ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il problema dei LEP nell’autonomia differenziata. Una spiegazione della differenza [i]
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. LEP e autonomia differenziata nella legge di bilancio (2023) - 2. La riduzione dei LEP nell’autonomia differenziata - 3. I LEP come limiti dell’autonomia - 4. Una possibile spiegazione dell’autonomia differenziata alla luce dell’ordinamento giuridico generale.
1. LEA e autonomia differenziata nella legge di bilancio (2023)
Sul nascere del 2023, saltando ogni progetto di riforma, l’autonomia differenziata diventa diritto positivo e trova una sua prima realizzazione nella legge di bilancio: l’art. 1, comma 791, della legge 29 dicembre 2022 n. 197, con un accostamento inedito, stabilisce che il riconoscimento dell’autonomia è vincolato ai LEP, i livelli essenziali delle prestazioni[ii].
La norma, precisamente, stabilisce che la “attribuzione” dell’autonomia differenziata sia “subordinata” alla “determinazione” dei LEP. Ne disegna quindi una disciplina specifica: la determinazione dei livelli è resa al fine esplicito di dare “completa attuazione” all’art. 116 Cost. e assume la forma giuridica di un DPCM, con un iter formativo simile a quello dei LEA (commi 792-795).
È dunque chiaro che si tratta di una prima disciplina dell’autonomia differenziata e, altresì, che LEP e autonomia differenziata sono ormai congiunti sul piano della legge ordinaria, in una relazione reciproca e vincolata, per cui l’autonomia non può configurarsi senza i LEP e i livelli servono a disegnare la differenza insita nell’autonomia dell’art. 116 Cost.
Questo vincolo, nel comma 791, è poi istituito anche per dichiarati motivi di “spesa”: la norma qualifica i LEP come “soglia della spesa” che vale come “nucleo invalicabile” nella erogazione delle prestazioni “fondamentali”. Il livello essenziale funzionerà dunque come limite finanziario, espressione manifesta del vincolo di bilancio (artt. 81 e 97 Cost.).
Si delinea quindi un sistema compiuto e singolare: la determinazione dei livelli viene attratta nell’autonomia differenziata, come sua premessa, in funzione dell’interesse finanziario e sotto forma di DPCM.
Tutto questo fa intravedere subito una conseguenza: la definizione dei LEP si riduce a un’entità particolare e non generale. Non è un principio. Rischia così di perdere il suo significato costituzionale di garanzia, che è insito nell’art. 117 lett. m) Cost.
Il che desta qualche preoccupazione[iii]. Vediamo allora da vicino questo sistema della riduzione, in tre aspetti, al fine di suggerire una soluzione di principio, che dia un contributo alla definizione dell’autonomia differenziata[iv].
2. La riduzione dei LEP nel sistema dell’autonomia
La prima e fondamentale riduzione è nel fatto che la determinazione dei LEP è attratta nell’autonomia differenziata e quindi è espressione di un’autonomia che, testualmente, è “ulteriore” e “particolare” (art. 116 Cost.). Nelle dottrine del diritto costituzionale, il significato di “particolare” e di “ulteriore” è dibattuto e si discute se l’autonomia differenziata somigli all’autonomia ordinaria o a quella speciale; senza prendere partito per l’una o per l’altra, si sceglie un’autorevolissima ricostruzione[v], che si volge a spiegare l’autonomia dell’art. 116 Cost. in un punto esatto, quello dell’effetto traslativo del potere, che, ai sensi dell’art. 116 Cost., opera secondo una clausola di “asimmetria”, diversamente dall’art. 117 Cost. Difatti, nell’art. 117 Cost. la devoluzione delle materie concorrenti è simmetrica: suppone una perdita della competenza statale e un correlativo acquisto della competenza regionale, sicché quanto è devoluto alla regione corrisponde meglio al potere da esercitare, come competenza più adeguata, ma, nella sostanza, il tutto resta omogeneo, per l’ordine degli interessi trasversali e condivisibili che ormai è sotteso all’art. 117 Cost., e così l’esercizio del potere regionale non è diverso da quello statale ed è a titolo derivativo (e forse è anche reversibile) [vi]. Al contrario, l’autonomia differenziata è “ulteriore” e “particolare”: questo significa che ogni suo effetto nasce dall’art. 116 Cost., è a titolo originario ed asimmetrico e quindi determinerà quanto devoluto dando vita a un diverso potere regionale, il cui esercizio soddisfa esigenze diverse da quelle dello Stato e funziona con la logica della “regola speciale e della “deroga” [vii].
Se a questo si aggiunge che nella legge di bilancio i LEP sono emanati sotto forma di DPCM e sono trattati come i LEA, e che per tradizione giurisprudenziale i LEA sono soggetti a lettura restrittiva, il gioco della determinazione si stringe molto. E’ questo il secondo aspetto della riduzione.
Difatti, uno dei maggiori problemi che storicamente emergono nella giurisprudenza del nostro giudice è che nel sindacato sul DPCM che fissa i LEA, e che poi si riflette sulle autonomie, i livelli essenziali non sono suscettibili di interpretazione estensiva. In quel sindacato, in fondo, si tratta di leggere il nomenclatore delle prestazioni e di intenderne l’estensione, secondo le voci che compongono l’elenco. L’interpretazione di queste voci segue sempre un’ispirazione letterale e riduttiva. Per esempio, nella voce “malattia mentale” non rientra l’Alzheimer, che, secondo il Consiglio di Stato, è una malattia che può avere manifestazioni psichiatriche, ma che ha una causa organica e degenerativa (Cons. St. sez. III n. 604/2015); ne viene dunque un effetto di esclusione[viii]. Per arrivare a questo risultato, sul piano dell’interpretazione, il giudice dice che i LEA non sono suscettibili di interpretazione estensiva e che, viceversa, sono soggetti a interpretazione letterale, con divieto di analogia.
Sorvolando per un momento sulla causa di questo ragionamento e seguendo il filo degli effetti, questa lettura interpretativa si vede anche nella giurisprudenza più recente. Per esempio, in Cons. St., Sez. III, 15 febbraio 2021 n. 1309, si dice che la prestazione dei farmaci chimici non si può estendere ai farmaci biomedici, per un divieto di analogia [ix]; similmente in Tar Lazio sez. III quater, 22 dicembre 2022 n. 17330, in cui si discute della estensione della voce “Crioconservazione dei gameti”: il nomenclatore prevede la conservazione solo dei gameti maschili e non di quelli femminili e così il giudice nega l’estensione agli ovociti, ribadendo che i LEA sono soggetti a interpretazione letterale e aggiungendo che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo non può valutare l’estensione della prestazione in nessun modo, neanche alla luce del principio costituzionale di eguaglianza, che si addice alla legge e non al DPCM. Il potere amministrativo insito nel DPCM, infatti, è “espressione di un’ampia discrezionalità amministrativa” (giurisprudenza consolidata).
Questa discrezionalità si riconosce soprattutto nel taglio della spesa – e questo è il terzo e ultimo aspetto della riduzione-, e difatti il gioco della determinazione dei livelli si stringe ancora se si considera il fatto che in giurisprudenza l’interpretazione restrittiva dei LEA ha causa dichiarata nel vincolo di bilancio[x]. Non a caso nel comma 791 i LEP sono configurati come “soglia di spesa invalicabile”; e non a caso l’art. 116 Cost. richiama l’art. 119 Cost. Il vincolo di bilancio diventa principio anche qui, finendo per chiudere tutta la determinazione dei livelli in senso riduttivo.
Questa sistemazione corrente dei LEA, quasi inevitabile per i LEP, è molto discutibile. Un segno diverso e recente è nella giurisprudenza della Corte costituzionale: la legge regionale della Puglia n. 6 del 2019 aveva inteso in senso restrittivo la voce “malattia mentale” del DPCM, restringendola alla sola “demenza senile”, ma, con la sentenza n. 72/2020, la Corte ha stabilito che in materia di LEA l’interpretazione restrittiva non è possibile. Questo per un motivo di principio: dietro i LEA ci sono i diritti fondamentali.
