.
Le buone prassi e linee guida, pur esistenti, sono poche e frammentarie e sembra emergere, a livello nazionale, una doppia carenza nella formazione degli psicologi, che pare espressione della mancanza di una visione globale e condivisa del ruolo di questo professionista e della ineludibile necessità della sua specializzazione.
Le risposte ai quesiti specifici sugli eventi formativi e di aggiornamento hanno rivelato una limitata attenzione al tema, considerato che poco meno della metà degli Ordini regionali - 8 su 18 - ha dichiarato di non avere mai organizzato eventi formativi nella materia specializzata.
Nel complesso, il numero degli eventi formativi organizzati si rivela piuttosto basso, atteso che nel 2016, in tutto il Paese, sono stati 8, nel 2017 e 2018 sono stati 24 per ciascun anno. Peraltro, soltanto 3 Ordini hanno organizzato almeno un evento in tutti e tre gli anni.
Merita di essere menzionata la circostanza che soltanto la metà degli Ordini - 9 su 18 - ha organizzato dei gruppi di lavoro mirati sulla materia della violenza di genere e domestica.
Con riguardo specifico ai profili di consulenza giuridico-forense, in riferimento alle problematiche, indubbiamente molto rilevanti, circa le perizie e le consulenze tecniche svolte dagli psicologi, si deve evidenziare che solo 5 dei 9 Ordini hanno organizzato gruppi di lavoro mirati sulle attività di consulenza giuridico–forense, e che 4 di essi non hanno mai trattato questa materia.
Due gli Ordini risultati più virtuosi i quali, oltre ad essere stati più attenti alla materia, hanno organizzato sia eventi formativi che di aggiornamento, ed hanno anche organizzato gruppi di lavoro mirati sugli aspetti specifici e qualificanti dell’attività giuridico-forense.
Conclusivamente, anche per gli psicologi deve prendersi atto di una generalizzata carenza di sensibilità ed attenzione per la formazione degli operatori di ciascun settore, ed anche di una significativa sottovalutazione del ruolo che gli psicologi hanno nel tempo assunto nel settore specifico e quanto tutto questo incida sulla efficacia, effettività e tempestività della risposta giudiziaria alla violenza domestica e, soprattutto alla protezione delle vittime, molte delle quali in condizioni di "particolare vulnerabilità" in quanto minorenni.
5. Conclusioni
La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nella cornice sovranazionale dei principi della Convenzione di Istanbul - più volte ricordati - ha ritenuto importante verificare quanto il nostro Paese abbia aderito agli impegni rivolti agli stati firmatari (articolo 4) ad “adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere libere dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata”, ed anche (articolo 5) ad essere diligenti nel “prevenire, indagare, punire i responsabili”.
È proprio con riguardo a questo obbligo di “diligenza” nell’attività preventiva e repressiva che la Commissione non poteva non considerare l’importante monito dei Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - nella sentenza “Talpis c. Italia” del 2 marzo 2017- ad operare affinché i meccanismi di protezione previsti nel diritto interno funzionino in pratica e non solo in teoria, e che soprattutto nelle cause in materia di violenza domestica i diritti dell’aggressore non possano prevalere sui diritti alla vita ed alla integrità fisica e psichica delle vittime.
In un contesto così delineato, e nel difficile percorso intrapreso dal nostro Paese di adeguamento alla normativa convenzionale, la Commissione ha focalizzato alcuni aspetti più qualificanti, quali: la specializzazione degli operatori, ed in particolare dei magistrati, degli avvocati e degli psicologi nonché le formule organizzative adottate e ritenute idonee a garantire immediatezza ed efficacia all’intervento giudiziario.
Ne è emersa una realtà multiforme ed allo stesso tempo complessa.
Il contesto nel quale operano gli uffici giudiziari è obiettivamente difficile, gli operatori non sono formati quanto sarebbe necessario , segno – anche ma non solo – di mancanza di investimenti che hanno determinato gravi carenze anche strutturali, soprattutto di personale e mezzi che ne hanno significativamente condizionato l’efficienza.
È parsa anche scarsa la consapevolezza, in chi opera nel settore, della necessità di adeguare i propri standard operativi alle mutate esigenze, nonché della esigenza di una effettiva cooperazione e collaborazione interistituzionale, presupposti ineludibili perché il contrasto alla violenza domestica e di genere sia effettivo ed efficace.
È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una parte - purtroppo ancora minoritaria - della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura culturale.
Non ci si può certo ritenere soddisfatti della realtà così come rappresentata dalle indagini condotte, ma è anche innegabile che sia in atto un grande sforzo messo in campo da alcuni uffici giudiziari più virtuosi che possono – auspicabilmente – essere trainanti per tutti gli altri, purché sostenuti anche da adeguate iniziative di tipo organizzativo, e supportati nel percorso di formazione e specializzazione di chi ha il compito di assicurare in tutto il territorio nazionale uniformità e coerenza dell’azione giudiziaria.
Occorre anche sottolineare la mancanza di consapevolezza della esigenza –non rinviabile – di attuare forme di collaborazione e cooperazione tra tutti gli organi e le figure istituzionali coinvolte, sempre in una prospettiva comune: combattere la violenza, soprattutto in ambito domestico.
Non vi è dubbio che le maggiori criticità siano state rilevate per quanto riguarda la formazione specifica sui temi della violenza di genere e domestica nell’ambito dell’attività forense ed in quella dei consulenti tecnici, psicologi in particolare: ciascuno nel proprio ambito e nell’esercizio delle proprie competenze ha evidenziato mancanza di attenzione e di sensibilità per il tema della violenza di genere e domestica, soprattutto nella formazione e nell’aggiornamento professionale.
Sia gli avvocati che gli psicologi hanno soltanto avviato un percorso di sensibilizzazione alle tematiche indicate e sono in grave ritardo nella specializzazione dei professionisti.
