ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le misure deflattive per la tregua/pace fiscale a confronto: alla scoperta di “quello che c’è” e di “quello che non c’è” nella legge rispetto ai traguardi ed obiettivi del PNRR
di Paola Coppola
Sommario: 1. Premessa - 2. La definizione delle liti tributarie pendenti in Cassazione ex art. 5, l. n. 130/2022 – 3. La definizione delle liti in ogni grado di giudizio, compresa la Cassazione ed il giudizio di rinvio ex art. 1, l. n. 197/2022 (commi 186-204) - 4. Le controversie definibili ed il costo della definizione (commi 186-204) - 5. Il perfezionamento della definizione e l’estinzione del processo (commi 194-203): l’urgenza di un correttivo - 6. La questione degli effetti della definizione sugli altri coobbligati (comma 202) - 7. Gli altri istituti deflattivi di liti pendenti: I) La conciliazione agevolata delle controversie pendenti nelle corti di merito (commi 206- 212); II) La rinuncia alla causa pendente in Cassazione (commi 213 -218) - 8. La rottamazione-quater dei debiti iscritti a ruolo (commi 231- 252) - 9. I casi dubbi e le variabili di confronto tra le misure alternative: A. Gli atti definibili: il contrasto con la relazione illustrativa - B. Il ricorso/reclamo ex art. 17 bis, d.lgs. 546/92 iscritto (e non solo notificato) al 1gennaio 2023 (comma 187) - C. Liti instaurate con “ricorsi inammissibili” secondo le Corti di merito - D. Le controversie sui carichi impugnati attraverso il veicolo dell’estratto di ruolo - E. Le liti su risorse proprie tradizionali UE e sull’Iva all’importazione - F. Il raffronto tra la definizione delle liti pendenti (commi 186-204) e quella delle liti pendenti solo in Cassazione (art. 5, l. 130/2022) - G. Le controversie relative esclusivamente alle sanzioni collegate o non collegate al tributo (comma 191) - H. I casi di riassunzione nel giudizio di rinvio pendenti o decisi al 1gennaio 2023 - 10. Gli altri casi critici: i benefici penali collegati alle definizioni del tributo - 11. Il “test di convenienza” tra le varie definizioni e la rottamazione-quater - 12. Conclusioni.
1. Premessa
1.1. Prima di entrare nel merito delle misure deflattive vigenti è opportuno accennare alla ragione politica per cui si è scelto di operare, di recente, in questa direzione.
La risposta, come noto, sta nei traguardi del PNRR in tema di riforma della giustizia che andranno raggiunti nei tempi concordati con la Commissione UE, ed in specie, per ciò che riguarda la materia tributaria, nel milestone M1C1-35 secondo il quale: “La riforma del quadro giuridico deve avere l'obiettivo di rendere più efficace l'applicazione della legislazione tributaria e ridurre l'elevato numero di ricorsi alla Corte di Cassazione”; obiettivo collegato a quello della riduzione della durata complessiva dei gradi di giudizio, il disposition time, di almeno il 40% nel civile e del 25% nel penale entro il 30 giugno 2026. Come scenario, persiste la situazione di incaglio strutturale dei crediti erariali di oltre 1.000 miliardi in carico all’Agenzia Entrate Riscossione per i ruoli formati dal 1.1.2000 (erano 1.058 anche nel 2015) a fronte dei quali la percentuale di incasso stimata, già attraverso le precedenti rottamazioni/stralci, come confermato dalle previsioni dei vertici del MEF, è sempre stata irrisoria (c.a 50 miliardi) rispetto alla parte residua ritenuta non facilmente recuperabile per molte ragioni (soggetti falliti, imprese cessate, soggetti deceduti, carichi prescritti, carichi sospesi in via giudiziale, ecc.). Occorre allora chiedersi se gli interventi stabiliti, dapprima con l’art. 5 della l. n. 130/2022 con specifico riferimento all’arretrato pendente in Cassazione e di poi, con le plurime misure approvate con la legge di Bilancio 2023 per garantire (di nuovo) la “tregua/pace fiscale, smaltire l’arretrato, velocizzare i processi, eliminare i crediti incagliati presso l’ADER” potranno dimostrarsi efficaci ed idonei al raggiungimento degli obiettivi sperati.
In questo scritto, limitando l’indagine alla definizione delle liti pendenti con cenni alle misure alternative che impattano sui giudizi di merito e/o di legittimità emergerà, ci si augura, “quello che c’è” nella legge con l’esame delle principali regole di riferimento, ma anche “quello che non c’è”, ovvero, l'attenzione che dovrebbe prestare ogni legislatore alla “qualità del ciclo della regolazione” (legal drafting); aspetto che, al contrario, ove fosse efficacemente coltivato, porterebbe all’emanazione di norme chiare, univoche, coerenti quale conditio sine qua non per la successiva corretta loro applicazione, per assicurare il bisogno di una giustizia efficiente e valorizzare, al tempo, la funzione nomofilattica della Suprema Corte volta a garantire l’uniformità nell’interpretazione del diritto.
1.2. La prima difficoltà che si incontra nel valutare l’opportunità di ricorrere o meno alle varie misure, a ben vedere, sta nel “trovarle”, visto che la l. n. 197/2022, approvata con voto di fiducia, non contiene la ripartizione delle norme in articoli e titoli, come proposti nel testo del ddl (38-48), ma solo la declinazione dell’art. 1 ad esse dedicato in una lunga serie di commi (903), rendendo ardua e confusa l'individuazione di quelle da applicare e mettere a confronto, anche per il continuo rinvio, anche in via alternativa, ai commi precedenti o successivi.
La seconda, è quella di illustrare, con un certo grado di sistematicità, la “convenienza” a definire la lite pendente in ogni stato e grado, compreso quello di legittimità, anche a seguito di rinvio, ex art. 1, l. n. 197/2022 (commi 186-204), rispetto alla definizione delle sole liti pendenti in Cassazione prevista dall’art. 5, della l. n. 130/2022, in parte coeva, con regole simili, ma non identiche e, quindi, non sovrapponibili (né coordinate), rispetto alle possibilità, ancora alternative, della conciliazione agevolata della causa nei gradi di merito (commi 206-212), o della rinuncia della lite in Cassazione (commi 213-218).
La terza, sta nel fatto che il costo per la definizione e/o sconto di tributi, sanzioni ed accessori varia in ragione di una serie di circostanze/situazioni processuali che non dipendono da fatti oggettivi, univoci o imparziali, ma dal “caso fortuito”, ovvero da “quando” e/o “in che termini”, rispetto alla data di entrata in vigore della (rispettiva) legge (16.9.2022, per la l. n. 130/2022; 1.1.2023, per la n. 197/2022), ha agito il singolo contribuente, il singolo Ufficio, la singola Corte tributaria o la Corte di cassazione.
Il quantum cambia, infatti, anche sensibilmente, a seconda dall’avvenuta o meno notifica e/o il deposito del ricorso o della sentenza di primo o secondo grado, a quella data e, quindi, dipende dalla tempestività o meno del contribuente o degli uffici ad aver proposto le impugnazioni; dall’entità della lite e del grado di soccombenza dell’Agenzia o del contribuente; dalla disponibilità/operatività o meno degli uffici, in via alternativa, a conciliare o rinunciare alla lite; dal diniego o meno alla definizione da parte dell’Agenzia; dal pagamento o meno delle somme dovute in via provvisoria, e così via.
Il tutto fermo l’avvenuto o meno affidamento in carico, o iscrizione a ruolo dei tributi accertati, anche in via provvisoria (dal 1.1.2000 al 30.6.2022), per valutare, in alternativa, la convenienza alla rottamazione-quater dei carichi affidati/iscritti a ruolo (commi 231-252) e chiudere anche l’eventuale lite in corso, se sfavorevole, a parità di costo (100% del tributo, senza sanzioni ed interessi, in entrambi i casi), tenendo conto del fatto che le somme pagate nelle more dal contribuente all’Agenzia fiscale (e non all’Agente della Riscossione) a titolo di tributo, sanzioni ed interessi (eccetto, quindi, gli aggi, le spese per le procedure esecutive e costo della notifica) si scomputano, fino a concorrenza, in via integrale nella definizione della lite fiscale pendente (comma 196), o nella conciliazione agevolata (commi 206-212); non vengono restituiti nel caso di rinuncia della lite in cassazione (comma 216); si scomputano, ma limitatamente alla sorte capitale, unitamente alle sole spese per procedure esecutive e costo della notifica, nella rottamazione-quater (comma 238). Insomma, un vero rompicapo.
2. La definizione delle liti tributarie pendenti in Cassazione ex art. 5, L. 130/2022
2.1. Si tratta della misura introdotta con il precipuo obiettivo di smaltire l’arretrato dei 50.000 ricorsi pendenti presso la Suprema Corte. La definizione ha interessato, come noto, le sole controversie pendenti in Cassazione al 16.9.2022, ex art. 5, l. n. 130/2022:
a) per cause di valore fino a 100 mila euro in cui l’Agenzia delle Entrate è risultata integralmente soccombente in entrambi i gradi di merito, con il pagamento del 5% del valore della controversia (comma 1);
b) per cause di valore fino a 50 mila euro, in cui l’Agenzia delle Entrate è risultata soccombente “in tutto o in parte” in uno dei gradi di merito, con il pagamento del 20% del valore della controversia (comma 2).
Non è stata prevista la definizione della lite pendente, pur nei limiti di valore di 100 mila euro, ove a soccombere in entrambi i gradi di giudizio fosse stato il contribuente, in tal modo andando a determinare un ingiustificabile “vantaggio per l’Agenzia”, passibile anche di una probabile incostituzionalità della misura rispetto ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, nei casi di doppia conforme sfavorevole tra la AE (ammessa) ed il contribuente (esclusa)[1].
Dalla sanatoria ex cit. art. 5 sono state escluse, come disposto anche nelle precedenti “edizioni” per il divieto di misure condonistiche su tributi previsti dell’ordinamento europeo, le controversie su risorse proprie tradizionali UE, l'Iva riscossa all'importazione, le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato (comma 6) pur lasciando aperti taluni aspetti controversi (su cui infra).
Per stabilire il valore della lite definibile, ex commi 1 e 2 dell’art. 5, si è previsto di ricorrere al valore determinabile “ai sensi dell’art. 16, comma 3, l. n. 289/2002”, e quindi, a quello dell'imposta oggetto di contestazione in primo grado, al netto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento. Per le controversie relative alle sole sanzioni non collegate al tributo, il valore della controversia, secondo il cit. art. 16, comma 3, lett. c), l. 289/2002 è pari al totale delle sanzioni irrogate.
Sul punto valga subito osservare che, come ha indicato la stessa Agenzia delle Entrate con riferimento a precedenti edizioni della misura (circ. n. 6/E/2019 sull’art. 6, d.l. n. 119/2018) non prevedendo il cit. art. 5 una regola ad hoc per definire le liti sulle sole sanzioni non collegate al tributo, se pendenti in Cassazione (al 16.9.2023), il rinvio operato dai commi 1 e 2 dell’art. 5 all’art. 16, comma 3, l. 289/2002 e, quindi, anche alla lett. c) del medesimo articolo, ha consentito la definizione agevolata di dette sanzioni (non collegate al tributo) con il pagamento del 5% nei casi di doppia soccombenza dell’Agenzia, e del 20% nei casi di soccombenza dell’Agenzia (in tutto o in parte) in uno dei gradi di merito.
La situazione cambia, pur se la condizione processuale sottesa è la medesima, con la l. n. 197/2022 che disciplina il caso della definizione della lite pendente esclusivamente sulle sanzioni non collegate il tributo con una regola specifica (comma 191), ovvero con il pagamento del 15% - nel caso di soccombenza dell’Agenzia nell’ultima o unica pronuncia non cautelare depositata al 1.1.2023 - e “del 40% negli altri casi” compresi, quindi, quelli in cui a soccombere è stata l’Agenzia in entrambi i gradi di merito (su cui infra). Chi “ha colto” la differenza in tempo utile, ha potuto definire la lite sulle sole sanzioni non collegate al tributo ex art. 5, l. n. 130/2022, se pendente in Cassazione al 16.9.2022 - oltre che al 1.1.2023 - con il 5% (in caso di doppia conforme sfavorevole per l’Agenzia) presentando domanda e pagando il dovuto entro il 16.1.2023. Chi non “ha colto” la differenza, potrà definire la lite ex art. 1, comma 191, l. n. 197/2022 pur trovandosi nella (medesima) situazione di soccombenza per doppia conforme dell’Agenzia, pagando il 15%. Una prima disparità di trattamento dovuta al mancato coordinamento delle norme di riferimento.
2.2. Ai sensi dell’art. 5 in commento, le parti hanno potuto definire le controversie per le quali il ricorso per cassazione è stato notificato alla controparte entro il 16 settembre 2022, purché alla data della presentazione della domanda e, quindi, entro il termine del 16 gennaio 2023, non era intervenuta una sentenza definitiva. La causa si è potuta perfezionare con il pagamento delle percentuali supra indicate della lite (originaria), in via integrale (non rateale), entro il 16.1.2023, oppure a zero, con la sola presentazione della domanda in virtù dello scomputo ammesso, fino a concorrenza, “delle somme versate a qualunque titolo nel corso del giudizio”, ma senza aver diritto alla restituzione dell’eccedenza (comma 9).
Altro punto critico, già segnalato in dottrina, è la disparità di trattamento tra chi ha pagato ciò che doveva e che perde il diritto alla restituzione, e chi non ha pagato e che quindi deve versare solo il 100% del tributo senza subir alcun pregiudizio, che si amplifica ove il mancato rimborso dell’eccedenza derivi dal fatto che l’Amministrazione non abbia restituito quanto doveva dopo la sentenza di appello, in tutto o in parte favorevole al contribuente. Sul punto quella stessa dottrina osserva che questo problema si sarebbe potuto superare solo “riportandosi” all’art. 16, comma 5, l. n. 289/2002 che faceva salvi (almeno) i “casi di soccombenza dell’amministrazione finanziaria dello Stato” (nonché all’art. 39, comma 12, d.l. n. 98/2011)[2].
2.3. Si noti ancora che, come disposto nelle altre edizioni della misura, gli effetti della definizione perfezionata prevalgono su quelli delle eventuali pronunce giurisdizionali non passate in giudicato prima del 16 settembre 2022 (comma 9)[3]. La definizione perfezionata dal coobbligato (comma 13), come del pari già stabilito in precedenza “giova in favore degli altri, inclusi quelli per i quali la controversia non sia più pendente, fatte salve le disposizioni del secondo periodo del comma 8”[4].
Se si legge detto secondo periodo del comma 8 si legge, tuttavia, che: “per controversia autonoma si intende quella relativa ad ogni atto impugnato”; regola che va applicata per ogni lite definibile per cui, alla luce del comb. disposto del comma 13 e comma 8 si dovrebbe ritenere che la definizione perfezionata da un coobbligato giovi agli altri, fatto salvo il caso in cui questi siano coinvolti in una controversia autonoma perché hanno impugnato in proprio l’atto loro notificato. Ma così non è.
La verità è che si tratta di un “refuso”- già presente all’art. 6, comma 14, del d.l n. 119/2018 per errore nella tecnica di rinvio (al comma 8, anziché al comma 9) - che ora anche il comma 13 dell’art. 5 replica, per il medesimo rinvio operato (nuovamente) al comma 8, anziché al comma 9 di detto art. 5 ai sensi del quale: “gli effetti della definizione perfezionata prevalgono su quelli delle eventuali pronunce giurisdizionali non passate in giudicato anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge” (ovvero al 16 settembre 2022); refuso peraltro “corretto” in passato dalla stessa Agenzia delle Entrate nella circolare n. 6/E/2019 (par. 7.1.1), come segnalato in dottrina[5] . La stessa formula che riguarda i coobbligati posta all’art. 5, comma 13 è stata riproposta, perlatro, al comma 202 dell’art. 1, l. n. 197/2022 (senza refuso), ma resta sempre criptica ed involuta per le ragioni che verranno di seguito illustrate.
2.4. In definitiva, la chiusura delle liti pendenti in Cassazione ex art. 5, l. n. 130/2022, per come è stata costruita, è apparsa sin da subito poco appetibile e certamente squilibrata “a favore dell’Agenzia”, sia per l’ingiustificabile esclusione del contribuente soccombente in entrambi i gradi di merito, che per la penalizzazione dovuta al calcolo delle percentuali stabilite dalla legge (5%, 20%) sul valore originario dell’accertato (e non del deciso)[6].
A dire il vero, l’unica appetibilità/opportunità per il contribuente “è emersa” solo dopo l’approvazione della l. n. 197/2022 con riguardo al caso di liti pendenti in Cassazione già al 16.9.2022 - ed ancora tali al 1.1.2023 - se rientranti nei limiti di valore di 100 mila – riferite esclusivamente alle sanzioni non collegate al tributo nei casi di doppia soccombenza dell’Agenzia nei gradi di merito, definibili con il 5% in luogo del 15%, come supra osservato.
Lo stesso accade nei casi di liti pendenti in Cassazione, nei limiti di valore di 50 mila, al 16.9.2022 - ed ancora tali al 1.1.2023 - nel caso di soccombenza (in tutto o in parte) dell’Agenzia in primo grado (e non anche nel secondo). In questo caso, il contribuente (vittorioso solo in primo grado, in tutto o in parte) ha potuto definire la lite pendente ex art. 5 L. 130/2022 con il pagamento del 20% del tributo originario controverso, e non del 100% del valore della lite (soccombenza integrale in II grado), come invece è tenuto a fare ex l. n. 197/2022, commi 188 e 189 (su cui infra). Ferma, in ogni caso, l’opportunità per il contribuente di definire la lite, sia con la prima che la seconda legge, per arginare i problemi legati alla riscossione provvisoria o coattiva subita o in corso, di fronte all’incertezza legata ai lunghi tempi del processo ed ai rischi dell’esito della lite in sede di legittimità (per il carico pregresso).
3. La definizione delle liti in ogni grado di giudizio, compresa la cassazione ed il giudizio di rinvio ex art. 1, l. n. 197/2022 (commi 186-204)
3.1. È questa una delle misure di maggior appeal della Manovra 2023.
La definizione presenta alcuni aspetti di novità rispetto alle precedenti, ma si connota per taluni profili critici che potrebbero pregiudicarne gli effetti sperati, se non o tempestivamente affrontati e risolti.
Ebbene, senza sforzarsi di trovare un senso alla giustificazione per cui la misura risponderebbe, come le precedenti, all’obiettivo di garantire la “pace/tregua fiscale” al contribuente - come se il rapporto con il Fisco dovesse ritenersi, di norma, di tipo bellico - certo è che ci troviamo di fronte ad un (ennesimo) condono delle liti fiscali pendenti pur se nei limiti massimi possibili, dopo l’ intervento in materia della Corte di Giustizia chiamata ad esprimersi sulla compatibilità della risalente l. n. 289/2002 con la direttiva IVA (sentenza 17 luglio 2008, C-132/Commissione c. Italia). La sentenza, come noto, ha definitivamente escluso la possibilità che si disponga per legge interna la rinuncia ad una parte del debito effettivamente dovuto dal contribuente con il versamento di una somma forfettaria, in luogo di un importo proporzionale.
Vediamo le regole in dettaglio (quello che c’è) per poi esaminare le criticità e gli aspetti che avrebbero richiesto e richiedono correttivi e/o norme di coordinamento (quello che non c’è) per conseguire gli obiettivi sperati.
4. Le controversie definibili ed il costo della definizione (commi 186-205)
4.1. Sono definibili (comma 186):“Le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l'Agenzia delle entrate, ovvero l'Agenzia delle dogane e dei monopoli, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello innanzi alla Corte di cassazione, anche a seguito di rinvio, alla data di entrata in vigore della presente legge (1 gennaio 2023), a domanda del soggetto che ha proposto l'atto introduttivo del giudizio o di chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione, con il pagamento di un importo pari al valore della controversia. Il valore della controversia è stabilito ai sensi del comma 2 dell'articolo 12 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”.
Come noto, in sede di approvazione della legge è stata aggiunta la possibilità di definire le liti pendenti in cui è parte “l’Agenzia delle dogane” a quelle in cui “è parte l’Agenzia delle Entrate” (come previsto nel ddl), con la conseguenza che restano escluse dalla definizione le liti proposte esclusivamente contro l’Agenzia delle entrate riscossione (d’ora, ADER)[7], ma non anche quelle proposte contro l’ADER e contro l’Agenzia (Entrate o Dogane), né quelle che hanno visto l’intervento volontario dell’Agenzia (Entrate o Dogane) o per chiamata del Giudice.
Il valore della lite definibile è pari al valore della controversia allo stato in cui si trova la causa, giusto rinvio del comma 186, questa volta, “all’art. 12, comma 2, D.lgs. 546/92”, diversamente dal parametro del valore originario dell’atto impugnato che scatta in virtù del rinvio operato dall’art. 5, commi 1 e 2, l. n. 130/2022 all’art. 16, comma 3, L. 289/2002.
Ne segue, per confronto, una maggiore convenienza alla definizione con la seconda misura (l. n. 197/2022) rispetto alla prima (l. n. 130/2022), se la lite è pendente in Cassazione al 1.1.2023 - ed ancora tale al 16.9.2022 - pur a parità di percentuale di definizione (5%), se nel corso del processo si sono verificate riduzioni del valore della controversia originaria, per eventuali acquiescenze, conciliazioni, autotutele parziali.
Coordinando le altre disposizioni di interesse ai commi 186-204, la definizione si applica (comma 192) “alle controversie in cui il ricorso in primo grado è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore della presente legge e per le quali alla data della presentazione della domanda di cui al comma 186 ovvero entro il 30 giugno 2023 - il processo non si sia concluso con pronuncia definitiva”.
Sono escluse dalla definizione agevolata (comma 193), anche qui, le controversie concernenti anche solo in parte:
a) le risorse proprie tradizionali previste dall'articolo 2, paragrafo 1, lettera a), delle decisioni 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, e 2020/2053/UE, Euratom del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l'imposta sul valore aggiunto riscossa all'importazione;
b) le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato ai sensi dell'articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015.
Quanto alle liti sui tributi locali, la definizione potrà avvenire se gli Enti decideranno o meno di deliberare l'applicazione “delle disposizioni dei commi 186-204” alle controversie tributarie in cui è parte “il medesimo ente o un suo ente strumentale” entro il 31 marzo 2023 (comma 205)[8].
Le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al Giudice, dichiarando di volersi avvalere della definizione agevolata. In tal caso il processo è sospeso fino al 10 luglio 2023, ed entro la stessa data il contribuente ha l'onere di depositare, presso l'organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia, copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata (comma 197). Se ciò avviene, e questa è una novità rispetto a tutte le precedenti versioni (su cui infra), “il processo è dichiarato estinto con decreto del presidente della sezione, o con ordinanza in camera di consiglio se è stata fissata la data della decisione” (comma 198). Per le controversie definibili sono sospesi, inoltre, in via automatica, di nove mesi i termini di impugnazione, anche incidentale, delle sentenze giurisdizionali e di riassunzione, nonché per la predisposizione del controricorso in cassazione che scadono tra il 1.1.2023 ed il 31.7.2023 (comma 199).
4.2. Ne segue, anche qui coordinando le norme, che non sono sospesi di nove mesi, in via automatica i termini di impugnazione delle sentenze che riguardano i tributi locali, ma che detta sospensione potrà operare, su richiesta degli interessati alle varie Corti di riferimento ed in Cassazione, con un termine “mobile” a seconda che - e via via che - i vari Enti decideranno di effettuare la scelta e pubblicheranno le loro delibere[9].
La sospensione legale riguarda, inoltre, le impugnazioni delle pronunce, escludendo cioè i termini per la proposizione dei ricorsi (di 60 gg. o al più di 150 gg. in caso di presentazione dell’istanza di adesione) e delle relative costituzioni in giudizio[10].
Si aggiunga che, nell’ipotesi di controversia pendente nei gradi di merito non sarebbe necessario, in linea di principio, chiedere la sospensione del processo (entro il 10.7.2023) come indicato dal comma 197, visto che per effetto della sospensione automatica di nove mesi dei termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione, o per la proposizione del controricorso in Cassazione che scadono tra il 1 gennaio 2023 e il 31 luglio 2023 (comma 199), la sentenza (primo o secondo grado) non potrà mai diventare definitiva e, quindi, non potrà precludere la definizione. La richiesta di sospensione del processo, corredata dalla domanda e dal pagamento del totale o della prima rata nei termini supra indicati è invece necessaria (ed urgente) nei giudizi in Cassazione pendenti, ed ancor più di quelli in cui l’udienza c’è stata e si è in attesa della definizione, visto che l'eventuale rigetto del ricorso presentato dal contribuente, oppure l'accoglimento, anche nel merito, senza rinvio, del ricorso presentato dall’Avvocatura, per conto dell’Agenzia (Entrate/Dogane), determinerebbe la definitività della sentenza impugnata e, quindi, l’impossibilità della definizione. Ad oggi, sono stati resi disponibili il modello, e le istruzioni (1 febbraio 2023), ma non ancora i codici tributo per provvedere[11].
Per ciò che rileva, l’effetto della sospensione legale - inevitabile per ogni caso di lite definibile - allungherà i tempi di processi in corso, ingolfando anche l’attività delle Corti di merito (anche per le richieste di sospensione del processo), rendendo sicuramente più difficile l’obiettivo della riduzione/smaltimento dei giudizi pendenti ed il raggiungimento del disposition time (entro il 30 giugno 2026).
4.3. La definizione comporta il pagamento di importi percentuali variabili in ragione del valore della lite e del grado di soccombenza dell’Agenzia (Entrate/Dogane) o del contribuente, come stabiliti dai commi da 186 a 191. In specie si è tenuti al pagamento:
i) del 100% del tributo, se a soccombere nei gradi di merito secondo l’ultima sentenza resa, o in entrambi i gradi è stato il contribuente, senza sanzioni ed interessi (comma 186);
ii) del 40% se a soccombere è stata l’Agenzia nel primo grado (comma 188, lett. a),
iii) del 15% se a soccombere è stata l’Agenzia nel secondo grado (comma 186, lett. b);
iv) del 90% del valore della controversia, in caso di ricorso pendente e iscritto nel primo grado (comma 197);
v) del 5% del valore della controversia, per le liti pendenti innanzi alla Corte di cassazione, per le quali a soccombere per doppia conforme è stata l’Agenzia fiscale (Entrate/Dogane) nei precedenti gradi di giudizio (comma 190); misura “simile” ma non identica, quindi, a quella prevista dall’art. 5, l. n.130/2022.
In caso di soccombenza parziale (comma 189), è dovuta, invece, l’imposta al 100% sulla parte sfavorevole al contribuente (ovvero, quella confermata) e la corrispondente percentuale (40%, 15%) sulla parte favorevole e, quindi, annullata dalle Corti del merito a seconda del grado dell’ultima pronuncia depositata al 1gennaio 2023, ex commi 186 e 188.
4.4. Per le controversie esclusivamente relative alle sanzioni occorre operare, invece, dapprima un non facile “distinguo” tra quelle riferite a sanzioni non collegate al tributo e quelle riferite a sanzioni collegate al tributo controverso (comma 191).
Al riguardo, potranno soccorrere i precedenti di legittimità secondo cui il collegamento sussiste se la violazione sanzionabile ha inciso sulla determinazione dell’imponibile ovvero dell’imposta (sent. nn. 4960/2017, 27211/2014, 23352/2017, 14275/2020)[12].
Una volta distinto il caso, accade che:
a) per le liti sulle sanzioni non collegate al tributo, la definizione avviene con il pagamento del 15% del valore della controversia in caso di soccombenza dell’Agenzia fiscale, nell'ultima o unica pronuncia giurisdizionale non cautelare, sul merito o sull'ammissibilità dell'atto introduttivo del giudizio, depositata al 1 gennaio 2023, e con il pagamento del 40 % “negli altri casi”, compreso, quindi, quello di lite sulle sole sanzioni pendenti in Cassazione al 1.1.2023 nei casi di soccombenza dell’Agenzia in entrambi i gradi di merito (e non con il 5% applicabile se si è presentata “in tempo utile”, domanda di definizione ex art. 5, L. 130/2022 se la lite era pendente già al 16.9.2022 pagando il dovuto entro il 16.1.2023).
b) per le liti sulle sanzioni collegate al tributo, non è dovuto invece alcun importo qualora il rapporto relativo ai tributi “sia stato definito anche con modalità diverse dalla presente definizione agevolata” e, quindi, purché il tributo cui è collegata la sanzione è stato pagato.
Nel caso in cui, invece, non si è definito il rapporto relativo al tributo controverso, la legge nulla dispone per la definizione delle sanzioni (collegate). Secondo la circolare 2 del 27 gennaio 2023 dell’AE, come già espresso per le altre edizioni (circ. 6/2019) - pur in presenza del (medesimo) vuoto normativo - in caso di mancata definizione dell’importo concernente i tributi, le liti vertenti esclusivamente sulle sanzioni collegate ai tributi cui si riferiscono “sono definibili sulla base degli importi desumibili dai commi da 186 a 190” e, quindi, con le percentuali del 90, 40, 15 o 5 per cento a seconda dei casi previsti (su cui infra).
5. Il perfezionamento della definizione e l’estinzione del processo (commi 194-201): l’urgenza di un correttivo
5.1. La definizione agevolata si perfeziona ai sensi del comma 194, con la presentazione della domanda, autonoma per ogni controversia definibile (comma 195), da parte del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo di giudizio o da chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione, ad esempio a titolo di successione universale o particolare, ex articoli 110 e 111 c.p.c. ed il pagamento degli importi dovuti “ai sensi dei commi da 186 a 191” entro il 30 giugno 2023, in unica soluzione, oppure se si superano i 1.000 euro, con il pagamento della prima rata del numero massimo di 20 rate trimestrali, ma con l’applicazione degli interessi legali, passati dal 1 gennaio 2023 al 5%[13], nonché l’applicazione, in quanto compatibili, delle disposizioni “dell'art. 8 del D.lgs. 19 giugno 1997, n. 218”[14].
Dagli importi dovuti (comma 196) “si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio. La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione stessa. Gli effetti della definizione perfezionata prevalgono su quelli delle eventuali pronunce giurisdizionali non passate in giudicato anteriormente all’entrata in vigore della presente legge”.
Di conseguenza, una volta individuato lo stato della controversia ed il valore della lite su cui applicare la percentuale stabilita dalla legge, dall’importo lordo calcolato, il contribuente, o altro legittimato, potrà scomputare, fino a concorrenza, tutte le somme pagate a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio all’Agenzia (Entrate o Dogane) e, quindi, anche quelle pagate in via provvisoria a titolo di tributo, sanzioni, interessi, mentre non potrà scomputare gli aggi e spese delle procedure esecutive e costo della notifica che sono di spettanza dell’ADER. È esclusa la compensazione prevista dall'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (comma 194). Nell’ipotesi in cui il totale sia già stato già integralmente versato, la definizione potrà essere perfezionata a zero, con la presentazione della sola domanda.
5.2. Come si diceva, se si definisce la lite non si ha diritto alla restituzione delle somme versate, né al rimborso dell’eccedenza (comma 196). Si è già segnalata l’irragionevolezza e disparità di trattamento rispetto a quanto previsto nelle precedenti versioni che facevano salvi e, quindi, ammettevano la restituzione dell’eccedenza nei casi di soccombenza dell’amministrazione finanziaria dello Stato (art. 16, comma 5, L. n. 289/2002 e l’art. 39, comma 12, D.L. n. 98/2011).
È qui il caso di sottolineare che, secondo altri precedenti dell’Agenzia non andrebbero scomputate dal dovuto le somme versate per l’acquiescenza delle sanzioni prima dell’impugnazione dell’atto ex art. 17, d.lgs. 472/97.
Sul punto nulla indica la recente circolare dell’Agenzia n. 2 del 27 gennaio 2023.
Tuttavia, di contrario avviso è la Suprema Corte che, con la recente sentenza del 25 gennaio 2023, n. 2378 ha ammesso lo scomputo dal dovuto, fino a concorrenza, anche delle sanzioni pagate nella misura di 1/3 per prestare acquiescenza alle sanzioni, affrontando il caso dell’analoga previsione contenuta all’art. 6, comma 9, d.l. n. 119/2018 dando prevalenza ai criteri di equità e ragionevolezza. Ad avviso della Corte, il contribuente che avesse pagato - pur in quota ridotta - le sanzioni e non potesse tenerne conto nel calcolo del dovuto: “subirebbe un trattamento peggiore di chi non ha pagato nulla, poiché entrambi sarebbero tenuti a pagare la stessa somma. La conseguenza palesemente iniqua induce ad escludere l’opzione ermeneutica, dovendosi scegliere la soluzione interpretativa che sia conforme ai canoni costituzionali, nel caso di specie quelli dell’art. 53 e 97 della Carta, specificazioni puntuali del generale principio di eguaglianza - formale e sostanziale - di cui all’art. 3”[15].
Si spera, quindi, che l’Agenzia cambi indirizzo, e si allinei ai principi espressi in sede di legittimità.
5.3. Il processo in corso non è sospeso in via automatica. Il contribuente che intende avvalersi della definizione agevolata, come si diceva, può fare richiesta al Giudice della sospensione. In tal caso, il processo è sospeso fino al 10 luglio 2023, ed entro la stessa data il legittimato ha l’onere di depositare nel fascicolo, copia della domanda di definizione e del versamento del totale, o della prima rata che andrà effettuato entro il 30 giugno 2023 (comma 197). Se ciò avviene, “il processo è dichiarato estinto” con decreto del presidente della sezione, o con ordinanza in camera di consiglio, se è stata fissata la data della decisione e le spese del giudizio restano a carico della parte che le ha anticipate (comma 198).
Questa è una “novità” assoluta rispetto alle precedenti edizioni in cui l’estinzione del processo ha sempre seguito la verifica da parte del Giudice, in apposita udienza, del mancato diniego opposto dagli uffici e dei pagamenti sino ad allore eseguiti, mentre ora l’estinzione segue alla presentazione della domanda e del pagamento del totale o della sola prima rata da effettuarsi entro il 30.6.2023. La nuova regola è stata introdotta in sede di approvazione della legge allo scopo, evidentemente, di assicurare il raggiungimento dei traguardi ed obiettivi del PNRR.