3. I LEP come limiti dell’autonomia
Quello dell’ordinamento generale sembra il punto di partenza corretto, che potrebbe suggerire una soluzione anche per la definizione dell’autonomia differenziata. Dal suo sistema viene fuori questa domanda: perché i livelli delle prestazioni essenziali non sono percepiti come un’entità generale e tendono a essere ridotti, specie sul piano dell’interpretazione letterale?
In termini di interpretazione dell’ordinamento, la risposta è semplice: i livelli essenziali sono l’eccezione e non sono la regola. Non sono principi, ma sono un’entità particolare e per questo non si estendono. Il che, in termini di interessi, manifesta il fatto che qui l’interesse primario è l’interesse pubblico al vincolo di bilancio. Tutto questo spiega il fatto che in giurisprudenza la lettura riduttiva dei livelli abbia la forza di ridurre i diritti fondamentali e di trasformarli in diritti finanziariamente condizionati[xi].
Infine, tutta questa riduzione si rafforza se è calata nell’autonomia differenziata, che, come visto, è “ulteriore” e “particolare” e quindi obbedisce alla logica della regola speciale (secondo la clausola di asimmetria vista sopra).
A questo punto il gioco della riduzione è molto evidente. Ma il risultato finale non convince.
Si riprende qui l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 72/2020), segnalandone il risultato diverso e opposto, che la Corte riconosce alla forza giuridica dei LEA dello Stato: i livelli sono da considerare ai sensi dell’art. 117 lett. m), per cui sono essenziali e dunque “entrano immediatamente nell’ordinamento regionale”. E non sono derogabili.
Oltre questo minimo, inderogabile e garantito, si potrà svolgere l’autonomia differenziata, che, appunto, nell’art. 116 Cost. è “ulteriore”. Tuttavia, per la Corte costituzionale, resta fermo un fatto giuridico primario: i livelli di assistenza dello Stato non sono modificabili e quindi, per la regione, rappresentano i limiti della sua autonomia. In altre parole, i livelli sono espressione dell’ordinamento generale. Ma, in fondo, anche l’autonomia differenziata lo è. Come ogni autonomia, deriva dall’ordinamento generale [xii].
4. Una possibile spiegazione dell’autonomia differenziata alla luce dell’ordinamento giuridico generale.
In questa luce, ai LEP e all’autonomia differenziata può venire una possibilità di spiegazione in più, se i due termini si inquadrano nella teoria dell’ordinamento generale. Va fatta una breve premessa, sul modo di agire dell’ordinamento generale[xiii]. Qui l’ordinamento generale è l’ordinamento costituzionale, visto come ordinamento di tutti i soggetti giuridici e, poi, assunto nella visione del rapporto tra due ordinamenti: fondativo e derivativo quello della prima parte della Costituzione, particolare e derivato quello delle autonomie, nella seconda parte. L’autonomia differenziata, come ogni autonomia, deriva dalla prima parte della Costituzione e assorbe i limiti che quella le imprime come limiti interni, come i suoi limiti: ovvero “le sue esigenze”, ex art. 5 Cost. [xiv]. In questa luce, nella prima parte della Costituzione, riprendendo la formula della sentenza n. 72/2020, i livelli “entrano immediatamente” nell’ordinamento regionale, perché esprimono il “nucleo irriducibile” del diritto alla salute, ovvero la persona (artt. 2 e 3 Cost.). Qui i livelli essenziali rappresentano il nucleo irriducibile del soggetto, ovvero, l’espressione essenziale della soggettività. Ogni soggetto, nell’ordinamento generale, è ben riconoscibile: la persona per le esigenze essenziali (art. 2) e la regione come soggetto che ha le “sue esigenze” (art. 5).
Da tutto questo viene una conseguenza. I livelli essenziali entrano nella soggettività della regione come “sue esigenze” (art. 5 Cost.): di sé stessa e dei suoi cittadini.
Per questo, i livelli essenziali sono della persona e sono dell’autonomia della regione e per questo “entrano immediatamente” nell’ordinamento regionale (C. cost. n. 72/2020). Sono il riflesso della soggettività essenziale, vista secondo l’ordinamento generale e nella prima parte della Costituzione. Oltre l’essenziale, nella seconda parte della Costituzione, la soggettività diventa autonomia differenziabile e appunto nell’art. 116 Cost. è “ulteriore”.
Per tutto questo, nell’ambito dell’ordinamento generale, nell’indivisibilità della Repubblica, l’autonomia differenziata esprime sé stessa e i suoi cittadini e ha molto a che fare con l’identità di una Regione. Ne riflette il sostrato antropologico, sociale ed economico, anche nel dibattito politico; qui l’autonomia differenziata viene fuori in modo violento e, in un senso non volgare, quasi nella forma di entità esistenziale, che si manifesta non solo come bisogno (costo standard), ma come capacità autonoma di fare (fabbisogno). La sua differenza non deve essere irriducibile, ma deve essere un’utile differenza.
Per questo pensiamo, in conclusione, che la regione differenziata, che sviluppa la sua autonomia oltre l’essenziale (art. 5 Cost.) e in un modo “ulteriore” (art. 116 Cost.), potrebbe differenziarsi divenendo non solo la più competitiva nel prendere le materie ma la più virtuosa nelle prestazioni, facendo qualcosa di più per sé e per gli altri, anche facendo uso di quei “tributi propri” che l’art. 119 Cost., prevede e che forse non sono mai stati istituiti. Il contesto è dunque più grande ed è quello della solidarietà e della coesione politico-sociale, a prescindere dalla materia devoluta[xv]. Per questo, in conclusione, come hanno fatto gli altri relatori, si passa a usare una metafora finale, e una in particolare, quella di un’autorevole Relatrice, che ha evocato la bellissima fata Morgana e la materia[xvi]. Così, se l’autonomia differenziata si spoglia della materia, come la fata Morgana si spoglia della sua fatale immagine, l’autonomia si mette a nudo davanti a tutti e si rivela come fabbisogno, che non è standard ma è fabbisogno di sé e quindi è immagine della sua capacità, di se stessa davanti a tutti e per tutti, e allora il discorso dell’ordinamento si fa semplice ed è quello della famiglia e della figlia più sveglia che vuole andarsene di casa (nella leggenda la fata Morgana voleva scappare dalle sue otto sorelle): Morgana esce di casa e i genitori continuano a darle la paga settimanale, ma a fine mese l’affitto non lo chiede a mamma e papà e se lo paga da sé; così, forse, alla fine della storia, Morgana finirà per condividere l’affitto anche con le altre sorelle, non solo in termini di costi ma anche di spazi e di possibilità.
[i] L’articolo riproduce l’intervento, con aggiunte al testo e alcune note, fatto il 9 gennaio 2023 in Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma, seminario che inaugura i Lunedì di Giustiziainsieme, una serie ideata dalla Direzione della Rivista e coordinata dal Prof. Enrico Zampetti.
[ii] Il testo dell’art. 1 comma 791 è il seguente : “Ai fini della completa attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione e del pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni, il presente comma e i commi da 792 a 798 disciplinano la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, quale soglia di spesa costituzionalmente necessaria che costituisce nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, per favorire un'equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza, approvato con il decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° luglio 2021, n. 101, e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali e quale condizione per l'attribuzione di ulteriori funzioni. L'attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili, ai sensi del comma 793, lettera c), del presente articolo, ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, e' consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP)”.
[iii] Questo fenomeno della riduzione potrebbe riflettersi nel futuro delle attività di determinazione - conferenze varie, intese, aggiornamenti.
[iv] Si riceve qui l’indicazione di F. FRANCARIO, Riflessioni a margine di un dibattito sul metodo giuridico, in Giustiziainsieme, 16 gennaio 2023: il compito specifico del giurista accademico è quello della ricostruzione dei principi; quelli impliciti in una certa materia, che, poi, si presentano come l’architettura di un determinato istituto.