L’esito delle indagini svolte segnala, perciò, una sostanziale difficoltà, anche di tipo culturale, nella conoscenza del fenomeno.
Ciò comporta - da parte di tutto il sistema – -una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene "letta" correttamente.
Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro "sistema Paese" sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza.
Se è vero che la fotografia della realtà giudiziaria che emerge dai dati dei questionari segnala che il percorso di adeguamento ai principi della Convenzione di Istanbul appare solo avviato, sono anche molteplici le buone prassi e le collaborazioni interistituzionali che hanno consentito un decisivo passo in avanti nella tutela delle donne vittime di violenza di genere.
Il legislatore, pertanto, in costante raccordo con tutte le istituzioni e gli ordini professionali coinvolti, ha il dovere di rafforzare e mettere " a sistema" i modelli positivi emersi, come pure di implementare le misure normative già vigenti, al fine di garantire a tutti i soggetti coinvolti l'accesso agli strumenti processuali e la formazione necessaria per una corretta lettura ed un efficace e tempestivo contrasto della violenza di genere e domestica.
Non bisogna commettere l’errore di addebitare la responsabilità delle situazioni negative emerse alla responsabilità di questo o di quell’operatore o della singola categoria professionale con una operazione politico-mediatica piuttosto diffusa.
Non si farebbe una operazione di verità e non sarebbe utile ai nostri fini.
La realtà degli uffici giudiziari rappresenta come i magistrati e tutti gli operatori che ne fanno parte comprese le forze dell’ ordine, operano con i mezzi e le strutture che hanno a loro disposizione, e poi, certamente nell’ambito di dette disponibilità assume rilievo anche la preparazione, professionalità e specializzazione dei singoli.
Quindi vanno individuate -con attenzione e tempestività- le reali cause della situazione rappresentata se si vogliono trovare le soluzioni corrette che portino il nostro Paese su standard qualitativi adeguati che certamente può e merita di raggiungere.
E’ anche il momento storico perché tutto questo trovi attuazione considerato che la pandemia da Covid 19 , che ha causato una “escalation” nei fatti di violenza di soprattutto domestica, ha aggravato la condizione già difficile di tante donne, soprattutto di quelle più vulnerabili, più fragili sul piano economico.
E’ il momento di dare alla parola “resilienza” il significato proprio: mettiamo le donne vittime di violenza nelle condizioni di potere essere resilienti, cioè di potere fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.
Per questo vorremmo contare sulla “resilienza “ dei governanti , di tutti coloro che sono competenti e responsabili, perché l’impegno nella ripresa del nostro Paese si trasformi in una reale opportunità anche per le vittime di questa intollerabile e antistorica forma di violenza.
L’esito dell’indagine della Commissione di inchiesta sul femminicidio, nei limiti della delibera istitutiva, può costituire un utile incentivo ad impegnarsi –anche economicamente- perché la Convenzione di Istanbul, non resti solo un “manifesto” di buoni propositi.
[1] Intervento di Maria Monteleone alla Sala Zuccari del Senato del 17 luglio 2021per la presentazione della “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria” approvata all’unanimità dalla Commissione di Inchiesta sul femminicidio del Senato il 17/6/2021.
[2] Il Rapporto è stata curato da Maria Monteleone, Linda Laura Sabbadini e Marina Musci, collaboratrici della Commissione ai sensi dell’articolo 23 del Regolamento interno, sulla base di una indagine statistica condotta attraverso specifici questionari inviati agli uffici giudiziari ed ai Consigli degli Ordini Professionali interessati.
[3] I questionari sono stati richiesti nel dicembre 2019 tramite un'applicazione informatica e la raccolta dei dati si è conclusa nel 2020.
[4] Art. 19 co. 2 bis del d.l. 160/2006 (Ordinamento giudiziario) e Regolamento del CSM del 13/3/2008.
[5] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli.
[6] Nello specifico, è stata effettuata un’Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) e, successivamente, una cluster analysis gerarchica ascendente sulle prime due dimensioni fattoriali, che spiegano complessivamente il 39% della varianza dei dati.
[7] Nello specifico, ci si riferisce a rapporti tra I) Giudice civile e Giudice minorile, II) Giudice civile e Pubblico Ministero ordinario, III) Giudice civile e Giudice minorile e IV) Giudice civile e Pubblico Ministero minorile.
[8] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).
[9] Ciò avviene nel 64% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 5,4%.
[10] Ciò avviene nel 54,5% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 4,6%.
[11] Si ricorda che il periodo temporale di riferimento dell’indagine è il triennio 2016-2018, antecedente alla legge 69/2019 che ha introdotto l’obbligo di trasmettere determinati atti dal procedimento penale a quello civile nei casi in cui si proceda per determinate ipotesi di reato.
[12] Ci si riferisce alle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle sui provvedimenti riguardo ai figli (art. 337 ter del codice civile).
[13] Infatti, l’86,5% (dato medio: 51%) dei Tribunali del cluster dichiara di aver sempre informato il P.M. nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica e, il 69% (dato medio: 41%) ha dichiarato che il P.M., quando informato, è intervenuto sempre.
[14] Ciò avviene nel 58% dei Tribunali del gruppo, a fronte di una media del 31,5%.
[15] Selezione che avviene sempre tra quelli iscritti all’albo dei periti nel 61% dei Tribunali appartenenti al cluster, a fronte dei una media del 75%.
Elogio di un fascicolo cartaceo, per cortesia.
di Gì D’Andrea, magistrato
Minuto più, minuto meno, è da un paio di millenni che l’essere umano conosce l’uso della carta.