Il fatto è che, pur dopo la novella, la legge continua a prevedere che l’eventuale diniego alla definizione agevolata può essere opposto dall’Agenzia (Entrate/Dogane) “entro il 31 luglio 2024” (comma 200, primo periodo) e, quindi, in linea teorica, il diniego può essere notificato anche dopo un anno dalla data in cui è stato dichiarato estinto il processo originario. Da notare che nell’analoga previsione dell’art. 5, l. n. 130/2022, l’Agenzia ha potuto opporre l’eventuale diniego (comma 11), ma entro (soli) 30 giorni dalla scadenza del termine per accedervi (ovvero entro il 16 febbraio 2023).
Il contribuente che riceve il diniego se intende contestarne le ragioni può impugnarlo (comma 200, secondo periodo) “entro 60 gg dalla notificazione dinanzi all'organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia. Nel caso in cui la definizione della controversia è richiesta in pendenza del termine per impugnare, la pronuncia giurisdizionale sottesa può essere impugnata dal contribuente, unitamente al diniego della definizione, entro 60 gg dalla notifica di quest'ultimo, ovvero dalla controparte nel medesimo termine”. Per i processi già dichiarati estinti (comma 201), invece, “l’eventuale diniego alla definizione è motivo di revocazione del provvedimento di estinzione pronunciato, e la revocazione è richiesta congiuntamente all’impugnazione del diniego. Il termine per impugnare il diniego della definizione e per chiedere la revocazione è di 60 giorni dalla notificazione di cui al comma 200”.
5.4. Qui si impongono talune riflessioni.
La prima, è che ove il diniego dovesse essere opposto sugli atti definibili, oppure per errori nella quantificazione del dovuto nei casi di soccombenza reciproca, o nella determinazione del valore della controversia, la Suprema Corte o le Corti di merito dovranno affrontare le questioni (anche di fatto) proposte con il ricorso prodotto congiuntamente alla richiesta di revoca del provvedimento di estinzione. Il che potrà generare, già per queste ragioni, ritardi ed incagli rispetto alla chiusura delle liti pendenti e riduzione dei tempi del processo.
La seconda, la più rilevante, è che una volta dichiarata l’estinzione del processo (ex art. 391 c.p.c.)[16], in virtù del venir meno di tutte le sentenze, di rito e di merito emesse nel corso del processo, salve le parti delle pronunce che non sono state oggetto di impugnazione e che, quindi, sono passate in giudicato (Cass., sent. n. 6858/2016) l’atto impugnato “rivive” e diventa definitivo. Gli Uffici (ogni, o taluni), quindi, potrebbero mettere in riscossione e/o iniziare o continuare l’esecuzione dei carichi originari e, semmai ciò accadrà mentre il contribuente ha già pagato tutto o, comunque, ha pagato le altre rate (trimestrali) della definizione agevolata (perfezionata), su cui è pervenuto (anche dopo un anno dalla reviviscenza dell’atto originario) il diniego.
Ciò premesso, se dopo il perfezionamento della definizione (con la domanda ed il pagamento del totale o della prima rata entro il 30.6.2023), arriva il diniego dall’Agenzia entro il 31.7.2024 (comma 200, primo periodo), occorrerà verificare se il processo originario è ancora pendente, oppure se è stato dichiarato estinto.
Ed infatti:
a) nel caso in cui la definizione della lite è stata chiesta “in pendenza del termine per impugnare la sentenza sottesa”, il contribuente che intende contestare le ragioni di rigetto dell’agevolazione dell’Agenzia (ex comma 200, secondo periodo), può impugnare il diniego e può impugnare la sentenza che nelle more fosse stata depositata “entro la data di presentazione della domanda” (e, quindi, non oltre il 30 giugno 2023); e ciò, quindi, indipendentemente dalla situazione processuale esistente alla data del 1 gennaio 2023 (ex commi 186, e comma 188 per il ricorso di primo grado, se notificato) in base alla quale è stata definita la lite.
In tali casi la sentenza sottesa, ove depositata (pur se l’avvenuto deposito è irrilevante rispetto alla data del 1 gennaio 2023 ai fini del costo della definizione), andrà impugnata dinanzi la Corte presso la quale pende la controversia “entro 60 gg. dalla notifica del diniego”. Lo stesso diritto lo ha l’Agenzia che può impugnare la sentenza sottesa “nel medesimo termine” ovvero sempre “entro 60 gg. dalla notifica del diniego” (ex comma 200, secondo periodo), salvo a capire la decorrenza di questo termine a carico della “controparte” Agenzia) che non riceve la notifica del diniego, ma lo emette.
Resta, tuttavia, da coordinare questa regola con quella della proroga di 9 mesi che riguarda tutti i termini di impugnazione, anche incidentale, delle sentenze riferite alle controversie definibili che scadono tra il “1 gennaio 2023 e 31 luglio 2023” (comma 199) per chiedersi perché mai nella legge si è distinto il “caso” in cui la definizione della lite è stata chiesta (entro il 30 giugno) “in pendenza del termine per impugnare la sentenza sottesa” visto che non c’è “altro caso”, posto che tutte le sentenze sottese, se la lite era pendente (come doveva esserlo) al 1 gennaio 2023, sono e restano impugnabili “alla data della presentazione della domanda di definizione”(30.6.2023) per cui non possono essersi esauriti i termini ordinari di impugnazione; e ciò salvo il caso, già segnalato, di liti pendenti al 1 gennaio 2023 in Cassazione dove dovesse venire depositata la sentenza, senza rinvio, entro la data di presentazione della domanda di definizione (massimo, il 30 giugno 2023) per le quali sarebbe, tuttavia, precluso l’accesso alla definizione agevolata.
Di conseguenza il caso della impugnazione del diniego, che può arrivare entro il 31 luglio 2024, unitamente all’impugnazione della sentenza sottesa “il cui termine di impugnazione è pendente” all’atto della presentazione della domanda (e pagamento del dovuto totale o prima rata) riguarda, in realtà, tutte le liti (definibili), ovvero quelle introdotte con i ricorsi di primo grado, notificati al 1 gennaio 2023 e di poi depositati e pure decisi alla data della presentazione della domanda di definizione (entro il 30 giugno 2023) presso le Corti di merito più veloci; oppure quelli pendenti al 1 gennaio 2023 decisi in primo o secondo grado e finanche in Cassazione, ma con rinvio, con il deposito di una sentenza che al momento della richiesta di definizione (massimo entro il 30.6.2023) non è diventata definitiva e, quindi, continua ad essere pendente, anche per via dei 9 mesi di sospensione disposta per legge (comma 199).
Resta il fatto che una volta impugnato il diniego e, necessariamente, impugnata, ad opera del contribuente - o dell’Ufficio - anche la sentenza sottesa che è pendente (per forza di cose) “alla data di presentazione della domanda di definizione della lite” rinasce il giudizio sull’atto originario, e si incardina un nuovo giudizio sul diniego.
b) Nel caso di processo dichiarato estinto, l’atto originario è già “rivissuto”, e se dovesse arrivare di seguito anche il diniego (entro il 31.7.2024), l’impugnazione di detto diniego è “motivo di revocazione del provvedimento di estinzione” che andrà richiesta, congiuntamente, “nei 60 giorni dalla notifica” del diniego stesso (comma 201).
Ne segue che, dopo l’estinzione, una volta impugnato il diniego e chiesta la revoca del provvedimento di estinzione del processo (originario), non solo è diventato definitivo l’atto impugnato (pur a definizione perfezionata) ma “rinasce” anche il giudizio al grado dove era pendente la lite al momento in cui si è presentata domanda di definizione (e pagato) per cui, all’estinzione del processo, dichiarata dalla Corte di riferimento, compresa la Cassazione, una volta verificata la presentazione della domanda e del pagamento del totale o della prima rata, seguirà, anche qui, una repentina “riapertura” (nei successivi 60 gg dal diniego) della lite originaria.
5.5. C’è allora da chiedersi:
(i) cosa succede in termini di “riscossione” delle pretese indicate nell’atto impugnato e/o decise provvisoriamente e/o di quelle “rideterminate” con la definizione perfezionatasi anche un anno prima rispetto al diniego;
(ii) come si coordinano i due processi “paralleli” che vengono ad esistenza, l’uno (il nuovo) sul diniego opposto dall’Ufficio, se impugnato dal contribuente in cui si è dovuta chiedere la revoca del provvedimento di estinzione, e l’altro (il precedente) sulla lite originaria che dopo il diniego, se impugnato, si è subito riattivato (entro 60 gg.) per aver dovuto la parte (o l’Ufficio) impugnare la sentenza sottesa il cui termine di impugnazione era pendente al momento della presentazione della domanda di definizione.
La legge, di fronte a questi interrogativi ed intricate e nuove complesse vicende processuali e procedimentali nulla dice.
Si tratta di un grave “vuoto” normativo che va colmato se, come deve credersi, vorranno evitarsi gravosi danni in capo ai contribuenti che hanno aderito per assicurarsi la “tregua/pace fiscale” e sicuri incagli, ritardi e nuovi contenziosi nonostante i traguardi ed obiettivi sperati.
5.6. Una soluzione che potrebbe risolvere in modo agevole il problema della riscossione dell’atto originario che rivive dopo l’estinzione del processo e l’alternarsi delle supra indicate vicende, potrebbe essere quella di prevedere con legge, semmai con gli emendamenti correttivi in seno al d.l. n. 198 del 29 dicembre 2022 in via di conversione, di estendere i benefici premiali dell’interruzione/sospensione delle attività di riscossione coattiva dei carichi originari che il comma 240 della l. n. 197/2022 accorda sin “dalla data di presentazione della domanda” della rottamazione-quater.
In tal modo potrebbe essere scongiurato il rischio che dopo l’estinzione del giudizio, a definizione della lite perfezionata, e/o in virtù dell’impugnazione del diniego e/o della sentenza sottesa, si attivi subito la riscossione dell’atto originario (definitivo), o si attui o si proceda con procedure esecutive, iscrizione di fermi amministrativi e ipoteche, pignoramenti, ecc... Si eliminerebbe così anche la disparità di trattamento che, allo stato, si riscontra, anche per questa ragione, tra le misure alternative della definizione dele liti e della rottamazione-quater (su cui, infra, par. 8).
Una seconda strada potrebbe essere quella di ridurre il tempo concesso all’Agenzia per opporre i dinieghi, fissato ora dal comma 200 al 31 luglio 2024, se non ai 30 giorni disposti dall’art. 5, comma 11, l. n. 130/2022, almeno ai 60 giorni, o altro termine congruo entro la fine del 2023, in modo da “avvicinare” le date in cui, a processo estinto dopo la verifica della sola presentazione della domanda di definizione della lite e del pagamento del totale o della prima rata, possano avviarsi le procedure di recupero dei carichi originari.
Sul piano processuale, ove dovessero ritenersi necessari maggiori termini agli Uffici, non resta che disporre, per legge, che una volta dichiarata l’estinzione del giudizio – fermo restando che dovrebbero rimenare inibite le attività di riscossione coattiva dei carichi sull’atto originario “rinato” ex se - una volta ricevuto il diniego, se il contribuente lo impugna chiedendo, come deve, la revoca del provvedimento di estinzione (comma 201), così come se, un volta ricevuto il diniego, il contribuente (o l’Ufficio) lo impugna ed impugna anche la sentenza sottesa il cui termine di impugnazione “è pendente all’atto della presentazione della domanda di definizione”, deve scattare, in via automatica, la sospensione dell’atto originario e/o della sentenza di merito a seconda del grado di riferimento “fino alla decisione del Giudice sul diniego”; sospensione legale, quindi, correlata alla novità dell’anticipata estinzione del processo come ora si dispone al comma 198 della legge.
Valga notare, al riguardo, che nelle precedenti edizioni della misura, ad es. in quella prevista all’art. 6, d.l. n. 119/2018, si era prevista, da un lato (comma 10), la stessa possibilità di fare richiesta al giudice di sospendere il processo “sin dalla data di presentazione della domanda di definizione” - all’epoca fissata al 31 maggio 2019 - ed in tal caso il processo è stato, del pari, subito sospeso - allora, “fino al 10 giugno 2019;” dall’altro si è disposto di “mantenere” in vita la sospensione del processo, una volta depositato in giudizio presso l'organo giurisdizionale innanzi al quale pendeva la controversia, copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata per un periodo più lungo – in specie, “fino al 31 dicembre 2020” e, quindi, andando ben oltre il termine in cui l’Ufficio avrebbe potuto opporre il diniego, ovvero, all’epoca, “entro il 31.7.2020” (comma 12).
5.7. In mancanza di dette modifiche, e/o in attesa che il legislatore vi provveda, il difensore del contribuente, una volta ricevuto il diniego, a processo estinto, dovrà preoccuparsi non solo di impugnarlo e di chiedere congiuntamente la revoca del provvedimento di estinzione del giudizio (comma 201), ma dovrà chiedere la sospensione dell’atto impugnato e/o della decisone (se era stata sfavorevole) nelle more stabilita dalle Corti di merito, in tali casi indicando, fumus e periculum in mora (ex artt. 47, 52 e 62 bis, d.lgs. 546/92) che, di conseguenza, dovranno essere oggetto di successiva e separata delibazione da (ogni) Giudice del merito fino alla decisione sul merito (sulla lite originaria).
Si noti ancora che per effetto delle supra esposte vicende, quando il contribuente impugna il diniego ed anche (inevitabilmente) la sentenza sottesa (il cui termine è sempre pendente al 30.6.2023), e chiede (anche) la revoca del provvedimento di estinzione, come si diceva, rivive non solo l’atto originario, ma anche il processo originario “parallelo”, per cui il contribuente dovrà preoccuparsi di chiedere alla Corte di riferimento, non solo la sospensione dell’atto impugnato e/o della sentenza, per evitare pregiudizi in termini di riscossione dei carichi originari, ma anche la sospensione dell’originario processo ex art. 39 comma 1-bis, d.lgs. n. 546/92, fino alla decisione del Giudice sul diniego dipendendo, ovviamente, la decisione sulla lite originaria (pregiudicata) dalla risoluzione della causa insorta sul diniego (pregiudicante).
6. La questione degli effetti della definizione sugli altri coobbligati (comma 202)
6.1. Nella legge 197/2022, come si anticipava, è riproposta anche la regola per cui la definizione agevolata “perfezionata dal coobbligato, giova in favore di tutti gli altri, compresi i soggetti per i quali la controversia non sia più pendente” (e, quindi, è diventata definitiva).
In questo caso il comma 202 rinvia (correttamente) al comma 196 (diversamente dall’errato rinvio del comma 13 dell’art. 5, l. n. 130/2022 al comma 8 anziché al comma 9, come supra osservato) e ribadisce che “non saranno restituite le somme eventualmente versate in eccesso” (commi 202 e 196), salvo meglio a capire, vista la complessa vicenda processuale e procedimentale sottesa “da parte di chi”.
La norma, come nelle precedenti edizioni, si ricollega all’estensione del giudicato favorevole ex art. 1306 c.c. ai coobbligati, ma non è circoscritta ai coobbligati rimasti inerti ed intende, esplicitamente, riferirsi ex art. 1294 c.c. anche ai coobbligati per i quali la controversia non è più pendente e, quindi, anche a coloro che hanno intrapreso un giudizio autonomo che potrebbe essersi concluso, anche in via definitiva (al 1.1.2023), con un esito diverso da quello dell’obbligato principale, nonostante il giudicato ad essi riferibile.
Lo conferma l’Agenzia delle Entrate che, in suoi precedenti di prassi (circolare 22/E del 28 luglio 2017) emanati sull’analoga involuta formula, ha chiarito che la definizione perfezionata dal coobbligato “giova” a tutti gli altri con riferimento ai casi di:
(i) pendenza di un’unica lite nella quale siano costituiti tutti gli interessati, nel qual caso, secondo la circolare, la definizione da parte di uno degli interessati determina automaticamente l’estinzione della controversia anche nei confronti degli altri soggetti;
(ii) pendenza di liti autonome, aventi ad oggetto lo stesso atto, instaurate separatamente da ciascuno degli interessati. In questo caso, secondo l’Agenzia, l’Ufficio, una volta verificata la regolarità della definizione, “avrà cura di chiedere la cessazione della materia del contendere anche in ordine alle altre controversie, instaurate dai coobbligati ed aventi ad oggetto lo stesso atto”;
(iii) presentazione di ricorso da parte di soltanto alcuni degli interessati per cui la pretesa impositiva si è resa definitiva nei confronti di alcuni dei soggetti interessati dall’atto impugnato. In tal caso, sempre secondo l’indicata circolare, l’effetto definitorio dell’iniziativa assunta dal ricorrente “impedisce all’Agenzia delle entrate di esercitare ulteriori azioni nei riguardi degli altri soggetti interessati, fermo restando che non si farà comunque luogo a rimborso di somme già versate”.
6.2. Le domande da porsi al riguardo, allora, sono molteplici.
Occorre chiedersi, infatti, che succede se l’Agenzia non dovesse aver cura di chiedere la cessata materia del contendere, e/o la parte o l’Ufficio non dovesse essere a conoscenza dell’avvenuto perfezionamento della definizione da parte del coobbligato - come di norma accade in rapporti non sempre collaborativi o pacifici tra coobbligati paritetici o, peggio ancora, tra quelli dipendenti - e/o che succede se l’Agenzia dovesse continuare, ciò nonostante, ad esercitare ulteriori azioni esecutive nei riguardi degli altri coobbligati, oppure se gli Uffici non dovessero riuscire ad individuare le liti instaurate dai coobbligati e tra queste, ancor più difficilmente, quelle “concluse” dagli altri coobbligati (per i quali la lite, non è più pendente). In tutti questi casi (non sporadici), come e quando si realizzerebbe “il giovamento” dell’estensione della definizione?
La giurisprudenza che si è occupata della questione in precedenti versioni a partire dalla L. 289/2002, non è consolidata e, comunque, non affronta tutte le questioni sottese, e soprattutto, quelle riferite alla mancata restituzione delle somme pagate “in eccesso” dopo la definizione da parte di uno o più dei coobbligati.
Si segnala, tra le più recenti, l'ordinanza 25 ottobre 2022, n. 31555, che si è occupata della analoga regola presente all’art. 7 del d.l. n. 119/2018 in cui, la Suprema Corte in conformità ad altri precedenti, dopo aver ricordato che nel caso di obbligazione tributarie solidali (fiscali passive) trovano applicazione i principi delle obbligazioni civilistiche, ha indicato che si applica anche “quello di cui all'art. 1306 c.c., riguardante l'estensione del giudicato, non essendo d'ostacolo a tale conclusione né la diversità della fonte normativa delle obbligazioni relative a sostituto e sostituito, né il carattere meramente strumentale di quella del sostituto rispetto all'altra, operando nella specie la presunzione, stabilita dall'art. 1294 c.c., secondo la quale i condebitori sono ritenuti obbligati in solido se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente, e ciò in ragione dell'unicità della prestazione (v. tra numerose altre Cass. nn. 10082/2003, 16819/2014 e 13382/2017). Ne segue, per la cit. ordinanza, che “la definizione agevolata di una controversia avente ad oggetto un'obbligazione tributaria gravante su più soggetti solidalmente, proposta anche da uno solo dei coobbligati, ha effetto per tutti gli altri poiché ciò che rileva è l'unicità dell'obbligazione (quindi del relativo credito), la cui estinzione, ancorché intervenuta per effetto dell'attività di uno solo degli obbligati, non può che rilevare anche nei confronti degli altri”[17]. Le conseguenze di detta estensione sul piano del procedimento e della riscossione non sono state, tuttavia, affrontate e, quindi, non risultano allo stato risolte.
6.3. Ed ancora. La legge si limita a prevedere (da sempre) che, e quindi anche il comma 202 in commento che dopo che si è realizzato “il giovamento” della definizione prestata da uno dei coobbligati, “non saranno restituite le somme eventualmente versate in eccesso” (commi 202 e 196) ma non dice nemmeno da chi. A questo punto, la parte che si “giova” dell’altrui definizione della lite per aver avuto cura l’Agenzia delle entrate di chiudere “automaticamente” o di “chiedere la cessazione della materia del contendere”, può aver diritto alla restituzione delle somme pagate in via provvisoria nel corso del suo (autonomo) giudizio o dopo la chiusura dello stesso?
Certo è che appare illogico pensare, ad es., che il sostituto, o un obbligato dipendente che ha vinto per doppia conforme e non ha pagato, quindi, alcuna somma a titolo provvisorio possa chiudere la lite (propria) pendente in Cassazione con il pagamento di una parte assai ridotta della lite (il 5%), e che questo effetto si “estenderebbe” alla lite (propria) del sostituito, o di un obbligato principale che nelle more ha semmai pagato il totale dovuto e che, quindi, non avrebbe alcun interesse - né giovamento - alla cessazione "automatica” della materia del contendere intendendo, invece, proseguire la lite proprio per vedersi riconoscere le sue ragioni ed ottenere la restituzione di quanto anticipato al Fisco.
In questo caso, le somme pagate dal sostituito o dall’obbligato principale al Fisco “in eccesso” rispetto al costo della definizione della lite da parte del sostituto, o dell’obbligato dipendente se le "trattiene” l’Erario o vengono restituite? In alternativa come verrebbero reclamate dal (o restituite al) sostituito/obbligato principale dal sostituto/obbligato dipendente che ha definito la lite pagando all’Erario, per tornare all’esempio, solo il 5%? E quale Giudice dovrebbe occuparsi della lite che potrebbe insorgere tra questi coobbligati con interessi contrapposti, dopo l’intervenuta definizione della lite da parte di uno ed estensione degli effetti sugli altri?
Il tema andrebbe sviluppato più ampiamente, ma non è certo questa la sede.
Valga solo segnalare che la risposta ai tanti dubbi sui modi e tempi in cui opererebbe l’estensione della definizione sui coobbligati non è univoca, e comunque appare anche qui fortemente dipendere dal “caso”, ovvero dalla collaborazione prestata o meno dalle parti (contribuenti ed uffici) a favore dei coobbligati, con evidenza dell’inevitabile compromissione e potenziale grave diseguaglianza dei relativi diritti sottesi.
7. Gli altri istituti deflattivi di liti pendenti
In alternativa a quanto sin ora descritto, la legge n. 197/2022 ha introdotto due strumenti deflattivi delle controversie pendenti. In specie, e solo in via di sintesi, trattasi della:
I) Conciliazione agevolata delle controversie pendenti nelle corti di merito (commi 206 - 212)
Il contribuente può conciliare in via agevolata la lite pendente alla data del 1 gennaio 2023, innanzi alle Corti di Giustizia tributaria di primo e di secondo grado, aventi ad oggetto “atti impositivi” in cui “è parte l’Agenzia delle Entrate”.
Si segnala, anche per far emergere la differenza rispetto al caso “alternativo” della definizione delle liti pendenti che non è di poco conto, che la conciliazione “agevolata” è limitata ai soli atti “impositivi” (con esclusione quindi di quelli genericamente impugnati avverso l’Agenzia) e, pure a quelli di cui è parte “l’Agenzia delle Entrate”, e non anche “l’Agenzia delle Dogane” (sarà stata “una svista”, nell’approvazione definitiva, altrimenti inspiegabile).
Nel caso che si raggiunga l’accordo con l'ufficio, si seguono le regole dell’art. 48 d.lgs. 546/92 “in quanto compatibili” (comma 211) e quindi quelle della conciliazione fuori udienza con il pagamento delle imposte concordate, con le sanzioni ridotte a 1/18 del minimo, in luogo del 40% dell’irrogato (ex 48-ter, d.lgs. 546/92), oltre agli interessi e gli eventuali accessori.
La novità della legge sembra ridursi, in caso di giudizi pendenti nei gradi di merito al 1 gennaio 2023, ad un maggior “sconto” delle sanzioni ma, l’aspetto significativo da non sottovalutare è che l’Agenzia delle Entrate potrebbe avere “convenienza” a chiudere l’accordo con il contribuente, pur in presenza della lite definibile, potendo incamerare in via diretta le somme della conciliazione; somme che, invece, ove definite in via alternativa ai sensi dei commi da 186 a 204 dell’art. 1, l. n. 197/2022 sul 100% (parte sfavorevole al contribuente) verrebbero incamerate dal MEF.
È esclusa anche qui la compensazione prevista dall'articolo 17 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 (comma 208). In caso di mancato pagamento delle somme dovute o di una delle rate, compresa la prima, entro il termine di pagamento della rata successiva, il contribuente decade dal beneficio di cui al comma 207, e il competente ufficio provvede all'iscrizione a ruolo delle residue somme dovute a titolo di imposta, interessi e sanzioni, maggiorato della sanzione di cui all'articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, aumentata della metà e applicata sul residuo importo dovuto a titolo di imposta (comma 209). Anche dall’“accordo” conciliativo speciale sulle liti pendenti sono escluse le controversie concernenti, anche solo in parte (comma 210), le risorse proprie tradizionali UE, l'IVA riscossa all'importazione e le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato.
II) La rinuncia alla causa pendente in Cassazione (commi 213 -218)
Come altra “novità” rispetto alle precedenti definizioni, il ricorrente può anche “rinunciare, entro il 30 giugno 2023, al ricorso principale o incidentale in Cassazione in cui è parte l’Agenzia delle entrate” (anche qui non anche se è parte “l’Agenzia delle Dogane”, per “svista”, c’è da credere), a seguito della “definizione transattiva” con la controparte “di tutte le pretese azionate in giudizio”. Se si raggiunge l’accordo, la rinuncia comporta il pagamento delle somme dovute per le imposte, le sanzioni sempre ridotte a 1/18 del minimo previsto dalla legge, gli interessi e gli eventuali accessori e si perfeziona con la sottoscrizione e con il pagamento integrale (e non rateale) delle somme dovute “entro 20 giorni dalla sottoscrizione dell'accordo intervenuto tra le parti” (comma 216).
Da notare che è esclusa anche qui la compensazione ex art. 17, d.lgs. 241/97, e soprattutto che la rinuncia agevolata “non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate, ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione transattiva” (comma 216). Le somme pagate, quindi, non si scomputano e non si possono chiedere a rimborso.
Alla rinuncia agevolata si applicano, inoltre, in quanto compatibili, le disposizioni dell'articolo 390 c.p.c. sulle modalità per provvedervi (comma 217).
Sono escluse dall’istituto deflattivo, al pari delle altre definizioni alternative, le controversie sulle risorse proprie tradizionali europee, l'IVA riscossa all'importazione e le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato (comma 218).
8. La Rottamazione-quater dei debiti iscritti a ruolo (commi 231- 252)
8.1. Valga accennare all’altro rimedio per la “pace/tregua” con il Fisco, della rottamazione-quater che, come le precedenti edizioni, riguarda ogni contribuente moroso (imprese, artisti, professionisti, enti non commerciali, persone fisiche, ecc.), che può pagare, in via agevolata, i debiti iscritti a ruolo, ove si tratti di carichi affidati all’Agente della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2022.
La rottamazione-quater, a differenza delle precedenti, si presenta molto più vantaggiosa, visto che i predetti debiti possono essere estinti (comma 231): “a titolo di interessi e di sanzioni, gli interessi di mora di cui all'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, ovvero le sanzioni e le somme aggiuntive di cui all'articolo 27, comma 1, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e le somme maturate a titolo di aggio ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 versando le somme dovute a titolo di capitale e quelle maturate a titolo di rimborso delle spese per le procedure esecutive e di notificazione della cartella di pagamento”.
A seguito della presentazione della dichiarazione di definizione relativamente ai carichi definibili (comma 240), come si anticipava:
a) sono sospesi i termini di prescrizione e decadenza;
b) sono sospesi, fino alla scadenza della prima o unica rata delle somme dovute a titolo di definizione, gli obblighi di pagamento derivanti da precedenti dilazioni in essere alla data di presentazione;
c) non possono essere iscritti nuovi fermi amministrativi e ipoteche, fatti salvi quelli già iscritti alla data di presentazione;
d) non possono essere avviate nuove procedure esecutive;
e) non possono essere proseguite le procedure esecutive precedentemente avviate, salvo che non si sia tenuto il primo incanto con esito positivo;
f) il debitore non è considerato inadempiente ai fini di quanto prevedono gli artt. 28-ter (pagamento mediante compensazione volontaria con crediti d’imposta) e 48-bis (fermo amministrativo dei pagamenti dovuti dalle pubbliche amministrazioni) del d.p.r. n. 602/1973;
g) a seguito della presentazione da parte del debitore della dichiarazione di volersi avvalere della suddetta definizione agevolata, il DURC (di regolarità contributiva) può essere rilasciato (art. 54, l d.l. n. 50/2017).
8.2. L’estinzione del debito fiscale avviene versando le somme dovute in unica soluzione, ovvero nel numero massimo di 18 rate - questa volta con il tasso del 2% (comma 233) e non del 5% dovuto in caso di definizione rateale delle liti pendenti, previa dichiarazione di definizione, da parte del debitore, con modalità, esclusivamente telematiche che sono state rese note il 20 gennaio 2023. L’agente della riscossione renderà disponibili ai debitori, nell’area riservata del proprio sito internet istituzionale, i dati necessari a individuare i carichi definibili.
Nella dichiarazione, come già avvenuto per le precedenti edizioni, il debitore sceglie il numero di rate nel quale intende effettuare il pagamento, entro il limite massimo di 18 rate (comma 235) ed indica l’eventuale pendenza di giudizi aventi ad oggetto i carichi oggetto di definizione, assumendo l’impegno a rinunciare agli stessi (comma 236). Se ciò accade, i giudizi in corso, previa presentazione al Giudice di copia della dichiarazione e nelle more del pagamento delle somme dovute, sono sospesi.
L’estinzione del giudizio è subordinata, in questo caso, diversamente da quanto avviene nella definizione delle liti pendenti (ex commi 198-201), all’effettivo perfezionamento della definizione e alla produzione, nello stesso giudizio, della documentazione attestante tutti i pagamenti effettuati; in caso contrario, il Giudice revoca la sospensione su istanza di una delle parti (comma 236).
Ne segue che quanto previsto in materia di rottamazione-quater sul piano della riscossione dei carichi originari (interrotta/inibita, ex comma 240), e di chiusura anche della eventuale lite in corso solo una volta pagato tutto il quantum dovuto, non è “coordinato” con il novellato procedimento “accelerato” di estinzione del giudizio della lite pendente che, come si è visto, segue ora la verifica da parte del Giudice del previo pagamento del dovuto (totale o prima rata) entro il 30.6.2023 (comma 198), nonostante la reviviscenza dell’atto originario impugnato, il nuovo giudizio sul diniego e la prosecuzione del giudizio parallelo sull’atto originario. Occorrerebbe, come suggerito, intervenire per coordinare le regole e colmare il vuoto normativo esistente.
9. I casi dubbi e le variabili di confronto tra le misure alternative
E veniamo ai casi che presentano altri aspetti incerti o involuti (quello che non c’è nella legge).
A. Gli atti definibili (art. 1, comma 186): il contrasto con la relazione illustrativa
1. Il primo dubbio riguarda la categoria degli atti definibili che secondo l’art. 1, comma 186, l. n. 197/2022 sono quelli impugnati in cui la controparte è l’Agenzia delle Entrate, o l’Agenzia delle Dogane (esclusa, in origine, dal testo del ddl ante approvazione e poi inserita), senza limiti/vincoli.
Senonché, se si legge la relazione illustrativa che ha accompagnato il testo del disegno di legge si trova declinata, come in precedenti edizioni (ad es., all’art. 6, d.l. n. 119/2018), la limitazione alla definizione ai soli “avvisi di accertamento; atti di irrogazione sanzioni ed ogni altro atto d’imposizione. Sono quindi escluse dalla definizione le controversie relative ad atti privi di natura impositiva”.
Il che potrebbe costituire un primo ostacolo nel percorso verso la “tregua/pace fiscale” potendo l’Agenzia (Entrate o Dogane) opporre eventuali dinieghi alla definizione entro i termini previsti dalla legge (comma 200), dando prevalenza alla relazione illustrativa, ove la domanda di definizione dovesse essere presentata a fronte di atti di mera liquidazione delle somme dovute (avvisi bonari, avvisi di liquidazione registro, ecc.) in cui la controparte è l’Agenzia (Entrate o Dogane), anche per intervento o chiamata, e non solo l’ADER. A ben riflettere, però, questa eventualità non dovrebbe trovare sostegno interpretativo per più di una ragione.
2. In primis, la Suprema Corte ha già avuto modo di precisare, di fronte ad analoga discrasia tra quanto esposto nella legge e nella relazione illustrativa in casi differenti (d.l. n. 50/2017), che prevale la legge “perché ogni testo normativo deve essere interpretato secondo il suo contenuto obiettivo, mentre i lavori preparatori non costituiscono elemento decisivo per la sua interpretazione”[18]. Anche le SS.UU., con la sentenza n. 18298/2021 hanno ritenuto definibili (ex art. 6, d.l. n. 119/2018) le liti su cartella di pagamento emessa a seguito di ruolo formatosi sul controllo del dichiarato ex art. 36 bis DPR 600/73 (e 54 bis, d.p.r. 633/72) accogliendo, come noto, l’indirizzo “mediano” che si è venuto nel tempo a formare in materia, secondo cui è definibile la lite limitatamente alle sanzioni ed interessi iscritte a ruolo, anche in caso di mancato versamento del dichiarato, ove la cartella costituisca il primo atto ricevuto dal contribuente contenente una “pretesa” certa e definita” a suo danno[19]. Ancor più di recente, la Suprema Corte, ha confermato che sono definibili tutti i provvedimenti che, per qualsivoglia ragione, rappresentano il primo atto contenente una pretesa certa e definita (sentenza n. 37401/2022). Potrebbero ritenersi escluse, al più, per l’interpretazione di legittimità, le liti su cartelle che costituiscono atti di mera riscossione del dovuto, pur se impugnate, nel caso, ad es. di sentenza passata in giudicato, oppure di liti sul preavviso di ipoteca o fermo preceduto da regolare notifica degli atti prodromici (Cass. sent. n. 16285/2022). Ma ciò fermo il fatto che la legge ora non fa distinguo ma, anzi, il comma 186 avvalora la possibilità di definire ogni atto impugnato avverso l’Agenzia (Entrate o Dogane) e che, al contrario, quando ha voluto il legislatore ha “limitato” una delle misure alternativa, quella della conciliazione agevolata, alle liti sui soli “atti impositivi” nei gradi di merito (comma 206).
La recente circolare n. 2/2023 conferma, del resto, che anche secondo l’Agenzia: “Il comma 186 in commento non contiene, invece, specificazioni circa la tipologia degli atti oggetto delle controversie definibili e, quindi, possono essere definite non soltanto le controversie instaurate avverso atti di natura impositiva, quali gli avvisi di accertamento e atti di irrogazione delle sanzioni, ma anche quelle inerenti atti meramente riscossivi”.