[v] A. D’ATENA, Dove vanno le regioni?, AIC., 2022, n. 4, 1 ss.
[vi] Riaffiora qui l’idea di fondo insita nella categoria generale dell’autonomia pubblica, ovvero l’idea che gli interessi dello Stato insiti nella materia trasferita non siano danneggiati o perduti nel trasferimento, ma siano curati meglio dal soggetto autonomo, avvantaggiandosi della sua cooperazione - cfr. SANTI ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 2 edizione, 1946, 298. Il sottinteso è che quel che si trasferisce è un interesse condiviso e non irriducibile; e non a caso la maggior parte delle materie devolubili appartiene alla potestà concorrente.
[vii] Così A. D’ATENA, Dove vanno le regioni?, AIC., 2… cit., 1, spec. nota 1. Con l’effetto ulteriore di rendere nullo ogni legge statale sopravvenuta che di quel contenuto disponga.
[viii] Cfr. Cons. St., III, n. 604 del 2015: “La questione non può essere risolta dal giudice in via meramente interpretativa, assimilando i malati di Alzheimer alla disciplina dei malati psichiatrici prevista dallo stesso d.P.C.M. 29 novembre 2001 - come ha ritenuto di fare il TAR - dal momento che la questione risulta quanto mai dibattuta nelle sedi competenti, che non sono ancora giunte ad una definizione. Pertanto anche in materia di Alzheimer non emergono elementi che accreditino la esistenza di uno specifico livello essenziale nel senso indicato dal TAR, distinto dagli anziani non autosufficienti, pur restando ferma per tutta questa vasta categoria di assistiti la necessità di approfondire la problematica delle prestazioni ad alta intensità come esposto alla fine del successivo punto…”.
[ix] E’ diversa la condizione di fatto e la ratio della disposizione, e quindi “la disciplina prevista per tale tipologia di pazienti non può estendersi, analogicamente, ai c.d. drug naive.” (così Cons. St., III, 15- 2- 2021 n. 1309).
[x] Per tutti v. Cons. St., III, 15- 2- 2021 n. 1309 in materia di riduzione dei LEA: “Nel nostro ordinamento, risulta ormai costituzionalizzato il principio del c.d. equilibrio di bilancio, introdotto nell’art. 81 della Costituzione dall’art. 1 della Legge Costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, entrato in vigore il primo gennaio del 2014 (sul punto T.A.R. Milano, sez. I, 14 dicembre 2018, n. 2798; da ultimo, TAR Piemonte, Sez. I, 14 luglio 2020 n. 465)”.
[xi] Emblematico è Cons. St., III, 15- 2- 2021 n. 1309: “E’ bene ricordare, infatti, che secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale il diritto alla salute è finanziariamente condizionato (cfr. sentenze n. 355/1993, 267/1998, 509/2000, 248/2011) (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. III, n. 4347/2017); questa Sezione ha già ritenuto che l’art. 32 Cost. non comporta l’obbligo per il SSR di fornire tutti i prodotti esistenti sul mercato per la cura di una determinata patologia: ciò che l’ordinamento garantisce è che la prescrizione sia funzionale alla necessità terapeutica, ma senza che il sistema sanitario sia gravato da oneri aggiuntivi conseguenti alle dinamiche di mercato (Cons. Stato, Sez. III, 30/1/2019 n. 759)”.
[xii] Cfr. L. RONCHETTI, L’autonomia e le sue esigenze, Milano, 2018.
[xiii] Cfr. ALB. ROMANO, Autonomia nel diritto pubblico, Dig. Disc. pubbl., Torino, 1987, II, 30 ss.
[xiv] Cfr. L. RONCHETTI, L’autonomia e le sue esigenze, … cit., spec. 265 ss.
[xv] Cfr. F. MANGANARO; Politiche di coesione, in: B. G. Mattarella M. Ramajoli, Enciclopedia del Diritto - Funzioni amministrative, Milano, 2022.
[xvi] Si allude all’intervento della Prof.ssa Chiara Cacciavillani.
Recensione di Costantino De Robbio a “I rematori di Mitilene” di Andrea Koveos
Se esiste un minimo comun denominatore che lega oggi gli abitanti di quel topos, culturale più che geografico, che impropriamente chiamiamo “occidente”…questo minimo comun denominatore è dato dall’eredità immensa ed eterna di un popolo di pastori che, da una penisola fino a quel momento ai margini delle correnti della storia, in modo quasi magico hanno sviluppato in un tempo relativamente breve un tale numero di idee da essere ancora oggi, per certi versi, all’avanguardia.
Ai greci dobbiamo, tra l’altro, l’invenzione della storia, della filosofia, del teatro, delle tragedie e delle commedie, e il vertice di tutti i tempi nelle arti figurative…nonché (capacità che forse riassume tutte quelle che ho elencato finora) l’attitudine a farsi domande ed alzare la testa verso il cielo; in sostanza quella caparbia tendenza dell’uomo di negare la sua natura animale per cercare di tendere verso l’eterno.
Nessuno lo sa meglio di Andrea Koveos, metà greco e metà romano, che porta già nei suoi geni la memoria dei due popoli antichi che passandosi il testimone hanno accompagnato la nostra cultura dai primi balbettii infantili all’età adulta.
Non stupisce dunque che l’autore subisca da sempre il fascino di questa millenaria eredità, e che abbia dedicato al mondo degli antichi Greci tanta parte della sua ricerca letteraria: dopo il bel libro di racconti sugli animali dell’epica omerica, in questa nuova fatica Koveos ha rivolto la sua attenzione al romanzo storico.
In particolare, ha ripescato dall’immenso materiale lasciatoci da Tucidide e Senofonte intorno alla guerra del Peloponneso un episodio apparentemente minore ma denso di significato: la ribellione degli abitanti di Mitilene alla signoria della città di Atene e, dopo la capitolazione della città insorta, il processo agli sconfitti e le singolari vicende delle due condanne, contraddittorie tra loro, che furono loro inflitte dall’assemblea dei vincitori.
Il romanzo ripercorre infatti, sulle orme di Tucidide, la discussione che aveva portato in un primo momento alla terribile delibera degli ateniesi di giustiziare tutti gli uomini dell’isola ribelle, ridurre in schiavitù donne e bambini e radere al suolo gli edifici e il successivo ripensamento dei medesimi cittadini ateniesi, che poche ore dopo (a mente fredda, se così si può dire) sentirono l’impulso di rivedersi per ridiscutere la decisione e, trovandola troppo crudele, la sostituirono con quella (pur sempre terribile ma meno assoluta) di giustiziare solo i mille uomini direttamente coinvolti nella ribellione.
Al di là dell’appassionante ricostruzione della corsa contro il tempo che la trireme partita da Atene per comunicare la seconda e più favorevole decisione compie in mare all’inseguimento dell’imbarcazione partita il giorno prima per eseguire la sentenza di sterminio, magistralmente incentrata sulla figura del comandante della barca inseguitrice, lo scritto di Andrea Koveos ci consente una serie di riflessioni che riguardano l’essenza del concetto di giustizia e ci porta al centro ideale della coscienza di chi giudica.
Il primo e più pressante interrogativo che sorge alla mente di un occidentale moderno (in questo, per fortuna, molto distante dai suoi progenitori greci, per i quali la questione non si è nemmeno posta) è il seguente: è giusto condannare a morte un uomo?
Qui si è trattato peraltro non di uno ma di mille uomini, numero così esorbitante da essere inconcepibile per la nostra mente: pensiamo per un attimo ai gesti, alla violenza, alla fatica fisica e all’abominio mentale che ci vogliono per ripetere l’esecuzione di un uomo per decine, centinaia di volte, fino a mille… e al tempo materiale, e allo spazio fisico, al sangue delle vittime, e al sudore dei carnefici.