Possiamo annoverare vari formati di questo sconvolgente materiale: formato grande, tipo i cartoni o, per gli storici e per i giuristi, la Magna Charta; poi c’è il formato piccolo, al cui genere appartengono, in via meramente esemplificativa, i cartoncini, o ancora le “cartine”, ossia: a) quelle carte comunemente impiegate dai cartografi per rappresentare il pianeta in modo bidimensionale, in conformità con le dottrine terrapiattistiche più ortodosse; b) quelle carte comunemente impiegate da coloro – forse anche cartografi – che perseguono scopi psicotropo-ricreativi, non sempre del tutto leciti secondo le leggi di questo o di quel Paese.
Sono innumerevoli, in verità, gli impieghi della carta nel corso della storia: in ordine sparso, dipingere paesaggi ad olio su carta, stampare banconote di carta, soffiarsi il naso con fazzoletti di carta, disegnarci sopra l’uomo vitruviano o Paperino, giocare a carte, fare i castelli di carte, giocare alla morra cinese (prima che inventassero la carta, infatti, nelle locande gli avventori si dilettavano giocando principalmente a “sasso-forbici”, versione decisamente meno adrenalinica della più recente “sasso-forbici-carta”).
E scrivere, già. La carta serve a scriverci sopra.
Canzoni, poesie, romanzi, lettere d’amore, saggi, liste della spesa, cartoline, pizzini da scambiare tra i banchi di scuola, ingiurie da lasciare sul parabrezza altrui, atti e provvedimenti giudiziari. Ciò che è scritto sistematicamente prevale su “dove” è scritto. Tutti si ricordano che esiste la Divina Commedia, ma nessuno spende mai una parola per celebrare il materiale su cui è stata scritta, lo si dà per scontato.
Il ruolo della carta, nel corso della storia, è stato sempre ancillare, defilato, lontano dai riflettori.
Supporto, corpo meccanico, contenente, mai contenuto. Solo forma, niente sostanza?
Chi di noi la vorrebbe, in tutta sincerità, una vita così, trascorsa indossando le vesti del principe consorte, all’ombra ingombrante di qualcun altro, qualcun altro “di contenuto”? Una vita vissuta in silenzio, terminata magari in un tritadocumenti. È forse vita, questa, passata in questo modo, da cavalier servente, con il rischio di finire da un momento all’altro accartocciati in strada, senza una degna sepoltura? Che cosa pensereste, sinceramente, se un ragazzino annoiato facesse di voi un aeroplanino e vi lanciasse distrattamente a canestro in un cesto dei rifiuti, lasciandovi lì, a finire placidamente la vostra esistenza come una qualsiasi sostanza biodegradabile? Meglio a quel punto la fiamma del camino. It’s better to burn than to fade away. E farla dunque finita, senza arrovellarsi troppo il cervello sul rischio di reincarnarsi in un altro foglio di carta. Per giunta riciclata.
Ma arriva un giorno in cui la carta rivendica, non dico il primato sul contenuto, ma quantomeno una pari dignità. Un sussulto di ribellione. Un moto d’orgoglio. Una rivendicazione politica, un gesto simbolico, perpetrato silenziosamente, ma in modo decisamente efficace: scomparire e, con la propria assenza, bloccare addirittura la Giustizia. Lì dove non è arrivato il covid, può arrivare la carta?
La storia che mi accingo a presentare è capitata a un mio amico e collega, giudice civile presso uno dei tanti tribunali d’Italia. E’ la storia di un fascicolo cartaceo che rivendica la sua centralità nel processo civile. E’ stato il fascicolo cartaceo, infatti, a fargli percepire, indirettamente, quanto sia importante la carta, quantomeno nel settore giustizia. Più precisamente, è stata la mancanza del fascicolo di carta a farlo riflettere. Non che al collega quel fascicolo mancasse realmente. Nel senso che lui, personalmente, non ne sentiva alcuna mancanza, credetemi. Non è uno di quelli che percepiscono il valore delle cose soltanto quando ormai è troppo tardi, perché non ce le hanno più a disposizione, o melensaggini simili. Più correttamente, il reale valore del fascicolo cartaceo mancante glielo ha fatto intuire, con modi discutibilmente affabili, ma nondimeno incisivi, un’assistente giudiziaria. Convenzionalmente, per questioni di riservatezza, chiameremo l’assistente con nome di pura fantasia, Erinni Brockovich, così da salvaguardare la serenità del rapporto di collaborazione professionale, nonché l’incolumità psicofisica del collega.
Questa, più o meno, la trascrizione del dialogo telefonico avvenuto con la sua cancelleria, secondo quanto mi ha riferito.
Driiin.
Collega civilista: Pronto?
E.B.: Senta, dottore, dopo che è finita l’udienza non mi ha mandato un fascicolo. L’erreggì è il XXXXX/2021. Se non me lo manda, ci impedisce a tutti di lavorare, ci blocca ogni ccosa, santa pazienza!
Collega civilista : p prego…? Buongiorno a Lei, dottoressa Erinni Brockovich. Di che cosa si tratta?
E.B.: E che ne so, non me l’ha mandato il fascicolo, so solo che non posso scaricare il provvedimento se prima non mi porta il fascicolo. E se non posso lavorare per come dico io, l’avverto, mi vedo costretta a parlare con chi di dovere!
Collega civilista: Ma… ma… mi faccia controllare… ma… io quel fascicolo non l’ho messo in uscita perché, a dire il vero, non mi è mai arrivato nemmeno in entrata… ad ogni modo, è tutto telematico, non c’era niente dentro, si trattava al massimo soltanto di una copertina di carta di un fascicolo, la causa è tutta digitale…
E.B.: Allora non mi ha capito bene! Sempre così fa Lei, che perde ogniccosa e poi intralcia il lavoro della cancelleria! Io glielo dico, che se non mi arriva il fascicolo, non posso scaricare il provvedimento e mi vedo costretta a prender provvedimenti!