A supportare l’interpretazione estensiva dovrebbe valere, riflettendo, anche una ragione di “buon senso” legata al fatto che con la rottamazione-quater il contribuente potrebbe ottenere, “lo stesso risultato” - ovvero pagare il 100% del tributo dovuto, senza sanzioni ed interessi ed aggi - se in alternativa alla chiusura della lite, rottama i ruoli formati dal 1.1.2000 al 30 giugno 2022 presentando la domanda di rottamazione e rinunciando, al tempo, anche al giudizio in corso sulla cartella o altro atto dell’esecuzione (sempre se la lite è stata proposta non solo contro ADER, ma anche contro o con l’intervento dell’Agenzia delle Entrate o Dogane). In tal caso, le due “chiusure” dei giudizi pendenti sono equivalenti in termini di costo (il 100% del tributo dovuto) per cui non si vede quale “utilità” avrebbe l’Agenzia (Entrate/Dogane) ad opporre un diniego sulle liti su cartelle per escludere ciò che “se esce” dalla definizione agevolata della lite, potrebbe rientrare, per altra via, nelle casse dell’Erario nella stessa misura, con la rottamazione-quater, nell’ottica della funzionalizzazione delle misure (tutte) agli obiettivi e traguardi del PNRR.
B. Il ricorso/reclamo ex art. 17 bis, d.lgs. n. 546/92 iscritto (e non solo notificato) al 1 gennaio 2023 (comma 187)
1. Altro caso dubbio concerne quello della lite introdotta con ricorso pendente al 1 gennaio 2023 che se “iscritto nel primo grado” (comma 187) si perfeziona con il pagamento del 90% anche se trattasi di controversie di valore inferiore a 50.000 euro che, ex lege, è un reclamo ex art. 17 bis, d.lgs. 546/92. La norma costituisce una deroga alla regola per cui la definizione agevolata si applica alle controversie in cui “il ricorso in primo grado è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore della presente legge, e per le quali alla data della presentazione della domanda di cui al comma 186 il processo non si sia concluso con pronuncia definitiva” (comma 192).Ne segue che anche qui, chi “in tempo utile” ha colto la “differenza” ha potuto notificare e depositare il ricorso/reclamo, anche se la causa era di valore inferiore ad € 50.000,00 per aver diritto a definire la lite con il pagamento del 90% secondo il comma 187.
Come noto, l’eventuale anticipato deposito rispetto alla notifica del ricorso/reclamo prima dei 90 gg. previsti dal comma 2, art. 17 bis cit., determina una condizione di improcedibilità, e non di inammissibilità del ricorso, per cui la Corte di I grado dove è incardinata la lite dovrà posticipare la trattazione della causa, ove il contribuente avesse depositato, entro il 1 gennaio 2023, il ricorso notificato per “sfruttare” l’opportunità stabilita dalla legge del pagamento del 90%. Il tutto, sempre se l’AE non dovesse opporre nelle more - o oltre (fino al 31.7.2024) - il diniego per reclamare il pagamento del 100%, a processo “estinto”; fermo il diritto del contribuente di impugnare il diniego (entro 60 gg., comma 200) chiedendo la revoca del provvedimento di estinzione, come supra indicato (e la sospensione dell’atto impugnato, e del processo originario), con l’effetto, anche qui, di accrescere/alimentare e non di smaltire/ridurre il contenzioso pendente.
C. Le liti instaurate con ricorsi inammissibili secondo le Corti di merito
1. Ancora di incerta soluzione è la definizione di liti instaurate mediante ricorsi affetti da vizi di inammissibilità rilevati in primo o secondo grado, o in entrambi.
Al riguardo, sullo stesso dubbio riferito alla definizione agevolata delle liti tributarie del 2011, l’Agenzia delle Entrate (circolare n. 48/E del 24 ottobre 2011), ha ritenuto ammissibile la definizione di liti instaurate con ricorsi proposti, oltre i termini prescritti dalla legge, oppure senza i requisiti di forma e di contenuto ex art. 18, d.lgs. n. 546/92 “purché non fosse già intervenuta una pronuncia definitiva di inammissibilità”. In senso contrario, nella circ. n. 22/E del 28 luglio 2017 l’Agenzia ha aderito all’indirizzo dalla Suprema Corte espresso in materia secondo cui andrebbe fatto un distinguo tra i casi di inammissibilità per escludere dal beneficio la lite pendente “non reale”, ovvero quella per la quale “emerga, in modo evidente ed inequivoco, il carattere meramente fittizio e artificioso della controversia principale, instaurata, nonostante la palese tardività, al solo fine di creare il presupposto per poter fruire del beneficio: un chiaro elemento sintomatico della configurabilità di un uso abusivo del processo è costituto dal fatto che il contribuente abbia impugnato l’atto impositivo ben oltre i termini di legge […] senza nulla argomentare in ordine alla perdurante ammissibilità dell’impugnazione nonostante il tempo trascorso”[20] (sentenza n. 1271 del 22 gennaio 2014, con riferimento alla l. n. 289/2002). Anche in questo caso, solo un chiarimento ufficiale potrà sciogliere il dubbio per evitare il sorgere di contenzioni sui possibili dinieghi. Ad oggi, nulla è stato indicato sul punto dalla circolare n. 2/2023.
D. Le controversie sui carichi tributari impugnati attraverso il veicolo dell’estratto di ruolo
1. Ancora una incertezza, collegata a quanto supra segnalato, è quella che riguarda la definizione delle liti pendenti introdotte avverso il veicolo dell’impugnazione dell’estratto di ruolo dopo il noto intervento in materia delle SS.UU. con la sentenza n. 26283 del 6 settembre 2022.
Qui si apre uno scenario complesso legato, innanzitutto, al fatto che per discuterne, deve trattarsi di ricorsi in cui è parte l’Agenzia delle Entrate (o Dogane), e non solo l’ADER, notificati al 1 gennaio 2023; oppure di sentenze di merito di accoglimento, o di rigetto in giudizi proposti sempre (anche) contro l’Agenzia (Entrate o Dogane), oppure in cui l’Agenzia (Entrate o Dogane) è stata chiamata o è intervenuta volontariamente, per le quali alla data della domanda di definizione non si sia concluso il giudizio con una pronuncia definitiva.
Il fatto è che pur nel rispetto dei limiti e condizioni supra indicati, la lite introdotta avverso l’estratto di ruolo (come atto veicolo), se pendente al 1.1.2023, per come dispongono i commi 186 e 192, dovrebbe ritenersi definibile a prescindere dalla verifica dell’interesse ad agire “conformato ai casi di cui al comma 4-bis dell’articolo 12 del Dpr n. 602/1973 come stabiliti dall’art. 3-bis del Dl n. 146/2021”, secondo quanto hanno chiarito le SS.UU. n. 26283/2022[21].
Il che genera altra disparità di trattamento e contrarietà ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, tra fattispecie similari definibili in via agevolata tout court - senza pagamento di sanzioni ed interessi, sol perché pendenti al 1 gennaio 2023 in cui è parte l’Agenzia delle Entrate (o Dogane), pur se dichiarate inammissibili dalla Corti di merito (in via non definitiva), anche se prive dell’interesse ad agire conformato ai casi stabiliti dalle SSUU, rispetto ai casi di liti identiche, proposte solo contro ADER, e semmai di quelle nelle quali c’è anche l’interesse ad agire in linea con quanto stabilito dalle SSUU, per le quali non vi sarebbe possibilità di definizione, tranne che attraverso la “rottamazione dei ruoli” (sottesi all’estratto).
Ne segue che di fronte al dubbio sulla definibilità o meno di una lite proposta a mezzo dell’estratto di ruolo, ove i ruoli sottesi siano stati formati ante 30.6.2022 (dal 1.1.2000) e, quindi, già affidati all’agente della riscossione e non pagati (come di norma può essersi verificato), il contribuente/difensore potrà scegliere più agevolmente la strada della rottamazione-quater ed ottenere lo stesso “risultato - ovvero pagare il tributo dovuto (sorte capitale, ex comma 238) - senza correre il rischio di vedersi opporre il diniego alla definizione della lite ed avere anche l’opportunità di pagare il dovuto in unica soluzione - entro il 31 luglio 2023, oppure a rate (di 18 rate), al tasso del 2% (anziché del 5% sulle 20 della definizione), la prima e la seconda di importo pari al (solo) 10% delle somme complessivamente dovute (comma 232).
Non v’è, in definitiva, alcuna convenienza a fare domanda di definizione della lite, ove si tratti di quella introdotta per chiedere l’annullamento dei ruoli sottesi attraverso l’estratto, pur se si tratta di lite proposta contro, o con l’intervento dell’AE (e non solo contro ADER) soprattutto se nelle more, il contribuente non ha effettuato alcun pagamento (di tributo, sanzioni ed interessi). Meglio rottamare i carichi iscritti a ruolo a fronte della complessa questione giuridica sottesa, con l’ulteriore vantaggio di pagare provvisoriamente anche solo due rate (del 10% del dovuto con tasso di interesse più contenuto del 2%) e confidare, semmai, per il residuo, nella probabile rottamazione-quinquies, con “buona pace” della valenza della funzione fiscale, di quella nomofilattica esercitata dalla Suprema Corte, dell’incasso da parte dell’Erario dei crediti incagliati presso ADER e, come supra, del raggiungimento degli obiettivi e traguardi del PNRR.
E. Le liti su risorse proprie tradizionali UE e sull’Iva all’importazione
1. Non sono definibili, come visto, le controversie concernenti anche solo in parte:
a) le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), delle decisioni 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, e 2020/2053/UE, Euratom del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione; b) le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato ai sensi dell’articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015.
Qui troviamo un’altra serie di ostacoli nel percorso verso “la tregua/pace fiscale” che potrebbero diventare forieri di liti potenziali per dinieghi opposti dagli Uffici.
Il punto è che nel testo originario del ddl (art. 42) non era stata prevista la possibilità di definire le liti contro l’Agenzia delle Dogane.
Come risposta alle prime contestazioni sull’irragionevolezza dell’esclusione di definizione dei tributi diversi dai dazi doganali, amministrati comunque dalla medesima Agenzia, c’è stata la novità dell’inclusione delle liti pendenti al 1 gennaio in cui è parte anche l’Agenzia delle Dogane e monopoli, senza altra precisazione nel testo di legge. In via di interpretazione, dovrebbero ritersi incluse le liti pendenti in materia di accise, imposte di consumo, monopoli e giochi, ovvero su tutti i tributi diversi dalle risorse tradizionali UE (dazi), sempre se il ricorso di primo grado è stato notificato (comma 192), o iscritto in primo grado (per godere del 90%) entro il 1 gennaio 2023, e non sia intervenuta una sentenza definitiva alla data di presentazione della domanda di definizione (comma 192).
Resta il problema delle liti pendenti in materia di IVA all’importazione e delle collegate sanzioni che per quanto indicato al comma 193, lett. a) - pur dopo l’inserimento della definizione delle liti in cui è parte l’Agenzia delle Dogane e monopoli restano escluse. E ciò nonostante che per la Corte di giustizia, e la Suprema Corte (sent. n. 16463 del 2016, n. 8473 del 2018), l’Iva all’importazione debba ritenersi, pacificamente, un’imposta interna (e non un diritto di confine), anche se applicata e riscossa in dogana, al pari delle correlate sanzioni che sono di competenza nazionale proprio come avviene per le accise, regolate dal TUA, d.lgs. 504/95 che, invece, sono ora definibili[22]. Sarebbe bastato scrivere la norma in modo più chiaro dopo aver “ampliato” le liti definibili a quelle in cui è parte l’Agenzia delle Dogane e monopoli per chiarire i tributi definibili e risolvere l’impasse che, ad oggi, invece resta tale.
F. Il raffronto tra la definizione delle liti pendenti (commi 186-204) e quella delle liti pendenti solo in Cassazione (art. 5, l. 130/2022)
1. La definizione delle liti del contribuente soccombente, in uno o due gradi, ex commi 186-190 della l. n. 197/2022 si perfeziona con il pagamento del 100% delle imposte pretese con l’atto impugnato, al netto di sanzioni ed interessi, salvi i casi di deroga disposti dalla legge commi da 186 a 191, da verificare alla data del 1 gennaio 2023 per pagare, in relazione al valore della controversia in corso, le percentuali ivi previste a seconda dei vari gradi di soccombenza dell’Agenzia (90, 40, 15, 5).
Il costo della definizione ex art. 5, l. n. 130/2022 ha richiesto, invece, la verifica di una serie di variabili alla data del 16 settembre 2022 per calcolare il dovuto, in relazione al valore originario dell’atto impugnato, il rispetto del limite del valore delle cause (100 o 50 mila euro), con le percentuali del 5% o del 20%, a seconda, rispettivamente, della doppia soccombenza dell’Agenzia delle Entrate (e non del contribuente), o della soccombenza “in tutto o in parte” dell’Agenzia in uno dei gradi di merito 8art. 5, commi 1 e 2).
Sulla “coesistenza” temporanea delle due definizioni per le liti pendenti in Cassazione il comma 204, art. 1, l. n. 197/2022 si limita a stabilire che: “Resta ferma, in alternativa, a quella prevista dai commi 186 a 203, la definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione di cui all’art. 5 della L. 130/2022”. In definitiva, la norma ha consentito la scelta rispetto all’ipotesi più favorevole, senza premurarsi di operare, tuttavia, alcun coordinamento, ma anzi generando diseguaglianze tra fattispecie similari.
2. Ed infatti, nella comparazione, occorre tener presente che:
a) in caso di soccombenza dell’Ufficio nei due gradi di giudizio di merito, le due definizioni sono state in parte sovrapponibili in quanto si è dovuto - o si dovrà pagare - il 5%, ma la definizione della l. n. 197/2022 è più ampia, non prevedendo alcun limite al valore della causa ad euro 100.000 dell’art. 5, comma 1, della l. n. 130/2022 e potrebbe essere più conveniente dovendosi pagare il 5 % del deciso, al netto di eventuali somme definite (per acquiescenza o conciliazione o autotutele parziali) e non dei tributi originari della lite (ex art. 5, l., n. 130/2022);
b) in caso di soccombenza dell’Ufficio nel secondo grado, è sempre più conveniente la definizione ex l. n. 197/2022 in quanto si prevede il pagamento del 15% del valore della causa, e non del 20% previsto dall’art. 5, l. n. 130/2022, fermo restando anche in questo caso l’assenza di limiti nella nuova norma, fissati in euro 50.000 dall’art. 5, comma 2, e la penalizzazione della definizione del 20% del valore della lite originaria (e non del valore della controversia), e del pagamento in via integrale (e non rateale) nei termini stabiliti dalle rispettive leggi;
c) in caso di soccombenza dell’Ufficio in primo grado, anche in parte – ma non in appello - conveniva optare (se si è stati accorti “in tempo”), per la definizione della l. n. 130/2022 con il pagamento 20% in luogo del 100% ex l. 197/2022, sempre se il valore della causa è rimasto contenuto nei 50.000 euro, fermo il pagamento integrale del dovuto sul valore originario dell’atto impugnato (e non rateale);
d) in caso di soccombenza del contribuente in entrambi i gradi (per doppia conforme a favore dell’AE), l’unica opzione resta la vigente definizione (pagamento 100% delle maggiori imposte) in quanto la definizione ex art. 5, l. 130/2022 non ha previsto questa possibilità.
Situazioni processuali identiche trattate, quindi, in modo dissimile, solo perché non coordinate.
3. Si noti ancora che la “pendenza” della lite all’1/1/2023 comporta che il ricorso per Cassazione o l’appello dell’Agenzia nelle Corti di merito a quella data sia stato notificato da parte dell’Ufficio (unico ad averne interesse). Se l’Ufficio non è stato tempestivo nel proporre il ricorso, quindi, il contribuente non potrà beneficiare del 5%, ma potrà definire la controversia con il pagamento del 15%. Sarebbe stato più coerente prevedere che la riduzione dal 5% fosse subordinata alla “pendenza dei termini per la proposizione del ricorso al 1 gennaio 2023”, lasciando così l’opzione della definizione al contribuente, e non far dipendere “il costo” della definizione dalla velocità/tempestività o meno dei singoli uffici (la “fortuna” legata al caso nel percorso verso la tregua fiscale).
Ed ancora, i calcoli sul deciso non sono agevoli visto anche che, di norma, nel caso di annullamento parziale, le Corti di merito non rideterminano l’imposta ma stabiliscono il nuovo imponibile o indicano i criteri per la sua quantificazione. Il che amplifica, anche per queste ragioni, il rischio di contenziosi di merito sui probabili dinieghi.
G. Le controversie relative esclusivamente alle sanzioni collegate o non collegate al tributo (comma 191)
1. Nella legge 197/2022 rientrano i casi di liti pendenti su controversie relative esclusivamente alle sanzioni non collegate al tributo, e quelle relative esclusivamente alle sanzioni collegate al tributo, regolati al comma 191. Il discrimen tra l’una e l’altra fattispecie è legato, come si diceva, all’incidenza o meno della violazione sulla determinazione della base imponibile o sul versamento dell’imposta che, già, non è di agevole definizione[23]. Ci sono tuttavia una serie di ulteriori distinguo da fare.
Per definire le controversie autonome sulle sanzioni non collegate al tributo ci sono, in sintesi, solo due possibilità: si paga il 15% con una o più sentenze favorevoli al contribuente, oppure il 40% “in tutti gli altri casi” .
Nell’art. 5, l. 130/200 manca, invece una regola ad hoc per definire le sanzioni, e quindi, avvalendosi anche di quanto ha chiarito l’Agenzia in precedenza (circ. 6/2019) deve ritenersi ammissibile il pagamento del 5% per le sanzioni non collegate al tributo nel caso di doppia soccombenza dell’Agenzia. Ad avvalorare questa conclusione, come si diceva, c’è il fatto che per il calcolo del dovuto, i commi 1 e 2 dell’art. 5 rinviano “all’art. 16, comma 3 della Legge n. 289/2002” e, quindi, indicano anche il criterio da seguire per il valore della lite “sul atto di irrogazione di sanzioni non collegate al tributo” ex lett. c) del cit. comma 3 (ma non anche di quelle collegate).
Ne segue che, comparando le due leggi, se la lite si riferisce esclusivamente alle sanzioni non collegate al tributo, ed era pendente in Cassazione già al 16 settembre 2022 rispetto alla data del 1.1.2023, e contenuta nei limiti di valore, per i casi di soccombenza per doppia conforme dell’Agenzia emerge la netta convenienza, per chi l’ha colto in tempo, ad optare per la definizione delle liti con l’art. 5 della l. 130/2022. In caso di reciproca soccombenza sulla lite sulle sanzioni non collegate, si paga invece la percentuale del 15>#i### sulla parte favorevole al contribuente (annullata) nei gradi di merito e la percentuale del 40% sulla parte sfavorevole (confermata) che è dovuta “in tutti gli altri casi”.
Se la controversia pendente è autonoma, e si riferisce, invece, esclusivamente alle sanzioni collegate al tributo, la definizione non comporta il pagamento di alcun importo ove “il rapporto relativo ai tributi sia stato definito anche con modalità diverse dalla definizione agevolata (comma 191) e, quindi, purché il tributo cui è collegata la sanzione sia stato in qualche modo pagato (ad es., per acquiescenza, altra definizione agevolata, ravvedimento, ecc.).
Il tutto, sempre fermo restando che se la lite pendente è invece unica e “mista”, ovvero non riferita esclusivamente alle sanzioni collegate al tributo, come talvolta accade allorquando la sanzione è irrogata ex art. 17, d.lgs. n. 472/97 - e non con un atto separato ex art. 16, d.lgs. n. 472/97 - la definizione della lite con le varie percentuali stabilite dalla legge ai commi 188-190 sul tributo dovuto, “assorbe” quella sulle sanzioni a qualunque titolo irrogate nell’atto impugnato.
2. Può verificarsi il caso in cui il contribuente ha ricevuto dapprima l’avviso di accertamento che ha impugnato, con giudizio pendente al 1.1.2023 ed in seguito, un atto di irrogazione sanzioni collegate ai tributi, ad es. una cartella o intimazione di pagamento del ruolo straordinario, o per effetto della soccombenza in grado di appello che, del pari costui ha impugnato, con giudizio pendente al 1.1.2023.
Se ciò accade il contribuente potrebbe definire entrambe le controversie corrispondendo la percentuale delle imposte dovute di cui ai commi 186-188 (100%, 90%, 40% o 15% a seconda dello stato della lite) sull’accertamento, senza versare nulla per le sanzioni separatamente irrogate ma, comunque, collegate al tributo controverso.
3. Resta da stabilire che succede con la rottamazione-quater sia per le controversie esclusivamente relative alle sanzioni collegate, che a quelle non collegate al tributo, per le quali sono pendenti i relativi giudizi e dovesse esser avvenuta, come supra, già l'iscrizione a ruolo al 30.6.2022 (dal 1.1.2000), per ruolo straordinario, o soccombenza in secondo grado. In entrambi i casi, la rottamazione-quater si mostra più conveniente della definizione della lite.
Ed invero, per le sanzioni collegate al tributo, non è dovuto alcun importo se il rapporto relativo ai tributi sia stato definito anche con modalità diverse. Con la rottamazione, invece, ove la somma pretesa a titolo di sanzioni risulti iscritta a ruolo al 30 giugno 2022 (dal 1.1.2000) in un ruolo differente rispetto alle imposte, la pretesa verrebbe annullata integralmente, ma questa volta, a prescindere dal pagamento o meno del tributo.
Lo stesso accade per le sanzioni non collegate al tributo, se iscritte a ruolo al 30 giugno 2022 (dal 1.1.2000) nel senso che se si accede alla rottamazione-quater dette sanzioni vengono annullate senza alcun pagamento, mentre con la definizione della lite sarebbe dovuta la percentuale del 40% o del 15% a seconda del grado di soccombenza (ex comma 191)[24]. Si aggiunga che con la rottamazione-quater il contribuente, deve rinunciare contestualmente al relativo giudizio, per cui potrà anche decidere di rinunciare ad entrambi, o proseguire (ove ne abbia interesse) la sola controversia relativa alle sole imposte. Regole differenti a fronte delle medesime situazioni dei carichi originari.
Resta da precisare che per le controversie che riguardano le sanzioni collegate al tributo con atto di irrogazione sanzioni, ma in cui il tributo non è stato pagato con altre modalità - non disciplinato né dall’art. 5, l. 130/2022, né dal comma 191 della l. 197/2022 - valgono, le percentuali di cui ai commi 188, 189 e 190 dell’art. 1, l. 189/2022 se la lite è pendente al 1 gennaio 2023 per quanto ha confermato l’Agenzia anche con la recente circolare 2/2023.
4. Per completezza, altri profili incerti riguardano gli atti di contestazione delle sanzioni ex art. 16, d.lgs. 472/97 in liti autonome, contro l’Agenzia delle Entrate o Dogane, se l’atto è stato impugnato, ed è stato notificato il ricorso alla data del 1.1.2023; atti che per il tenore letterale del comma 186, potranno essere definite secondo le percentuali previste dal comma 191.
Si pensi al caso di atto contestazione sanzioni che gli uffici notificano al cessionario ex art. 6, comma 8, d.lgs. 471/97 per mancata emissione di autofattura Iva (in luogo del cedente). Ad avviso della Suprema Corte (ex multis, sentenza n. 36488/2021) si tratta di sanzione “autonoma” del cessionario e, quindi, di sanzione non collegata al tributo (dovuto dal cedente) per cui per definire la lite, se autonoma rispetto a quella del tributo, si pagheranno le percentuali del 15% o 40% a seconda dei casi previsti.
Se invece al cessionario è stato notificato l’avviso di accertamento che “contiene” anche le sanzioni dovute ai sensi dell’art. 6, comma 8, d.lgs. n. 471/97, ex rt. 17, d.lgs. 472/97 e tale accertamento è stato impugnato, e la controversia è pendente al 1.1.2023, basterà pagare il tributo per definire la lite secondo le percentuali dipendenti dal grado di soccombenza dell’Ufficio o della parte (commi 187-190) per avere diritto a vedersi annullare tutte le sanzioni, a qualunque titolo ivi irrogate.
5. Resta, in ultimo, da segnalare il caso che alla data del 1 gennaio il ricorso avverso l’atto contestazione sanzioni non è stato notificato in cui c’è un altro “vuoto” normativo, perché questi atti non si possono definire né in via agevolata con le sanzioni ad 1/18 del minimo (comma 179), né con l’acquiescenza agevolata (comma 180) con le sanzioni ad 1/18 dell’irrogato, dal momento che l’acquiescenza è stata “ampliata” ai soli atti di recupero dei crediti d’imposta (mentre ne sono esclusi quelli sugli aiuti di Stato), ma è stata circoscritta ai soli “avvisi di accertamento e gli avvisi di rettifica e di liquidazione non impugnati, e ancora impugnabili alla data di entrata in vigore della stessa legge, compresi quelli notificati dall’Agenzia delle Entrate successivamente, entro il 31/03/2023” e, quindi, non agli atti di contestazione, non impugnati ed ancora impugnabili alla data del 1.1.2023 o notificati entro il 31.3.2023.
Si potrebbe, al più, ottenere il beneficio dell’annullamento della sanzione irrogata a fronte dell’irregolarità contestata, se formale, e quindi non collegata al tributo, attraverso la regolarizzazione di cui ai commi 166-173 della legge (200 euro per annualità)[25], se commessa “entro il 31 ottobre 2022” (chissà perché), purché non si tratti di sanzioni contestate in atti divenuti definitivi al 1°gennaio 2023 o, se impugnati, e con lite pendente al 1.1.2023, non divenuti definitivi prima del 31 marzo 2023 (data di versamento della prima o unica rata).
Anche qui, vista la poca chiarezza e coerenza delle norme messe a confronto, sarebbe auspicabile una modifica, o un chiarimento tempestivo per evitare che si apra il varco a nuovi contenziosi.
H. I casi di riassunzione nel giudizio di rinvio pendenti o decisi al 1 gennaio 2023
La legge 197/2022 non prevede le regole per la definizione nel caso di giudizio di rinvio, ma secondo i precedenti dell’Agenzia, nell’analoga definizione ex art. 6 d.l. n. 119/2018 (circ. 6/2019), confermati ora nella circolare n. 2/2023, la lite va considerata pendente in primo grado e, quindi, definibile con il pagamento del 90% del valore della controversia (comma 187)[26].
In realtà, nel giudizio di rinvio, il Giudice rivaluta l’appello per cui sarebbe stato ragionevole prevedere il pagamento del dovuto tenendo conto dell’esito della sentenza di primo grado. Ma così non è, per cui in caso di riassunzione in seguito a rinvio, si paga il 90% delle imposte contese se alla data dell’1 gennaio 2023 non risulta depositata la sentenza del giudice del rinvio. Se, invece, al 1 gennaio 2023 risulti depositata la decisione del rinvio, si seguiranno le ordinarie regole previste per la sentenza di secondo grado (15% in caso di sentenza di secondo grado favorevole, o del 100% se la sentenza è stata sfavorevole al contribuente).
10. Gli altri casi dubbi: i benefici penali collegati alle definizioni delle liti
10.1. Il beneficio dello “scudo penale” per molte violazioni suscettibili di sanatoria o definizione, come noto, è già regola generale dell’ordinamento per coloro che, a determinate condizioni, estinguono il debito oggetto del delitto tributario.
L’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000 prevede, infatti, la non punibilità:
a) per i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, d.lgs. n. 74/2000 e, quindi, per l’omesso versamento Iva, ritenute, e compensazione di crediti d’imposta “non spettanti” (e non dei crediti “inesistenti” di cui al comma 2 dell’art. 10-quater) superiori ai vari limiti soglia se, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso (comma 1, art. 13 cit.);
b) per i reati di cui all’art. 4 e 5 d.lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta, infedele, e omessa), nel caso di estinzione del debito tributario mediante ravvedimento operoso e presentazione della dichiarazione omessa entro il termine della dichiarazione relativa all’anno successivo, sempreché tali adempimenti siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza dell'inizio di qualunque attività di controllo/accertamento (comma 2, art. 13)[27].
Secondo la Cassazione penale (sent. n. 19637/2022, n. 34940/2020) le speciali procedure conciliative intervenute negli anni rientrano tra quelle indicate dall’art. 13 d.lgs. n. 74/2000, anche se comportano l’annullamento delle sanzioni e degli interessi per cui deve concludersi che il beneficio è applicabile anche al pagamento del dovuto a mezzo delle procedure di definizione delle recenti l. n. 130/2022 e l. n. 197/2022. Il pagamento delle somme versate per qualunque definizione comporta anche il beneficio della riduzione dell’imposta evasa, per cui sarà possibile richiedere ed ottenere l’eventuale dissequestro di beni/somme sottoposti a vincolo cautelare nel corso del procedimento.
10.2. C’è tuttavia un altro caso da segnalare sulle controversie riferite agli atti di recupero dei “crediti d’imposta inesistenti/non spettanti” che, come noto, comportano la fattispecie del reato ex art. 10 quater, commi 1 e 2 d.lgs. n. 74/2000 al superamento del limite soglia di 50.000 euro.
Non può dubitarsi della possibilità che detti atti di recupero (ex art. 1, comma 421 l. n. 311/2004 ed art. 27, commi 16-18, d.l. n. 108/2005), se impugnati avverso l’AE, possano rientrare nella definizione delle liti ex art. 5, l. n. 133/2000 se la lite è pendente in Cassazione al 16 settembre 2022 (se di importo inferiore ai 100.000 e 50.000), nonché definibili ai sensi della l. n. 197/2022, commi 186 e seguenti, se la lite è stata introdotta con ricorso notificato al 1 gennaio 2023, sempre che alla data di presentazione della domanda (30 giugno 2023) non è intervenuta pronuncia definitiva con applicazione degli sconti previsti ex lege. L’esclusione per entrambe le leggi agevolative riguarda, invero, solo gli atti di recupero degli aiuti di Stato (ex comma 6, lett. b), art. 5, l. 130/2022 e comma 193, lett. b, l. 197/2022).
Deve porsi, tuttavia, attenzione al fatto che il beneficio dello scudo penale non si estenderebbe agli atti di recupero di “crediti inesistenti” di cui all’’art. 10-quater, comma 2, d.lgs. 74/2000 pur se pagati a mezzo della definizione agevolata (indicati all’13, comma 2, del d.lgs. 74/2000), ma solo agli atti di recupero dei crediti d’imposta “non spettanti” di cui all’art. 10-quater, comma 1 (indicati all’art. 13, comma 1), d.lgs. 74/2000) a condizione che il pagamento del dovuto avvenga , secondo le varie percentuali stabilite dalle leggi, “prima dell’apertura del dibattimento di primo grado”.
Sulla questione impatta, tuttavia, l’altra recente novità legata all’attuazione della Riforma del processo penale (l. n. 134/2021) con l’inserimento a regime dell’udienza pre-dibattimentale di cui al d.lgs. n. 150/2022 (e successive integrazioni con la l. n. 199/2022)[28]. Le disposizioni su tale udienza si applicano nei procedimenti in cui il decreto di citazione a giudizio è stato emesso dal 1 gennaio 2023.
Ed infatti, la valutazione dell’effettiva estinzione del debito tributario dovrebbe ora avvenire a cura del Giudice dell’udienza pre-dibattimentale, al quale la nuova norma (art. 550-bis c.p.p.) attribuisce anche il compito di pronunciare sentenza “di non luogo a procedere” quando l’imputato non è punibile per qualsiasi causa, come avviene proprio con il pagamento del debito tributario, anche a mezzo delle definizioni agevolate[29].
Ad oggi non sono stati modificati, però, né l’art. 13, né l’art. 13 bis del d.lgs. n. 74/2000 che continuano ad ancorare la causa di non punibilità al pagamento del debito tributario all’ apertura del dibattimento. Ne segue che non si è certi del fatto che per le citazioni dirette a giudizio dal 1° gennaio 2023 per tali reati, l’estinzione del debito tributario debba avvenire o meno prima della nuova udienza pre-dibattimentale (consigliabile per non rischiare di perdere il beneficio della non punibilità).
E non solo. Sempre sugli atti di recupero di crediti d’imposta non spettanti/inesistenti deve valutarsi, in alternativa, la “convenienza” alla definizione della lite ai sensi dell’art. 5 L. 130/2022, se si trattava di lite pendente in cassazione, con vittoria del contribuente in entrambi i gradi che, come si è visto, ha richiesto il pagamento del 5%, se il valore è inferiore a 100.000,00, esclusa la doppia conforme a favore dell’Agenzia (non prevista); così come se c’è stata vittoria del contribuente “in tutto o in parte” in primo grado (e non anche in appello) ove il valore della lite fosse stato “inferiore” a 50.000,00” perché si è dovuto pagare il 20%, al posto del 100% del credito d’imposta disconosciuto (ex 197/2002); ipotesi, quest’ultima per la quale non scatterebbe scattato, comunque, il reato sia che si tratti di crediti non spettanti, che inesistenti indebitamente compensati che, come noto, si realizza solo al superamento della soglia di 50.000 euro (ex cit. art. 10-quater, commi 1 e 2, d.lgs. 74/2000).
10.3. Resta da accennare al fatto che la definizione della lite sugli atti di recupero del credito d’imposta R&S può avvenire anche con il nuovo istituto del “riversamento” con pagamento del 100% del credito d’imposta contestato (non spettante), senza imposte, interessi e sanzioni, ex art. 5, commi 7-12, del d.l. n. 146/2021.
Se, come si diceva, sono definibili le controversie relative al credito R&S con i limiti supra detti (ex art. 5 l. 130/2022 e, comma 186 l. 197/2022) è evidente che se la parte ha impugnato l’atto di recupero con presentazione di ricorso, ovvero di ultima sentenza di primo o di secondo grado favorevole al contribuente, sarà sicuramente più conveniente la definizione ex l. n. 197/2022 (con il pagamento del 90%, 40%, 15%), ferma la sicura maggior convenienza al 5% nei casi possibili (per valore della causa e di doppia conforme a favore del contribuente se il ricorso è pendente in cassazione), in luogo del 100% del tributo che sarebbe dovuto con il d.l. 146/2021.
Da tener presente però che il riversamento del credito d’imposta R&S ex art. 5 d.l. n. 146/2021 assicura con certezza “la non punibilità” ai fini penali dei crediti d’imposta non spettanti (ma non di quelli fraudolenti), se il pagamento avviene prima dell’udienza dibattimentale/pre-dibattimentale che andrà effettuato, per ora, entro il 31 ottobre 2023. Il che complica la già intricata e complessa questione sui crediti d’imposta inesistenti e di quelli non spettanti e costringe, comunque, a fare “una serie di calcoli” sul quantum dovuto e, soprattutto, sui tempi del pagamento per i casi penalmente rilevanti[30].