Esiste un crimine così efferato da reclamare una punizione del genere? Eppure, dalla penna di Tucidide (e, in sua vece, da quella del suo epigono moderno Andrea Koveos) apprendiamo con un senso di sgomento che tutti i protagonisti della vicenda consideravano questa reazione “mite”, e non solo a confronto con quella ancora più crudele, ma per una ragione assai più banale: essa soddisfaceva il concetto antico di giustizia, secondo cui a un’offesa si poteva (era giusto) replicare con un’offesa di pari forza, per ripristinare l’equilibrio violato.
E dunque, poiché la ribellione degli abitanti di Mitilene aveva messo in pericolo la vita degli ateniesi, la repressione della ribellione portava in sé l’attentato alla vita dei ribelli.
Oggi la giustizia ha fatto, da questo punto di vista, enormi passi avanti.
Non solo la condanna a morte è stata bandita dagli ordinamenti giuridici della stragrande maggioranza dei paesi, ma nel concetto stesso di sanzione penale sono entrati elementi di rieducazione sociale, reinserimento, riparazione che hanno affiancato e in un certo senso annacquato quello originario di vendetta e punizione.
Da questo punto di vista, il libro di Andrea Koveos ci serve da monito per non dimenticare da dove siamo partiti e per sfuggire alla tentazione sempre ricorrenre di voltarsi indietro per tornare a concezioni più primitive e ingiuste del diritto penale.
Ma altri, e forse più intriganti, interrogativi ci derivano dalla lettura del libro, se si considera la natura “politica” del processo, come emerge dalle parole dei suoi protagonisti.
A ben vedere, infatti, appare chiaro che le due condanne esprimono due diversi usi politici del processo: secondo i fautori del primo e più severo pronunciamento, la sentenza doveva avere non solo il compito di punire i colpevoli di tradimento, ma anche il non secondario scopo di servire da monito per tutti gli altri alleati affinché fossero dissuasi dal seguirne l’esempio. Colpirne uno per educarne cento, insomma.
Non a caso Cleone, il grande accusatore (il Pubblico Ministero, diremmo noi oggi), così conclude la sua requisitoria: “Tutte le volte che il malvagio flagello della ribellione si insinua in uno dei membri della lega di Delo, occorre agire in fretta ed evitare che il cattivo esempio possa penetrare in tutte le altre città dell’alleanza.”.
Pertanto, non ci si può limitare ad eliminare fisicamente i responsabili dell’attentato alla sicurezza della città di Atene.
La deportazione di tutti i maschi dell’isola, la riduzione in schiavitù di donne e bambini, la distruzione degli edifici sono atti che esulano da ogni concetto di proporzione e di sanzione che sono propri della giustizia e implicano rappresaglia, umiliazione e repressione generalizzata del dissenso.
Sarebbe bello dire anche in questo caso che si tratta di concetti assai distanti dagli ordinamenti moderni, ma è nella memoria di tutti gli italiani (e non solo) che pochi, pochissimi anni fa a Roma gli oppressori nazisti hanno eseguito la condanna a morte di dieci cittadini scelti casualmente come rappresaglia per ciascuno dei soldati morti in un attentato…
Condanne a morte indiscriminate per reazione al dissenso, rappresaglie indiscriminate contro cittadini estranei ad ogni contestazione di reato al fine di intimidazione e monito, accadono ancora oggi ogni giorno, ed è per questo che la lettura del processo agli abitanti di Mitilene non si lasciano liquidare con un’alzata di spalle e la superficiale considerazione di chi guarda all’evento da lontano.
L’ultimo e più affascinante interrogativo del romanzo riguarda la apparente singolarità di una doppia sentenza sullo stesso crimine.
È giusta una sentenza pronunciata nell’immediatezza dei fatti o è meglio una giustizia resa “a freddo” (senza arrivare ovviamente agli estremi di alcuni notori esempi di giustizia nostrana, resi a distanza di decenni dai fatti e dunque sostanzialmente inutili)?
“A caldo” si rischia di fare errori dettati dall’emotività; e l’emotività va poco d’accordo con la giustizia.
Anche il generale che parla per ultimo, a difesa degli accusati, lo ricorda sottolineando che non ha nulla in contrario con la condanna, ma ne contesta la troppa rapidità dicendo “Signori giudici e signori dell’assemblea, decisione come questa va attuata con estrema cautela, per evitare che ci si possa pentire quando è troppo tardi.”.
Nel romanzo di Andrea Koveos emerge con chiarezza quale sia il nemico delle decisioni prese sull’onda dell’emotività: il pregiudizio, che porta al paradosso che i giurati ateniesi non ascoltano non solo gli argomenti della difesa ma nemmeno quelli dell’accusa, perché la loro mente è assorbita interamente dal giudizio già formatosi e non dà spazio ad alcuna forma di contraddittorio: “Ho ascoltato con attenzione l’arringa dell’illustre Cleone, ma l’atmosfera che si respira oggi qui è talmente intrisa di odio e rivendicazione che sono convinto che in pochi hanno ascoltato davvero il suo intervento. In più non abbiamo sentito cosa hanno da dire a loro discolpa i rivoltosi”.
Inoltre, a caldo si rischia di dimenticare che dietro ogni vicenda processuale c’è una storia umana (o come in questo caso, tante), ci sono carne, sangue, affetti, baci rubati per sempre in nome dell’applicazione di un sillogismo giusto ma a tratti inumano.
Per questo emotività e giustizia a volte divergono e tante volte le sentenze sembrano “ingiuste”.
E anche per questo una condanna sulla quale non sono ammessi ripensamenti nemmeno dopo tanto tempo, una condanna immediatamente definitiva, che non tiene conto del percorso del tempo sulla carne delle vittime e dei rei, le prime possibilmente inclini al perdono, i secondi che inevitabilmente diventano diversi da quelli che hanno sbagliato (nessuno si bagna due volte nello stesso fiume) è sbagliata per definizione.
Una condanna a morte (ma anche un ergastolo senza possibilità di modifica, tanto per rimanere a un argomento attualissimo) è sbagliata sempre.
Una condanna a morte eseguita immediatamente lo è ancora di più.
È in nome di questo principio di buon senso, di civiltà, di umanità, che si gonfiarono i muscoli dei rematori greci secoli fa, in una rincorsa per superare e neutralizzare una giustizia arcaica, brutale, fondata sulla paura.
Giustizia Insieme e il valore dell’accoglienza - 5. Immigrazione e accoglienza: il ruolo delle organizzazioni della società civile
Intervista di Michela Petrini a Daniela Pompei, Responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati
1. L’immigrazione costituisce oramai da anni un settore regolamentato da normative di carattere nazionale e sovranazionale, nel quale, tuttavia, un ruolo da protagonista è svolto anche dalle Organizzazioni della società civile (OSC), che mettono a disposizione mezzi e risorse, economiche e personali, per incentivare e realizzare un virtuoso modello di accoglienza ed integrazione .
In questo contesto, quali sono state le ragioni e quale è stato il contributo fornito dalla Comunità di Sant’Egidio nella cooperazione per la gestione dei flussi migratori? Da quanto tempo vi occupate di immigrazione e quali sono i progetti ai quali avete aderito?
La Comunità di Sant’Egidio ha iniziato la sua presenza accanto agli immigrati all’inizio degli anni ‘ 80 quando la presenza straniera in Italia era ancora molto ridotta, e in assenza di qualsiasi quadro normativo di riferimento se non alcune circolari del Ministero del Lavoro e le vecchie disposizioni del Testo Unico di Pubblica Sicurezza. Solo nel 1986 fu adottato un primo intervento normativo che regolò i soli aspetti delle attività lavorative e che per la prima volta prevedeva un provvedimento di regolarizzazione. Nel 1982 inizia la Scuola di lingua e cultura Italiana della Comunità di Sant’Egidio rivolta ai migranti attraverso la quale è stata elaborata una specifica modalità di insegnamento della lingua correlata ai contesti di vita e di lavoro degli immigrati. Negli anni immediatamente successivi la Comunità di Sant’Egidio ha aperto i servizi di prima accoglienza che ci hanno messo a contatto diretto anche con i rifugiati, di fatto e non ancora di diritto visto che allora la Convenzione di Ginevra era fortemente limitata dalla clausola di riserva geografica. Ospitammo nel 1988 in una delle nostre case Jerry Essan Masllo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno nell’agosto del 1989. Fu proprio la sua morte all’origine di quel movimento della società civile che portò all’emanazione nel dicembre del 1989 di una prima legge sull’immigrazione che tra l’altro eliminò la riserva geografica.