Evidentemente, non i provvedimenti telematici
La vicenda, di per sé, è di poco conto. I toni concitati di Erinni Brockowich, attutiti nella trascrizione, poco aggiungono alla drammatizzazione degli esiti epistemologici del dialogo. Ciò che rileva, fuor d’ironia, è la prospettiva dischiusa dalle parole dell’assistente giudiziaria, che tradiscono una Weltanschauung interessante, un’impostazione metodologica diffusa, frutto di consolidate abitudini mentali, perpetrate trasponendo, anche in via di semplice prassi operativa, le logiche proprie del processo “tradizionale” alle logiche che dovrebbero presiedere al funzionamento del medesimo processo “tradizionale”, semplicemente declinato secondo modalità telematiche.
Provo a spiegarmi, facendo una breve premessa, di carattere sommario, per coloro che magari hanno meno dimestichezza con la giustizia e col settore civile. Non è vero che il processo civile è telematico. Il processo civile è, potremmo dire, “tendenzialmente” telematico. In via di prima approssimazione, infatti, si può affermare che è obbligatorio il deposito in formato digitale - e in un determinato specifico formato, pdf nativo - per tutti gli atti. Tutti gli atti processuali e i documenti depositati dai difensori delle parti precedentemente costituite. Ciò significa, quindi, che resta facoltativo il deposito in formato cartaceo degli atti introduttivi. Salvo che durante la pandemia, visto che le norme emergenziali hanno imposto l’obbligatorietà del deposito telematico anche per gli atti introduttivi. Chissà fino a quando. (Quindi, tecnicamente è possibile depositare tutti gli atti telematicamente?!). Al di fuori della normativa emergenziale, invece, gli atti introduttivi si possono depositare in cartaceo. Ma questo non vale per il ricorso per decreto ingiuntivo, ad esempio, che devi depositare in formato digitale. Salvo che dal giudice di pace, dove si deposita in cartaceo. Anche nel periodo emergenziale. A fronte di un quadro normativo non immediatamente intellegibile nel suo complesso e non sempre del tutto lineare, la sanzione dell’inammissibilità del deposito degli atti in formato cartaceo per le ipotesi in cui è obbligatorio il deposito in formato digitale non sempre è così nitida, come ha dimostrato la giurisprudenza in materia (che quindi si è dovuta occupare non tanto dei fatti di causa, quanto di come gli atti sono stati presentati). Quasi dimenticavo: l’obbligo di depositare in formato telematico non vale, non si sa per quale motivo, per i provvedimenti del giudice, pandemia o non pandemia. Ragion per cui nel 2021, appena usciti in fondo dall’era mesozoica, alcuni verbali vengono ancora redatti a mano, chissà da chi. Voci di corridoio vogliono che gli amanuensi di turno siano in realtà medici specializzandi di passaggio in tribunale, privi di pollice opponibile, inavvertitamente scambiati dal giudicante per praticanti avvocati e costretti a vergare in udienza sotto dettatura di qualcuno, qualcuno che poi apporrà in calce una sottoscrizione parimenti illeggibile.
Di fronte alle incerte grafie con cui sono scritti certi verbali - che più che altro assomigliano a tracciati di un elettroencefalogramma - alzi la mano (sporca di inchiostro) chi, tra voi giudicanti, non abbia sentito il bisogno di disporre c.t.u. grafologica per decrittarne il contenuto, rifuggendo dalla tentazione - dai plausibili risvolti di rilievo penale - di appallottolare e cestinare tutto di nascosto.
Tornando al caso del mio amico e collega, la sua causa aveva ad oggetto un’opposizione a decreto ingiuntivo. Per la seconda udienza consecutiva nessuno era comparso, quindi il giudice aveva disposto a verbale la cancellazione della causa dal ruolo e aveva dichiarato l’estinzione del processo. Trattandosi di atto endoprocedimentale, la citazione in opposizione a decreto ingiuntivo era, obbligatoriamente, in formato digitale. Altrettanto digitale era il formato della comparsa di costituzione e risposta. Altrettanto digitale, infine, era il formato dei verbali depositati all’esito delle due udienze.
In definitiva, si può candidamente concludere che in quella causa non era mai successo niente di che nel mondo fisico, al di fuori di consolle. Esistevano solo file, bit, algoritmi, segnali elettrici, invisibili all’occhio umano, redimibili nel loro significato ostensibile soltanto attraverso la mediazione di software e di hardware. Consolle, un monitor, qualche cavo, poco di più.
Senza il fascicolo di carta, tuttavia, la giustizia ha subito un insuperabile arresto.
Il provvedimento telematico, secondo la prassi di cancelleria, non sarebbe mai stato scaricato su consolle fintanto che non fosse stato reperito il fascicolo cartaceo (che il mio collega, peraltro, sosteneva di non aver mai ricevuto).
Per intendersi, il “fascicolo” che invocava la cancelleria per poter procedere al deposito telematico del verbale telematico era, tecnicamente parlando, la copertina di un fascicolo cartaceo vuoto. Una classica copertina, una carpetta di cartoncino, formato A-qualcosa, divisa longitudinalmente e ripiegata in due. Una cartellina, non saprei come nominarla tecnicamente in una cartoleria, ma mi avrete già capito. Su questa cartellina, di cui pur ammetteremo l’esistenza per professione di fede, nonostante i dubbi del mio collega, forse c’era pure appiccicato sopra il nome del tribunale, il numero di R.G., il nome delle parti. Nient’altro. Dentro, il vuoto pneumatico.
Eppure, in forza di una qualche prassi inveterata, dal fondamento normativo inesistente, quella causa reale quanto dematerializzata non esisteva per la cancelleria e continuava ad esistere sul ruolo, ancorché fosse stata dichiarata estinta e fosse stata ordinata la cancellazione.