11. Il “test di convenienza” delle varie definizioni con la rottamazione-quater
1. A conclusione di questa lunga, ma inevitabile disamina comparata tra le norme, va osservato che, nel caso di carichi pendenti per i quali sono già stati effettuati pagamenti, nella rottamazione-quater ai fini del calcolo del dovuto si tiene conto solo degli importi versati a titolo di capitale compreso nei carichi affidati (e non delle sanzioni ed interessi) e degli importi versati a titolo di rimborso delle spese per le procedure esecutive e di notificazione della cartella di pagamento (chissà mai perché ancora addebitata pure se da anni effettata via pec).
Il che vuol, dire che, nel caso di giudizi pendenti, per valutare in termini di convenienza l’opzione, occorre verificare quante sono state le somme già versate a titolo di interessi e sanzioni che restano definitivamente acquisite, e non sono rimborsabili.
Questo è un altro aspetto “anomalo” nel panorama delle varie sanatorie/definizioni di cui ci si occupa, visto che per come è stata migliorata oggi a favore dei contribuenti la rottamazione-quater, il costo delle definizioni nei casi di debiti iscritti a ruolo con riferimento a giudizi pendenti “resta neutro” e, quindi, non crea diseguaglianze nei riguardi dei “soli” contribuenti morosi che non hanno pagato - come avrebbero dovuto - alcuna somma a titolo provvisorio, pur se soccombenti nei gradi di merito. Ed infatti in questi casi, sia la rottamazione quater, che la definizione agevolata, porterà al calcolo del dovuto del 100% del tributo (senza sanzioni, ed interessi, o altri accessori), senza dover patire il “pregiudizio” di non vedersi riconoscere a scomputo le sanzioni ed interessi già pagati (non avendo pagato alcunché).
E non solo. Con la rottamazione - e non con le altre definizioni alternative - c’è la lunga serie di benefici “premiali” legati alla sospensione/interruzione delle attività di esecuzione (comma 240) di cui si avvale, sempre, il contribuente “non virtuoso”.
Il contribuente che, invece, nelle more del giudizio avesse pagato (come doveva) le somme iscritte a ruolo provvisoriamente, avrà convenienza - di norma - più a definire la lite che a rottamare, potendo nel primo caso scomputare dal dovuto quanto pagato all’Agenzia (Entrate/Dogane) a titolo di tributo, sanzioni ed interessi - al netto di quanto pagato ad ADER a titolo di aggi ed accessori - mentre se rottama, avrebbe diritto a scomputare dal 100% del tributo solo le somme pagate per sorte capitale, eventuali procedure esecutive ed il costo della notifica via pec, ma non anche le sanzioni e gli interessi nelle more pagati (comma 238); e ciò fermo il calcolo di “convenienza” da ri-fare ove il contribuente dovesse essere “in regola” con i pagamenti provvisori ed aver pagato “molto più” di quanto dovuto, per il danno di non vedersi riconoscere a rimborso l’ eccedenza.
12. Conclusioni
Come si diceva in premessa, solo dopo aver esaminato “quello che c’è”, e riflettuto sulle incoerenze e criticità riscontrate, emerge “quello che non c’è” nella legge che, in estrema sintesi, si può segnalare con le seguenti brevi riflessioni.
Manca sicuramente e, da tempo, la funzione di controllo sulla qualità del ciclo della regolazione (legal drafting), ovvero della “buona tecnica” di redazione delle leggi che, sebbene incardinata già a partire dagli anni 80 nella responsabilità e ruoli specifici del Parlamento e Governo (Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Comitato per la legislazione alla Camera e alle Regioni, Commissioni legislative, Organi di staff, organi consultivi, ecc.), con il supporto di molteplici strumenti e tecniche di monitoraggio, e valutazione dell’impatto comprese quelle informatiche e/o con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, appare abbandonato[31]. Il che fa emergere, pur se non voluto, un senso di “disinteresse” per il valore costituzionale della certezza del diritto che, al contrario, dovrebbe indirizzare ogni legislatore nell’introdurre o modificare le leggi con la doverosa ed attesa “competenza tecnica” con la produzione di norme coerenti, comprensibili, chiare, compatibili, pur nell’urgenza o emergenza degli accadimenti politici/finanziari/economici.
Si profila una tendenziale riduzione dei giudizi pendenti (di merito e legittimità), ma non anche una sicura riduzione dei tempi dei giudizi, né sicuri incassi dell’Erario; anzi, si prospetta un carico di lavoro aggiuntivo presso le Corti di merito e di legittimità per il più che probabile contenzioso che nascerà per i casi dubbi e la probabilità che le somme dovute, anche con i lunghi pagamenti rateali concessi, non vengano effettivamente incassate nei tempi stimati (5 anni, secondo la relazione illustrativa).
Si riscontra una disorganicità delle misure deflattive esaminate, in parte “copiate” da precedenti edizioni che avevano mostrato le stesse lacune e necessità di correttivi, tanto che di fronte ai tanti strumenti definitori/deflattivi vigenti chi deve cimentarsi nell’applicarli, avverte la sensazione di trovarsi di fronte ad un puzzle di difficile soluzione, aggravato dell’incertezza/contraddittorietà delle norme rispetto a quanto indicato nella relazione illustrativa, e nei testi circolati prima della definitiva approvazione; ferma l’incoerenza dovuta al mancato coordinamento tra le definizioni “similari” previste dalla due recenti leggi per le liti pendenti in Cassazione e quelle proposte come alternative nella legge di Bilancio.
Si registra uno stravolgimento della valenza, non solo giuridica, ma morale della riserva di legge collocata, non a caso, all’art. 23 Cost. tra i rapporti civili affinché il principio del consenso all’imposizione tuteli in via immediata e prevalente gli interessi generali dello Stato e, solo in via indiretta e subordinata, gli interessi dei privati (e non il contrario) e, correlativamente, si misura l’abbandono del valore dei principi costituzionali che dovrebbero presidiare, invece, sempre, l’imposizione (art. 53, 2, 3 e 97 Cost.) oltre che il diritto di difesa (art. 24 Cost).
Si diffonde, in definitiva, un senso di disaffezione ai principi costituzionali della funzione fiscale che accompagna a dire il vero, ogni forma di “condono” per la percezione della diseguaglianza, disparità di trattamento, irragionevolezza, mancata proporzionalità delle regole in chi immagina ciò che “prova” chi aderisce (con soddisfazione di non aver pagato l’accertato) e chi ha pagato, regolarmente, il dovuto (con il rammarico di averlo fatto, e semmai il proposito di non pagare più).
Ci sarebbe da correre ai ripari, visti gli obiettivi e traguardi da raggiungere nei tempi previsti dal PNRR che, ovviamente, non dovranno essere mancati.
[1] E. Manzon, La Cassazione civile-tributaria alla sfida del PNRR, in sintesi ed in prospettiva, in Giustizia. Insieme, 23.11.2022; R. Angiolella, Riflessioni sulla riforma del processo tributario in Cassazione. La nuova Sezione Tributaria della Cassazione, la pace fiscale ed il rinvio pregiudiziale, in Giustizia Insieme, 15.12.2022. A. Bodrito, Punti critici della definizione agevolata in Cassazione ex art. 5 L. n. 130/2022, in Riv. dir. trib. on line, 22.12.2022 segnala, al riguardo, un precedente in cui la Corte costituzionale ha esteso il condono a soggetti che ne erano esclusi per disparità di trattamento (sentenza 13 luglio 2007, n. 270) cui si rinvia.
[2] Segnalazione dello stesso Ministro, M. Leo, Sarà efficientata nell’immediato la giustizia tributaria? in il fisco, 2022, 39, pag. 3707 ss.. Sul punto, anche A. Contrino - F. Farri, La nuova definizione agevolata delle liti tributarie in cassazione: vizi, virtù e possibile [in]efficacia nel contesto dell’attuale assetto della Suprema Corte, e possibile [in]efficacia nel contesto dell’attuale, in https://www.centrostudilivatino.it, 4.11.2022; R. Angiolella op. cit.; A. Bodrito, op. cit.
[3] Comma 14, art. 6, d.l. 23 ottobre 2019, n. 119; comma 11, art. 11, d.l. 24 aprile 2017 n. 50; comma 12, art. 39 d.l. 6 luglio 2011 n. 98; comma 10, art. 16, l. 27 dicembre 2002 n. 289.
[4] Art. 11, comma 11, d.l. n. 50/2017; art. 39, comma 12, d.l. n. 98/2011; art. 16, comma 10, l. n. 289/2002).
[5] A. Bodrito, op. cit.
[6] Come già osservato, i dubbi sull'effettiva riduzione del contenzioso dipendono anche dal fatto che la maggior parte dei ricorsi tributari definiti in cassazione è proposto dall’Agenzia delle entrate. Per dato statistico rilevato a dicembre 2021 su un totale di 7.994 definiti, l’Agenzia delle entrate è stata parte ricorrente nel 51% del totale, per un valore economico di 6.880.604.918 pari al 73,3% del valore complessivo: R. Angiolella, op.cit.
[7] Salvo a chiedersi la ratio dell’esclusione, visto che l’ADER, dopo il noto d.l. n. 193/2016 è ente strumentale dell’Agenzia delle entrate, a tutti gli effetti di legge e visto che si consente, a parità di costo, di chiudere la lite anche dopo la rottamazione delle cartelle e quindi eliminando i ruoli formati dagli Uffici, se in carico al (medesimo) Agente della Riscossione.
[8] Di diverso tenore letterale è l’art. 5, che in ordine alla definizione delle liti sui tributi locali pendenti in Cassazione, se nei limiti di valore, ha disposto al comma 15 che ciascun ente “stabilisce” - e, quindi in via d’obbligo e non di facoltà - l’applicazione delle regole sulla definizione agevolata ai tributi locali di sua spettanza o di un suo ente strumentale. Il punto è che, ciò nonostante, l’obbligo appare essere in conflitto con gli artt. 117 e 119 della Cost., anche per alterazioni dell’ omogeneità tra le Regioni; questione su cui si è pronunciata anche la Corte Costituzionale (sentenza n. 381/2004; sentenza n. 29/2018 sulla rottamazione dei tributi locali). Anche l’IFEL, di recente (novembre 2022), ha ritenuto la previsione una facoltà, e non un obbligo, qualificandolo come dovere in ragione degli obiettivi del PNRR. Il comma 15 è comunque privo di un termine per deliberare da parte degli Enti locali, con regolamento, l’eventuale estensione ma, per logica, il termine si è consumato il 16.1.2023. Di recente, tuttavia, la Regione Campania, in attuazione della Delibera di Giunta regionale n. 28 del 24/01/2023, ha approvato il modello di domanda e le istruzioni per la definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 5 l. 130/2022 e dell’art. 52 l.r. n. 18/2022, prevedendo quale termine per la presentazione della domanda di definizione agevolata il 2 maggio 2023 (ovvero 4 mesi dopo l’originaria scadenza).
[9]In proposito, come è accaduto per altri casi di sospensione legale dei termini e, in ultimo, per quella straordinaria disposta dall’emergenza COVID, la sospensione straordinaria prevista dalle leggi di definizioni delle liti non è cumulabile con quella dei termini processuali nel periodo feriale (art. 1 l. 742/1969 di 31 gg.) solo nei casi di coincidenza, o sovrapposizione dei relativi periodi secondo quanto stabilito dalla Cassazione (tra le ultime, sent. n. 34637/2022),
[10] Secondo la dottrina, la sospensione del processo per i casi del condono non rientra nei casi di pregiudizialità-dipendenza tra cause ex art. 295 c.p.c, ora art. 39, comma 1 bis, d.lgs. 546/92, né in quelli di istanza volontaria concorde delle parti ex art. 296 c.p.c.. Sul punto, C. Glendi, Sospensione ed estinzione del processo per le controversie definibili con la pace fiscale, in Corr. trib., 2019, 3, 221 ss. Si tratta di una figura autonoma ed automatica di sospensione che la legge fa dipendere dalla presentazione della domanda di condono, indipendentemente dall’intervento del Giudice che, quando dispone, emette un provvedimento dichiarativo e non costitutivo dell’effetto della sospensione.
[11] Provvedimento AE, prot.n. 30294/2023 del 1 febbraio 2023.
[12] Ad analoghe conclusioni è giunta l’Agenzia Entrate in altri documenti di prassi (circ. 180/1998, nr. 22/2017 e 6/2019. Lo stesso è avvenuto per l’Agenzia delle Dogane, n. 10/2003).
[13] Decreto del MEF del 13.12.2022 pubblicato il 15.12.2022.
[14] Se non si versa una delle rate entro il termine di quella successiva, quindi, l’intero importo è iscritto a ruolo con una maggiorazione del 45%.
[15] La Suprema Corte ha rilevato che l’art. 6, d.l. n. 119/2018, in quanto ex specialis e posteriore, deroga all’altra disposizione premiale di cui all’art. 17, d.lgs. n. 472/1997 che consente di definire le sanzioni con l’abbuono dei due terzi, rinunciando alla loro ripetizione. Ad avviso della Corte, le due disposizioni premiali “non sono incompatibili, poiché una contiene l’altra, nel senso che la definizione delle sanzioni di cui alla d.lgs. n. 472/1997 ha collegamento con la definizione di cui al d.l. n. 119/2018. Accedendo ai benefici della prima, le somme relative escono dal contenzioso, divenendo definitivamente irripetibili, ma restano sempre somme corrisposte in ragione ed in costanza della controversia che si vuole definire con la procedura di cui al più volte citato d.l. n. 119/2018”. Ne segue che “deve essere valorizzata l’espressione testuale del legislatore che ha voluto fossero scomputabili le somme “a qualsiasi titolo” versate in costanza di giudizio e che trovano fondamento sul contenzioso in essere che si vuol definire. Per cui, all’argomento letterale si affianca, irrobustendolo, l’argomento logico sistematico”.
[16] Secondo la Cassazione (sent. n. 7957 dell’11 marzo 2022), come già stabilito dalle SS.UU con la sentenza n. 19980/2014: "L'art. 391, primo comma, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall'art. 15 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), alludendo ai "casi di estinzione del processo disposta per legge", si riferisce sia alle ipotesi in cui l'estinzione del processo è disposta direttamente dalla legge, senza necessità di comportamenti diretti ad integrare la fattispecie estintiva, sia a quelle in cui tali comportamenti siano necessari poiché l'effetto estintivo è previsto dalla norma in ragione del verificarsi all'esterno del processo di cassazione di determinati fatti che poi devono essere rappresentati e fatti constare. Ne consegue che, ricorrendone i presupposti di legge e salvo che si debba necessariamente pronunciare sentenza ovvero ordinanza camerale ai sensi degli artt. 375, n. 3, e 380 bis cod. proc. civ., in entrambi i casi è possibile procedere alla dichiarazione di estinzione con decreto ai sensi dell'art. 391 cod. proc. civ.", ed inoltre hanno affermato, per quanto qui d'interesse, che "Il decreto di cui all'art. 391, primo comma, cod. proc. civ. ha la medesima funzione (di pronuncia sulla fattispecie estintiva) e il medesimo effetto (di attestazione che il processo di cassazione deve chiudersi perché si è verificato un fenomeno estintivo) che l'ordinamento processuale riconosce alla sentenza o all'ordinanza, con la differenza che, mentre nei confronti dei suddetti provvedimenti è ammessa solo la revocazione ex art. 391 bis cod. proc. civ., avverso il decreto presidenziale l'art. 4 Corte di Cassazione - copia non ufficiale 391, terzo comma, cod. proc. civ., individua, quale rimedio, il deposito di un'istanza di sollecitazione alla fissazione dell'udienza (collegiale) per la trattazione del ricorso. Tale istanza - che, non avendo carattere impugnatorio, non deve essere motivata - va depositata nel termine, da ritenersi perentorio (salva la generale possibilità di rimessione in termini prevista dall'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., aggiunto dall'art. 45, comma 19, della legge 18 giugno 2009, n. 69), di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo rechi o meno una pronuncia sulle spese" (v. anche Cass. n. 8727/2013).
[17] Sugli aspetti critici di questa estensione, soprattutto dopo l‘intervento in materia delle SSUU n. 10370/2019, si rinvia a A.FEDELE, Sostituzione tributaria ed estensione degli effetti del condono, in Riv. Dir. Trib. On line, 21 aprile 2021.
[18] Cass. sent. nn. 16120/2018; 7497/2018; 6466/2018; 16679/2016.
[19] Interpretazione confermata con la più recente sentenza n. 33176/2022 per la definizione agevolata di una cartella notificata a società beneficiaria quale primo atto impositivo, anche se la cartella era stata notificata in precedenza alla scissa, nonché con la sentenza n. 25486/2022 per la cartella notificata ad un cessionario d’azienda preceduta dall’avviso di accertamento notificato alla società cedente.
[20] Nello stesso senso, l’AE con riferimento all’art. 6, d.l. n. 11972018 con la circ. 6/2019.
[21] L'art. 3-bis del d.l. n. 146/21, inserito in sede di conversione dalla l. n. 215/21, novellando l'art. 12 del d.p.r. n. 602/73 con il comma 4-bis, ha stabilito, come noto, che: “Il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall'iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto per effetto di quanto previsto nell'art. 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici di cui all'art. 1, comma 1, lettera a), del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 18 gennaio 2008, n. 40, per effetto delle verifiche di cui all'art. 48-bis del presente decreto o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione”.
[22] Si noti che l’Agenzia delle dogane, con la circolare 10/D del 4 marzo 2003, in riferimento al condono tombale della l. n. 289 del 2002, ha ritenuto che dovesse ricomprendersi tra le definizioni l’IVA all'importazione, in quanto tributo nazionale, ed esclusione dei dazi, costituenti risorsa propria comunitaria.
[23] Si veda par. 4.4.
[24] Anche l’Agenzia delle Entrate, con la circolare 2/2017, par. 2 ha ritenuto definibili con la rottamazione i carichi relativi solo alle sanzioni tributarie.
[25] Non è agevole stabilire quali sono le violazioni che rientrano nella regolarizzazione delle irregolarità formali. Sul punto si rinvia per la casistica alla recente circ. 2/2023 che, a sua volta, rinvia alle precedenti emanate sul medesimo istituto.
[26] Tale conclusione trova conferma anche nella relazione illustrativa, pur se la stessa potrebbe ritenersi ininfluente rispetto alla legge, come supra indicato, ove si legge ma con riferimento al comma 4 dell’art. 42 del testo del ddl che: “Nel caso sia intervenuta sentenza di Cassazione con rinvio, la controversia si considera pendente in primo grado, “in coerenza con la previsione dell’articolo 68, comma 1, lettera c-bis) del decreto legislativo 31dicembre 1992, n. 546, in materia di riscossione in pendenza di giudizio di rinvio che prevede la riscossione frazionata”, e quindi, nella misura di un terzo come avviene in pendenza del giudizio di primo grado”.
[27] Qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario fosse in fase di estinzione mediante rateizzazione, anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 13-bis d.lgs. 74/2000 è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo. In tal caso la prescrizione è sospesa. Il Giudice ha facoltà di prorogare tale termine una sola volta per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando la sospensione della prescrizione.
[28] Si tratta dell’udienza che dovrà tenersi davanti a un giudice (diverso dal Gup e da quello che svolgerà l’eventuale dibattimento) che procederà agli accertamenti preliminari (costituzione delle parti, eventuale rinnovazione avvisi, citazioni, comunicazioni e notificazione di cui dichiara la nullità e così via).
[29] Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, infatti, quando: a) c’è una causa che estingue il reato o per cui l’azione penale non andava iniziata o proseguita; b) il fatto non è previsto dalla legge come reato o non sussiste o l’imputato non lo ha commesso o il fatto non costituisce reato; c) l’imputato non è punibile per qualsiasi causa; d) gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna.
[30] Sul tema si permetta di rinviare a P. Coppola, La fattispecie dell’indebito utilizzo di crediti d’imposta inesistenti e non spettanti tra i disorientamenti di legittimità e prassi: la “zona grigia” da dipanare, in Dir. prat. trib., n. 4/2021, pag. 1525-1551. Sulla complessa distinzione e questione, si veda l’ordinanza interlocutoria per la rimessione alle SS.UU, n. 35536 del 2.12.2022 sulla questione della loro distinzione ai fini dei relativi termini decadenziali, e la più recente ordinanza interlocutoria n. 3784 dell’8 febbraio 2023 sulla loro distinzione a fini sanzionatori.
[31] Anche su questo tema si permetta di rinviare a P. Coppola in (in ultimo), Alla ricerca della qualità del ciclo della regolazione, ed in specie, delle norme fiscali al tempo del Covid-19, in “Pandemia da “Covid-19” e “sistema tributario”, a cura di A. Contrino e F. Farri, Pacini Giuridica Editore.
Sommario: 1. L’iniziativa governativa annunciata dopo la tragedia. - 2. Il quadro normativo generale e le spinte giurisprudenziali. - 3. Le fattispecie specifiche. - 4. Le malattie professionali nel mondo scolastico. - 5. Le tutele nell’alternanza scuola-lavoro. - 6. La questione dell’infortunio in itinere degli allievi. - 7. Una diversa e possibile prospettiva risarcitoria.
1. L’iniziativa governativa annunciata dopo la tragedia.
Un giovane di 18 anni sta svolgendo uno stage di alternanza scuola-lavoro in azienda. Subisce un infortunio sul lavoro, e muore.
Il fatto ha naturalmente commosso il Paese, in un periodo in cui, dopo la stasi pandemica, assistiamo sgomenti ad un incremento allarmante degli infortuni sul lavoro, con largo superamento degli indici pre-pandemici. Si è gridato allo scandalo, per la giovane vita recisa, ma anche per il fatto che l’INAIL non ha corrisposto alcun indennizzo alla famiglia, salvo il pagamento delle spese funerarie.
Il Governo ha dichiarato di volere intervenire a maggior protezione degli allievi, e con comunicato congiunto Lavoro-Istruzione del 26 gennaio ha anticipato le linee di intervento: una modifica normativa di ampliamento dei soggetti tutelati dal t.u. 1124/1965 per il personale della scuola; rileva che mentre per il personale docente sono stati fatti dei passi avanti per la tutela contro tutti i rischi lavorativi, compreso l'infortunio in itinere, lo stesso percorso non è stato attuato per gli studenti, sicché oggi lo studente ha una tutela limitata solo a pochi e limitati rischi. La modifica normativa, che intende inserire in uno dei prossimi decreti utili, dovrebbe chiarire la portata della tutela assicurativa INAIL per il personale docente delle scuole di ogni ordine e grado in senso paritario con il resto dei lavoratori dipendenti, compreso l'infortunio in itinere; la tutela degli alunni e studenti in genere dovrebbe essere garantita per tutti gli eventi verificatisi all'interno dei luoghi di istruzione e loro pertinenze o nell'ambito delle attività programmate dalle scuole o istituti di istruzione di ogni ordine e grado, con esclusione però degli infortuni in itinere.
L’intervento normativo è benvenuto, e da tempo auspicato sia dalla dottrina[1], che ha stigmatizzato l’inadeguatezza del carattere selettivo delle origini, e sollecita una tutela universale per tutti i lavoratori, sia dallo stesso Istituto assicuratore[2].
Il comunicato però non coglie il punto del problema specifico posto dal caso di cronaca, costituito non dalla mancata copertura assicurativa, perché già ora gli studenti in alternanza scuola lavoro rientrano tra le persone tutelate a norma dell’art. 4 t.u. 1124, bensì dalla funzione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, costituita dall’obiettivo di sopperire allo stato di bisogno causato dall’infortunio o dalla malattia professionale, a norma degli artt. 38 e 32 Cost., fornendo mezzi adeguati di vita al lavoratore o ai suoi superstiti e indennizzando la lesione della integrità psico fisica.
Andiamo con ordine.
2. Il quadro normativo generale e le spinte giurisprudenziali.
Il problema della tutela infortunistica degli alunni si è posto fin dalle origini per le scuole professionali, nelle quali gli allievi sono tenuti ad operare in condizioni di rischio analoghe a quelle delle attività produttive rispetto alle quali sono propedeutiche, o in laboratori, annessi alla scuola, nei quali sono installate macchine identiche o simili a quelle degli opifici industriali.
I primi ad essere soggetti all’obbligo assicurativo antiinfortunistico furono gli alunni degli istituti di istruzione agraria e forestale, già negli anni venti del secolo scorso[3].
Seguì l’assicurazione obbligatoria per gli studenti di ingegneria e architettura, a cura degli Istituti di iscrizione, ma a spese degli studenti[4].
L’obbligo assicurativo contro gli infortuni sul lavoro fu esteso a tutti gli alunni delle regie scuole, e quindi solo per le scuole statali, nel 1941[5]. Infine esteso dal t.u. 1124/1965, per quanto riguarda le persone tutelate, a: “gli insegnanti e gli alunni delle scuole o istituti di istruzione di qualsiasi ordine e grado, anche privati, che attendano ad esperienze tecnico-scientifiche od esercitazioni pratiche, o che svolgano esercitazioni di lavoro (art. 4, n. 5), e, per quanto riguarda le attività protette, “per lo svolgimento di esperienze ed esercitazioni pratiche nei casi di cui all’art. 4, n. 5” (art. 1, comma 3, n. 28).
E questa è la base normativa tuttora vigente, sulla quale ha lavorato la giurisprudenza, fornendone una interpretazione espansiva, costituzionalmente orientata alla luce dell’art. 38, 2° comma. Cost., cui l’Istituto assicuratore si è prontamente adeguato, cogliendone la ratio ed estendendola ai casi sorretti da analoga esigenza.
La prima chiave della operazione espansiva è stata l’opzione giurisprudenziale a favore del rischio zero nelle macchine elettriche[6].
Nell’ambito della ortodossia della nozione originaria di rischio specifico proprio, il primo salto puramente quantitativo si ha con l’esplosione, anche nelle scuole, delle macchine elettriche (audiovisivi, lavagne luminose, registri di classe elettronici, etc.).
La attuale diffusione e centralità di tale tipo di macchina rileva sotto un doppio profilo: a) perché comporta il relativo obbligo assicurativo, per gli insegnanti che ne facciano uso o per quelli che si trovino nello stesso ambiente, ai sensi dell’art. 1, comma 1, t.u. 1124; b) perché integra la nozione di esercitazione pratica. Significativa al riguardo la circ. INAIL 17 novembre 2004, n. 79, che prevede l’obbligo assicurativo per gli alunni della scuola primaria e della scuola media per i quali il d.lgs. 19 febbraio 2004, n. 59, artt. 5 e 9, pone l’obbligo di lezioni di alfabetizzazione informatica e di lingua straniera, svolte con l’ausilio di macchine elettriche.
Il criterio però non è appagante, perché casuale e quindi arbitrario. Tra due insegnanti che ruotano tra le varie aule scolastiche, se nel giorno dell’infortunio (ad es. caduta per le scale) il primo tiene lezione in un’aula già attrezzata con lavagna elettrica, l’altro con lavagna tradizionale, il primo sarebbe tutelato, il secondo no. Ma a questa obiezione un po’ causidica, ma non per questo irreale, dovrebbe sopperire il rischio ambientale.
La seconda chiave è costituita dalla evoluzione, e direi evanescenza, della nozione di causa violenta, apportata dalla sentenza della Corte costituzionale sui ballerini e tersicorei, secondo cui il rischio di infortunio è insito nel movimento corporeo in sé considerato[7]. Per questa via entrano nella copertura le esercitazioni ginnastiche, all’interno della scuola o fuori di essa, per le quali valgono due considerazioni: la frequente presenza di attrezzi da ginnastica richiama le valutazioni maturate in tema di sforzo, ponendosi come forza antagonista alla persona e realizzando per tale via il requisito della manualità, intesa nella sua concezione originaria; in secondo luogo gli sviluppi nella nozione di manualità, estesa alla mera gestualità di certe attività, conferiscono valenza di autonoma fonte di rischio alle esercitazioni di ginnastica puramente motorie, anche prive di attrezzi esterni.
L’INAIL si è pronunciato da tempo sul tema[8], affermando l’obbligo assicurativo per le esercitazioni di ginnastica svolte all’interno delle scuole e negli orari scolastici. Successivamente ha ribadito tale direttiva, estendendola alle attività agonistiche e sportive svolte al di fuori degli orari scolastici, a condizione che le stesse siano previste dai programmi dell’Istituto di istruzione o, quantomeno, risultino promosse, organizzate e finanziate dall’Istituto medesimo, con la fornitura da parte di esso dei mezzi, del personale istruttore, sorvegliante, ecc.[9].
3. Le fattispecie specifiche.
Nella nozione di esperienze pratiche, così dilatata, l’INAIL fa rientrare anche le visite giornaliere o i viaggi di istruzione o di integrazione della preparazione di indirizzo, le c.d. gite scolastiche, a condizione che la visita o il viaggio rientri fra quelli programmati nel piano di offerta formativa. Ma poiché gli insegnanti chiamati ad accompagnare gli alunni non costituiscono una categoria autonoma, che possa essere selettivamente assicurata, le gite scolastiche concorrono a definire l’attività protetta e, corrispondentemente, le persone tutelate.
Possiamo riassumere lo stato dell’arte sul punto con le parole della circolare INAIL 23 aprile 2003, n. 28: sono soggetti all’assicurazione obbligatoria:
- tutti gli insegnanti ed alunni che per lo svolgimento della loro attività fanno uso in via non occasionale di macchine elettriche (videoterminali, computer, fotocopiatrici, videoregistratori, mangianastri, proiettori, etc.),
- ovvero frequentano un ambiente organizzato ove sono presenti le suddette macchine,
- nonché quelli che sono direttamente adibiti ad attività consistenti in esperienze tecnico-scientifiche, esercitazioni pratiche, esercitazioni di lavoro,
- alle esercitazioni pratiche si deve assimilare anche l’attività di educazione fisica svolta nelle scuole medie superiori ed inferiori;
- quella ludico motoria svolta nelle scuole elementari e materne;
- infine le gite scolastiche e l’attività di sostegno.
La capacità espansiva della espressione “esercitazioni pratiche” sembra a questo punto esaurita.
Con l’insegnante di sostegno si entra in una logica diversa, e più gravida di sviluppi.
Tra le attività protette rientra anche l’attività di sostegno (circ. 28/2003 cit.) la quale, come configurata dall’art. 13, commi 3 e 5, l. 5 febbraio 1992, n. 104, comporta un rischio legato non tanto alle modalità di svolgimento dell’insegnamento, quanto alle condizioni psico-fisiche dell’alunno affidato alle cure. Rientrano nella copertura assicurativa le lesioni provocate all’insegnante da soggetto “irrequieto”.
Qui siamo in pieno e puro rischio ambientale, nel senso definito dalle Sezioni unite[10], e cioè come pericolosità data dallo spazio delimitato e dalle altre persone presenti sul teatro lavorativo.
Particolarmente significativa, e direi ultimativa, Cass. 23 luglio 2012, n. 12779, che ha affermato inerente al lavoro ed alla tutela l’aggressione da parte di ex studente, ai danni di un professore intento alla sorveglianza degli alunni in una partita di pallavolo interna alla scuola.
Questa sentenza è fondamentale e segna un punto di svolta, perché l’obbligo assicurativo nasce non dall’aggressione, bensì dal rischio di aggressione, comune a qualsiasi insegnante, come purtroppo notizie di cronaca anche recenti ci riferiscono.
Rientra in tale capitolo anche l’attività di vigilanza e protezione cui l’insegnante è tenuto[11].
Per i presidi e dirigenti scolastici si aggiunge un ulteriore titolo di responsabilità, in quanto datori di lavoro ai sensi del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81[12].
Mettendo insieme i vari tasselli: esperienze tecnico scientifiche, esercitazioni pratiche, esercitazioni di lavoro di cui all’art. 4, n. 5, attività ludiche nelle scuole materne, macchine elettriche, attività di sostegno, gite scolastiche, attività ginnastiche e sportive, rischio di aggressione, l’obbligo di protezione e vigilanza, si deve concludere che i confini dell’obbligo assicurativo, e della relativa copertura, si sono spostati al di là della dimensione originaria per sfociare nei più vari fattori ambientali, tutti irraggiati intorno al ruolo tipologico rispettivamente dell’insegnante e dell’alunno.
Ciononostante, un intervento legislativo chiarificatore e totalizzante è auspicabile, perché vi è sempre la possibilità di crepe, decisioni eccentriche e retromarce nel tessuto giurisprudenziale[13]. E’ pertanto benvenuta la norma, promessa dal Governo, di estensione incondizionata della tutela a tutti gli insegnanti per il ruolo tipologico loro proprio, senza le approssimazioni parcellari della lunga marcia giurisprudenziale.
4. Le malattie professionali nel mondo scolastico.
Vi è poi tutto il coté delle malattie professionali degli insegnanti, tema molto studiato negli ultimi tempi. Vi sono almeno quattro direttrici di indagine.
La prima ipotesi, classica ed ortodossa rispetto ai parametri testuali dell’art. 4 n. 5, è quella degli insegnanti ed alunni soggetti al rischio di esalazioni di sostanze tossiche impiegate nelle esercitazioni pratiche. Rileva al riguardo la recente Cass. 5 febbraio 2020 n. 2592, la quale ha cassato la sentenza di merito che aveva negato la tutela ad uno studente di scuola professionale per odontotecnici esposto al rischio dei fumi di berillio, agente tabellato, enunciando il principio che il relativo periodo di esposizione al rischio come allievo (o come insegnante) si cumula con quello successivo di esposizione al medesimo rischio nell’attività professionale di odontotecnico. La sentenza è rilevante sotto diversi profili: perché riconosce una malattia professionale degli alunni, e quindi degli insegnanti esposti alla stesso rischio; perché la mette sullo stesso piano delle attività protette per le altre persone tutelate ed in conformità con le stesse; perché ribadisce in tal modo la ragione originaria dell’inserimento degli insegnanti ed alunni tra le persone tutelate in quanto espletino la medesima attività protetta di queste.
Viene poi il rischio ambientale, ad esempio esposizione all’amianto presente nelle strutture scolastiche, che colpisce in eguale misura insegnati ed alunni.
In terzo luogo il rischio da costrittività organizzativa. L’INAIL ha elaborato tale nozione[14] per comprendere nel c.d. rischio assicurato (o come si esprime meglio il t.u., nell’attività protetta) anche quelli riconducibili al contesto organizzativo aziendale. Con lo stesso processo logico, si può applicare tale criterio estensivo allo status lavorativo dell’insegnante in un determinato contesto sociale, e ricondurvi tutte quelle situazioni di stress lavoro correlato che da esso derivano, il quale può degenerare in malattia che, trovando causa nella situazione lavorativa, non può che qualificarsi come professionale[15].