2. A partire dal 2015, grazie dalla collaborazione tra istituzioni – Ministero degli Affari Esteri e di Cooperazione Internazionale e Ministero dell’Interno – e società civile – Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche e Tavola Valdese – sono nati i c.d. corridoi umanitari, ovvero programmi di trasferimento e integrazione in Italia rivolti a migranti in condizione di particolare vulnerabilità: donne sole con bambini, vittime del traffico di essere umani, anziani, persone con disabilità o con patologie.
Come è nato questo progetto? Quali sono stati i protocolli siglati con i diversi Stati e quali sono i numeri dei soggetti che sono riusciti ad arrivare in Italia in sicurezza?
Il Programma dei Corridoi Umanitari nasce dalla tragica constatazione che non esistevano vie legali di ingresso in Europa e in Italia particolarmente per i rifugiati, di conseguenza anche coloro che avrebbero avuto diritto alla protezione internazionale per giungere in Europa erano costretti ad affidarsi ai trafficanti e a rischiare la vita nei viaggi. Per questa ragione nel 2014 proponemmo assieme alla Tavola Valdese e alla Federazione delle chiese evangeliche al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e al Ministero dell’Interno uno schema di protocollo che conteneva, a legislazione invariata, dei principi innovativi: 1. la possibilità del rilascio di visti a validità territoriale limitata ( VTL) secondo quanto previsto dal Regolamento visti all’art. 25; 2. il conseguente ingresso in condizioni di sicurezza sul territorio nazionale dove sarebbe stata formalizzata la domanda di protezione internazionale secondo le procedure ordinarie; 3. l’assunzione di responsabilità da parte delle associazioni che gratuitamente si impegnavano ad individuare i soggetti da ammettere al programma, a fornire loro le informazioni sul paese di accoglienza e a curare successivamente all’arrivo sul territorio nazionale in ogni aspetto il percorso di integrazione. Questo progetto amplia la gamma degli strumenti delle ammissioni umanitarie e prende avvio quasi contemporaneamente ai programmi di resettlement approvati dall’UE tra il 2015 ed il 2017. Con riferimento solo all’Italia, tra il 2015 ed il 2022 sono entrati con i programmi di resettlement 2572 rifugiati già riconosciuti nei paesi di transito dell’UNHCR, mentre con i corridoi umanitari dal 2016 al 2022 sono entrati 4234 richiedenti asilo[1].
I protocolli sinora sottoscritti sono tre per quelli in cui il paese di transito è il Libano (il primo nel dicembre 2015), riguardanti nella grande maggioranza siriani, iracheni e siropalestinesi, ciascuno per mille persone, di cui sono entrate sinora in Italia oltre 2450; gli attori coinvolti sono la Comunità di S. Egidio e la Tavola Valdese – FCEI.
Tre protocolli in cui i paesi di transito sono l’Etiopia, la Giordania ed il Niger riguardanti in maggioranza eritrei, sudanesi, somali, yemeniti ed ancora siriani ed iracheni, il primo sottoscritto nel 2017; sono complessivamente 1700 le persone comprese in questi protocolli, di cui sono sinora entrate in Italia 1100 persone; gli attori coinvolti sono la Comunità di Sant’Egidio e la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) attraverso la Caritas italiana e Migrantes.
Il primo protocollo con la Francia viene concluso nel 2017, il paese di transito è il Libano e i destinatari soprattutto siriani ed iracheni, ne è seguito un altro per complessive 800 persone, di cui 560 sono già entrate in Francia, gli attori sono la Comunità di Sant’Egidio, le chiese evangeliche francesi, la Conferenza episcopale francese e le Semain sociale catholique. Lo stesso anno inizia il Belgio, con cui sono conclusi due protocolli per 450 richiedenti, paesi di transito Turchia e Libano, destinatari siriani ed iracheni; di questi sono giunti 170. Inoltre, Andorra ha accolto 20 richiedenti.
Gli ultimi protocolli sottoscritti riguardano uno la Libia come paese di transito e l’altro per gli afghani, provenienti dal Pakistan e dall’Iran. In attuazione del primo, sono giunti 500 richiedenti, dei quali 200 accolti dalle associazioni (Comunità di Sant’Egidio e Federazione della Chiese Evangeliche), gli altri sono inseriti nel circuito dell’accoglienza dello stato. Il protocollo riguardante gli afghani è ancora aperto, prevede complessivamente 1.200 richiedenti, di cui 800 le associazioni (Comunità di Sant’Egidio, Federazione della Chiese Evangeliche, CEI – Caritas Italiana, ARCI); sono arrivati ad oggi sul territorio italiano oltre 500 richiedenti.
Complessivamente, con i corridoi umanitari sono giunti in Italia dal 2016 5.079 richiedenti, in Europa 5.849.
3. Un tema delicato e complesso è quello della selezione dei migranti che possono accedere al programma. Recentemente molteplici sono state le polemiche politiche e le critiche, avanzate anche da giuristi, con riferimento ai “criteri” prescelti per lo sbarco dei migranti salvati in mare da imbarcazioni gestite da ong.
A fronte di una domanda, sempre più elevata, di richieste di ingresso in Italia, come vengono individuati i soggetti che possono beneficiare dei corridoi umanitari?
Va considerato che ormai i corridoi umanitari hanno superato la fase della sperimentazione iniziale e sono riconosciuti per i loro elementi peculiari, se confrontati con gli altri modelli di ammissione umanitaria; il ruolo dei soggetti della società civile, responsabili di ogni fase del processo, e la stretta correlazione tra il momento della conoscenza e dell’individuazione dei destinatari e quello del sostegno alla loro integrazione sul territorio nazionale, sono considerati i tratti distintivi di queste esperienze come riconosciuto nei documenti programmatici dell’Unione europea[2].
In questo contesto va compresa anche l’individuazione dei criteri di scelta per l’ammissione al progetto; il criterio fondamentale è quello della vulnerabilità, intesa non solamente secondo le categorie tipizzate dalla normativa europea, per esempio all’art.21 della direttiva 2013/33/UE del 26 giugno 2013 relativa all’accoglienza, quanto piuttosto come una complessiva condizione personale che si evidenzia proprio attraverso gli incontri ed i ripetuti colloqui che gli operatori della associazioni svolgono con i richiedenti nei paesi di transito. Questo primo criterio viene ovviamente correlato con quello dell’evidente bisogno di protezione internazionale secondo quanto previsto dalla normativa UE e nazionale e come richiamato in tutti i protocolli. Altri criteri complementari sono poi applicati quando questi primi sono soddisfatti: richiedenti che dimostrino l’esistenza di legami familiari, anche se non ricompresi nell’ambito dei familiari ricongiungibili, con concittadini regolarmente presenti in Italia e persone che hanno reti familiari o sociali stabili in Italia e per questa ragione dichiarano di volersi stabilire ed integrare nel nostro paese.
4. Probabilmente la parte più interessante del programma attiene non tanto alle modalità di ingresso dei migranti nel territorio Italiano, quanto al progetto di accoglienza ed integrazione che segue l’ingresso. In che modo vi occupate di seguire lo straniero per garantirne l’inserimento nel sistema sanitario nazionale, nelle scuole e nel mondo del lavoro? Quali sono le difficoltà incontrate in questa seconda fase?