Concettualizzando, sulla scorta della sovrapposizione indebita tra logica tradizionale cartacea e logica telematica, si potrebbe enucleare il seguente principio: la causa integralmente telematica esiste e quindi non esiste più e al contempo non esiste e continua ad esistere, in funzione della possibilità di rinvenire o non rinvenire il fascicolo di carta, contenente niente.
Un paradosso degno di Schrödinger, sissignori.
Il mio amico e collega mi ha confidato di aver liquidato il problema troppo frettolosamente, suggerendo alla sua cancelleria di stampare, se proprio necessario, un (nuovo) fascicolo, parimenti vuoto.
Apprezzabile l’approccio di problem solving, ma questo significa soltanto metterci una pezza sopra, e non andare alla radice del problema. A fronte dell’obiezione - incontrastabile quanto paradossale per lui - secondo la quale “se ogni volta dovessimo fare così, la giustizia rimarrebbe bloccata, dottò”, il mio collega e amico ha persino pensato di creare i presupposti per la ricostituzione d’ufficio del fascicolo cartaceo: sarebbe bastato depositare una lettera minatoria in cui una sedicente associazione malavitosa avrebbe assunto la paternità del rapimento del fascicolo e forse chiesto persino un riscatto, pari al valore del contributo unificato. A frenare questa sua perversa fantasia non è stata tanto la consapevolezza di perpetrare un’improbabile simulazione di reato, un procurato allarme, robe del genere, che ne so io che faccio civile. Lo ha indotto definitivamente a desistere, piuttosto, la consapevolezza che, pur collazionando materialmente una lettera minatoria da inserire nel fascicolo, la sua cancelleria non avrebbe mai acconsentito all’inserimento di un qualcosa in assenza dell’involucro cartaceo deputato a contenerlo. Del pari, una lettera minatoria su word, di più difficile realizzazione, non sarebbe stata comunque scaricata in telematico, sempre per il fatto che non si trovava ancora il fascicolo cartaceo, nonostante fosse stato già allertato il soccorso alpino, con i cani molecolari (nel mentre, il fascicolo continuava verosimilmente a rimanere sempre vuoto).
Come potete intuire, il collega ha sviluppato una forma di ansia generalizzata verso il cartaceo.
Sa che l’universo tende all’entropia e non vede il motivo per cui lui e il mondo giudiziario in generale dovrebbero discostarsene. Il disordine è destinato a prevalere. Spostare fascicoli di carta, di tante tantissime carte, da una parte all’altra comporta l’accettazione di un certo margine di rischio di smarrimento, bisogna ammetterlo. Identica considerazione vale anche le copie cartacee di cortesia degli atti depositati in formato digitale, copie diffusamente “offerte” in sacrificio dai difensori delle parti nel tentativo di attutire l’ingordigia di cellulosa che affligge il settore giustizia. Copie che, riconosciamolo con una certa onestà intellettuale, qualche magistrato semplicemente esige. A quel punto non è più cortesia, è una corvée, nella migliore delle ipotesi. E anche qualora il magistrato non abbia richiesto alcuna copia di cortesia, l’avvocato, disorientato dalle prassi ondivaghe dei vari uffici sulla duplicazione dei depositi in cartaceo e in telematico, si sente comunque in dovere morale di offrire carta, un po’ per cortesia, un po’ per scaramanzia e per il disturbo ossessivo compulsivo ingenerato dall’ansia generalizzata che il giudice non riesca a leggere integralmente sul monitor del computer le 147 pagine di ricorso per decreto ingiuntivo. Come se il Ministero non avesse dotato i magistrati e le cancellerie di stampanti (quasi sempre) funzionanti. Ma “a caval donato non si guarda in bocca”. Pertanto, grazie signor avvocato per la copia di cortesia, non si disturbi per la prossima volta, in realtà non saprei proprio dove mettere la copia, mi hanno appena scaricato sulla scrivania 65 kg di carta che neanche a Fabriano, e quindi non riesco a scorgere, così, di primo acchito, nella stratificazione delle mura megalitiche di cartapesta, il fascicolo di riferimento, forse manca proprio quel fascicolo lì, mi dispiace, forse non me l’hanno mai portato, o forse sì, chissà dov’è, non si disperi, in qualche modo lo cercheremo, andremo in archivio con le unità cinofile, specializzate, con la Sciarelli se necessario, lo troveremo, a costo di dover recuperare in un weekend del 2081 d.C. il tempo irreversibilmente perduto, smarrito come il fascicolo.
La cortesia, a livello sistematico, in certe situazioni diventa una iattura per la società, quantomeno secondo certe visioni utilitaristiche.
Il collega non ne fa nemmeno un discorso di tipo ecologistico. Pazienza per gli alberi sacrificati in nome della cortesia. Non è nemmeno allergico alla polvere e alle spore di tetano che si annidano in certi fascicoli risalenti, non gli fanno nemmeno schifo i pesciolini d’argento che sbucano dai faldoni del processo Dreyfus. La sua è un’impostazione potremmo dire ideologica, più che di fondamento positivo, indotta e corroborata dall’insano terrore di essere redarguito ancora da Erinni Brockowich, nell’ipotesi in cui non salti fuori il fascicolo cartaceo che l’assistente giudiziaria reclama.
Il telematico, epurato dal regime ibrido e soprattutto dalle applicazioni distorte, sembrerebbe poter ovviare a molti problemi di ordine logistico, garantendo una certa efficienza a livello organizzativo, oltre che una chance di maggiore serenità mentale per il mio amico e collega. A livello operativo, se i fascicoli potessero essere integralmente telematici, i fascicoli cartacei non avrebbero più ragione di esistere. Quindi nessuno dovrebbe prendersi la briga di crearli, nutrirli, farli crescere, farli riposare sotto un tetto (le stanze, tendenzialmente, non abbondano nell’edilizia giudiziaria), spostarli, recapitarli, trasferirli fisicamente in Corte d’Appello, in Cassazione, recuperarli in caso di furto o smarrimento, ricostituirli.