Infine i disturbi all’apparato fonetico, derivanti dal lungo parlare e, a volte, gridare. Benché questi non siano tabellati, l’insegnante può provare, tramite accertamenti medici e, occorrendo, con ctu, la loro origine professionale.
Gli insegnanti, una volta entrati nel campo di applicazione, sono tutelati: a) per eventi del tutto indipendenti dal rischio specifico proprio, secondo gli sviluppi sistemici (atti di locomozione, atti prodromici, pause fisiologiche, infortunio in itinere, etc.); b) per le malattie professionali (si è citata sopra Cass. 2592/2020 per un caso di malattia professionale di alunni).
5. Le tutele nell’alternanza scuola-lavoro.
E veniamo specificamente all’alternanza scuola-lavoro, ora denominata e ridisciplinata dall’art. 1, commi 784 segg., legge 30 dicembre 2018, n. 145 come PCTO, “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”. Questi percorsi sono obbligatori per tutti gli studenti dell'ultimo triennio delle scuole superiori.
L’art. 4 legge 28 marzo 2003, n. 53 (Definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale) ha delegato il Governo ad adottare un apposito decreto legislativo al fine di assicurare agli studenti dai 15 ai 18 anni la possibilità di svolgere l’intera formazione attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, sulla base di convenzioni con imprese o con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le camere di commercio, o con enti pubblici e privati ivi inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti.
Il d.lgs. 15 aprile 2005 n. 77 ha dato attuazione alla delega.
Ulteriori disposizioni sono state dettate con legge 13 luglio 2015 n. 107, commi da 33 a 43.
Il comma 34 ha aggiunto la possibilità di svolgere l’esperienza lavorativa presso gli ordini professionali, i musei e gli altri istituti pubblici e privati operanti nei settori del patrimonio e delle attività culturali, artistiche e musicali, nonché con enti che svolgono attività afferenti al patrimonio ambientale e con enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI.
Poiché la legge delega specifica che l’alternanza scuola-lavoro costituisce una modalità di realizzazione del percorso formativo e si svolge sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, non vi può essere dubbio che l’attività lavorativa svolta dagli alunni nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro sia tutelata a norma degli artt. 1, n. 28 e 4, n. 5, t.u. 1124.
In questi termini si è pronunciato anche l’INAIL[16], il quale distingue tra eventi verificatisi nell’ambito scolastico vero e proprio, per i quali valgono le norme del t.u. 1124 citate ed i traguardi interpretativi raggiunti, ed eventi occorsi durante i periodi di apprendimento mediante esperienze di lavoro, nei quali i rischi degli allievi sono simili a quelli dei lavoratori presenti in azienda. Su tale base, l’Istituto afferma che tutti gli infortuni occorsi in ambiente di lavoro sono indennizzabili.
6. La questione dell’infortunio in itinere degli allievi.
Viceversa l’Istituto assicuratore, con posizione costante, ritiene che la tutela dell’infortunio in itinere si applichi agli insegnanti, ma non agli alunni; motivazione: il carattere meramente assimilato della tutela degli alunni, per i quali non vale il presidio dell’art. 38, 2° comma, Cost., riservato ai lavoratori[17]. Tale posizione ha trovato sponda in qualche pronuncia di merito[18].
L’argomento prova troppo, perché anche la tutela dell’art. 4, n. 5, trova fonte, per gli studenti, non nell’art. 38 Cost., ma nella potestà legislativa ordinaria, riconducibile all’art. 34 Cost., sicché nulla osta alla estensione in via interpretativa della tutela degli infortuni in itinere anche agli alunni.
Ma è proprio la posizione dell’Istituto sulla alternanza scuola lavoro, che fornisce i migliori argomenti a favore della inclusione degli allievi nella tutela dell’infortunio in itinere.
Sul problema dei percorsi, la circolare 44/2016 citata distingue:
- gli infortuni occorsi durante il tragitto tra la scuola presso cui è iscritto lo studente ed il luogo in cui si svolge l’esperienza di lavoro rientrano nella tutela, in quanto tale percorso è organizzativamente e teleologicamente, quale prolungamento dell’esercitazione pratica, scientifica o di lavoro, riconducibile all’attività protetta svolta durante l’esperienza di alternanza scuola lavoro;
- il percorso casa-scuola o laboratorio casa costituisce infortunio in itinere non tutelabile.
L’azione sinergica tra sviluppi giurisprudenziali e direttive INAIL ha seguito un percorso promiscuo per insegnanti ed alunni, con risultati paritari, perché unitaria è la fonte normativa. Due sole differenze: nell’area delle attività protette, l’INAIL esclude la tutela dell’infortunio in itinere per gli alunni; nell’area delle prestazioni, per questi ultimi è esclusa la indennità per inabilità temporanea assoluta, ma di questo nessuno mena scandalo, perché inerente ai fondamentali di sistema: poiché gli alunni non godono di retribuzione, non ha senso una misura sostitutiva della stessa; lo stesso, a contrario, vale per gli impiegati statali, i quali non hanno diritto alla indennità di inabilità temporanea perchè nello stesso periodo continuano a godere della retribuzione.
Sorprende perciò, in una prospettiva di standardizzazione delle tutele per insegnanti ed alunni, con reductio ad unum della multiforme casistica precedente, l’annunciata esclusione della tutela dell’infortunio in itinere per gli alunni, in controtendenza rispetto ad altri Paesi europei, con i quali il nostro solitamente si confronta. In Germania, patria del modello bismarkiano, sul quale è impostato anche il nostro sistema di tutela infortunistica, gli studenti sono assicurati nell’ambito della funzione pubblica, per l’attività scolastica globalmente intesa, compresi anche gli infortuni in itinere. Questi costituiscono una quota importante degli infortuni complessivi degli studenti. Nel corso del 2015 l’ente competente ha costituito 541 rendite per infortuni all’interno della scuola e 248 per infortuni in itinere. Nello stesso anno gli infortuni mortali sono stati 21 all’interno della scuola e 40 nel tragitto casa-scuola[19].
Nel nostro Paese l’INAIL, che pure mappa statisticamente tutti gli infortuni in ambito scolastico, nulla ci dice circa gli infortuni in itinere degli allievi, proprio perché li ritiene esclusi dalla tutela. Ma l’esigenza sociale di estendere la tutela dell’infortunio in itinere agli studenti esiste, né la si può eludere adducendo che vi è già l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile degli autoveicoli ed il Fondo di garanzia per le vittime della strada. L’esigenza sussiste, perché non tutti gli incidenti stradali sono dovuti a responsabilità di un terzo. Si pensi alla estensione, dovuta proprio al consenso determinante dell’Istituto, dell’infortunio in itinere all’uso della bicicletta quale mezzo necessitato[20]. In caso di incidente, che lasci lo studente con esiti permanenti molto gravi, le conseguenze per lui e per la sua famiglia possono essere devastanti. Per tacere delle esigenze sistematiche e della maggiore tutela, anche riabilitativa, del sistema INAIL.
Sussiste pertanto l’esigenza di completare la tutela degli studenti, ex art. 4, n.5 t.u. 1124, con l’inclusione dell’infortunio in itinere.
7. Una diversa e possibile prospettiva risarcitoria.
E veniamo ora al punto specifico posto dal caso presente. Funzione storica dell’Istituto è sollevare il lavoratore, o i suoi superstiti, dallo stato di bisogno cagionato dall’infortunio, cui si è aggiunto, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale e del d.lgs. 38/2000, l’indennizzo per la lesione della integrità psicofisica.
Se il Governo intende venire incontro all’emozione popolare per la perdita di un figlio nel fiore degli anni, si deve pensare a misure di carattere risarcitorio o assistenziale, diverse da quelle previdenziali che costituiscono la ragion d’essere dell’INAIL. Misure che in effetti negli ultimi tempi si stanno moltiplicando.
L’esempio più vicino è il Fondo per le vittime dell’amianto, istituito, sull’esempio francese, dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008, art. 1, commi 241-246) per indennizzare le vittime professionali e non professionali, familiari ed ambientali, da esposizione ad amianto, inizialmente in via sperimentale, oggetto di successivi interventi normativi, da ultimo la legge di bilancio per l’anno 2021 (legge 30 dicembre 2020, art.1, commi da 356 a 359).
Detto Fondo viene qui evocato non perché prevede prestazioni in favore di vittime non professionali (ché gli studenti in alternanza scuola lavoro rientrano nella tutela infortunistica per ragioni professionali), ma perché per la prima volta prevede prestazioni in favore degli eredi dei malati di mesotelioma, categoria inedita nel panorama della tutela infortunistica, dove è principio consolidato che la rendita ai superstiti spetta ai familiari selezionati dall’art. 85 t.u. 1124 in ragione del grado di bisogno, jure proprio, e non jure hereditatis.
Le prestazioni, definite dalla legge assistenziali, consistono, per gli esposti professionali, in una prestazione economica aggiuntiva rispetto sia alla rendita, disciplinata dal t.u. 1124, sia alla pensione maggiorata prevista dalla legge 257/1992. Per gli esposti non professionali il beneficio consiste in una erogazione una tantum di € 10.000.
Nella sua attuale configurazione permanente, il Fondo è gestito dall’INAIL con contabilità autonoma e separata, finanziato per intero dal bilancio dello Stato; vi sovrintende un comitato amministratore composto da rappresentanti dei ministeri competenti, dell’ INAIL, delle organizzazioni sindacali e, quale traccia dell’intento espansivo originario, di due rappresentanti delle associazioni delle vittime dell’amianto, le quali riuniscono, com’è noto, anche i soggetti ed i parenti delle vittime non professionali.
Questo provvedimento è stato oggetto di severa critica da parte della dottrina, che lo ha qualificato di deriva assistenzialistica, perché priva i beneficiari della certezza dei diritti previdenziali e li espone al vento dei variabili stanziamenti ministeriali[21].
L’importante è tenere separate le funzioni, e non gravare l’INAIL, finanziato con contributi datoriali, di impropri compiti assistenziali, da finanziare viceversa con la finanza pubblica, come è avvenuto proprio con il Fondo amianto, che inizialmente gravava, in parte, sui datori di lavoro, per passare poi, nel sistema a regime, ad intero carico dello Stato[22], coerentemente con il carattere assistenziale dello stesso.
L’occasione sarebbe propizia per intervenire anche sull’arcipelago delle innumerevoli forme di tirocinio e praticantato, alcune delle quali, come la pratica ed il tirocinio per l’accesso alle professioni, e il tirocinio negli uffici giudiziari[23] risultano ancora scoperti da assicurazione infortuni.
Il campo è stato profondamente arato dalla giurisprudenza. La linea direttiva è stata tracciata da tempo dalla Corte costituzionale: parità di tutela a parità di rischio.
Lo stesso legislatore non è nuovo a questo tipo di intervento: la Legge 17 maggio 1999, n. 144, nel delegare il Governo a consacrare legislativamente la tutela dell’infortunio in itinere, gli ha posto come criterio direttivo (art. 55, lett. u) il recepimento dei princìpi giurisprudenziali consolidati in materia.
E sarebbe tutto conforme e conferma dell’insegnamento di un insigne Maestro secondo cui il diritto nasce dalla società[24].
[1] G. CORSALINI, La centralità del lavoratore nel sistema di tutela INAIL, Milano, Giuffré Francis Lefebvre,2020; L. LA PECCERELLA (a cura di) Infortuni sul lavoro e malattie professionali, le tutele dell’ assicurazione obbligatoria, Pisa, Pacini 2021; dello stesso Autore, Tipologie del rapporto di lavoro e tutela contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali: variabili dipendenti o indipendenti?, in Riv.inf.mal.prof. 2019, I, 37, nonché L’universalizzazione delle tutele tra d.lgs. 81/2008 e d.p.r 1124/1965, in Riv.inf.mal.prof., 2018, I, 17.
[2] Delibera del Consiglio di amministrazione Inailcome n. 157 del 6 aprile 2000, che ritiene ineludibile una estensione della tutela del rischio strada alla generalità dei lavoratori.
[3] Art. 3 d.l.lgt. 21 novembre 1918, n. 1889, che approva il regolamento per la esecuzione del d.l.lgt. 23 agosto 1917, n. 1450, sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro in agricoltura.
[4] R.d.l. 16 gennaio 1927, n. 347, convertito in l. 18 dicembre 1927, n. 2502.
[5] L. 29 agosto 1941, n. 1092.
[6] Ex plurimis: Cass. 25 luglio 1978, n. 3741, in Riv. inf. mal. prof., 1978, II, 198; Cass. 5 luglio 1978 n. 3325; Cass. 3 luglio 1990 n. 6800, in Riv. Inf. mal. prof. 1990, II, 160, che, sconfessando l’opposto orientamento di merito, che intendeva misurare la pericolosità di ciascuna macchina, ha affermato la presunzione juris et de jure di qualsiasi macchina elettrica, anche a bassissimi voltaggi; sul tema vedi A. DE MATTEIS, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano 2020, 73 segg., 276 segg.
[7] Corte cost. 8/21 marzo 1989, n. 137; A. DE MATTEIS Infortuni cit. 171.
[8] Notiziario 20 giugno 1985, n. 32.
[9] Servizio rischi, lettera 21 febbraio 1986, in Dir. prat. lav., 1986, 14, 896.
[10] Cass. sez. un. 14 aprile 1994 n. 3476, in Riv. inf. mal. prof., 1994, II, 83, nonché in Lav. nella giur., 1994, 8, 794 con nota di S. Giubboni, Manualità della prestazione lavorativa e assicurazione infortuni.
[11] Cass. Sez. un. 27 giugno 2002 n. 9346, in Foro it. 2002, I, 2635, con nota di F. DI CIOMMO, La responsabilità contrattuale della scuola (pubblica) per il danno che il minore si procura da sé: verso il ridimensionamento dell’art. 2048 cod.civ.; Cass. pen. 23 febbraio 2010 n. 17574 sull’obbligo dell’insegnante dell’ultima ora di vigilare gli alunni di scuola media all’uscita dalla scuola; nella specie un alunno di 11 anni era morto investito da un autobus all’uscita dalla scuola; Cass. civ. 28 aprile 2017 n. 10516, affermativa della responsabilità dell’insegnante che aveva accompagnato gli allievi minorenni fuori della scuola per salire sul pulmino scolastico, il quale partiva travolgendone mortalmente uno, evento distinto dal precedente, ulteriore caso a conferma della pericolosità di siffatte attività con minorenni; Cass. 13 novembre 2015 n. 23212, sulla responsabilità dell’insegnante ove abbia omesso le più elementari misure organizzative per mantenere la disciplina degli allievi; la sentenza di merito del settembre 2019 che ha condannato (la preside e) l’insegnante di un istituto scolastico salentino ad otto mesi di reclusione nel caso di un allievo caduto, ancora una volta, da un lucernario, che aveva ceduto sotto il suo peso, causandone la morte). Siffatta responsabilità è esclusa nei confronti di allievi maggiorenni (Cass. 31 gennaio 2018 n. 2334) e nei confronti di allievi fuori dalla scuola e fuori dalla sfera di vigilanza (Cass. 16 febbraio 2015, n. 3081 e Cass. 6 novembre 2012, n. 19160).
[12] Cass. sez. 4° pen. 12 settembre 2019 n. 37766 ha condannato la preside di un istituto scolastico nel quale uno studente è caduto, riportando gravi danni, da un lucernario, solitamente inaccessibile, ma per il quale una bidella aveva lasciato aperta la porta d’accesso per areare gli ambienti.
[13] Vedi ad es. Cass. 27 marzo 2019 n. 8449, della 3° sez. civile, la quale ha escluso che l’incidente occorso ad uno studente (caduta dalla roccia per la rottura, causata di uno sperone tagliente, della corda di calata, durante una gita scolastica programmata dal proprio istituto scolastico in Trentino appositamente per tale esercitazione), potesse rientrare nella copertura Inail, perché l’art. 4, n. 5, t.u. 1124 “ha carattere eccezionale e postula un nesso di derivazione eziologica tra le esercitazioni pratiche e le attività didattiche”.
[14] Circolare 17 dicembre 2003 n. 71. Per i successivi interventi della giustizia amministrativa vedi A. DE MATTEIS, Infortuni cit. 409.
[15] R. Guariniello, La sicurezza nelle scuole nella legislazione e nella giurisprudenza, in Riv. inf. mal. prof. 2016, I, 9; sul burnout degli insegnanti vedi V. LODOLO D’ORIA, Insegnanti salute negata e verità nascoste. Cento storie di burnout, Napoli 2019; dello stesso A. Pazzi per la Scuola, Roma 2010; PATERNI, LODOLO D’ORIA, MONTICONE, PASSARELLO, Stress e disagi nella scuola: analisi, riflessioni e possibili soluzioni, inserto n. 6/2018 di Igiene e sicurezza del lavoro in cattedra.
[16] Circolare 21 novembre 2016 n. 44.
[17] Circ. 28/2003 cit.; circ. 44/2016.
[18] Trib. Vicenza 2 gennaio 2004, n. 328, in Foro it., 2005, I, 276; nonché in Riv. inf. mal. prof., 2004, II, 23, con nota critica di R. Dalla Riva, L’infortunio in itinere degli alunni e studenti di istruzione non è coperto dall’Inail. Una “questione” apparentemente semplice.
[19] R. Colella, L’assicurazione pubblica contro gli infortuni per gli studenti in Germania, atti del seminario organizzato dal CIV Inail il 23 settembre 2016 a Roma, in Instant book del Civ, Roma 2016, pag. 43.
[20] Su tale sviluppo vedi A. DE MATTEIS, Infortuni cit. 146.
[21] P. Acconcia, Considerazioni per una riforma dell'assicurazione infortuni sul lavoro fra razionalizzazione ed evoluzione, Quaderni della Riv.inf.mal.prof., Inail 2010; E. De Caris, Il fondo per le vittime dell'amianto, in Riv. inf. mal. prof., 2011, I, 753.
[22] Il contributo addizionale inizialmente previsto a carico delle imprese è stato abolito dall’art. 1, comma 358, legge 30 dicembre 2020 n. 178.
[23] Previsto dall’art. 73 del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 convertito in legge 9 agosto 2013 n. 98.
[24] P. GROSSI, La formazione del giurista e l’esigenza di un odierno ripensamento metodologico, in Quaderni fiorentini, 2003, n. 32, p. 25 segg., secondo cui costituisce una imprescindibile opzione metodologica recuperare la dimensione storica e sociale del diritto, perché mai lo Stato o le sue leggi sarebbero capaci di esprimere tutta la complessità e la ricchezza della società; più di recente nello stesso senso P. GROSSI, Ritorno al diritto, Roma-Bari, Laterza, 2019.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 8. Prime riflessioni sulla nuova “revisione europea”
di Gaetano De Amicis
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
Sommario: 1. Il nuovo sistema dei rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. – 2. Genesi, finalità e contenuto della delega legislativa: la nuova competenza funzionale della Corte di cassazione. – 3. La legittimazione soggettiva. – 4. L’oggetto dell’impugnazione. – 5. Forma, termini e modalità di presentazione del ricorso. – 6. Il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione. 7. Le decisioni della Corte. – Segue: 7.1. La fase rescindente. – Segue: 7.2. La fase rescissoria. – 8. La riapertura del processo dinanzi ai giudici di merito. – 9. Gli effetti della riapertura. – 10. La disciplina intertemporale. - 11. I rapporti con gli altri rimedi impugnatori post iudicatum – 12. I limiti di un successivo controllo “esterno” sull’esito del procedimento interno di revisione delle condanne ritenute “inique” dalla Corte EDU. – 13. La rinnovata centralità del ruolo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione: problemi e prospettive.
1. Il nuovo sistema dei rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Con la disposizione dell’art. 628-bis cod. proc. pen. – inserita nel codice di rito dall’art. 36 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - il legislatore ha previsto, inquadrandolo nel nuovo Titolo III bis del Libro IX dedicato alle impugnazioni, un nuovo mezzo di impugnazione straordinaria, incentrato sulla richiesta alla Corte di cassazione dell’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei relativi Protocolli addizionali.
Si tratta di un rimedio impugnatorio di natura polivalente e a carattere unitario, poiché, da un lato, consente di individuare una pluralità di soluzioni da adattare con criteri flessibili alle peculiarità del caso di specie, dall’altro affida sempre ed unicamente alla Corte di cassazione un vaglio preliminare sul vizio accertato nelle decisioni della Corte di Strasburgo.
Si supera, in tal modo, il previgente assetto basato sul ricorso alla cd. “revisione europea”, individuata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 7 aprile 2011 quale temporanea soluzione per la “riapertura” dei processi giudicati non equi, restituendo al contempo coerenza intrinseca all’istituto della revisione della condanna penale di cui agli artt. 629 ss. cod. proc. pen.[1], “snaturato nella sua autentica fisionomia strutturale” dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Analoga soluzione è stata individuata dal legislatore delegato in occasione della riforma del processo civile, con la previsione di una nuova ipotesi di revocazione del giudicato civile in presenza di violazioni convenzionali accertate dalla Corte europea che hanno provocato un pregiudizio a un diritto di stato della persona (art. 391-quater c.p.c.).
L’azionabilità del rimedio nel settore civile è limitata alla ricorrenza di due condizioni: a) che la violazione accertata abbia pregiudicato un diritto di stato della persona; b) che l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte EDU non sia idonea a compensare le conseguenze della violazione. Nell’ipotesi in cui venga accolta la domanda di revocazione, il legislatore ha significativamente richiamato il disposto di cui all’art. 391-ter c.p.c., al fine di limitare la fase rescissoria dinanzi alla Corte di cassazione solo nell’ipotesi in cui la nuova decisione sia possibile senza ulteriori accertamenti di fatto[2].
Nel sistema convenzionale, come è noto, gli Stati contraenti sono obbligati, ai sensi dell’art. 46 CEDU, a conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, che nell’accertare le violazioni da parte degli Stati non si limitano più, come nel passato, ad imporre misure risarcitorie, accordando un’equa soddisfazione ai sensi dell’art. 41 CEDU, ma tendono sempre più spesso ad indicare anche il tipo di misure individuali e/o generali che lo Stato deve adottare al fine di eliminare le conseguenze della violazione e favorire la restitutio in integrum[3].
L’evoluzione della prassi giurisprudenziale è ormai orientata nel senso che la Corte europea ordina nel dispositivo l’adozione di misure ripristinatorie o, in generale, l’introduzione di meccanismi idonei ad evitare il ripetersi di una violazione “sistemica, strutturale e non isolata”, mentre l’obbligo dell’equa soddisfazione viene disposto in via residuale, qualora non sia di per sé sufficiente a rimediare alla violazione accertata[4].
La maggiore specificità delle misure previste e la minore libertà degli Stati nella scelta discrezionale dei mezzi di esecuzione è rinvenibile sia nel dispositivo delle sentenze cd. “pilota”, oggetto di una specifica procedura ai sensi dell’art. 61 del regolamento della Corte, sia nelle motivazioni delle sentenze definite “quasi-pilota”, la cui struttura produce effetti sostanzialmente equivalenti, attraverso l’indicazione del problema sistemico o strutturale e delle misure generali raccomandate nella parte della motivazione relativa all’art. 46 CEDU, senza alcun richiamo nel dispositivo[5].
Nel riconoscere l'iniquità del processo, accade sovente che la Corte europea indichi l’esigenza di un "nuovo processo" o di una "riapertura del caso", su richiesta dell'interessato, come la via più adeguata al fine di rimediare alla violazione, ma tale soluzione non rappresenta l'epilogo necessario, poiché l’individuazione della misura dipende dai diversi elementi che caratterizzano il caso concreto, oltre che dalla specifica violazione procedimentale. Può infatti accadere che la Corte, pur ravvisando l'inosservanza dell'art. 6 CEDU o la presenza di altri vizi procedurali, escluda esplicitamente la prospettiva della riapertura di un procedimento conclusosi con decisione definitiva, indicando altre vie per porvi rimedio[6].
Un ruolo fondamentale viene riconosciuto, in tale contesto, al Comitato dei Ministri, incaricato di supervisionare la corretta esecuzione delle sentenze da parte degli Stati contraenti, attivando, se del caso, una “procedura di infrazione” in caso di rifiuto dello Stato condannato di conformarsi alle relative indicazioni, ovvero sollecitando la Corte EDU a chiarire l’interpretazione di una propria sentenza per facilitarne l’esecuzione.
2. Genesi, finalità e contenuto della delega legislativa: la nuova competenza funzionale della Corte di cassazione.
Il nuovo istituto previsto dal d.lgs. n. 150 del 2022 mira a dare attuazione ai criteri e principi stabiliti nell’art. 1, comma 13, lett. o), della legge delega 4 ottobre 2021, n. 137, al fine di introdurre nel sistema processuale un rimedio straordinario volto a dare piena e adeguata esecuzione alle sentenze definitive della Corte europea.
Nella norma di delega, in particolare, è stata prevista l’introduzione di una disciplina volta a regolare i profili inerenti alla esecuzione delle sentenze della Corte EDU, attribuendo al Governo il compito di:
a) introdurre un mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Corte di cassazione al fine di dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte europea, proponibile dal soggetto che abbia presentato il ricorso, entro un termine perentorio;
b) attribuire alla Corte il potere di adottare i provvedimenti necessari e disciplinare l’eventuale procedimento successivo;
c) coordinare il rimedio con quello della rescissione del giudicato e con l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cod. proc. pen.
Un intervento normativo nella materia era atteso da lungo tempo, se si considera che, da oltre vent’anni, a seguito della Raccomandazione del 19 gennaio 2000, R (2000)2, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva invitato gli Stati membri a disciplinare le forme della riapertura del procedimento in caso di condanna pronunciata dalla Corte di Strasburgo.
Nella Raccomandazione, in particolare, si è rivolto un invito agli Stati contraenti «ad esaminare i rispettivi ordinamenti nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate possibilità di riesame di un caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti, laddove la Corte ha riscontrato una violazione della Convenzione e in particolare allorché […] la sentenza della Corte induce alla conclusione che: a) la decisione interna impugnata è nel merito contraria alla Convenzione; b) la violazione riscontrata è costituita da errores o da altre mancanze di tale gravità da far sorgere seri dubbi sull’esito del procedimento nazionale considerato». A fronte di tali evenienze, il giudicato interno deve cedere alla tutela dei diritti fondamentali, sempre che la vittima «continu[i] a soffrire delle conseguenze negative molto gravi in seguito alla decisione nazionale, conseguenze che non possono essere compensate dall’equa soddisfazione e che non possono essere rimosse se non attraverso il riesame o la riapertura» del procedimento[7].
Da quel momento, infatti, in assenza di una specifica disciplina legislativa, la materia era rimasta affidata alle oscillanti interpretazioni della giurisprudenza, che aveva progressivamente individuato quattro diversi rimedi:
a) la revisione europea, introdotta dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 113 del 7 aprile 2011 (consentita anche per le misure di prevenzione[8] e in caso di cessazione della materia del contendere dinanzi alla Corte EDU, con la conseguenziale cancellazione della causa dal ruolo ai sensi degli artt. 37 e 62 del regolamento CEDU[9], ma non estensibile al di fuori delle situazioni in cui il diretto interessato abbia ottenuto una pronuncia favorevole per avere adito la Corte EDU[10]);
b) il ricorso straordinario per errore di fatto (nelle ipotesi di violazioni consumatesi nel giudizio di legittimità, come verificatosi nel caso Drassich c. Italia);
c) l’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cod. proc. pen. per ottenere la ineseguibilità del giudicato (con riferimento alle fattispecie relative a violazioni sostanziali);
d) la restituzione nel termine per impugnare in favore dell’imputato contumace ai sensi dell’art. 175, commi 2 e 2-bis, cod. proc. pen. (Sez. 5, 15 novembre 2006, Cat Berro; Sez. 1, 12 luglio 2006, Somogyi).
Si tentava di supplire alla lacuna legis attraverso una serie di soluzioni diversificate che, pur espressione di indubbia sensibilità per la tutela dei diritti fondamentali, ritenuti prevalenti rispetto alla stessa esigenza di stabilità della res iudicata, determinavano un sostanziale “congelamento” sine die del giudicato, confinato in una sorta di “limbo” di inefficacia (Sez. 1, 1 dicembre 2006, Dorigo), ovvero l’interpretazione analogica di un mezzo di impugnazione straordinario (Sez. 5, 11 febbraio 2010, Scoppola; Sez. 6, 12 novembre 2008, Drassich), risolvendosi comunque in una violazione del principio di tassatività delle impugnazioni.
In ogni caso, come osservato dalla dottrina, si trattava di soluzioni idonee ad infrangere il dictum definitivo interno giudicato non equo dalla Corte EDU, ma non in grado di garantire, in ossequio alle indicazioni dettate dalla Corte di Strasburgo, il risultato di un’effettiva riapertura del processo[11].
Un assetto, questo, che, finanche a seguito della richiamata pronuncia del Giudice delle leggi, aveva determinato incertezze e dubbi interpretativi, sia nell’ipotesi della riapertura del procedimento conseguente all’accertamento di un vizio procedurale (viste le peculiarità della disciplina della revisione, non agevolmente assimilabile ad una riapertura non fondata su un novum tale da giustificare una prognosi di proscioglimento), sia nel caso dell’accertamento di un’illegalità convenzionale, con particolare riferimento al problema dei cd. “fratelli minori”.
Entro questa prospettiva deve propriamente inquadrarsi l’obiettivo indicato dalla legge delega, con la scelta di introdurre un unico rimedio impugnatorio finalizzato a razionalizzare il sistema processuale affidando alla competenza funzionale della Corte di cassazione la valutazione del decisum europeo sul giudicato nazionale ritenuto unfair, nel quadro di una complessiva rimodulazione dei rapporti fra il nuovo strumento e gli altri rimedi revocatori.
La delega non ha posto limiti in ordine alla tipologia della lesione accertata dalla Corte EDU, che può dunque risolversi indifferentemente in una violazione di ordine sostanziale (ad es., l’art. 7 CEDU) o procedurale di un diritto egualmente sancito dalla Convenzione europea o dai suoi Protocolli addizionali.
Nel prevedere una competenza accentrata presso il supremo organo della nomofilachia, il legislatore, come osservato nella Relazione illustrativa, non ha ritenuto necessario precisare che il procedimento debba essere assegnato ad una sezione diversa da quella che ha eventualmente definito i ricorsi interni, trattandosi di una forma di riparto interno alla Corte di cassazione che, in quanto tale, potrà ricevere la sua compiuta disciplina con apposite previsioni in sede tabellare, senza escludere la possibilità di investire direttamente le Sezioni Unite nei casi di speciale rilevanza o quando vengano in rilievo profili di regolazione dell’assetto inter-giurisdizionale.
L’architettura dei mezzi di impugnazione straordinaria viene dunque ridisegnata con l’articolazione di una serie di modelli processuali distintamente caratterizzati:
a) la revisione tradizionale, che ha per oggetto una sentenza di condanna irrevocabile viziata da errori di fatto che siano tali da dimostrare, se accertati, che il condannato doveva essere prosciolto (art. 629 cod. proc. pen.).
b) il rimedio tendente ad eseguire le decisioni della Corte EDU, eliminando gli effetti pregiudizievoli scaturenti dalle decisioni interne adottate in violazione dei diritti convenzionali;
c) il ricorso straordinario per cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.), quale impugnazione diretta soltanto a correggere in favore dell’imputato errori materiali o di fatto contenuti nella sentenza della Corte di legittimità;
d) la rescissione del giudicato (art. 629-bis cod. proc. pen.), quale forma di impugnazione straordinaria esperibile nei confronti delle sentenze irrevocabili di condanna (o con le quali è stata comunque applicata una misura di sicurezza), ove l’interessato provi di essere stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 420-bis cod. proc. pen.
Nel disegno del legislatore il nuovo istituto della cd. revisione europea, come posto in rilievo nella Relazione illustrativa, deve dare esecuzione al triplice obbligo di neutralizzazione, rivalutazione della sentenza ed eventuale riapertura del procedimento derivante dalla sentenza europea di condanna alla restitutio in integrum, conservando, tuttavia, come più avanti si vedrà, “un ragionevole margine di apprezzamento a tutela del giudicato nazionale”.
Il vaglio preventivo della Corte di legittimità, infatti, è funzionale all’individuazione della modalità riparatoria più adeguata nel caso concreto, che non necessariamente consiste nella riapertura del processo, poiché l’obbligo di conformazione al giudicato europeo viene tradizionalmente concepito dalla Corte di Strasburgo come un obbligo “di risultato”, riconoscendo allo Stato parte la libertà di scegliere, sotto la sorveglianza del Comitato dei Ministri, i mezzi attraverso cui realizzare l’obiettivo, purché gli stessi risultino compatibili con le conclusioni raggiunte nella sentenza del Giudice europeo[12].
3. La legittimazione soggettiva.
La nuova disposizione individua, nel primo comma, le situazioni in cui è possibile attivare il rimedio in questione e i soggetti che vi sono legittimati, facendo riferimento esclusivamente alle figure del condannato e della persona sottoposta a misura di sicurezza che hanno proposto ricorso dinanzi alla Corte EDU per l’accertamento di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli addizionali, con la conseguente esclusione dei terzi non impugnanti che avrebbero potuto dolersi della medesima violazione.
Al riguardo, come posto in rilievo nella Relazione illustrativa, si è ritenuto che l’espresso riferimento contenuto nella legge delega al solo «soggetto che abbia presentato il ricorso» non consentisse un ampliamento in favore di soggetti diversi.
Nonostante l’ampiezza del contenuto della delega ai fini della individuazione della legittimazione soggettiva alla proposizione del nuovo ricorso, attribuita alla vittima della violazione convenzionale accertata in sede europea – che evidentemente potrebbe essere anche la persona offesa dal reato, non necessariamente il condannato – la scelta compiuta dal legislatore in sede di attuazione della delega pare di segno restrittivo, a fronte del pacifico orientamento del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e della stessa Corte EDU, inclini a considerare legittimo il condizionamento della riapertura ad una domanda presentata da colui che abbia attivato il sindacato della Corte europea[13].
Non sembra possibile, dunque, almeno sotto questo profilo, un epilogo in malam partem del giudizio di revisione, attesa l’esclusione dalla legittimazione soggettiva al ricorso della vittima del reato, cui non è consentito attivare il nuovo rimedio straordinario avverso una decisione di proscioglimento, sebbene la delega non ponga limiti oggettivi riguardo all’individuazione dei provvedimenti impugnabili[14].