È necessario premettere che l’accoglienza dei migranti non è fatta solo dai volontari delle associazione proponenti, che solo con le loro forze non avrebbero potuto sostenere i numeri di ingressi sin qui effettuati, ma da una fitta rete di piccoli associazioni, gruppi di amici, singole famiglie, rifugiati già inseriti da anni, religiosi, che si sono offerti di accogliere nuclei familiari o singoli, offrendo loro non solo l’ospitalità ma un accompagnamento del percorso di integrazione. In questa dimensione è fondamentale il compito svolto dalle associazioni nel sostegno a chi accoglie. Tra i primi passi che vengono attuati e suggeriti c’è l’immediato inserimento dei bambini a scuola, l’offerta di corsi di lingua italiana per i genitori, l’accompagnamento nelle procedure previste per acquisire i documenti necessari. Un passaggio immediatamente successivo è costituito dalla verifica delle competenze già possedute al fine dell’inserimento regolare nel mondo del lavoro.
In questa seconda fase emergono con chiarezza anche tutte le difficoltà determinare dalle lentezze o dalle distorsioni burocratiche, per esempio l’apertura dei conti bancari o alle poste è molto difficile e questo rallenta l’inserimento un un’attività lavorativa regolare, il riconoscimento dello stato civile, quando non ci sono documenti del paese di origine, genere incertezze e talvolta contrasti nell’affidamento dei figli, la mancanza di disposizioni chiare sul riconoscimento dei titoli di studio e di qualificazione professionale rallenta l'inserimento lavorativo o costringe a condizioni di lavoro sottoqualificato.
5. Alla luce della sua esperienza pluriennale il modello dei corridoi umanitari può, in prospettiva, e laddove vengano siglati nuovi protocolli, ridurre il numero delle migrazioni via mare?
Sì, ma solo se accompagnati dall’apertura di una pluralità di canali di ingresso regolari. Per esempio, abbiamo potuto verificare che il corridoio umanitario aperto dall’Etiopia ha costituito un’alternativa effettiva per molte giovani donne eritree che altrimenti si sarebbero consegnate ai trafficanti passando in Libia, perché intenzionate a raggiungere i loro parenti in Europa e in Italia.
D’altra parte, perché azioni del genere possano ridurre la migrazione irregolare, anche via terra, è necessario a livello europeo che siano aperti canali legali di ingresso con modalità diverse dai corridoi umanitari, che comprendano anche la migrazione più propriamente economica; è anche necessario che le regole dei ricongiungimenti familiari siano modificate ampliando la categoria dei familiari ricongiungibili e superando le attuali ristrettezze esistenti; è ancora necessario che i programmi di reinsediamento divengano stabili e numericamente ben più consistenti di quanto non siano stati negli ultimi anni. Solo se si agisce con più azioni di questo tipo, tra loro complementari, è possibile la riduzione dell’immigrazione irregolare.
6. Infine, considerato che anche alcuni paesi europei (Belgio e Francia) stanno aderendo al progetto italiano, ritiene che intorno a questo modello possano convergere, in sinergia, anche le risorse dell’Unione europea e che ci sia la possibilità che si abbandonino i protocolli e gli accordi bilaterali tra Stati e si arrivi a protocolli siglati direttamente dall’Unione?
Sì, l’esperienza dei corridoi umanitari può suggerire un modello di intervento attualmente carente nel quadro della normativa europea e ampiamente sperimentato, con risultati positivi, in altri contesti come quello canadese e statunitense. Si tratta dell’introduzione della figura della sponsorship, presente nel nostro ordinamento interno solo per un breve periodo immediatamente dopo l’approvazione del D. Lgs.. n. 286 del 1998, capace di valorizzare le risorse della società civile, con criteri e modalità che possano essere controllate dagli stati e consentano ingressi di rifugiati e migranti accompagnati da azioni che ne favoriscono l’integrazione e la stabilità.
[1] Cfr. Dati Ministero dell’Interno, accessibile a http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/ it/temi/relazioni-internazionali, consultato il 4 gennaio 2023.
[2] Cfr. Raccomandazione relativa ai “Percorsi legali di protezione nell’Unione Europea; promuovere il reinsediamento, l’ammissione umanitari e altri percorsi complementari” COM (2020), 6467, del 23 settembre 2020, in cui si afferma “Con questo modello gli sponsor privati sono coinvolti in tutte le fasi del processo di ammissione, dall’individuazione di coloro che necessitano di protezione internazionale al loro trasferimento allo Stato membro interessato. Essi si fanno carico anche degli sforzi di accoglienza ed integrazione e ne sostengono i relativi costi”.
L’accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale
di Alessandro Nastri
Sommario: Introduzione - 1. L’avviso ai creditori e agli altri interessati - 2.La domanda di ammissione al passivo - 3. L’efficacia delle decisioni del giudice delegato e del Tribunale - 4. Le domande tardive - 5. Le domande “ultratardive” - 6. Le impugnazioni.
Introduzione
A seguito dell’entrata in vigore del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza nel luglio dello scorso anno, si stanno tenendo già da qualche mese, nei vari Tribunali, le prime verifiche del passivo nelle nuove procedure di liquidazione giudiziale, in base alla disciplina contenuta negli artt. 200 e ss. del Codice.
Tale disciplina, se in gran parte ricalca quella precedentemente dettata dagli artt. 92 e ss. della legge fallimentare, contiene in sé alcune innovazioni di non scarso rilievo.
Appare quindi opportuno passare schematicamente in rassegna le novità in questione, nel tentativo di coglierne la ratio e di enuclearne una prima interpretazione, con particolare attenzione alle “ricadute” di maggior interesse per tutti i soggetti interessati, e dunque non solo per i cosiddetti “operatori del settore” (curatori, avvocati e giudici delegati), ma anche per i soggetti legittimati a presentare domande di ammissione al passivo (creditori) o di rivendica o restituzione di beni di proprietà o in possesso del debitore compresi nella liquidazione giudiziale, tenuto conto del fatto che tali domande, come espressamente confermato dal legislatore del Codice, possono essere presentate anche senza l’assistenza di un difensore.
1. L’avviso ai creditori e agli altri interessati
Le modalità e i contenuti dell’avviso che il curatore deve “senza indugio” inviare ai creditori e agli altri interessati sono disciplinati dall’art. 200 CCII, che costituisce la trasposizione nel Codice dell’art. 92 l.f., con alcune modifiche.
I destinatari della comunicazione restano “coloro che […] risultano creditori o titolari di diritti reali o personali su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del debitore compresi nella liquidazione giudiziale”, ma l’inciso “esaminate le scritture dell'imprenditore ed altre fonti di informazione” viene sostituito dall’inciso “sulla base della documentazione in suo possesso o delle informazioni raccolte”.
Questa nuova formulazione è connessa all’ampliamento delle fonti informative alle quali il curatore ha accesso già al momento dell’accettazione dell’incarico, disponendo egli sin da subito dei “dati e i documenti relativi al debitore individuati all'articolo 367” (dati e documenti che la cancelleria acquisisce, ai sensi dell’art. 42 CCII, già durante il procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale), ed essendo egli autorizzato dal Tribunale, con la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, ad accedere alle banche dati e ad acquisire i documenti elencati dalla lettera f) del comma 3 dell’art. 49 CCII. Le fonti informative possono essere ulteriormente ampliate nelle ipotesi contemplata dall’art. 130, co. 2, CCII, ossia “se il debitore o gli amministratori non ottemperano agli obblighi di deposito di cui all'articolo 49, comma 3, lettera c), e se il debitore non ottempera agli obblighi di cui all'articolo 198, comma 2” o “quando le scritture contabili sono incomplete o comunque risultano inattendibili”, potendo in tali ipotesi il curatore chiedere al giudice delegato di essere autorizzato “con riguardo alle operazioni compiute dal debitore nei cinque anni anteriori alla presentazione della domanda cui sia seguita l'apertura della liquidazione giudiziale […] ad accedere a banche dati, ulteriori rispetto a quelle di cui all'articolo 49 e specificamente indicate nell'istanza di autorizzazione”.