Diversamente, nella ingiustificata duplicazione dei fascicoli, telematico e cartaceo, e comunque nel sistema ibrido vigente, anche qualora tutto vada liscio, senza intoppi, accade di dover assistere, per esempio, a questi passaggi: 1) un assistente giudiziario prende una cartellina di carta; 2) stampa un foglio recante i dati della causa; 3) appiccica il foglio sopra la cartellina, la quale, bidibibodibibù, diventa così un bellissimo fascicolo giudiziario cartaceo (vuoto); 4) l’assistente giudiziario consegna il fascicolo a un commesso; 5) il commesso (vettore) carica il fascicolo su un carrello, insieme ad altri millemila fascicoli; 6) il commesso trasporta il carrello dalla cancelleria fino alla stanza del giudice; 7) il commesso scarica fisicamente i millemila fascicoli su un tavolo denominato “in entrata”; 8) il giudice, se riesce a riemergere dalla colata di carta in cui è stato inavvertitamente appena sepolto, cerca e preleva il fascicolo di causa, se presente tra i miellemiila consegnati, lo apre, è vuoto, lo richiude, fa udienza, verbale telematico; 9) il giudice appoggia il fascicolo cartaceo vuoto su un tavolo, denominato “in uscita”; 10) il commesso, con quel diffuso trasporto emotivo di poco inferiore a quello del monatto che passa ogni giorno a fare il suo giro, va nella stanza del giudice e preleva il fascicolo; 11) il commesso carica fisicamente il fascicolo nel carrello, insieme ad altri millemila fascicoli, come al punto 5); 12) il commesso trasporta il fascicolo dalla stanza del giudice fino alla cancelleria (tragitto inverso rispetto a quello di cui al punto 6); 13) il commesso consegna il fascicolo, sempre vuoto, all’assistente giudiziario; 14) l’assistente giudiziario, rinvenendo il fascicolo cartaceo, scarica su consolle il verbale (telematico); 15) l’assistente consegna il fascicolo cartaceo al commesso; 16) il commesso deposita il fascicolo cartaceo (vuoto) in una stanza di cancelleria, piena di altri millemila fascicoli (alcuni millemila dei quali altrettanto vuoti); 17) il fascicolo rimane lì fino alla successiva data di udienza, quando l’assistente giudiziario impartisce al commesso l’istruzione di prelevare il fascicolo (vuoto); 18) arretrate di 13 caselle e ripartite dalla casella n. 5, fino alla fine dei tempi (moderni).
Può accadere, per congiunture astrali insondabili, che in questi inutili plurimi passaggi, in barba al rasoio di Occam, l’entropia possa avere il sopravvento e che quindi il fascicolo, sempre vuoto, possa essere smarrito. Può accadere, ammettiamolo.
L’atteggiamento zelante dell’incolpevole assistente giudiziaria di fronte alla scomparsa del fascicolo cartaceo non è un mero accidente, è un’occasione preziosa per riflettere. Personalmente, non ho risposte adeguate. Mi restano solo quesiti, ovviamente disordinati. Ha un senso la prassi della duplicazione dei depositi? Sono insuperabili gli ostacoli che impediscono il deposito di tutti gli atti, documenti, provvedimenti in via esclusivamente telematica? Che senso ha la pluralità dei passaggi sopra isolati, per il commesso, per il giudice, per l’assistente giudiziario? La ripetizione senza fine di azioni prive di qualsivoglia utilità giova all’umore degli operatori del diritto e al contempo favorisce l’incremento della produttività? Le prassi operative fondate sulla duplicazione dei canali, telematico e cartaceo (dal magistrato che esige la copia, all’avvocato che la offre, al cancelliere che se non la trova non sa come fare) sottendono esigenze occupazionali di stampo keynesiano? La domanda aggregata è davvero così flebile da giustificare, nella teoria generale, l’esigenza di scavare ancora buche per poi riempirle?
Stremato dalla futile riflessione, anche a nome del mio amico e collega ringrazio di cuore il lettore telematico per la pazienza, e vado dal dottore, quello vero, il mio medico di base. A riposarmi. Facendogli scrivere una mia sentenza, sotto dettatura. A mano.
Carta canta, giudicante dorme.
Il voto ai diciottenni per il Senato: una modifica inevitabile in attesa del Parlamento che verrà
di Corrado Caruso*
1. Lo scorso 8 luglio il Senato della Repubblica ha varato, in via definitiva, la modifica del primo comma dell’art. 58 Cost., eliminando l’inciso che conferiva il diritto di elettorato attivo ai maggiori di 25 anni. La riforma non tocca invece il comma secondo, che limita l’elettorato passivo ai cittadini ultraquarantenni. La legge di revisione costituzionale non ha raggiunto il quorum dei due/terzi: una volta pubblicata, a fini notiziali, sarà necessario attendere, per la sua entrata in vigore, lo spirare dei tre mesi previsi dall’art. 138 Cost., così da consentire l’eventuale iniziativa referendaria ivi prevista.
Dopo la riduzione del numero dei parlamentari, è stata portata a compimento un’ulteriore tappa del percorso di riforme istituzionali inaugurato in questa legislatura. Accomunate dall’abiura della “grande riforma”, che aveva caratterizzato i precedenti tentativi di revisione costituzionale, le attuali forze politiche (il M5S, partito di maggioranza relativa, e gli alleati che, dal 2018 ad oggi, si sono alternati alla guida della compagine di governo) hanno adottato una strategia puntinistica di riforma della Costituzione, da realizzare attraverso revisioni minimali ad oggetto limitato. Nelle intenzioni dei proponenti, simile tecnica sarebbe maggiormente rispettosa dell’art. 138 Cost. poiché consentirebbe all’opinione pubblica e al corpo elettorale di determinarsi consapevolmente circa le scelte compiute dal legislatore di revisione[1].