Una scelta, questa, che potrebbe determinare un vuoto di tutela in tutte quelle situazioni in cui venga in rilievo, per la persona offesa dal reato, una lesione del diritto di accesso ad un tribunale ex art. 6, par. 1, CEDU, ovvero, ad es., in relazione all’ampia area delle garanzie convenzionali oggetto della tutela offerta dalle disposizioni di cui agli artt. 2, 3 e 8 CEDU, che hanno costituito, negli ultimi anni, la base normativa di riferimento per lo sviluppo di una consistente elaborazione giurisprudenziale della Corte europea, distinguendo con nettezza la sfera degli obblighi positivi e procedurali a carico degli Stati contraenti, assieme a quelli propri del diritto sostanziale[15].
Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 CEDU individuano, in particolare, una serie di doveri incombenti sulle autorità giurisdizionali e di polizia, cui spetta garantire la ricerca, l’individuazione e la punizione di coloro che si rendano autori di azioni lesive, avviando, attraverso una corretta interpretazione ed applicazione delle norme penali, attività d’indagine ufficiali, approfondite, trasparenti, celeri ed imparziali, che in caso di accertata colpevolezza possono condurre, all’esito del processo, ad applicare sanzioni proporzionate alla gravità del fatto commesso.
4. L’oggetto dell’impugnazione.
Non sono soltanto le decisioni definitive della Corte EDU, peraltro, a legittimare l’attivazione del nuovo rimedio straordinario, poiché il legislatore ha considerato anche le ipotesi in cui sia stata disposta dalla Corte la cancellazione del ricorso dal ruolo ai sensi dell’art. 37 CEDU, in conseguenza del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato.
Al riguardo il legislatore ha opportunamente ripreso le indicazioni provenienti da un indirizzo interpretativo di recente delineato dalla Corte di cassazione (Sez. 5, n. 16226 del 04/02/2022, Frascati, Rv. 283395), secondo cui, nel procedimento instaurato dal privato dinanzi alla Corte EDU per il riconoscimento della violazione dell'art. 6 CEDU da parte della norma interna (nella specie, per omessa trattazione del procedimento in pubblica udienza), la declaratoria di cessazione della materia del contendere ai sensi degli artt. 37 CEDU e 62 A del Regolamento CEDU, con la conseguenziale cancellazione della causa dal ruolo, seguita alla dichiarazione unilaterale dello Stato di avvenuta violazione e adottata all'esito di una ponderata valutazione della stessa da parte della Corte EDU, pur non costituendo una condanna, ha natura ricognitiva in quanto implica il riconoscimento della violazione della norma convenzionale ed è vincolante per lo Stato, che deve al riguardo esercitare il suo potere di adeguamento secondo gli strumenti processuali interni (nel caso in questione, definito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, lo strumento è stato individuato nella “revisione europea” di cui all'art. 630 cod. proc. pen.).
La richiesta ha ad oggetto la sentenza penale o il decreto penale di condanna e mira ad ottenere la revoca di tali provvedimenti e la conseguente riapertura del processo o, comunque, l’adozione dei provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte EDU.
5. Forma, termini e modalità di presentazione del ricorso.
La richiesta si propone con ricorso, che deve essere presentato, dall’interessato o, in caso di morte, da un suo congiunto, a mezzo di un difensore munito di procura speciale, entro il termine di novanta giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte europea che ha accertato la violazione, ovvero dalla data in cui è stata emessa la decisione che ha disposto la cancellazione del ricorso dal ruolo, indicando specificamente le ragioni che ne giustificano la proposizione.
Al riguardo, pertanto, non può escludersi, da un lato, che il ricorso venga proposto dal condannato quando abbia già scontato la pena, nell’ipotesi di un danno morale e alla reputazione derivante da un'ingiusta condanna, per la cui riparazione potrebbe esigersi, oltre ad un equo indennizzo (magari già riconosciuto dalla Corte EDU), anche l'affermazione della propria innocenza, dall’altro lato che i prossimi congiunti o gli stessi eredi propongano la riapertura del procedimento quando siano proprio costoro ad aver preso parte - anche subentrando successivamente al condannato - al procedimento celebrato innanzi al giudice europeo[16].
Il su indicato termine ha natura perentoria e la sua previsione deve ritenersi giustificata dall’esigenza di garantire i principii di certezza e stabilità nelle situazioni giuridiche: profilo, questo, che va apprezzato unitamente agli effetti della recente riduzione dell'arco temporale entro il quale è possibile proporre ricorso alla Corte EDU (quattro mesi in luogo di sei, alla luce del Protocollo n. 15, ratificato di recente anche in Italia).
La richiesta deve contenere “l’indicazione specifica delle ragioni che la giustificano”, illustrando in maniera puntuale e adeguata la tipologia e le caratteristiche delle violazioni convenzionali riscontrate nel decisum europeo, le ragioni della loro effettiva incidenza sull’esito del processo e la misura riparatoria individuata all’esito del giudizio tenutosi dinanzi alla Corte EDU.
Il ricorso, inoltre, va depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza o il decreto penale di condanna, rispettando le forme previste dall’art. 582 cod. proc. pen., ivi compresa, dunque, la possibilità del deposito telematico ai sensi della nuova disposizione di cui all’art. 111-bis cod. proc. pen., prevista in alternativa a quella della personale presentazione dell’atto, anche a mezzo di incaricato, nella predetta cancelleria.
L’osservanza delle disposizioni ora richiamate è prevista dal legislatore a pena di inammissibilità del ricorso.
Unitamente alla richiesta vanno inoltre depositati, con le medesime modalità, la sentenza o il decreto di condanna, la decisione emessa dalla Corte EDU e gli eventuali ulteriori atti e documenti che giustificano la richiesta: onere di allegazione, questo, che il legislatore non ha previsto a pena di inammissibilità[17].
6. Il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione.
Sulla richiesta la Corte di cassazione decide in camera di consiglio a norma dell'art. 611 cod. proc. pen. e procede con rito camerale, di regola, non partecipato, anche se il rinvio operato dall’art. 628-bis, comma 4, cit. alla suddetta disposizione normativa sembra avere carattere generale e non esclude, pertanto, la possibilità di richiedere, o disporre d’ufficio, la trattazione del procedimento in pubblica udienza nelle ipotesi espressamente previste dall’art. 611, comma 1-bis, cit.
Una eventualità, questa, che il legislatore non sembra aver precluso sia per la ragione ora indicata, sia per il tipo di controllo esercitato dalla Corte, chiamata ad interpretare la portata del giudicato europeo in relazione a ricorsi che possono avere ad oggetto questioni di particolare rilevanza, in precedenza definite a livello nazionale da una sentenza interna pronunciata nei confronti del richiedente in dibattimento ovvero all’esito di un giudizio abbreviato, secondo il disposto di cui all’art. 611, commi 1-bis e 1-quater cit.
La Corte, inoltre, ricorrendone i presupposti, può disporre in via preliminare la sospensione dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza ai sensi dell'art. 635 cod. proc. pen.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la sospensione dell'esecuzione della pena prevista è un istituto di carattere eccezionale, poiché deroga al principio di obbligatorietà dell'esecuzione, e presuppone l'esistenza di situazioni in cui appaia verosimile l'accoglimento della domanda e la conseguente revoca della condanna, non essendo a tal fine sufficiente la positiva delibazione sull'ammissibilità dell'istanza[18].
Una previsione, questa, certamente opportuna, poiché consente di neutralizzare in limine gli effetti pregiudizievoli del giudicato colpito dalla Corte EDU, laddove nel previgente assetto normativo si riteneva che la mera pendenza di un ricorso individuale per l’asserita violazione dei principii del giusto processo non legittimasse il giudice dell'esecuzione a disporre la sospensione dell'esecuzione della pena, essendo tale possibilità subordinata solo all'accoglimento del ricorso in sede sovranazionale e alla successiva attivazione, da parte del condannato, della procedura di revisione europea introdotta a seguito della richiamata sentenza additiva della Corte costituzionale[19].
Il rinvio operato al disposto di cui all’art. 635 cit. sembra limitato alla possibilità di attivazione del solo meccanismo sospensivo dell’esecuzione, non essendo previsto dinanzi alla Corte di cassazione un sub-procedimento cautelare volto all’applicazione di una delle misure coercitive (ex artt. 281, 282, 283 e 284 cod. proc. pen.) che la Corte d’appello può invece disporre in qualunque momento del giudizio di revisione, quando sospende l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.
Nel ricorrere dei presupposti di legge, le misure coercitive previste dall’art. 635, comma 1, cit. potranno essere applicate nel corso della eventuale, successiva, fase rescissoria del procedimento prevista dall’art. 628-bis, comma 5, cit., qualora la Corte di cassazione decida nel senso della riapertura del processo dinanzi ai giudici di merito.
7. Le decisioni della Corte.
7.1. La fase rescindente.
Al di fuori dei casi di inammissibilità, nella fase rescindente la Corte di cassazione deve anzitutto verificare, quale organo investito della richiesta di restitutio in integrum, se la violazione accertata dalla Corte EDU abbia avuto, per la sua natura e gravità, una “incidenza effettiva” sulla sentenza o sul decreto penale di condanna.
Il criterio incentrato sulla valutazione dell’incidenza effettiva è finalizzato evidentemente a riconoscere allo Stato parte, e per esso alla Corte di legittimità, un margine di apprezzamento rispetto alle indicazioni desumibili dal vincolo originato dal dictum europeo, la cui sostanza dovrà essere convertita in un vizio sostanziale o processuale rilevante, ossia riconoscibile nel testo della decisione interna e dotato di efficacia causale rispetto alla lesione del diritto convenzionale, dando luogo alla scelta dello strumento più idoneo, nel caso concreto, per rimuoverne gli effetti pregiudizievoli.
Il sindacato attribuito alla Corte investe, pertanto, sia l’an dell’incidenza della violazione sull’esito del processo, sia la valutazione del quomodo attraverso cui attuare la restitutio in integrum nell’ordinamento nazionale.
Una soluzione che se, da un lato, pare rispettosa della generale esigenza di mantenere in capo allo Stato nazionale un autonomo apprezzamento circa l’attualità delle conseguenze dannose e la sussistenza del nesso di causalità tra le violazioni accertate e l’epilogo del processo, dall’altro lato pone rilevanti problemi, di ordine generale e di natura propriamente applicativa, rispetto ai limiti strutturali del giudizio di legittimità e alle forme del sindacato che l’ordinamento interno affida alla cognizione della Corte di cassazione.
Si tutela, in tal modo, l’esigenza di rispettare il margine di apprezzamento nazionale, affidando al vaglio delibativo del giudice interno un potere di controllo preventivo al fine di rimuovere la barriera del giudicato penale nell’ambito di una logica di dialogo e collaborazione incentrata sul principio di sussidiarietà, secondo una scelta comune a diversi ordinamenti nazionali[20].
Pur non essendo consentiti accertamenti di fatto, v’è tuttavia il rischio, concreto, sia di un possibile sconfinamento nella ricerca della soluzione più appropriata nel caso concreto, sia di un contrasto fra le Corti, in considerazione della eterogeneità delle valutazioni del Giudice europeo e del Giudice di legittimità, essendo quelle del primo imperniate su una considerazione complessiva dell’equità processuale, che tiene conto delle ripercussioni della lesione convenzionale sul processo nel suo insieme e sul suo esito[21].
La necessaria valutazione dell’incidenza della violazione sull'esito del procedimento penale, che la Corte di cassazione deve svolgere alla luce dei criteri direttivi rappresentati dalla natura e dalla gravità del vizio riscontrato in sede europea, pone rilevanti questioni problematiche, poiché le indicazioni della Corte EDU nel senso della riapertura del processo risultano, di solito, abbastanza generiche e a carattere orientativo[22], sicché non pare agevole stabilire fin dove la Corte di legittimità possa spingersi nell'operare questo vaglio selettivo sul contenuto della res interpretata.
Il rischio è quello di sovrapporre alla esecutività del giudicato europeo una valutazione interna sulla effettività dell’incidenza della violazione oggetto di accertamento, che in caso di rigetto della richiesta potrebbe rimettere in discussione quanto deciso in maniera vincolante dalla Corte EDU[23].
Né è chiaro in quale misura la giurisprudenza convenzionale formatasi, ad es., in tema di "prova unica o determinante" possa fungere da congruo paradigma di riferimento ai fini del complessivo apprezzamento del precedente risultato probatorio, specie quando si tratti di stabilire l’ambito applicativo della regola dettata dal legislatore in ordine alla eventuale conservazione dell’efficacia degli atti pregressi (ex art. 628-bis, comma 5, cit.).
Sussistendo il presupposto dell’effettiva incidenza sul provvedimento adottato nei confronti dell’istante, la Corte di cassazione accoglie la richiesta, altrimenti la rigetta.
Se accoglie la richiesta, si apre la fase rescissoria, nel cui ambito si aprono due alternative decisorie.
7.2. La fase rescissoria.
Nell’ipotesi in cui non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto o risulti comunque superfluo il rinvio, la Corte assume essa stessa i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto di condanna (ad es., nel caso in cui la Corte EDU abbia ravvisato l’illegittimità convenzionale della pena per violazione dell’art. 7 CEDU e la Corte di legittimità possa rideterminarla sulla base delle statuizioni del giudice di merito, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen.).
Siffatta evenienza procedimentale pare dunque configurabile nei casi in cui l’adeguamento ai principi convenzionali implichi solo una modifica del trattamento sanzionatorio, ovvero un “effetto cassatorio negativo”, che determini la cessazione degli effetti del giudicato “iniquo” in caso di violazioni sostanziali, attraverso l’annullamento della precedente decisione e l’emissione di una nuova pronuncia “liberatoria” in favore del ricorrente vittorioso dinanzi alla Corte di Strasburgo[24].
Nell’ipotesi in cui si rendano invece necessari ulteriori accertamenti, la Corte trasmette gli atti al giudice dell'esecuzione o dispone la riapertura del processo, dinanzi al giudice della cognizione, nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione, stabilendo – dopo aver revocato la sentenza o il decreto penale di condanna - se e in quale parte conservino efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi: in tale ultima evenienza, dunque, sembra trattarsi di una sorta di annullamento con rinvio, o meglio di un rinvio “atipico”, poiché non viene richiamato il giudizio previsto dall’art. 627 cod. proc. pen. e la sequenza procedimentale, depurata degli atti nulli o inutilizzabili, e dunque “riconfigurata” dalla Corte, viene riaperta, per dare luogo ad una nuova progressione orientata alla rimozione della lesione convenzionale secondo le indicazioni, vincolanti, di volta in volta dettate dal giudice di legittimità.
Non rientra nella sfera cognitiva della Corte la possibilità di svolgere accertamenti sul “fatto”, che dovranno essere, pertanto, affidati al giudice della fase rescissoria, in primo o in secondo grado, senza che la riapertura del processo implichi, necessariamente, la rinnovazione automatica dell’intero processo, come si verifica nella revisione ordinaria, o di suoi interi segmenti, potendosi eventualmente procedere, a seconda dei casi, alla rinnovazione dei soli atti cui si riferiscono le violazioni accertate dalla Corte EDU, ovvero alla riassunzione delle sole prove lesive delle garanzie convenzionali, o, infine, alla loro mera rivalutazione[25]: la precisa delimitazione del perimetro cognitivo del nuovo giudizio di merito discende, comunque, nel suo contenuto e nelle sue finalità, dalle indicazioni che la Corte di legittimità, una volta interpretata la portata del dictum pronunciato dalla Corte europea, riterrà di dettare all’esito del giudizio rescindente.
8. La riapertura del processo dinanzi ai giudici di merito.
Nell’ipotesi in cui i giudici di merito siano investiti della competenza a decidere a seguito della riapertura del processo disposta dalla Corte di legittimità, essi dovranno comunque attenersi al principio fissato all’esito della fase rescindente, poiché è attraverso la sua formulazione che si concretizza nell’ordinamento interno la portata delle affermazioni estraibili dal dictum della Corte europea.
La riapertura del processo può verificarsi, ad es., nel caso in cui la Corte EDU abbia ravvisato una violazione di carattere processuale dell’art. 6 CEDU, con riferimento alla lesione del diritto dell’imputato a confrontarsi con il proprio accusatore, ovvero nell’ipotesi in cui si debba intervenire sulla dosimetria della pena irrogata, perché ritenuta illegale o sproporzionata.
Le evenienze in concreto ipotizzabili sono numerose ed appaiono, talora, di problematico inquadramento a seconda della tipologia del vizio riscontrato in sede europea: nelle ipotesi in cui l'iniquità processuale derivi dalla lesione dei diritti difensivi dell'accusato, la lesione potrebbe ricondursi alle cause di nullità e il giudice della revisione dovrebbe procedere in virtù delle disposizioni di cui all'art. 185, commi 1-3, cod. proc. pen., ma potrebbe, ad es., accadere che la violazione convenzionale non sia assimilabile, neppure attraverso lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente orientata, ad alcuna delle ipotesi d'invalidità contemplate nel nostro ordinamento. Evenienza, questa, che sembra verificabile allorquando la violazione riguardi il diritto all'imparzialità del giudice, considerato che, secondo la nostra consolidata giurisprudenza, le situazioni d'incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice, rilevabili o eccepibili entro termini perentori, non costituiscono una causa di nullità ex art. 178 cod. proc. pen., non essendo riconducibili alla nozione di capacità del giudice delineata dall'art. 33 cod. proc. pen.[26]
Né sembra possibile, alla luce del principio di tassatività dei casi di nullità, invocare il concetto di lesività in concreto del diritto di difesa, al fine di integrare l'art. 178 cit. con le violazioni di cui all'art. 6 CEDU[27].
Al riguardo è opportuno richiamare, in linea generale, le possibili implicazioni del principio affermato dalla Corte di cassazione[28], secondo cui il divieto di infliggere una pena più grave, di cui all'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., non opera nel nuovo giudizio conseguente all'annullamento della sentenza di primo grado - impugnata dal solo imputato - disposto dal giudice di appello o dalla Corte di cassazione per nullità dell'atto introduttivo ovvero per altra nullità assoluta o di carattere intermedio non sanata. In tale ipotesi, infatti, si è ritenuto che il divieto di "reformatio in peius" non possa trovare applicazione a seguito dell'annullamento della precedente condanna ai sensi dell'art. 604, comma 4, cod. proc. pen.
Analoghe considerazioni possono svolgersi in relazione alle ipotesi in cui l’annullamento della sentenza di appello sia stato disposto per la rilevata violazione della regola prevista dall'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.[29].
Non è da escludere, peraltro, che la Corte di cassazione sollevi essa stessa una questione di legittimità costituzionale della norma interna interessata dalla decisione della Corte EDU, nel caso in cui gli strumenti a disposizione siano inidonei a garantire l’effettiva operatività del nuovo istituto, ovvero nelle ipotesi in cui il giudice europeo individui un problema di portata generale dell’ordinamento nazionale: in tal modo, come suggerito dalla Relazione finale della Commissione Lattanzi, si potrebbe risolvere a monte la delicata questione dei cd. “fratelli minori”, i quali, non legittimati a proporre il nuovo rimedio, si potrebbero poi rivolgere al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.
Una possibilità, questa, che - pur limitata alle sole eventualità in cui la declaratoria di incostituzionalità riguardi una norma incriminatrice, ovvero una disposizione penale diversa, ma comunque incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, potendosi addivenire in tal caso ad una rimodulazione dello stesso in sede esecutiva, ove non ancora interamente eseguito[30] - consentirebbe di evitare il doppio passaggio della previa declaratoria di incostituzionalità, seguita dal ricorso al giudice dell’esecuzione, potendo il giudice di legittimità, una volta riscontrata la sussistenza di un problema strutturale interno, investire direttamente il Giudice delle leggi ed ottenere, in tal modo, in caso di esito positivo dello scrutinio di costituzionalità, una soluzione immediatamente percorribile dai c.d. “fratelli minori”[31].
Può inoltre verificarsi che la violazione riscontrata dal decisum europeo abbia ad oggetto profili attinenti alla disciplina delle prove, come potrebbe accadere, ad es., nel caso dell'impiego di prove vietate ovvero di dichiarazioni determinanti rese nel corso delle indagini da persone che la difesa non ha mai potuto interrogare e in assenza di valide garanzie compensative del deficit dialettico[32]: in tali evenienze sembra doversi escludere la regressione del procedimento nello stato o nel grado in cui si è realizzata la violazione, essendo ciò vietato esplicitamente dall'art. 185, comma 4, cit. e dalla regola dettata nell'art. 191 cod. proc. pen.[33].
Il giudice della revisione dovrebbe, di converso, espungere, ai sensi dell’art. 191 cit., le prove irrituali, disponendone la rinnovazione nel rispetto del contraddittorio, ovvero, senza giungere alla loro completa estromissione, modularne la valutazione in conformità al dictum europeo, nel caso in cui la Corte EDU abbia accertato l'iniquità del procedimento per l'impiego determinante di testimonianze unilaterali e in assenza di valide misure di bilanciamento: in tal caso, dunque, il giudice della revisione dovrebbe pronunciare la nuova decisione senza escludere necessariamente le prove unilaterali, ma valutandole in conformità alle indicazioni desumibili dalla sentenza della Corte europea, qualora il vizio che inficia la dinamica del procedimento probatorio risulti giustificato da un evento non imputabile all'autorità giudiziaria e compensato da solide garanzie procedimentali[34].
Entro tale prospettiva, l'utilizzo della testimonianza unilaterale dovrebbe essere subordinato allo svolgimento di un'attività istruttoria nel giudizio di merito che garantisca il contraddittorio con la sua fonte, ovvero all'introduzione di nuove prove che ne riducano il peso probatorio privandola del carattere di "prova unica o determinante", o quanto meno - e sempre che l'assenza nel dibattimento sia imprevedibile - costituiscano adeguate garanzie compensative a fronte del mancato inserimento della fonte di prova determinante all'interno del circuito dialettico[35].
Analoghe considerazioni potrebbero svolgersi con riferimento all’ipotesi dei testimoni assenti e alla riconosciuta esigenza di supportare le dichiarazioni oggettivamente irripetibili in dibattimento con adeguati elementi di riscontro, poiché il ricorso alla corroboration[36] potrebbe rivelarsi inidoneo a surrogare la condotta negligente dell'autorità che non abbia compiuto tutti gli sforzi necessari per garantire la comparizione in dibattimento del testimone determinante[37].
La disposizione contemplata nell’ultimo comma dell’art. 628-bis prevede, infine, che l’istituto trovi applicazione – in luogo della rescissione del giudicato – anche nell’ipotesi in cui la Corte di Strasburgo abbia disposto la rinnovazione del processo per avere accertato la violazione del diritto a partecipare personalmente al procedimento: in tal caso, come osservato[38], non sembra esservi spazio per un’autonoma valutazione da parte della Corte in merito all’incidenza causale dell’assenza involontaria dell’imputato.
9. Gli effetti della riapertura.
Una delle conseguenze rilevanti della riapertura del processo è legata alla “riassunzione” della qualità di imputato, che viene disciplinata con apposita modifica della disposizione di cui all’art. 60, comma 3, cod. proc. pen.; analogo effetto “riassuntivo”, peraltro, è previsto nell’ipotesi della riapertura del processo a seguito della rescissione del giudicato.
Ulteriori conseguenze della riapertura del processo sono legate alla ripresa dei termini di prescrizione del reato e all'improcedibilità dell'azione penale:
a) se la Corte di cassazione dispone la riapertura del processo davanti al giudice di primo grado, la prescrizione riprenderà il suo corso dal momento della pronuncia della Corte;
b) se, invece, la riapertura del processo è disposta davanti alla Corte di appello, fermo restando quanto previsto dall'art. 624 cod. proc. pen. (ossia, la formazione dell’eventuale giudicato parziale), si osservano le disposizioni in materia di improcedibilità per superamento dei termini del giudizio di impugnazione (commi 1, 4, 5, 6 e 7 dell'art. 344-bis cod. proc. pen.) e il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all'art. 128 cod. proc. pen. (ossia del termine di cinque giorni per il deposito del provvedimento).
Nel caso della prescrizione, dunque, la pronuncia di riapertura del processo viene sostanzialmente assimilata all’annullamento rilevante agli effetti di cui all’art. 161-bis cod. pen.
Altrettanto evidente il meccanismo di assimilazione previsto dal legislatore ai fini dell’improcedibilità, poiché nell’ipotesi della riapertura del processo innanzi alla Corte di appello, come si è visto, viene dettata una disposizione corrispondente a quella prevista dall’art. 344-bis, comma 8, cod. proc. pen., con la sola differenza che il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di cui all’art. 128 cit.[39].
10. La disciplina intertemporale.
La disciplina normativa sinora illustrata è quella prevista dal legislatore nella sua proiezione temporale ordinaria, ossia rispetto alle decisioni della Corte EDU divenute definitive nella vigenza del d.lgs. n. 150 del 2022, quindi a partire dalla data del 30 dicembre 2022.
Il legislatore delegato, peraltro, vi ha opportunamente affiancato una disciplina transitoria, valevole per le decisioni divenute definitive anteriormente all’entrata in vigore del citato decreto legislativo, quindi sino alla data del 29 dicembre 2022.
Al riguardo, infatti, la disposizione di cui all’art. 91 d.lgs. cit. regola i profili di diritto transitorio, stabilendo che:
a) nelle ipotesi in cui, in epoca anteriore all’entrata in vigore del decreto, dunque fino al 29 dicembre 2022, sia divenuta definitiva la decisione con cui la Corte EDU ha accertato la violazione, ovvero abbia disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato, il termine di novanta giorni per la proposizione del nuovo rimedio decorre dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto, quindi dal 31 dicembre 2022;
b) per i reati commessi in data anteriore al 1° gennaio 2020 - ovvero prima della legge n. 3 del 2019, che ha introdotto il cd. “blocco” della prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di primo grado -, la prescrizione riprende il suo corso in ogni caso in cui la Corte di cassazione disponga la riapertura del processo, e non solo allorquando quest’ultima venga disposta innanzi al giudice di primo grado[40].
11. I rapporti con gli altri rimedi impugnatori post iudicatum.
Nell’ambito dei nuovi rimedi post iudicatum l’accertamento della lesione delle garanzie partecipative ai sensi dell’art. 6 CEDU, come si è visto, è rimediabile attraverso il ricorso al nuovo strumento di impugnazione in esame, che consente la riapertura del processo interno assicurando alla vittima una piena conformazione al giudicato europeo con l’annullamento della sentenza e il conseguente rinvio al giudice dinanzi al quale si è verificata la violazione.
All’istituto rescissorio previsto dall’art. 629-bis cod. proc. pen., invece, può farsi ricorso per le sole lesioni delle garanzie partecipative accertate nel corso dell’iter processuale nazionale con riferimento alla dichiarazione di assenza emessa in mancanza dei presupposti previsti dall’art. 420-bis cod. proc. pen., tenendo conto della sua natura di rimedio restitutorio interno, alla luce della clausola di esclusione espressamente prevista nel primo comma della richiamata disposizione rispetto ai casi disciplinati dall’art. 628-bis cit.
Appaiono piuttosto limitate, all’interno del nuovo strumento riparatorio, le possibilità di ricorso all’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cit., poiché in caso di lesione di una garanzia convenzionale che si rifletta sull’an della sentenza di condanna interna o sulle modalità di determinazione del trattamento sanzionatorio, la stessa Corte di cassazione, ove consentito, potrebbe direttamente procedere alla eliminazione del vulnus con una sentenza di annullamento senza rinvio della decisione censurata dalla Corte EDU.
Al nuovo rimedio, azionabile nella fase post iudicatum, si aggiunge un altro importante istituto, cui la stessa Corte di legittimità può fare ricorso nella prospettiva di una preventiva riduzione delle possibili aree di conflitto con il sistema delle garanzie convenzionali, qualora emerga la possibilità di attribuire al fatto una diversa definizione giuridica.
A seguito delle modifiche apportate alla forma procedimentale prevista dall’art. 611 cod. proc. pen., il legislatore delegato ha infatti previsto, in ottemperanza all’ultima parte dell’art. 1, comma 13, lett. m), della legge delega, un nuovo comma 1-sexies, ove si introduce un’ulteriore eccezione alla regola generale del rito cartolare nel giudizio di legittimità, operante nel caso in cui la Corte di cassazione ritenga di dare al fatto una definizione giuridica diversa: evenienza, questa, in cui il giudice della nomofilachia sarà tenuto a disporre con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio partecipata.
La disposizione mira ad evitare la possibilità di riqualificazioni “a sorpresa” nel giudizio di cassazione, assicurando il rispetto sia della giurisprudenza convenzionale (a partire dalla sentenza della Corte EDU nel caso Drassich c. Italia), sia di quella nazionale formatasi in materia[41].
12. I limiti di un successivo controllo “esterno” sull’esito del procedimento interno di revisione delle condanne ritenute “inique” dalla Corte EDU.
Sotto altro, ma connesso profilo, è opportuno richiamare le riflessioni sviluppate dalla Corte EDU sul ruolo che la Convenzione europea attribuisce al Comitato dei Ministri in relazione all’esecuzione delle sentenze emesse dalle autorità nazionali[42], poiché le misure intraprese da uno Stato parte per porre rimedio alla violazione accertata dalla Corte di Strasburgo possono a loro volta sollevare nuove questioni non assorbite dal precedente giudizio: ciò sta a significare che, in linea generale, la Corte si ritiene legittimata ad esaminare una doglianza relativa ad una nuova violazione della Convenzione commessa nell’ambito di un procedimento di riesame svolto a livello nazionale per dare attuazione ad una delle sue sentenze[43].
Riguardo alla possibile applicazione dei principii stabiliti in tema di equo processo dall’art. 6, par. 1, CEDU al procedimento di revisione delle sentenze interne censurate in sede europea, la Corte ha affermato, nella su menzionata decisione, il principio secondo cui, non potendosi essa trasformare in una sorta di “quarto grado di giudizio”, deve escludersi la possibilità di sindacare le scelte assunte dai giudici interni con riferimento al su indicato parametro convenzionale, a meno che le stesse non risultino arbitrarie o manifestamente irragionevoli: solo nel caso in cui le motivazioni addotte dall’organo giurisdizionale nazionale siano completamente mancanti, o comunque frutto di automatismi decisionali o di stereotipi, può effettivamente riconoscersi l’esistenza di un vero e proprio diniego di giustizia.
Nel valutare le motivazioni addotte dalla Suprema Corte portoghese per giustificare il suo provvedimento di diniego, la Corte EDU ha pertanto osservato che la riapertura dei processi, pur essendo uno strumento spesso idoneo a garantire la rimozione della violazione convenzionale oggetto del suo accertamento, non è comunque un rimedio obbligato per lo Stato condannato, sicché la decisione assunta nel caso di specie, pur fondandosi su un’autonoma e personale interpretazione della sentenza europea di condanna, non poteva solo per questa ragione ritenersi arbitraria, apparendo al contrario compatibile con il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati parti in relazione all’esecuzione delle pronunce di Strasburgo.
Una soluzione, questa, particolarmente problematica, perché assunta da una ristretta maggioranza di giudici e, da un lato, ritenuta, a contrario, eccessivamente “morbida” e minimalista in una delle opinioni dissenzienti, dall’altro lato, decisamente criticata da un nutrito gruppo di altre opinioni dissenzienti, secondo cui, in base all’art. 46 CEDU, la Corte europea deve invece ritenersi priva di qualsiasi competenza nel campo dell’esecuzione delle sue sentenze: una preclusione, questa, che coprirebbe anche i procedimenti di revisione conseguenti all’accertamento di una violazione della Convenzione, non potendo essi integrare un “nuovo fatto rilevante” idoneo a giustificare la presa in carico di un nuovo giudizio a opera della Corte.
Secondo tali opinioni, pertanto, la Grande Camera avrebbe dovuto declinare la propria giurisdizione in favore del Comitato dei Ministri.
Allo stato, dunque, deve ritenersi che, sebbene l'art. 46 CEDU individui nel Comitato dei Ministri il titolare del potere di verificare autonomamente l'esecuzione delle sentenze della Corte EDU, la proposizione di un nuovo ricorso dinanzi a tale Corte non è impedita nel caso in cui si lamenti l'iniquità convenzionale determinata proprio dal rifiuto del giudice nazionale di riaprire il procedimento: l'art. 6 CEDU, pertanto, verrebbe in rilievo anche dopo il sopraggiungere del nuovo giudicato e, quindi, a favore di un soggetto tecnicamente non più definibile come accusato, a condizione che l'intervento del giudice nazionale sulla richiesta di ammissibilità della revisione implichi comunque una nuova valutazione di merito sulla fondatezza dell'accusa[44].
L’incidenza di tali affermazioni, peraltro, viene limitata dalla stessa Corte europea nell’escludere, come si è visto, la violazione dell'equità processuale allorché il diniego di riaprire il procedimento non possa considerarsi arbitrario, ma rientri nel margine di apprezzamento concesso ai giudici nazionali, in ragione del principio di sussidiarietà sotteso alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Un discrimen, quello sinora tracciato dalla Corte EDU, che appare piuttosto precario e di incerta interpretazione con riferimento alla trattazione dei casi concreti, ove si consideri che la competenza della Corte viene radicata sulla base argomentativa di una “new application” involgente nuovi profili o aspetti non emersi nell’iniziale giudizio.
Che la questione sia tuttora aperta e ancora da approfondire lo dimostra non solo l’acceso dibattito verificatosi all’interno della Corte EDU, ma anche la posizione espressa dalla nostra Corte costituzionale (sent. n. 93 del 27 aprile 2018), che, nel richiamare la decisione della Grande Camera, ha rigettato per infondatezza una questione di legittimità volta ad estendere la revocazione ex artt. 395 e 396 c.p.c. nei casi in cui questa si rendesse necessaria a garantire il riesame nel merito della sentenza civile emessa a seguito di un processo ritenuto iniquo dalla Corte di Strasburgo, affermando che «la riapertura dei processi interni, finanche penali, a seguito di sopravvenute sentenze della Corte EDU di accertamento della violazione di diritti convenzionali, non è un diritto assicurato dalla Convenzione».
13. La rinnovata centralità del ruolo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione: problemi e prospettive.
La centralità del ruolo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione, vero e proprio baricentro istituzionale del nuovo sistema unitario di rimedi post iudicatum, ne esalta l’attività di conformazione dell’ordinamento interno al fine di individuare e garantire l’osservanza della forma di tutela più adeguata dei diritti fondamentali, nei casi che hanno costituito oggetto di una violazione accertata dalla Corte europea.
Al tempo stesso, però, tale modello di controllo “polivalente”, accentrato in capo al supremo organo di nomofilachia interna, rischia di condizionarne l’esercizio della funzione interpretativa generale per l’esigenza di calarsi direttamente nella prospettiva di una garanzia sistematica della sostanza dei diritti fondamentali in concreto interessati dal vulnus convenzionale, senza la possibilità di attivare un canale dialogico in grado di evitare asimmetrie nella formulazione dei principii rispettivamente affermati nel giudizio europeo e in quello di legittimità chiamato a regolarne le forme e modalità di esecuzione nell’ordinamento interno.