A questo proposito, è bene rammentare che l’omissione dolosa o colposa dell’avviso previsto dalla norma in esame può esporre il curatore a responsabilità nei confronti degli aventi diritto a tale avviso, laddove questi ultimi provino di aver subito un danno in conseguenza della predetta omissione (v. Cass., sez. I, 7 dicembre 2007, n. 25624), ragion per cui va raccomandata ai curatori la massima diligenza nell’inviare senza indugio la comunicazione prevista dall’art. 200 CCII a tutti gli interessati individuabili in base alle suindicate fonti informative.
Quanto alle modalità della comunicazione, da un lato non è più presente il riferimento (contenuto nel primo comma dell’art. 92 l.f.) alla possibilità di inviare l’avviso a mezzo telefax – in alternativa al mezzo della lettera raccomandata – nel caso in cui il destinatario non sia munito di un indirizzo di posta elettronica certificata risultante dal Registro delle imprese dall’INIPEC, e, dall’altro, si prevede che tale raccomandata può essere indirizzata anche al domicilio del destinatario, in alternativa alla residenza.
Per quel che concerne, infine, il contenuto dell’avviso, si è aggiunto che lo stesso deve recare anche: la precisazione che la domanda può essere presentata anche senza l’assistenza di un difensore; l’indicazione anche dell’ora e del luogo – oltre che della data – dell’udienza di verifica; l’avvertimento che i creditori possono chiedere l’assegnazione delle somme non riscosse dagli aventi diritto e i relativi interessi ai sensi del comma 4 dell’art. 232 CCII.
2. La domanda di ammissione al passivo
Il primo comma dell’art. 201 CCII stabilisce che nel procedimento di verifica confluiscono – mediante ricorso da trasmettere almeno trenta giorni prima dell’udienza, a norma del comma seguente, all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato dal curatore nell’avviso di cui all’articolo precedente – non solo le domande di ammissione al passivo di un credito o di restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili compresi nella procedura, ma anche “le domande di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione di beni compresi nella procedura ipotecati a garanzia di debiti altrui”.
Il legislatore del Codice ha così inteso risolvere (in attuazione dell’espressa direttiva contenuta nella legge delega n. 155/2017 all’art. 7, co. 8, lett. f, secondo cui avrebbero dovuto essere adottate misure volte a “chiarire le modalità di verifica dei diritti vantati su beni del debitore che sia costituito terzo datore di ipoteca”) una problematica che, con riferimento alla disciplina dettata dalla legge fallimentare, ha generato un vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza: quella relativa all’onere (o meno) della presentazione della domanda di ammissione al passivo da parte di coloro che vantano un’ipoteca su un bene del fallito ma non sono creditori di quest’ultimo, situazione che viene a determinarsi quando il fallito sia terzo datore di ipoteca.
A tale quesito, anche dopo la riforma del 2006, la giurisprudenza di legittimità ha sempre fornito risposta negativa, affermando che i titolari di diritti d’ipoteca su beni immobili compresi nel fallimento e già costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono (e non hanno quindi l’onere di) avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo di cui al capo V della legge fallimentare, in quanto non sono creditori diretti del fallito, e l’accertamento dei loro diritti non può essere sottoposto alle regole del concorso, senza che sia instaurato il contraddittorio con la parte che si assume loro debitrice, dovendosi invece avvalere, per la realizzazione delle loro pretese in sede esecutiva, delle modalità di cui agli artt. 602, 603 e 604 c.p.c. (v. ex multis Cass., sez. I, 20 novembre 2017, n. 27504, nonché i numerosi precedenti in essa richiamati).
Nel 2019, con un’isolata pronuncia (v. ord. 30 gennaio 2019, n. 2657), la Suprema Corte ha mutato orientamento, evidenziando come, a seguito della riforma del 2006, l’art. 52 l.f. faccia riferimento non più soltanto ai crediti ma anche ad “ogni diritto reale personale o immobiliare” quale oggetto dell’accertamento che deve svolgersi secondo le forme stabilite dal capo V, e sottolineando come non appaia necessaria l’instaurazione del contraddittorio nei confronti del debitore, avendo la pronuncia un’efficacia meramente “endoconcorsuale”.
La stessa Cassazione è tuttavia poi ritornata su suoi passi (v. Cass., sez. I, 12 luglio 2019, n. 18790, e Cass., sez. VI-1, 14 maggio 2019, n. 12816), fino alla recente rimessione della questione alle Sezioni Unite con ordinanza n. 18337 pronunciata dalla Prima Sezione il 7 giugno 2022.
In attesa del pronunciamento delle Sezioni Unite in merito alla disciplina previgente, ancora applicabile alle procedure fallimentari in corso, va quindi salutata con favore la scelta del legislatore del Codice di disciplinare espressamente la fattispecie per la liquidazione giudiziale con il summenzionato inciso all’interno dell’art. 201 CCII.
Nel comma 3 del suddetto articolo vi è poi un’altra novità che concerne il contenuto necessario della domanda di ammissione al passivo, che deve ora includere, per espressa previsione della lettera a) del comma in questione, anche l’indicazione del codice fiscale del ricorrente, nonché “le coordinate bancarie dell'istante o la dichiarazione di voler essere pagato con modalità, diversa dall'accredito in conto corrente bancario, stabilita dal giudice delegato ai sensi dell'articolo 230, comma 1”.
Si tratta di una previsione volta, evidentemente, a ridurre il più possibile le difficoltà che derivano dall’eventuale irreperibilità del creditore al momento del riparto, spesso attuato a numerosi anni di distanza dall’accertamento del passivo.
Peraltro, in base al comma 4 del medesimo articolo (a norma del quale “il ricorso è inammissibile se è omesso o assolutamente incerto uno dei requisiti di cui alle lettere a), b), o c) del comma 3”), la mancata ottemperanza del creditore al suddetto onere di indicazione comporta l’inammissibilità della sua domanda, fermo restando che si tratta di un’omissione che ben può essere sanata nel corso del procedimento di verifica, anche sulla scorta dei rilievi che il curatore può e deve effettuare al riguardo nel progetto di stato passivo.
Un’ultima innovazione risiede nella disposizione del comma 10 dell’art. 201 CCII in base alla quale (in deroga alla regola generale dettata dall’art. 9, co. 1, CCII secondo cui “la sospensione feriale dei termini di cui all'articolo 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742 non si applica ai procedimenti disciplinati dal presente codice, salvo che esso non disponga diversamente”) “il procedimento introdotto dalla domanda di cui al comma 1 è soggetto alla sospensione feriale dei termini di cui all’articolo 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742”, disposizione ripresa poi dal comma 16 dell’art. 207 CCII anche per le impugnazioni.
Anche in questo caso, il legislatore ha voluto introdurre un elemento di razionalizzazione all’interno del subprocedimento di verifica del passivo, atteso che, in base ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella verifica del passivo nelle procedure fallimentari la sospensione feriale dei termini processuali si applica in via generale ai giudizi per l’accertamento dei crediti concorsuali ma non opera in quelli in cui si controverta dell’ammissione allo stato passivo dei crediti di lavoro (v. per tutte Cass., Sez. U., 5 maggio 2017, n. 10944), con la conseguente scadenza in momenti differenti – per i crediti da lavoro e per quelli diversi – di vari termini quali quello “a ritroso” di trenta giorni prima dell’udienza per la presentazione delle domande tempestive e quello annuale (dalla dichiarazione di esecutività dello stato passivo) per la presentazione delle domande tardive.
3. L’efficacia delle decisioni del giudice delegato e del Tribunale
Un’importante novità è contenuta anche nel comma 5 dell’art. 204 CCII.