Quanto al metodo, come si è sostenuto altrove[2], simile strategia non convince: non solo perché, dal punto di vista formale, l’art. 138 Cost. nulla dice sull’estensione delle modifiche costituzionali (salvi, ovviamente, i principi fondamentali della Costituzione), ma soprattutto perché la frammentazione in una pluralità di singole proposte rischia di smarrire la finalità complessiva del disegno riformatore. Le manutenzioni della Costituzione devono essere sorrette, invece, da una «logica riformatrice» coordinata e univoca[3], da un unitario principio di revisione che consenta di cogliere obiettivi e finalità degli interventi unitariamente considerati. Non è possibile avallare una lettura insulare delle proposte di revisione, quasi sia possibile delimitare il significato della singola modifica avulsa dal disegno complessivo. È vero invece l’opposto: il senso della modifica può cogliersi solo con una lettura sistematica e unitaria del pacchetto di riforme. Se contestualizzata, la singola proposta può colorarsi di nuove sfumature, obiettivizzando la propria ratio oltre l’intenzione soggettiva del legislatore storico. Si pensi alla riduzione del numero dei parlamentari: difficile sfuggire dalla sensazione che quella modifica, collocata in origine a fianco del rafforzamento degli istituti di democrazia diretta (come, ad esempio, l’iniziativa legislativa rafforzata) fosse ispirata da un disegno antiparlamentare[4]; letta insieme alla proposta di valorizzare la funzione legislativa della Camera dei deputati, con concentrazione, in capo al Parlamento in seduta comune, del rapporto fiduciario, la medesima innovazione può essere percepita alla stregua di un tentativo di razionalizzazione delle istituzioni rappresentative[5].
2. Nel merito, non vi è dubbio che l’equiparazione del diritto di elettorato attivo elimini una asimmetria figlia delle indecisioni del Costituente intorno alla composizione e al ruolo da attribuire alla seconda camera. Originariamente privo di funzioni di indirizzo politico[6], l’attuale Senato è frutto del compromesso tra le sinistre, monocameraliste e fautrici dell’elezione diretta, e il centro a trazione democristiana, volto a privilegiare una seconda camera di rappresentanza delle categorie produttive e delle autonomie regionali o comunque dotato di compiti “riflessivi”, di moderazione degli “ardori” della camera politica. Questa soluzione al ribasso (quanto meno rispetto alle aspirazioni dei protagonisti del processo costituente), conseguenza anche del deterioramento dei rapporti tra i partiti costituenti nel 1947, ha portato all’odierno bicameralismo “perfetto”, e cioè paritario (nessuna delle due camere prevale sull’altra) e indifferenziato (analoghe funzioni e simile composizione).
Le incertezze sul ruolo della seconda camera hanno lasciato diverse tracce in Costituzione: la rappresentanza degli interessi trova un’eco nel CNEL, organo ausiliario delle Camere, ove siedono i rappresentanti delle categorie produttive (art. 99 Cost.); la rappresentanza territoriale viene richiamata dal riparto dei seggi che, al Senato, avviene su «base regionale» (art. 57.1 Cost.); l’idea della camera “riflessiva”, volta a calmierare il confronto politico, trova conferma nella nomina presidenziale dei senatori a vita, personalità che hanno dato «lustro alla Patria per altissimi meriti nel campo sociale, artistico e letterario», e nell’originaria sfasatura della durata in carica di Camera e Senato (pari, rispettivamente, a cinque e sei anni, secondo una differenziazione poi uniformata dalla l. cost. n. 2 del 1963)[7].
Anche la differente modulazione dell’elettorato attivo si spiega con la necessità di innestare un elemento “riflessivo” nella rappresentanza politica, assegnando al Senato una sorta di funzione pedagogica rispetto alla camera bassa. Un compito che, a oltre settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, può dirsi diluito nella parificazione delle funzioni (legislativa, di indirizzo e controllo, di rappresentanza politica) svolte dalle due Camere. L’essenza del bicameralismo perfetto ha prevalso sulle tenui differenziazioni pure accolte dal testo costituzionale, tanto da spingere la Corte costituzionale, nella sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’Italicum, ad affermare che la «parità di posizione e funzioni delle due Camere elettive» impone un sistema elettorale idoneo a favorire, all’esito delle elezioni, «la formazione di maggioranze parlamentari omogenee»[8]. In un simile contesto, le ragioni che storicamente hanno supportato la limitazione dell’elettorato attivo sono andate offuscandosi, sino a smarrirsi del tutto dopo la revisione costituzionale che ha ridotto il numero dei senatori: è evidente, infatti, che simile diminuzione, accompagnata da una limitazione anagrafica del diritto di voto capace di escludere circa quattro milioni di cittadini dalla partecipazione elettorale[9], avrebbe provocato irragionevoli distorsioni in termini di rappresentatività del corpo elettorale.
Stupisce invece la scelta, compiuta dal legislatore di revisione, di non toccare il diritto di elettorato passivo, che il secondo comma dell’art. 58 Cost. riserva agli ultraquarantenni: allargata la partecipazione elettorale, il mantenimento di simile limitazione appare ingiustificata, quanto meno nella prospettiva dell’eguale composizione di Camera e Senato. Lo stesso andamento dei lavori preparatori, sul punto, non è stato lineare: alla Camera dei deputati, infatti, il Presidente della Commissione affari costituzionali, on. Brescia[10], ha giustificato il mancato intervento in tema di elettorato passivo per ragioni di etichetta, di rispetto istituzionale nei confronti del Senato (motivazioni che però non hanno evidentemente impedito ai deputati di dare avvio al procedimento di revisione del primo comma dell’art. 58 Cost.). Nel dibattito al Senato, il relatore, sen. Parrini, è addirittura tornato sui suoi passi rispetto all’articolato approvato in Commissione, che equiparava le due Camere anche nell’elettorato passivo, rilevando non meglio precisate riserve e contrarietà tra le forze politiche. L’Assemblea plenaria ha quindi votato un emendamento sostitutivo volto a circoscrivere la revisione al solo elettorato attivo, assimilando la formulazione normativa a quella voluta dalla Camera[11]. Non è da escludere che tale scelta sia motivata da ragioni di stretta convenienza elettorale degli incumbents, a maggior ragione a seguito della riduzione dei seggi: i senatori attualmente in carica potrebbero avere maggiori chances di rielezione proprio grazie alla persistenza del requisito anagrafico per l’elettorato passivo.