Proprio perché rivolta alla disamina del caso concreto ed immersa, alla luce dei principii di equità e proporzionalità, nella verifica delle caratteristiche della vicenda processuale nel suo complesso, la Corte di Strasburgo può essere adita solo dopo l’esaurimento di tutti i controlli interni, occupandosi di casi già definiti in ambito nazionale, perché coperti dal giudicato.
Un insieme di fattori, questi, che dovrebbero agevolare sia l’individuazione di vicende simili, sia, di conseguenza, la costruzione di modelli di decisione uniformi e vincolanti per i casi futuri, sulla base di una solida e coerente ratio decidendi: un prerequisito strutturale ed argomentativo che, tuttavia, nelle pronunce della Corte risulta a volte carente. Nonostante il suo duplice ruolo di giudice del caso concreto e di interprete ufficiale della Convenzione, è spesso difficile isolare nelle sue decisioni le regole dai fatti e “…comprendere quanto esse si presentino davvero con una valenza generale e quanto siano invece il precipitato di scelte modellate sulle specificità fattuali di una particolare vicenda giudiziaria”[45].
Sotto altro, ma connesso profilo, si è rilevato che se il principio del precedente, inteso come giurisprudenza “costante”, opera certamente nella giurisprudenza della Corte EDU, in funzione sia della legittimazione della Corte sia della creazione di un acquis in materia di diritti umani dal quale in linea di principio non si può retrocedere, è pur vero che si è di fronte ad un concetto fluido in relazione alle molteplici particolarità del sistema convenzionale, della struttura e delle prassi giurisprudenziali della Corte[46].
La Corte di Strasburgo, infatti, non agisce come strumento di uniformazione del diritto interno degli Stati contraenti, che conservano le loro caratteristiche di fondo e di procedura nel quadro dei principii della sussidiarietà e del margine di apprezzamento, ma opera quale strumento di armonizzazione minima del diritto degli Stati contraenti che hanno «un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto», come affermato nel preambolo alla Convenzione: il giudice europeo non è un organo che si colloca al vertice di un sistema giudiziario organizzato in modo gerarchico, sicché è più corretto parlare di precedente solo in senso orizzontale, salvo che nella relazione tra Camera e Grande Camera, che è di tipo verticale.
La Corte EDU, infatti, adotta una “nozione autonoma” di precedente, come è dimostrato dal fatto che nelle sue decisioni fa ricorso ai “precedenti” per ricordare le regole d’interpretazione delle norme convenzionali prima dell’analisi relativa alle similarità fattuali, ovvero anche a prescindere da tale analisi: in tal modo, non risulta chiaramente affermato o non viene affatto esplicitato il nesso che lega il precedente al nuovo caso sottoposto all’esame del giudice europeo, il che è particolarmente evidente quando i precedenti citati fanno riferimento a contesti fattuali e normativi completamente diversi dalla fattispecie concreta che costituisce oggetto del thema decidendum.
Entro tale prospettiva, è evidente che un ulteriore incremento delle prerogative della Corte di legittimità, funzionale, al contempo, ad uno sfoltimento del contenzioso pendente innanzi alla Corte EDU, potrebbe derivare dalla ratifica del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione europea, che prevede, come è noto, un meccanismo di consultazione preventiva affidato alle più alte giurisdizioni nazionali, al fine di richiedere “pareri” facoltativi e non vincolanti «su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli[47].
L’inesistenza di una gerarchia tra le fonti e la configurazione dei rapporti interordinamentali in termini di equiordinazione o di parità orizzontale impone la costante ricerca di ragionevoli prospettive di compatibilità e giustifica la necessità del dialogo fra le Corti, nel rispetto del principio di leale collaborazione e cooperazione, in vista del comune fine di concretizzazione dei diritti fondamentali e di garanzia della rule of law[48].
Acquisisce, in tal modo, una centrale rilevanza il ricorso a prassi di collaborazione e coordinamento che, oltre alla ricerca ex post di soluzioni virtuose, consentano di scongiurare ex ante le aporie del sistema, prevenendo il rischio di eventuali contrasti ermeneutici nel confronto fra le Corti supreme e le giurisdizioni sovranazionali, in modo da comporre le antinomie e salvaguardare, nel contempo, l’autonomia dei protagonisti dell’orizzonte interpretativo[49].
Sotto altro profilo, tuttavia, va sottolineata la natura non vincolante del parere consultivo, che fa salva l’autonomia decisionale del giudice nazionale, ferma restando la facoltà della parte interessata di adire successivamente la Corte EDU in sede giurisdizionale. S’intravede, nella previsione della richiesta di un parere consultivo, non solo la possibilità di una funzione deflattiva della mole dei ricorsi proposti dinanzi alla Corte di Strasburgo, ma anche, e soprattutto, l’agevolazione dei compiti di armonizzazione dei giudicati nazionali (siano essi di natura costituzionale o di legittimità), con la conseguente istituzionalizzazione di un canale privilegiato per il dialogo fra le Corti, per certi versi analogo al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Appare probabile, entro tale prospettiva, la conseguenza di un avvicinamento della fisionomia della Corte EDU e del suo ruolo istituzionale a quelli di una Corte costituzionale, con una decisa valorizzazione della centralità del giudice nazionale, e in particolare di quello di ultima istanza, chiamato a scegliere discrezionalmente se attivare o meno la relativa procedura, completando, anche attraverso la via alternativa di un’eventuale interpretazione conforme alle norme convenzionali, la sua connaturale funzione di giudice della nomofilachia[50].
Nel rapporto che deve instaurarsi tra le Corti supreme e la Corte EDU è rinvenibile dunque “lo spirito di un dialogo decisorio cooperativo”, dove l’intervento in fase consultiva della Corte europea “non chiude la partita dell’interpretazione” ma contribuisce alla sua evoluzione, prospettando nuclei argomentativi ai quali il giudice nazionale, se del caso, potrà contrapporne altri, patrocinando una diversa possibile opzione esegetica che potrebbe in seguito assumere un rilievo decisivo qualora si pervenisse alla fase del giudizio dinanzi alla Corte EDU[51].
Il dialogo, peraltro, deve essere connotato in senso bidirezionale, mirando a realizzare un’opera comune, animata dalla buona fede e dal rispetto della prospettiva altrui. La costruzione della giurisprudenza europea, infatti, “necessita dei mattoni che i giudici nazionali le offrono a fondamenta dell’edificio ed esige ascolto reciproco”[52].
È dunque necessario che la Corte di cassazione venga coinvolta sia in via preventiva, quale "Alta giurisdizione" che formula richieste di parere consultivo alla Corte EDU, sia ex post quale giudice dell'esecuzione delle condanne emesse da quest'ultima: dalla “sinergia che deriverà dalle due nuove competenze funzionali della Suprema Corte, che in concreto saranno innescate l'una dal ricorso individuale alla Corte europea, se vittorioso, l'altra dalla richiesta di parere alla Corte stessa”[53], dipenderà in larga parte il buon funzionamento e, in definitiva, il successo del nuovo istituto previsto dal legislatore con l’introduzione dell’art. 628-bis cit.
[1] R.M. GERACI, Un’attesa lunga vent’anni: il ricorso straordinario per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, in Proc. pen. e giust., 2022, n. 1, p. 189
[2] Cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, n. 96, 6 ottobre 2022, p. 24 ss.
[3] Al riguardo v., ad es., Corte EDU, 31 ottobre 1995, Papamichalopoulos c. Grecia, n. 14556/89; Corte EDU, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta c. Italia, nn. 9221/98 e 41963/98; Corte EDU, 23 gennaio 2001, Brumarescu c. Romania, n. 28342/95; Corte EDU, GC, 8 aprile 2004, Assanidzé c. Georgia, n. 71503/01; Corte EDU, GC, 12 maggio 2005, Oçalan c. Turchia, n. 46221/99; Corte EDU, GC, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, n. 56581/00; Corte EDU, GC, 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna, n. 42750/09.
[4] In linea generale, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, v. A. DI STASI, Il sistema convenzionale di tutela dei diritti dell’uomo: profili introduttivi, in AA.VV., CEDU e Ordinamento italiano (2010-2015), cura di A. DI STASI, Cedam, 2016, p. 59 ss.; A. BULTRINI, La questione (cruciale) dell’attuazione delle sentenze della Corte nella prospettiva del futuro del sistema convenzionale, in AA.VV., La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento italiano. Problematiche attuali e prospettive per il futuro, a cura di S. SONELLI, Giappichelli, 2015, p. 119 ss.; G. CALAFIORE, Obbligo di esecuzione delle sentenze della Corte dei diritti dell’uomo versus giudicato penale: il discrimen fra violazioni procedurali e sostanziali, in Studi sull’integrazione europea, 2018, p. 715 ss.; G. GRASSO, F. GIUFFRIDA, Gli effetti della giurisprudenza della Corte EDU sull’ordinamento italiano: prospettive di diritto penale sostanziale, in G. GRASSO, A.M. MAUGERI, R. SICURELLA (a cura di), Tra diritti fondamentali e principi generali della materia penale. La crescente influenza della giurisprudenza delle Corti europee sull’ordinamento penale italiano, Pisa, 2020, p. 261 ss.; R. KOSTORIS, Diritto europeo e giustizia penale, in AA.VV., Manuale di procedura penale europea, Giuffrè, 2022, p. 66 ss.
[5] Sul tema v. A. CANNONE, Violazione dei diritti umani derivanti da problemi sistemici o strutturali e Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, Cacucci, 2018, p. 35 ss.
[6] Su tali profili v. Corte EDU, GC, Moreira Ferreira c. Portogallo, 11 luglio 2017, (n. 2), n. 19867/12; Corte EDU, GC, Guòmundur Andri Astraòsson c. Islanda, 1° dicembre 2020; M.S. MORI, Da un reato bagatellare la sfida all'O.K. Corral sull'esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, in www.giurisprudenzapenale.com., 2017; L. PARLATO, Verso la revisione europea 2.0., in AA.VV. Riforma Cartabia e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, a cura di A. MARANDOLA, Cedam, 2022, p. 259 ss.
[7] Il testo della Raccomandazione si trova tradotto in italiano in Dir. pen. proc., 2000, p. 391 ss.
[8] Sez. 1, n. 50919 del 13/07/2018, Frascati, Rv. 274878.
[9] Sez. 5, n. 16226 del 04/02/2022, Frascati, Rv. 283395.
[10] Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054.
[11] R.M. GERACI, Sentenze della Corte E.D.U. e revisione del processo penale, I. Dall’autarchia giudiziaria al rimedio straordinario, Dike, Roma, 2012, p. 85 ss.; B. LAVARINI, Il sistema dei rimedi post-iudicatum in adeguamento alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, Torino, 2019, p. 37 ss.
[12] Corte EDU, GC, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, 13 luglio 2000, Scozzari c. Italia.
[13] Cfr. la Risoluzione del Comitato dei Ministri nel caso Lucà c. Italia, n. 86/2005, adottata il 12 ottobre 2005, nonché Corte EDU, GC, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia.
[14] Su tali profili critici della legge delega v. R.M. GERACI, Un’attesa lunga vent’anni: il ricorso straordinario per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, cit., p. 190 ss.
[15] V. L. PARLATO, cit., p. 275; A. MARANDOLA, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’'uomo: sancito il diritto alla vita e il "diritto alle indagini ", in www.sistemapenale.it., 22 settembre 2020. In linea generale, sul tema, v. l’ampia analisi di A. DI STASI, Il diritto alla vita e all’integrità della persona con particolare riferimento alla violenza domestica (artt. 2 e 3 CEDU), in AA.VV., CEDU e Ordinamento italiano (2016-2020), cura di A. DI STASI, Cedam, 2020, p. 1 ss.
[16] R. CASIRAGHI, La revisione, in Trattato di procedura penale, a cura di G. UBERTIS e G. P. VOENA, Giuffrè, 2020, p. 291.
[17] R. BRICCHETTI, Prime riflessioni sulla riforma Cartabia: ricorso per cassazione e impugnazioni straordinarie in Il Penalista, 18 novembre 2022, p. 4 ss.
[18] Sez. 1, n. 35873 del 27/11/2020, Favara, Rv. 280096.
[19] Sez. 1, n. 41307 del 06/05/2015, Palau, Rv. 264955.
[20] M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali), in Sistema penale, 2022, p. 84 ss.
[21] R. M. GERACI, cit., p. 196.
[22] L. PARLATO, cit., p. 265.
[23] Sul punto v. G. ESPOSITO, Verso un celere riconoscimento del dictum della Corte EDU, In Arch. pen., 2022, n. 3, p. 27.
[24] R.M. GERACI, Un’attesa lunga vent’anni: il ricorso straordinario per l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo, cit., p. 193.
[25] R.M. GERACI, op. ult. cit., p. 193.
[26] R. CASIRAGHI, La revisione, in Trattato di procedura penale, XL, a cura di G. UBERTIS e G. P. VOENA, Giuffrè, 2020, p. 296 ss.
[27] R. KOSTORIS, La revisione del giudicato iniquo e i rapporti tra violazioni convenzionali e invalidità processuali secondo le regole interne, in Leg. pen., 2011, p. 479, ss.
[28] Sez. U, n. 17050 del 11/04/2006, Maddaloni, Rv. 233729.
[29] Sez. 6, n. 27383 del 06/06/2022, Rachele, Rv. 283493.
[30] Sez. U, 29/05/2014, n. 42858, Gatto.
[31] R.M. GERACI, cit., p. 193.
[32] Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania, in Cass. pen., 2016, p. 2626, con nota di R. CASIRAGHI.
[33] G. UBERTIS, La revisione successiva a condanne della Corte di Strasburgo, in Argomenti di procedura penale, Giuffrè, 2016, p. 20.
[34] R. CASIRAGHI, cit., p. 295.
[35] Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania, cit.; Corte EDU, GC, 15/12/2011, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito, par. 144.
[36] Sez. U, 25/11/2010, D.F., in Cass. pen., 2012, p. 858.
[37] R. CASIRAGHI, cit., p. 296; Corte EDU, 12/10/2017, Cafagna C. Italia, par. 45 ss.
[38] M. GIALUZ, cit., p. 84 ss.
[39] Cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, n. 68/22, 7 novembre 2022, in www.cortedicassazione.it, p. 22 ss.
[40] Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, n. 68/22, cit., p. 22 ss.
[41] Cfr. la Relazione di accompagnamento, p. 339.
[42] Corte EDU, GC, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2), cit.
[43] Su tali questioni v. S. BERNARDI, La Grande Camera di Strasburgo sulle competenze della Corte in materia di esecuzione delle sentenze europee da parte degli Stati: una scelta di self restraint?, in www.penale contemporaneo.it, 10 novembre 2017.
[44] Corte EDU, Moreira Ferreira C. Portogallo, cit., parr. 60-67.
[45] R. KOSTORIS, Per una «grammatica» minima del giudizio di equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 1678 ss., il quale rileva come «l’entrata in vigore del Prot. n. 16 alla Conv. eur. dir. uomo il 1˚ agosto 2018, che prevede la possibilità per i giudici nazionali di presentare un interpello preventivo alla Corte europea per ottenere un parere consultivo sull’interpretazione da dare a una norma CEDU il cui impiego sia rilevante per la decisione di un caso giudiziario pendente presso di loro, potrebbe forse contribuire ad allontanare in parte la Corte dal suo ruolo di giudice dei casi concreti, potenziandone il ruolo nomofilattico e inducendola conseguentemente ad attribuire maggiore rilievo alla trama argomentativa delle sue interpretazioni, lontano dalla contaminazione con i fatti».
[46] Cfr. sul punto i rilievi di M.G. CIVININI, Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in F. BUFFA, M.G. CIVININI (a cura di), La Corte di Strasburgo, Gli Speciali di Questione Giustizia, 2019, n. 4, p. 128 ss.
[47] R. M. GERACI, cit., p. 198.
[48] Sul tema, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, sia consentito il riferimento a G. DE AMICIS, Corti europee e giudici nazionali nel prisma della tutela dei diritti fondamentali, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2022, n. 1, p. 5 ss.
[49] G. CANZIO, Dire il diritto nel XXI secolo, Giuffrè, 2022, p. 355 ss.
[50] A. RANDAZZO, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Giuffrè, 2018, p. 334.
[51] Su tali profili problematici v. le considerazioni espresse da G. LATTANZI, Dialogo tra le Corti e il caso Taricco, in R. CHENAL, I. A. MOTOC, L. A. SICILIANOS, R. SPANO (eds.), Intersecting Views on National and International Human Rights Protection: Liber Amicorum Guido Raimondi, Wolf Legal Pubns, 2019, p. 417 ss.
[52] G. LATTANZI, cit., p. 420 ss.
[53] L. PARLATO, cit., p. 269.
Domenica 5 febbraio l’Associazione Nazionale Magistrati ha approvato all’unanimità una mozione sul disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere.
Si tratta di un documento importante che dà voce alla preoccupazione dell’intera magistratura sulle intenzioni di modifica dell’assetto costituzionale della separazione dei poteri dello Stato in nome di un paventato timore di squilibrio tra le parti del processo che non ha alcuna rispondenza nella realtà dei fatti.
Giustizia Insieme condivide integralmente il contenuto della mozione e ritiene necessaria la pubblicazione della stessa per far propri i timori e il disagio ivi espressi e la necessità di difendere le conquiste di civiltà faticosamente acquisite e sancite dalla nostra Carta costituzionale e di cui l’unicità della giurisdizione e la separazione dei poteri costituiscono architravi irrinunciabili.
La pubblicazione della mozione segue il solco degli articoli già pubblicati su questo tema nelle settimane precedenti (Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2023: l’intervento del Procuratore generale Luigi Salvato, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi) e costituisce occasione per annunciare la prossima pubblicazione di una serie di approfondimenti sulla figura del Pubblico Ministero, in lavorazione.
Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere
Negli ultimi mesi si sono intensificati interventi e anche proposte di riforma per dare attuazione ad un progetto risalente che minerebbe alle fondamenta l’assetto costituzionale della Magistratura Italiana.
La Commissione Affari Costituzionali della Camera ha messo in calendario, dal 2 febbraio 2023, la discussione una proposta di legge che chiede di attuare la definitiva separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici.
La proposta normativa si muove su alcune direttrici di fondo che destano profondo allarme: oltre alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente, la introduzione di distinti organi di autogoverno, che peraltro non vedranno più al loro interno la prevalenza numerica dei componenti togati, voluta dalla Costituzione proprio per assicurare il giusto equilibrio tra poteri e quindi l’autonomia della Magistratura.
Ancora più preoccupante la progettata abolizione dell’art. 107 comma 3 della Costituzione che, nel prevedere la distinzione dei magistrati solo per funzioni, ne rappresenta la massima garanzia di indipendenza, impedendo derive verticistiche all’interno degli uffici giudiziari.
Una rigida separazione delle carriere porterà ad un pubblico ministero sempre più lontano dalla cultura della giurisdizione, per divenire un "avvocato dell'accusa" pericolosamente piegato ai desiderata del potere politico.
Non è necessario spendere argomenti per confutare il presupposto che il giudice sia “culturalmente adesivo” alla prospettazione del pubblico ministero, essendo “collega”.
È la realtà dei fatti che smentisce l’assunto, perché nel 48% dei giudizi penali di primo grado l’esito è di assoluzione, il 45% di condanna, il resto ha esito misto.
E chi insiste a sostenere che la separazione è soluzione ai problemi della giustizia dimentica, evidentemente, che dal 2006 la media dei trasferimenti da una funzione all’altra è di 50 magistrati all’anno, e solo 21 nell’anno appena terminato.
Il pubblico ministero disegnato dalla riforma, quindi, rischia di allontanarsi dal ruolo di primo tutore delle garanzie individuali e dei diritti costituzionali
Non a caso, il progetto di legge interviene anche sull’obbligatorietà dell’azione penale che verrebbe esercitata esclusivamente «nei casi e nei modi previsti dalla legge», con il rischio di ledere il principio di uguaglianza dei cittadini nelle scelte di esercizio dell’azione penale.
La nostra Costituzione ha voluto realizzare una magistratura pienamente autonoma e indipendente da ogni altro potere. Oggi la prima garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura è data dalla forte cultura comune che unisce, e deve sempre unire, i giudici e pubblici ministeri, costruendo in ogni magistrato una precisa identità radicata nel ruolo di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini contro ogni arbitrio, ogni violenza, ogni forma di criminalità.
La terzietà del giudice, fondamentale come condizione per la sua imparzialità, va attuata e rafforzata all’interno del processo, con una piena applicazione dei principi fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e non certo con soluzioni che ci allontanano non solo dalla nostra tradizione giuridica, ma anche dalle linee di tendenza più significative presenti nel panorama europeo e internazionale.
Purtroppo, in Italia, già oggi a seguito degli interventi normativi verificatisi a partire dal 2006, sono pochissimi i passaggi da una funzione all’altra. Eppure, già nel 2000 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che ha un’impronta fortemente garantista, aveva raccomandato a tutti i Paesi di “consentire di svolgere successivamente le due funzioni”, le quali richiedono “analoghe garanzie in termini di qualifiche, competenze e status”. Si era precisato che “tale disposizione costituisce anche un'ulteriore tutela per il pubblico ministero”. La prospettiva del Consiglio d’Europa merita di essere condivisa con convinzione proprio alla luce dell’esperienza italiana.
La comune cultura della giurisdizione, che attualmente impone una comune formazione - iniziale e permanente - del Giudice e del Pubblico Ministero, costituisce un argine potente contro ogni rischio di pericolose derive del Pubblico Ministero. Cambiare sarebbe in controtendenza con una lunga tradizione italiana, che è un importante modello di riferimento in ambito europeo.
L’ANM ritiene che l’appartenenza dei magistrati ad un unico corpo professionale, espressamente voluta dal Costituente, rappresenti una conquista da preservare, coltivare e valorizzare.
L’autonomia e l’indipendenza potranno dirsi effettive solo se assicurate anche ai magistrati del pubblico ministero che non possono diventare avvocati dell’accusa, preoccupati degli esiti favorevoli dei processi, prima che dell’esito di giustizia.
L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono garanzie poste a presidio delle libertà dei cittadini, certo non dei magistrati e, al contempo, limiti a possibili compressioni da parte delle contingenti maggioranze di governo.
Del resto la formazione di due CSM renderebbe abnorme il potere dei pubblici ministeri: ora sono 5 su 20 membri del CSM, con la riforma diventerebbero la totalità dei membri togati del consiglio dedicato. Una concentrazione di potere di questo genere non potrà che sfociare, prima o poi, nell’individuazione di un referente nel potere esecutivo, e l’inevitabile compressione nella tutela dei diritti dei cittadini, siano essi persone offese o imputati.
Questo esito non è desiderabile per i cittadini, non serve ad una efficiente repressione dei reati o alla tutela delle garanzie individuali e non ci sembra desiderabile neanche dall’Avvocatura e, comunque, da chi abbia a cuore i diritti costituzionali.
Regionalismo differenziato e permanenza della specialità*
di Fabrizio Tigano
Sommario: 1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia - 2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni - 3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001 - 4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud - 5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione - 6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost. - 7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata - 7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste - 7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato - 7.3. Le prospettive della differenziazione - 8. La condizione di insularità come recupero della specialità - 9. Brevi considerazioni conclusive.
1. Le origini e le attuali declinazioni del regionalismo in Italia
È noto che il regionalismo italiano abbia attraversato diverse stagioni e che, anzi, sia stato costruito, parafrasando Giorgio Bocca, sulla scorta di un fil rouge che è rimasto carsicamente sotto traccia sin dall'unificazione e dal subito tramontare delle proposte federaliste che si sono ripetutamente affacciate - forse ancora oggi è così - senza produrre risultato.
L'unità e indivisibilità della Repubblica, accompagnate dal decentramento discendente centro-periferia - e poi, dopo il titolo V in senso ascendente - nella complessa e tutto sommato riuscita formulazione dell'art. 5 della Carta costituzionale, serba in sè la traccia, l'impronta di una condizione politico-territoriale - e poi anche economica - nella quale le regioni sono sempre esistite.
Il problema è sempre stato fare gli italiani, non perchè il senso di appartenenza, dolorosamente consolidatosi anche attraverso conflitti mondiali e guerre d'indipendenza, sia realmente mancato, ma perchè le divisioni territoriali, il retaggio comunale, i particolarismi e le particolarità reali dei territori hanno segnato l'accidentato percorso dell'autonomia nel suo complesso.
In questo contesto, la distanza tra Stato ed enti locali - chiaramente percepibile negli allegati A e B della legge sull'unificazione amministrativa, n. 2248 del 1865 - ha segnato anche la storia del Paese (si pensi a fenomeni come il banditismo ed il brigantaggio).
La creazione di un livello di governo intermedio che fosse in grado di colmare questa distanza, da cui era discesa una ulteriore compressione delle autonomie in epoca fascista, all'indomani del secondo conflitto mondiale costituiva, pertanto, una necessità avvertita trasversalmente ed indeclinabilmente.
La dialettica centro-periferia, all'indomani della scelta di dar corpo ad un ordinamento regionale, d'altro canto, ha aperto la strada ad una concezione della democrazia che fosse fondata dal basso, al di là del fatto che il principio di sussidiarietà troverà consacrazione nel testo costituzionale solo nel 2001, in esito alle c.d. "riforme Bassanini", il cui merito, fosse solo questo il loro portato, resta evidente.
2. L’attuazione del disegno costituzionale: alcune riflessioni
La vicenda regionale - come quella, connessa, dell'autonomia locale - ha seguito un percorso notoriamente accidentato.
Già in sede costituente è stata percepita la necessità di istituire, all'interno del genus regionale, speciesdiverse di autonomia, una differenziazione ante litteram o forse, più semplicemente, una prima differenziazione, di cui l'argomento del presente dibattito è - non si sa bene, se ultima - propaggine.
All'interno delle autonomie speciali regionali e di quella provinciale di Trento e Bolzano, tutte legate a ragioni storiche, politiche, amministrative ed economiche, si registrano tempi di attuazione e contenuti differenziati sui quali operare una reductio ad unum non era affatto semplice.
La Sicilia, in particolare, anche in ragione del fatto che la seconda guerra mondiale vide la sua conclusione reale ed effettiva nell'autunno del 1943 (a differenza delle regioni continentali, soprattutto di quelle più settentrionali, dove si consumarono gli ultimi drammatici momenti del regime, tanto da potersi considerare conclusa convenzionalmente il 25 aprile 1945), reclamò da subito - mutuando una espressione particolarmente cara ad Ignazio Marino - una forma di autonomia molto vicina alla secessione.
È, anzi, noto come nell'isola presero vita istanze di emancipazione dal potere centrale che, anticipando di gran lunga quanto avverrà a partire dagli anni '90 nel settentrione, si spinsero fino ad assumere il carattere di veri e propri movimenti secessionisti. A differenza dei moti di Bronte - come noto, inutilmente soppressi nel sangue da Nino Bixio - vi furono esperienze come la repubblica di Comiso, proclamata il 6 gennaio 1945, che si spinsero a chiedere l'indipendenza e la sovranità (il limite che la Corte costituzionale ha sempre posto anche alla più estrema delle autonomie speciali, tra cui la stessa Sicilia), forse anche la federazione agli Stati Uniti d'America.
Tanto basta per fare della Sicilia - in linea con un retaggio storico caratterizzato da diverse e sempre contrastate dominazioni - un unicum nel panorama delle autonomie speciali. Non a caso, lo statuto siciliano risale al 1946 e, al di là del suo "travaso" in legge costituzionale, non è mai stato realmente allineato alla sopravvenuta Carta costituzionale, costituendo, così, per mutuare una espressione cara a Salvatore Raimondi, privilegio e condanna del popolo siciliano.
Occorre aggiungere che, in generale, l'attuazione del disegno costituzionale regionale, così come preconizzato all'interno del Titolo V, non è stata più semplice, perchè a lungo fagocitata da una fase politica estremamente complessa, segnata dalla dialettica tra sinistra e partito popolare, risoltasi solo dopo che è apparso chiaro a tutti che i tempi per l'avvento delle prime alla guida del Governo non fossero ancora maturi.
Il disegno regionalista del 1948, inoltre, ha progressivamente mostrato la corda anche nella sua fase di attuazione: le Regioni ordinarie, tardivamente istituite, soprattutto nell’esercizio delle funzioni amministrative hanno finito per duplicare e persino mettersi in competizione con gli enti locali, cui ordinariamente era destinato, per il loro tramite, il decentramento preconizzato dall’art. 5 e declinato dall'art.118 della Carta costituzionale.
Si tratta di un tema assai delicato, frutto della – forse ineliminabile – politicizzazione dei centri di potere regionale, ma anche della burocratizzazione delle attività amministrative, mancando così di costituire quel necessario tassello di unitarietà dell’ordinamento che, e necessitate, doveva contemplare anche gli enti locali, la cui legge fondamentale, ex art. 128 Cost., è intervenuta solo nel 1990, cioè vent’anni dopo l’istituzione delle regioni ordinarie.
3. Il rapporto tra regioni ed enti locali negli anni ’90; l’avvento della riforma costituzionale del 2001
Gli elementi sommariamente ricordati hanno fatto sì che si delineasse - al di là della differenza tra gli statuti - un sistema a più velocità, scoordinato nella sua attuazione – come ebbe modo di rilevare già Calamandrei – ancorchè il disegno avesse una precisa (e condivisibile) logica.
Da un lato, l’istituzione delle regioni a statuto speciale è avvenuto “a singhiozzo” e non sempre in linea con la Carta costituzionale, segnando – come nel caso della Sicilia – addirittura ragioni di contrasto mai risolte; dall’altro lato, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario – teoricamente più semplice – ha sofferto di ritardi legati a contingenze storico-politiche dissipatesi solo dopo la metà degli anni ’60; dall’altro lato ancora, gli enti locali, veri destinatari dei benefici dell’istituzione dell’ordinamento regionale, sono rimasti relegati – almeno fino all’avvento della legge n. 142 del 1990 (e forse anche dopo) – ad un ruolo marginale, non recuperando il gap già segnato dagli allegati a) e b) della legge n. 2248 del 1865 ed in fondo ribadito dal t.u. della metà degli anni ’30.
Le esigenze dei territori e dei cittadini sono così rimaste per lungo tempo sullo sfondo di un centralismo mai sopito, che a quello statale ha visto sommarsi quello regionale.
La “spinta” discendente dall’attuazione dell’art. 128 della Costituzione ha segnato, quasi per paradosso, il de profundis della medesima norma, nel senso che la tardiva attuazione dello schema originario posto dall’art. 5 e dal titolo V ha fatto sì che, una volta compiuto il quadro, questo, quasi come nel ritratto di Dorian Gray, mostrasse già tutti i segni del tempo.
Le riforme Bassanini, come noto, sono intervenute, soprattutto al fine di dar luogo, dopo la controversa esperienza degli anni ’70, ad un nuovo trasferimento organico di funzioni amministrative, fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
Preso atto, però, della difficoltà di operare le riforme “a Costituzione invariata” e del coevo fallimento della Bicamerale D’Alema, pur a colpi di maggioranza, è stata, infine, varata la riforma del Titolo V con la legge costituzionale n.3 del 2001, laddove gli assetti originari sono stati certamente modificati, forse non sconvolti, a dire il vero (della legge n. 3/2001, infatti, esiste una duplice lettura: profondamente riformatrice e riformatrice ma fortemente ancorata a precedenti vocazioni centraliste).
La norma più “ad effetto” è, probabilmente, l’art. 114, che capovolge il regime delle competenze alla luce del principio di sussidiarietà, ponendo, in tesi, sullo stesso piano i diversi livelli di governo in funzione del principio di leale collaborazione, declinato sulla risposta più immediata ed efficace alle varie ed assai complesse realtà territoriali del Paese (tutti aspetti ancora oggi di piena attualità).
Le norme di più forte impatto sono gli articoli da 116 a 120, in quanto disegnano i tratti fondamentali del nuovo regionalismo – almeno, tendenzialmente cooperativo, sicuramente non competitivo nelle intenzioni – riconoscendo un ruolo di maggiore momento al già stanco assetto regionale ordinario, rimasto fagocitato dalla sua tardiva attuazione, dal difficile trasferimento delle risorse e delle competenze, dalle inefficienze di una burocrazia restia ad amministrare ponendosi al centro dei rapporti stato-enti locali. Anzi, il moderno disegno della legge 142 del 1990, dando fortissimo impulso allo sviluppo di Province e Comuni (si pensi, a titolo di esempio, all’elezione diretta dei Sindaci ed alle “primavere” comunali da essa germinata, ma non solo), ha finito per costituire il traino per attribuire nuova linfa alla stessa struttura regionale, ponendo in tratto di dubbio quel “regionalismo di uniformità” che proprio l’art. 116 c. 3 tende a scardinare, al di là delle nuove competenze legislative primarie e del superamento del principio del parallelismo in nome del principio di sussidiarietà.
4. La difficile attuazione del nuovo Titolo V nell’ambito dei perduranti divari Nord-Sud
L’attuazione del nuovo titolo V, come noto, è risultata tutt’altro che semplice, non essendo state dipanate alcune questioni di fondo ancora oggi presenti nel dibattito scientifico (oltrechè politico ed economico) che hanno costituito e tuttora costituiscono il limite profondo ed immanente ad ogni tentativo di riforma.
Il divario nord-sud, la complessità dei trasferimenti finanziari provenienti dallo Stato, la relazione con i territori e con gli enti locali, la trasversalità di alcune materie di legislazione concorrente, il mai risolto tema dei diritti sociali e, più in generale, dei diritti fondamentali dei cittadini, la simmetria “possibile e sostenibile” tra le regioni (si pensi, per tutte, alla questione del diritto alla salute), le relazioni con Governo e Parlamento (anche alla luce dell’elezione diretta dei governatori regionali), la debolezza politica delle regioni, convertitesi in centri di gestione e di amministrazione, la sovrapposizione ed il mancato coordinamento delle competenze con gli enti locali, sono solo alcune delle questioni sul tappeto.
Una prima risposta, sulla quale ancora oggi dovrebbe lavorarsi, è stata le legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, i cui decreti attuativi, in particolare il n. 216 del 2010, hanno affrontato lo scottante tema della scelta, nel finanziamento pubblico, tra costi storici e costi standard in vista della individuazione dei LEP con riferimento ai diritti civili e sociali da realizzare sull’intero territorio ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. m).
Si tratta, però, di un processo che paga fatalmente le crisi che, a partire dal 2008, quasi ininterrottamente, hanno colpito la struttura economica e finanziaria dello Stato, determinando una serie di tagli lineari che hanno colpito in misura assai rilevante le regioni e gli enti locali. Il 2012, in particolare, segna l’avvento di una riforma costituzionale che apre una fase particolarmente faticosa per rientrare nei parametri dell’Euro (e non solo), in funzione di politiche eurounitarie improntate ai parametri dell’austerità accompagnata dalla sollecitazione ad operare riforme profonde per modernizzare e rendere efficiente la macchina amministrativa italiana, a tutti i livelli.
A tale fase è corrisposta, giocoforza, una risposta articolata dei territori e della autorità regionali e locali. Ma, mentre queste ultime hanno subito, per lo più, le difficoltà dell’austerità, ad un tratto, la reazione, tra il 2018 ed il 2019, si è (nuovamente) manifestata da parte di alcune regioni, segnatamente la Lombardia il Veneto e l’Emilia Romagna (ma poi anche di altre, tra cui la Campania), nel rivendicare il proprio ruolo istituzionale attraverso la richiesta di ulteriori e più estese forme di autonomia, differenziandosi dal resto del Paese, facendo appello ad una norma di complessa attuazione come l’art. 116 c. 3 del novello titolo V.
Nasce da qui quello che viene oggi battezzato come “regionalismo differenziato”, che, se rapportato al complessivo disegno costituzionale regionalista, in effetti, costituisce ulteriore differenziazione all’interno di un quadro nel quale campeggiavano (e si differenziavano per qualità degli statuti) le regioni ordinarie e quelle speciali.
Non si devono avere prese di posizione preconcette su questo punto: le rivendicazioni delle regioni a statuto ordinario sono pienamente legittime sul piano costituzionale (bisognerebbe vedere in quello amministrativo) e forse hanno una logica precisa in un contesto, anche a livello europeo, nel quale una struttura regionale maggiormente protagonista, pur nel rispetto dei limiti dell’interesse nazionale, delle scelte economiche, fiscali e politiche potrebbe costituire un motivo di forza e di sviluppo dei territori, una realizzazione della cittadinanza in armonia con gli artt. 174 e 175 del TFUE e, nel contempo, uno snellimento della struttura centrale, non sempre in grado di provvedere adeguatamente.
Vi è, però, che il regionalismo differenziato non può costituirsi prescindendo dalla risoluzione dei problemi che hanno caratterizzato l’ordinamento regionale nel suo complesso, dal divario Nord – Sud (il recupero del gap è, come risulta pacifico da tutte le relazioni stese sul punto, compresa quella della Banca d’Italia, fondamentale per la crescita del Paese), cui è connesso il corretto riparto delle risorse (finora non paritario), alla previa determinazione dei LEP sulla base dei costi storici e/o standard, dal mantenimento di un fondo perequativo, tale da non determinare un regionalismo competitivo e rimanere – come richiede la Corte costituzionale – nell’ambito di un regionalismo cooperativo.
Nel merito, le richieste rischiano di determinare un vero e proprio svuotamento della legislazione concorrente, aspetto che, in sé potrebbe risultare persino paradossale.
Nel metodo, la scelta è caduta – come pare ormai assodato – sull’utilizzo di una legge rafforzata di attuazione dell’art. 116 c. 3, che, però, nelle attuali formulazioni, mostra una sorta di “amministrativizzazione” non del tutto convincente. Immaginare, in particolare, come prevedeva il disegno di legge “Boccia”, si possa procedere oltre anche laddove non siano stati previamente determinati i LEP, facendo ricorso ai costi standard rischia di fare degenerare il processo di differenziazione, che, in tesi, mira ad ottenere risultati proficui in termini di efficienza e gestione delle risorse, anziché aggravare i divari esistenti, che non servono ad alcuno, anche in termini economici (Castronuovo).
5. Alcuni problemi legati al processo di differenziazione
Sul processo di differenziazione pendono altri problemi di fondo: il suo porsi in controtendenza con le scelte politiche di “accentramento” post Covid 19 ribadite dal PNRR, non avendo, peraltro, le Regioni dato sempre piena prova di riuscire a superare le attuali fasi di crisi (altro discorso è quello della competenza legislativa statale per materia). La pandemia ha certamente evidenziato la necessità di procedere ad una corretta riorganizzazione amministrativa sui territori che, da una parte, agevoli i processi di sviluppo, dall’altro non fagociti i diritti fondamentali dell’intera cittadinanza.
Anche le notevoli risorse destinate al Mezzogiorno dal PNRR, finalizzate allo sviluppo dei territori ed alla salvaguardia dei diritti di cittadinanza, passa attraverso la capacità di operare gli interventi e, concretamente, di "metterli in campo" (Manganaro).
Vi è un’altra obiezione all’immediata attuazione del regionalismo differenziato – fra le tante, non si pensa di esaurirle tutte – ossia il ruolo del principio di sussidiarietà posto dall’art. 118 della Costituzione novellata nel 2001, al centro del quale campeggia il Comune e non la Regione.
L’attuazione del regionalismo differenziato potrebbe dar luogo ad una sorta di riproposizione del parallelismo, ma rovesciato, non consentendo l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni. In altri termini, se è forse anche corretta l’idea secondo la quale la dipendenza dallo Stato costituisca la propaggine di un centralismo da scardinare – ancorché attualmente in una delle sua fasi di maggiore fulgore – in nome dell’originario disegno costituente posto dall’art. 5 (rispetto al quale la riforma del 2001 non può dirsi in contrasto), sarebbe stato preferibile riconoscere maggiore rilevanza alla sussidiarietà posta dall’art. 118, prima ancora che giungere a proposte, che, senza la soluzione dei nodi problematici che accompagnano il regionalismo italiano, rischiano di tradursi in ulteriori divisioni, al limite della secessione (beninteso, non si può parlare di secessione tout court), non utili allo sviluppo ed alla crescita dell’Italia.
Ciò per tacere del tema della fiscalità, che, come noto, è agganciata a principi che prescindono dalla produttività dei singoli territori e comunque è improntata alla redistribuzione equa tra tutti, ma anche del fatto che la neutralità del trasferimento non sarebbe facilmente considerabile né garantibile. In tal senso, va ricordato il contributo di Luciano Vandelli, il quale evidenzia la presenza di due pilastri: l’art. 118 in nome della differenziazione adeguatezza e sussidiarietà; quello costituito da “valori unitari e gli strumenti per la loro tutela, i livelli essenziali, la perequazione e la solidarietà del sistema finanziario, i principi fondamentali nelle materie concorrenti, la leale collaborazione, eccetera ex art. 117 e 119”.
In altri termini, si tratta di un contesto nel quale ben vengano le richieste autonomistiche delle regioni a statuto ordinario. Ma senza prescindere da una visione complessiva, a pena di determinare una fase nella quale venga ad incrinarsi gravemente, se non proprio a spezzarsi, l’unità dell’ordinamento.
6. Le proposte di attuazione dell’art. 116 c. 3 Cost.
Viene, così, a delinearsi un quadro di luci ed ombre, attraversato dal dubbio che mascherati intenti egoistici dei “più ricchi” vadano a discapito dei “più poveri”.
Si tratta di una vulgata, a volte anche echeggiata in alcune affermazioni di carattere politico, a cui non si può e non si deve credere. Lo stesso Ministro Calderoli a più riprese ha chiarito che non si mira affatto a creare divisioni ed ingiustizie tra regioni e territori, ma a promuovere il sistema regionale, quello degli enti locali e lo sviluppo dei territori e del Paese (bisognerà vedere, però, cosa accadrà in concreto).
D’altro canto, sia nella bozza informale sia nel disegno di legge governativo, ciò risulta abbastanza chiaramente, pur con tutta una serie di perplessità che riguardano la stipula ed il valore delle intese e soprattutto il ruolo del Parlamento, a lungo esautorato da decisioni che riguardano l’intera collettività, la cui centralità va recuperata soprattutto in una fase politica nella quale sembrano archiviate le – pur necessarie – esperienze “tecniche” o “di larghe intese”, esperienze di governo non diretto frutto della volontà popolare.
Se, infatti, come insegna la quasi totalità della scienza costituzionale, i governi tecnici, pur pagando in termini di rappresentatività, sono perfettamente legittimi, d’altro canto, la parentesi storica che li ha contemplati è stata forse eccessiva.
La “tecnicizzazione” delle scelte politiche (come, in fondo, di quelle prettamente amministrative), del resto, porta con sé vantaggi e svantaggi: da una parte si tratta di scelte difficilmente discutibili, anche perché sovente necessitate dalla contingenza; dall’altra parte, però, la diretta legittimazione popolare e la possibilità (come è attualmente) di godere di una solida maggioranza (almeno nei numeri), consente di operare scelte "propriamente" espressione dell’indirizzo politico, cui non si vede perché rinunciare.
In un recente disegno di legge presentato dall’opposizione viene segnalato – anche questo è un importante aspetto sul quale riflettere – che diverse materie di legislazione concorrente previste dall’art. 117 (“produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, le “grandi reti di trasporto e di navigazione”, le “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito fondiario e agrario a carattere regionale”) richiedano un diverso riparto delle competenze, anche in funzione dell’attuale nuova fase storica e dei rapporti con l’Unione europea. Ma viene anche ricordato, segnatamente con riferimento alla bocciatura della richiesta regionale di trattenere i 9/10 dei tributi riscossi a livello regionale, che l’autonomia differenziata “come insegna anche la storia delle regioni a statuto speciale, non può essere considerata un fine in sé, quasi si trattasse di realizzare una statualità propria della regione richiedente, ma come un processo in cui sperimentare il miglioramento delle politiche pubbliche in un quadro di sussidiarietà che non intacchi l’unità nazionale”. Ovvero, si tratta di “competenze, quali quelle in materia di politiche attive del lavoro, di integrazione fra politiche attive e politiche passive, di organizzazione delle fondazioni ITS, di realizzazione di un sistema integrato di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale, di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, di governo del territorio funzionale alla rigenerazione urbana e alla prevenzione del rischio sismico°, che le regioni “possono gestire adattandole proficuamente ai diversi sistemi d’impresa che caratterizzano i nostri territori”.
Nel disegno di legge di cui si tratta – ovviamente, ben più definito della iniziale “bozza Calderoli” del novembre scorso (ma non pare con esso in totale contrasto) – viene precisato che l’attribuzione delle competenze alle regioni presuppone il rispetto degli artt. 118, 2 e 5 della Costituzione, “sentiti gli enti locali e tenuto conto delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane definite dalla legislazione statale, ai sensi dell’art. 117 c. 2 lett. p) della Costituizone”; inoltre, l’attribuzione delle competenze, ove riguardino materie che costituiscano livelli essenziali delle prestazioni (art. 117 c. 2 lett. m) possano essere attribuire alle regioni richiedenti solo dopo la definizione dei LEP.
In ogni caso il Parlamento (dopo una prima fase governativa ove si ha la sottoscrizione dell’intesa), è consultato con l’acquisizione del parere da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali e poi nella fase successiva alla sua sottoscrizione definitiva, con la trasmissione dello schema di disegno di legge di ratifica alle Camere ai sensi dell’art. 116 c. 3, con eventuale previo invio di una relazione dettagliata governativa circa eventuali difformità dalle indicazioni espresse dal Parlamento.
Vi è, poi, il profilo relativo ai LEP, che vanno previamente determinati, entro e non oltre un anno dalla entrata in vigore della legge, nonché il nodo delle risorse strumentali e finanziarie in uno al trasferimento delle competenze alle regioni, in base a quattro fondamentali principi: 1) il rispetto del principio di equilibrio dei bilanci pubblici; b) la tendenziale neutralità finanziaria e il rispetto degli equilibri di finanza pubblica; c) l’integrale copertura delle funzioni, ai sensi dell’art. 119; d) il periodico aggiornamento del quadro finanziario in rapporto all’evoluzione del quadro macro economico, nel rispetto della neutralità finanziaria.
Aspetto sul quale pare ci sia una convergenza tra maggioranza ed opposizione è quello del riferimento ai costi standard, ossia le risorse da assegnare in sede di intesa, risorse finanziarie assegnate in termini di compartecipazione al gettito dei tributi erariali del territorio regionale. Fino alla definizione dei costi standard, le risorse sono attribuite alla regione con riferimento alla spesa permanente sostenuta dallo Stato per l’erogazione delle corrispondenti funzioni.
Una differenza tra la bozza Calderoli ed il disegno di legge governativo è sul passaggio finale in sede parlamentare.
Mentre l’art. 2 c. 6 della bozza prevedeva la mera approvazione dell’intesa, adesso il riferimento è al solo art. 116 c. 3 della Costituzione. In realtà, il procedimento descritto nel disegno di legge governativo tende dichiaratamente a salvaguardare il ruolo del Parlamento, prevedendo la possibilità di esprimersi con atti di indirizzo. Occorrerà verificare cosa accadrà davvero.
7. Il nuovo rapporto tra autonomia speciale e differenziata
Il 116 c. 3 non va inteso pregiudizialmente come contenente una clausola idonea a fondare un tertium genus di regionalismo: si tratta, invero, di uno strumento di razionalizzazione e perfezionamento del regionalismo ordinario, su matrice volontaria, opzionale e non obbligatoria.
Eppure, è stato sostenuto che l’art. 116, introdotto in modo approssimativo ed all’ultimo minuto, costituisca un modo per non affrontare la questione più profonda, che è quella della “federalizzazione” dell’ordinamento (Frosini), da cui dovrebbe discendere, quale primo passo, l’abolizione della specialità, in quanto, in uno stato federale, tutte le regioni sono “speciali”.
Da altra parte, poi – ed è una tesi ricorrente – si considera inattuabile l’art. 116 c. 3 perché carente “di strumenti flessibili di integrazione tra unità e differenziazione, tra competizione e cooperazione” (Palermo). Il rischio è che “una volta innescato il meccanismo differenziale, non sarà più possibile tornare indietro, almeno con decisione unilaterale dello Stato”, essendo l’accordo governabile solo attraverso soluzioni politiche e non istituzionali. Si creerebbe, cioè, altra specialità con un procedimento diverso da quello degli Statuti speciali e delle norme di attuazione, queste ultime, caratterizzate da riserva e separazione.
La c.d. “clausola di asimmetria” contenuta nell’art. 116 c. 3 è accompagnata da una serie di previsioni utili a compensare gli effetti negativi che riguardo alla distribuzione delle risorse, potevano scaturire da una differenziazione esasperata: la istituzione di un fondo perequativo generale per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119) e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale ex art. 117 c. 2 lett. m).
A ben guardare, però, l’attuazione dell’art. 116 c. 3 non è, almeno formalmente (ma su questo il disegno di legge governativo pare consentire maggiore ottimismo), subordinata alla istituzione del fondo perequativo ed alla fissazione dei LEP: in tesi, dunque, la sua attuazione potrebbe avvenire prescindendone, cioè senza le garanzie necessarie a salvaguardare la coesione economico-sociale del Paese e l’unità nazionale. Il fondo perequativo non è ancora stato istituito e non sono stati fissati in diversi importanti settori i LEP, né è stato applicato il principio dei fabbisogni standard per il calcolo dei costi delle funzioni.
Sta di fatto che il modello cui le regioni a statuto ordinario hanno guardato – anche questa è una communis opinio, seppure più fondata della precedente vulgata – è quello dell’autonomia speciale, ancorchè si tratti di un modello astratto, in quanto concretamente attuato in misura diversa da regione a regione. Ciò si ricava anzitutto dalla formulazione del quesito posto nel referendum consultivo del 2017 Veneto (l’unico fatto salvo dalla Corte costituzionale n. 118 del 2015), dal numero di materie (23) in cui è stata chiesta l’attivazione della clausola di asimmetria – non consentendo di parlare di una funzione integrativa e complementare rispetto alla vigente articolazione delle competenze, rinviando all’idea di un vero e proprio statuto speciale – e dalla previsione nelle bozze d’intesa che le modalità per l’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali e le forme di raccordo con le amministrazioni centrali per l’esercizio delle funzioni devolute dovrebbero essere determinate da un’apposita commissione paritetica, simile a quelle previste nelle regioni a statuto speciale.
Viene, però, in dottrina, rilevato che la composizione di queste commissioni è meno garantista delle paritetiche (in quanto ne fanno parte soggetti designati da organi di rappresentanza elettiva anziché dall’esecutivo) e che, a differenza dei decreti di attuazione degli statuti speciali (atti con forza di legge previsti da leggi costituzionali ed emanati dal P.d.R.) gli atti previsti dalle bozze d’intesa sarebbero decreti del P.d.Consiglio, privi di forza di legge e dall’incerta natura, mal celando l’intento di “privatizzare” il trasferimento di funzioni alle regioni, riservandolo al rapporto tra esecutivo nazionale e regionale (Morelli).
L’autonomia differenziata può, dunque, essere intesa come un modo per giungere all’autonomia speciale per altra via rispetto a quella dello statuto speciale di rango costituzionale? E poi: la riforma del 2001 ha, in qualche modo, decostituzionalizzato il procedimento di riconoscimento dell’autonomia speciale?
A questi quesiti si può rispondere in vario modo: la risposta più probabile è quella negativa, dal momento che il costituente ha distinto in modo chiaro tra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario.
Altro discorso, ovviamente, è interrogarsi circa la perdurante utilità del regime duale esistente, in quanto integrato da regioni ordinarie differenziate.
Al proposito, in dottrina si è parlato di una nuova “specialità diffusa” (Ruggeri), predicando, cioè l’abbandono del modello duale in nome di nuovi percorsi autonomistici regionali e locali nei quali il tema della coesione politica e sociale, anche per quel che concerne i diritti sociali e di cittadinanza, istituendo fondi perequativi, fissando LEP, sia diversamente articolato. Preso atto dei percorsi possibili cui può dare la stura l’attuazione dell’art. 116 c. 3, infatti, vi è l’opportunità – e persino la necessità – “di abbandonare una buona volta e senza rimpianto alcuno il vecchio regime duale fondato sull’articolazione dell’autonomia in ordinaria e specie, mirando piuttosto (e decisamente) all’impianto di un sistema complessivo di specialità diffusa, eretto e incessantemente rinnovato con il fattivo concorso delle stesse regioni in forme idonee a salvaguardarne l’autonomia, nella cornice dalla unità-indivisibilità della Repubblica. Si tratta di un percorso che, tuttavia, richiede l’obbligatorio ricorso alla revisione costituzionale, non potendosi aggirare le norme della Carta fondamentale”.
Si è anche rilevato che l’attuale processo di differenziazione, diversamente da quanto prefigurato nel 2006 e poi nel 2018, segue una prospettiva di differenziazione generalizzata, ponendo in crisi la stessa distinzione rispetto alla tradizionale “specialità”. Nel silenzio dell’art. 116, tale circostanza metterebbe seriamente in discussione l’attuale impianto costituzionale, nel quale vige una ordinarietà governata dal Titolo V, con parziali deroghe per le regioni speciali.
Infine, è stato posto il problema della sostenibilità per la finanza pubblica di un regime differenziato generalizzato.
Insomma, il tema è se sia messa in discussione la stessa sopravvivenza della specialità, oltre alla potenziale integrale disattivazione dell’intero Titolo V, dando ragione a chi sostiene che debba abbandonarsi il regime duale in nome di una specialità diffusa. Unica vera alternativa è l’adeguamento degli statuti (ex art. 10 l. cost. n. 3/2001). Laddove il regionalismo differenziato sconfinasse in quello speciale, del resto, si potrebbe parlare di una surrettizia (e pericolosa) forma di violazione della Costituzione.
In tal senso, è stato rilevato che non è possibile far transitare tutte le Regioni ordinarie nel modello della differenziazione e, d’altro canto, non può porsi un vero e proprio limite quantitativo e temporale senza condurre un discorso maggiormente organico. La rivendicazione generalizzata della differenziazione incide e forse trasforma la stessa forma di Stato, perché diventano oggetto di discussione i modelli regionali. Il modello della differenziazione, dunque, va, molto probabilmente, inserito in un quadro costituzionale già esistente, senza assimilazione al modello della specialità.
Il "116" serve a trasferire ulteriori competenze legislative (o pezzi di esse), quindi il suo impatto è tutt’altro che irrilevante. Se si trattasse solo di trasferire funzioni amministrative sarebbe sufficiente l’art. 118 ed una legge ordinaria, non vi sarebbe ragione di ricorrere al 116 c. 3. In ogni caso, non vi è alcuna obiezione in relazione al fatto che il trasferimento di funzioni legislative coinvolga anche quelle amministrative, come dimostra il previo coinvolgimento degli enti locali in nome, evidentemente, del principio di sussidiarietà.
7.1. Le carenze del regime duale, tra istanze identitarie e funzionaliste
Quali sono, eventualmente, le ragioni che giustificano la permanenza del regime duale? La specialità risponde ad una logica top down, discendente e imposta dall’alto, frutto di negoziazione politica; il 116 c. 3 risponde alla logica bottom up, giacchè l’attribuzione delle condizioni particolari di autonomia discende da una legge approvata a maggioranza assoluta, a seguito di negoziazione politica e sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione interessata.
Mentre l’autonomia differenziata può essere istituita solo nelle materie indicate dall’art. 117, cui rinvia il 116 c. 3, l’autonomia speciale ha, in potenza, un ambito di estensione più ampio, perché non conosce limiti precostituiti, se non l’inserzione nelle leggi costituzionali di approvazione degli statuti speciali.
Dunque, l’autonomia speciale, in tesi, è complessivamente superiore rispetto a quella differenziata.
Ma quali esigenze le due forme di autonomia sono chiamate a soddisfare? L’autonomia speciale, in tesi, risponde ad una logica prevalentemente identitaria (e forse anche ideologica), quella differenziata ad una visione funzionalista, ossia come strumento per assicurare un’amministrazione efficace ed efficiente.
Sull’autonomia speciale, vi sono tesi opposte: vi è chi la ritiene un caposaldo storico dell’ordinamento italiano (D’Atena), pertanto sottratto alle volizioni politiche contingenti (Silvestri); ma anche chi considera le autonomie speciali come alcune tra le possibili declinazioni del principio autonomistico di cui all’art. 5, che, come tale, potrebbe trovare diverse (e forse anche più soddisfacenti) realizzazioni (Pajno).
In astratto, i modelli sono distinti: si trovano di fronte forme di autonomia speciale intangibile se non con il procedimento di revisione costituzionale, rispetto a potenziali autonomie differenziate, orientate da parametri di efficienza amministrativa e contenute entro i limiti dell’art. 119.
Ovviamente, passando dall’astratto al concreto, il discorso può trovare altra declinazione, considerato che le istanze identitarie e quelle funzionaliste non stanno in conflitto tra loro e possono anche convergere. La contrapposizione tra la declinazione politico-identitaria e quella funzionalista dell’autonomia “non deve essere enfatizzata alla luce del fatto che, anche se nella configurazione istituzionale di un livello territoriale di governo, si parte dell’esigenza di soddisfare al meglio gli interessi, non si può prescindere dalle risultanze storico-sociali e dalle intrecciate ragioni economiche legate alla comunità di riferimento” (Tarli Barbieri).
Le autonomie speciali, a loro volta, non costituiscono una categoria omogenea, nel senso che ogni statuto speciale presenta caratteri propri e peculiari (quelli che giustificano, in linea di principio, la specialità) ed anzi è noto che, per alcune regioni (soprattutto quelle insulari), la specialità ha finito per costituire un freno anziché una risorsa per lo sviluppo dei relativi territori.
Né gli orientamenti del legislatore e del giudice delle leggi hanno mai attraversato stagioni di particolare fulgore, nel senso che le aspirazioni di tutte le autonomie, regionali, ordinarie e speciali, hanno subito, in misura più o meno ampia, gli effetti di una logica orientata più all’omologazione che alla differenziazione.
7.2. La lacunosa disciplina del regionalismo differenziato
Il 116 c. 3 è, indubbiamente formulato in modo non chiaro ed esaustivo: un intervento integrativo e correttivo di stampo costituzionale potrebbe, per vero, risultare molto utile, prima dell’adozione di una legge attuativa, peraltro non richiesta dalla stessa norma. Un intervento con legge costituzionale sarebbe giustificato da più ampie esigenze di sistema e soprattutto dalla necessità di impedire che già sul piano procedurale si producano discriminazioni in base al colore politico del governo della regione interessata alla trattativa, giacchè le regole procedurali non possono divenire oggetto di negoziazione politica.
La soluzione prescelta, fin dal 2018, tuttavia è quella della legge quadro, cui paiono coerenti le ulteriori e più recenti proposte. Ma anche tale legge (viene anche fatto riferimento, vista l’iniziativa regionale, all’art. 121 Cost.) non convince del tutto nel senso che non si offre alcun elemento riguardo alla tempistica e soprattutto ai principi cui informare il momento generativo dell’intesa tra Stato e regione.
La clausola di asimmetria, d'altro canto, si ritiene concerna solo le regioni a regime ordinario. A favore di tale tesi, a parte il dato testuale, vi è il fatto che per le regioni a statuto speciale, la via istituzionale è quella che prevede la revisione dei rispettivi statuti con legge costituzionale. Va, però, rilevato che nei due procedimenti la Regione ha un ruolo differente: nel primo caso (revisione costituzionale) meramente consultivo, nel secondo caso più probabilmente paritario. Quindi, se è vero che l’ampliamento dell’autonomia speciale, di regola, presuppone la revisione degli Statuti, in una prospettiva sperimentale (Morelli) il procedimento di differenziazione potrebbe servire per fare acquisire alle autonomie speciali competenze in materie di cui esse non avessero già la disponibilità. Tali competenze non verrebbero inserite negli statuti speciali, ma nulla impedirebbe, in caso di accordo politico con lo Stato, che tali competenze trovino inserimento in seguito negli statuti, in ossequio, peraltro, alla clausola di maggior favore prevista dalla legge cost. 3/2001, in quanto l’introduzione nello statuto speciale della previsione di una delle competenze oggetto di differenziazione, dopo un “periodo di prova”, rafforzerebbe, in via transitoria, la competenza stessa.
A questo si obietta che l’art. 10 varrebbe solo per le condizioni di autonomia di cui al Titolo V e non anche per quelle poste dall’art. 116 c. 3: di contro può osservarsi che la differenziazione è prodotto logico e diretto dell’attuazione del 116 c. 3, sicché non si vede perché escludere la possibilità di avvalersi della procedura che lo riguarda, ponendosi, a ben guardare, in contrasto con la ratio della stessa clausola di maggior favore, in quanto sarebbe impedito transitoriamente, in attesa della revisione degli statuti, alle regioni speciali di avere accesso al regionalismo differenziato.
Peraltro, l’art. 11 della legge n. 131/2003, nel richiamare l’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001 precisa che “le Commissioni paritetiche previste dagli statuti delle Regioni a statuto speciale, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi dell’articolo 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative”. Le norme di attuazione, in applicazione dell’art. 10 possono prevedere altresì “disposizioni specifiche per la disciplina delle attività regionali di competenza in materia di rapporti internazionali e comunitari”. Secondo D’Atena, “una volta rovesciata l’enumerazione delle competenze legislative, il mantenimento dell’autonomia speciale nella sua originaria consistenza avrebbe posto gli enti che ne erano dotati in posizione deteriore rispetto agli altri. Per l’evidente ragione che le competenze individuate dai rispettivi statuti, con tecnica enumerativa, avevano un’estensione decisamente inferiore rispetto a quelle assicurate alle regioni ad autonomia ordinaria dalla clausola residuale”.
7.3. Le prospettive della differenziazione
Il regionalismo differenziato, nato in chiave funzionalista, attualmente ha finito per assumere una valenza simbolica ed identitaria, in vista del raggiungimento dell’autonomia speciale. Su questo nessuna obiezione, come si è detto. E tuttavia, una volta avviato il processo di differenziazione, la "via del ritorno" pare preclusa, anzi non è proprio prevista, evidenziandosi così una evidente lacuna normativa. Nonostante, infatti, sia prevista una revisione periodica dell’intesa dopo un decennio dall’entrata in vigore della legge attributiva delle nuove forme di autonomia, il ritorno al passato porrebbe enormi problemi pratici (anche nella riorganizzazione degli uffici) e sarebbe certamente interpretato come una sorta di spoliazione da parte del centro rispetto alla regione. Una legge costituzionale che disciplinasse questo passaggio sarebbe, quindi, auspicabile, potendo costituire, peraltro, parametro di legittimità costituzionale.
Una volta attuata la differenziazione, del resto, non è prevedibile immaginare quali conseguenze si avrebbero nelle relazioni con le regioni a statuto speciale.
Deve immaginarsi la crescita del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, la quale potrebbe fare ricorso a tutta la precedente giurisprudenza in tema di leale collaborazione, ragionevolezza e proporzionalità, per assicurare istanze unitarie, ridimensionando gli effetti della differenziazione in nome dell’interesse nazionale.
Un problema non secondario potrebbe porsi in rapporto alla tenuta economica complessiva del Paese, laddove si manchi di valorizzare le regioni della solidarietà interterritoriale.
8. La condizione di insularità come recupero della specialità
Le ragioni della specialità, soprattutto per le regioni insulari (Sicilia e Sardegna) trovano oggi particolare ed ulteriore fondamento in funzione del riconoscimento della condizione di insularità, le cui caratteristiche geografiche, economiche, demografiche e sociali sono assolutamente specifiche, sfidando le stesse politiche europee in ragione del mercato limitato e della difficoltà di realizzare economie di scala. Si pensi ai costi di trasporto sicuramente più elevati, alle relazioni inter-industriali, ai deficit di infrastrutture e di offerta di servizi per le imprese (rispetto alle realtà continentali), alla compressione dei servizi sociali e formativi ai cittadini, nonché in relazione ai recenti fenomeni migratori. Le misure di riequilibrio e di perequazione per la condizione geografica e di discontinuità territoriale devono consentire pari opportunità di sviluppo e accesso al mercato unico europeo anche rispetto alle altre regioni. Insularità e perifericità producono un incremento dei costi e creano ritardi e debolezze nel processo di sviluppo e coesione (Armao).
Significativa, sul punto la sentenza n. 9 del 2019 della Corte costituzionale per la quale il fattore insulare va declinato opportunamente sia sul piano dell’identità e specialità, sia con riferimento alle opportunità di studiare e lavorare, come anche di assicurare la libera circolazione dei beni, dei trasporti e delle persone garantendo l’esercizio dei loro diritti economici. La Corte costituzionale ha, infatti, ritenuto illegittimo l’art. 1 c. 851 l.n. 205/2019 “nella parte in cui non prevede, nel triennio 2018-2020, adeguate risorse per consentire alla regione autonoma Sardegna una fisiolgica programmazione nelle more del compimento, secondo canoni costituzionali, della trattativa finalizzata alla stipula dell’accordo di finanza pubblica”. La Corte, peraltro, aveva già ritenuto necessario un rapporto di leale collaborazione con le autonomie territoriali nella gestione delle politiche di bilancio (c.d. “tirannia” della ragione erariale). Il meccanismo della priorità dell’intervento finanziario, sempre secondo il Giudice delle leggi, connota “il principio dell’equilibrio dinamico come giusto contemperamento, nella materia finanziaria, tra i precetti dell’articolo 81 della Costituzione, la salvaguardia della discrezionalità legislativa e l’effettività delle pronunce del giudice costituzionale”.
Quanto alla condizione di insularità, pur essendo venuto meno l’esplicito riferimento un tempo contenuto nell’art. 119 c. 3 Cost., resta il dato normativo costituito dall’art. 27 della l.n. 42/2009 che garantisce l’adozione di meccanismi di perequazione fiscale ed infrastrutturale volti a garantire il riequilibrio dei divari: “in relazione alla mancata ridefinizione delle relazioni finanziarie tra Stato e regione autonoma .. secondo i canoni fissati dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, va sottolinea come, a quasi dieci anni dall’emanazione di tale legge, il problema dell’insularità non sia mai stato preso in considerazione ai fini di ponderare complessivamente le componenti di entrata e di spesa dell’autonomia territoriale” dato lo svantaggio economico determinato da tale condizione.
In tal senso, depongono le norme del TFUE, segnatamente l’art. 174 in tema di coesione sociale, economica e territoriale, al fine di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle Regioni attraverso il rafforzamento delle politiche di coesione, con particolare attenzione alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali, come le isole.
9. Brevi considerazioni conclusive
Il percorso del regionalismo differenziato è tuttora in fieri, avendo conosciuto nuova e significativa accelerazione sul piano politico.
Le perplessità riguardano, da un lato, la (in)completezza dell’art. 116 c. 3 della Carta costituzionale ed il modo migliore per darvi attuazione; dall’altro, gli effetti che ne possono derivare sul piano istituzionale e delle relazioni fra i livelli di governo.
Le regioni a statuto speciale solo apparentemente – cioè, perché il 116 c. 3 ad esse non fa riferimento – sono spettatrici di questo processo, ma, a ben guardare, ne sono coinvolte sotto molteplici profili, forse anche in forza dell'apposita clausola (art. 10) contenuta nella legge costituzionale n. 3/2001.
Ci si chiede, in primo luogo, cosa ne sarà dell’originario dualismo tra autonomia speciale ed ordinaria: in particolare, quali effetti potrà produrre, nelle reciproche relazioni, questo sensibile mutamento di assetto sia in termini di funzioni legislative, sia con riferimento a quelle amministrative.
Ci si chiede, in secondo luogo, se, una volta attuato il regionalismo differenziato, abbia ancora senso distinguere tra regioni a statuto ordinario e speciale, se, cioè, come pure sostenuto in dottrina, si dovrà pervenire ad una “specialità diffusa”, la cui attuazione, però, richiede e necessitate una riforma costituzionale.
Ci si chiede, in terzo luogo, cosa ne sarà delle relazioni tra regioni, Stato ed Unione europea, se, cioè, l’autonomia differenziata determinerà un differente assetto, in grado di conferire alle regioni “differenziate” una “speciale” qualità ed un nuovo ruolo nella interlocuzione con gli organi comunitari.
Ci si chiede, infine, se, al di là delle buone intenzioni (la buona fede si presume), l’attuazione del regionalismo differenziato preluda a (o, comunque, finisca per) minare gli equilibri profondi del Paese – soprattutto quelli economici e sociali, considerato l’enorme e crescente divario Nord/Sud – preservati fino ad oggi, da singole e specifiche, quanto giustificate, specialità e se questo sia il tempo per rivendicare nuova autonomia o esercitare bene quella che già si ha.
*L’articolo riproduce l’intervento al seminario tenuto nell’ambito de I Lunedì di Giustiziainsieme il 9 gennaio 2023 sul tema Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma.
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