3. Al netto di simili perplessità, la riforma in esame si inserisce nella tendenza, da tempo perseguita dal legislatore, a ridurre le diversità strutturali delle due Camere nel nome di un bicameralismo “ancora più perfetto”: si pensi non solo alla già citata parificazione della durata dei due rami del Parlmento, risalente al 1963, ma anche all’identico meccanismo di trasformazione dei voti in seggi previsto dall’attuale sistema elettorale[12]. Simile tendenza dovrebbe essere portata a compimento tramite l’eliminazione della «base regionale» delle circoscrizioni elettorali del Senato (art. 57.1 Cost.)[13] e, appunto, con l’equiparazione del diritto di elettorato passivo. Con l’avvertenza, però, che quanto più si volge verso l’equiparazione della composizione dei due rami del Parlamento, tanto meno trova giustificazione l’esistenza di due camere eguali ma divise, incaricate di svolgere le medesime attività ma separate nella struttura e nel funzionamento. Non rimarrebbe allora che compiere un ulteriore passo in nome della funzionalità del sistema rappresentativo: valorizzare, a partire dal rapporto fiduciario per poi arrivare a tutte le funzioni di «maggiore rilievo costituzionale» (sessione di bilancio, di politica internazionale e comunitaria, conversione dei decreti-legge)[14], i compiti del Parlamento in seduta comune, trasformando il claudicante bicameralismo perfetto in un efficiente «monocameralismo temperato»[15]. Non bastano piccoli atti di maquillage istituzionale a migliorare il rendimento del circuito democratico-rappresentativo.
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna.
[1] Cfr. L. Spadacini, Prospettive di riforma costituzionale nella XVIII legislatura, in Astrid Rassegna, n. 13/2018.
[2] Cfr., se si vuole, C. Caruso, Il forum – In tema di riforme costituzionali in itinere, in Gruppo di Pisa. Dibattito aperto sul Diritto e la Giustizia costituzionale, 2019/02, pp. 218 e ss.
[3] In tal senso, v. C. Fusaro, Contributo scritto all'istruttoria legislativa relativa alle proposte di legge cost. nn. 726 Ceccanti e 1173 D'Uva recanti modifiche all'art. 71 Cost. in materia di iniziativa legislativa popolare, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/000/515/Memorie_prof._FUSARO.pdf.
[4] Cfr. M. Luciani, Audizione resa alla commissione affari costituzionali della camera dei deputati, 27 marzo 2019, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/001/370/2019.03.27-LUCIANI_-_Audizione_Riduzione_numero_parlamentari.pdf).
[5] Cfr. XVIII legislatura, A.S. n. 1960, Modifiche alla parte seconda della Costituzione concernenti le competenze delle Camere e del Parlamento in seduta comune, la composizione del Senato della Repubblica, il procedimento legislativo e i procedimenti di fiducia e sfiducia, presentato pochi giorni dopo il referendum del settembre 2020 sul taglio dei parlamentari.
[6] Cfr. artt. 87 e 88 del Progetto di Costituzione deliberato dalla Commissione dei 75.
[7] Un indizio di una ulteriore differenziazione, di oggi si è persa traccia, può rinvenirsi nell’approvazione il 7 ottobre 1947, in Costituente, dell’odg. Nitti, in virtù del quale la Camera avrebbe dovuto essere eletta con il sistema elettorale proporzionale, mentre il Senato con i collegi uninominali. L’odg. venne superato dalla legge pseudo-uninominale del 1948 (l. n. 29/1948), che individuò una soglia molto alta, pressoché irraggiungibile, per la conquista del Collegio (65% dei voti validi). Riferimenti in A. Barbera, La nuova legge elettorale e la «forma di governo» parlamentare, in Quad. cost., 2015, p. 663.
[8] Corte cost., sent. n. 35 del 2017, cons. dir. 15.2. Sottolinea tale aspetto anche N. Lupo, Il “mezzo voto” ai cittadini più giovani: un’anomalia da superare quanto prima, in Osservatorio AIC, 2019, p. 74.
[9] Cfr. il dossier del 21 ottobre 2019 del Servizio studi del Senato e della Camera intitolato Note sull’A.S. n. 1440 modificativo dell’articolo 58 della Costituzione approvato dalla Camera dei deputati in prima deliberazione, p. 6, reperibile all’indirizzo https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01124873.pdf.
[10] Resoconto stenografico dell'Assemblea Seduta n. 219 di mercoledì 31 luglio 2019.
[11] Cfr. Senato, seduta del 9 settembre 2020.
[12] Cfr. l. n. 165 del 2017, cd. Rosatellum.
[13] Come nella proposta deposita alla Camera, XVIII legislatura, A.C. 2238. Il ddl di revisione mira a ridurre a due il numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica, per riequilibrare la riduzione della componente parlamentare nel collegio elettorale chiamato a designare il Capo dello Stato.
[14] Così E. Cheli, Editoriale. Dopo il referendum costituzionale. Quale futuro per il nostro Parlamento?, in Quad. cost., 2020, 699.
[15] A. Manzella, Elogio dell’Assemblea, tuttavia, Modena, 2020, p. 30.
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