Se, infatti, il comma 6 dell’art. 96 l.f. sanciva il principio dell’efficacia meramente “endoconcorsuale” delle decisioni assunte all’esito del procedimento di verifica delle domande dinanzi al giudice delegato o delle relative impugnazioni, stabilendo che “il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui all'articolo 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso”, tale principio viene ribadito nella suddetta norma del Codice “limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui”, il che significa, a contrario, che le decisioni del giudice delegato – ovvero del Tribunale, all’esito dei giudizi di impugnazione di cui all’art. 206 CCII – sulle domande di rivendica o restituzione producono effetti non “soltanto ai fini del concorso” ma anche al di fuori di esso.
In tal modo si è data attuazione alla direttiva contenuta nella legge delega n. 155/2017 all’art. 7, co. 8, lett. d), di “assicurare stabilità alle decisioni sui diritti reali immobiliari”, direttiva volta a “neutralizzare” nelle procedure di liquidazione giudiziale il rischio, esistente invece nelle procedure fallimentari, che gli acquirenti di immobili nelle vendite coattive poste in essere dagli organi dalle procedure siano assoggettati a pretese rivendicative da parte di quegli stessi terzi la cui domanda di rivendica sia stata rigettata – con effetto, per l’appunto, meramente “endoconcorsuale” – in sede di verifica.
Può peraltro notarsi che la disposizione in esame è andata oltre la suindicata direttiva, prevedendo l’opponibilità ai terzi – mediante le forme di pubblicità legale richiamate dall’art. 210, co. 3, CCII – non solo delle decisioni sui diritti reali immobiliari, ma anche di quelle sui diritti reali mobiliari e persino di quelle assunte su domande di restituzione di beni mobili o immobili.
4. Le domande tardive
Con l’art. 208, co. 1, CCII viene abbreviato in modo consistente il termine per la presentazione delle domande tardive: non più dodici mesi (prorogabili fino a diciotto dal Tribunale, in caso di particolare complessità della procedura, con la sentenza dichiarativa di fallimento) dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo, come previsto dall’art. 101 l.f., ma sei mesi (prorogabili, con le medesime modalità, fino a dodici) dal medesimo deposito.
Si tratta, anche in questo caso, dell’attuazione di una precisa direttiva dettata dalla legge delega, che con la lettera a) del comma 8 dell’art. 7 aveva richiesto al legislatore delegato di improntare il sistema di accertamento del passivo “a criteri di maggiore rapidità, snellezza e concentrazione, […] restringendo l'ammissibilità delle domande tardive”, attraverso un nuovo bilanciamento dell’esercizio dei diritti dei creditori (e dei soggetti che vantino diritti su beni inclusi nell’attivo della liquidazione) con le esigenze di speditezza della procedura (v. sul tema, anche con riferimento alla tenuta costituzionale, Cass., Sez. I, 13 ottobre 2015, n. 23302).
Sempre in un’ottica di economia processuale, è stata poi modificata la previsione del comma 2 dell’art. 101 l.f. laddove stabilisce che “il giudice delegato fissa per l'esame delle domande tardive un'udienza ogni quattro mesi, salvo che sussistano motivi d'urgenza”. Si è preso atto, a tal riguardo, che già nella prassi molti giudici delegati disattendono tale previsione, fissando udienza per l’esame delle domande tardive solo se e quando tali domande risultino effettivamente pervenute, e si è quindi stabilito al comma 2 dell’art. 208 CCII che “quando vengono presentate domande tardive, il giudice delegato fissa per l'esame delle stesse un'udienza entro i successivi quattro mesi, salvo che sussistano motivi d'urgenza”.
Ne consegue, tra l’altro, che della data dell’udienza per l’esame delle domande tardive dovranno essere avvisati dal curatore non solo “coloro che hanno presentato la domanda” ma anche “i creditori già ammessi al passivo” (laddove il comma 2 dell’art. 101 l.f. non prevede l’avviso a questi ultimi, presupponendo che l’udienza per le domande tardive venga fissata dal giudice delegato al termine dell’udienza per l’esame delle domande tempestive, al quale i creditori “tempestivi” hanno l’onere di assistere).
5. Le domande “ultratardive”
Al medesimo obiettivo di conferire una maggiore rapidità e concentrazione al sistema di accertamento del passivo risponde la nuova disposizione contenuta nel quarto comma dell’art. 208 CCII, laddove viene stabilito che, una volta decorso il termine di cui al comma 1 per la presentazione delle domande tardive, per l’ammissibilità delle stesse è richiesto non solo (come già nell’art. 101, co. 4, l.f.) che l’istante provi che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile, ma anche che la domanda sia trasmessa al curatore “non oltre sessanta giorni dal momento in cui è cessata la causa che ne ha impedito il deposito tempestivo”.
Tale previsione consente anche il superamento delle incertezze ingenerate dalle oscillazioni giurisprudenziali della Suprema Corte in merito all’esistenza o meno, in mancanza di un’espressa specificazione nel comma 4 dell’art. 101 l.f., di un termine prestabilito (decorrente, naturalmente, dal momento della conoscenza della procedura fallimentare e/o della realizzazione delle condizioni di partecipazione al passivo, ivi inclusa l’insorgenza stessa del credito ove sorto dopo la scadenza del termine per le domande tardive) per la presentazione delle domande “ultratardive”: sul tema, infatti, a fronte di un orientamento che afferma l’applicabilità – in base ad un’interpretazione sistematica – del medesimo termine annuale previsto dalle domande tardive (v. ex multis: Cass., sez. I, 15 novembre 2021, n. 34435; Cass., sez. VI-1, 13 maggio 2021, n. 12735; Cass., sez. VI-1, 2 febbraio 2021, n. 2308; Cass., sez. I, 17 febbraio 2020, n. 3872), si è recentemente riproposto un diverso orientamento in base al quale non sussistono i presupposti per l’applicazione analogica del termine annuale anche alle domande “ultratardive”, da reputarsi ammissibili solo se presentate in un tempo che, secondo una valutazione da effettuarsi in rapporto alle peculiarità del caso concreto, appaia congruo e ragionevole e quindi tale da consentire di ritenere integrata quella immediatezza dell’attivazione del soggetto interessato che ne giustifichi la rimessione in termini (v. da ultimo Cass., sez. I, 5 aprile 2022, n. 11000, nonché i precedenti conformi in essa richiamati).
Sempre nel quarto comma dell’art. 208 CCII si rinviene un ulteriore cambiamento rispetto alla disciplina contenute nella legge fallimentare: se, infatti, tale disciplina impone la fissazione da parte del giudice delegato di un’udienza per la trattazione della domanda “supertardiva” anche quando la stessa apparisse prima facie inammissibile, dovendo anche il profilo della scusabilità del ritardo essere sempre e comunque esaminato in contraddittorio (v. Cass., sez. I, 31 luglio 2017, n. 18998), essendo impugnabile con il rimedio dell’opposizione allo stato passivo il provvedimento del giudice delegato che ne sancisca illegittimamente l’inammissibilità fuori udienza (v. Cass., sez. I, 3 dicembre 2012, n. 21596), l’ultimo periodo del comma 4 dell’art. 208 CCII stabilisce invece che “quando la domanda risulta manifestamente inammissibile perché l'istante non ha indicato le circostanze da cui è dipeso il ritardo o non ne ha offerto prova documentale o non ha indicato i mezzi di prova di cui intende valersi per dimostrarne la non imputabilità, il giudice delegato dichiara con decreto l'inammissibilità della domanda” e che “il decreto è reclamabile a norma dell'articolo 124” (corrispondente all’art. 26 l.f.), ossia con reclamo al Tribunale in composizione collegiale.
Vi è da chiedersi, peraltro, in mancanza di qualsivoglia specificazione al riguardo, se in sede di reclamo il Collegio possa – ove ritenga di riformare il provvedimento del giudice delegato sull’inammissibilità della domanda – provvedere anche sul merito della stessa ovvero, come appare preferibile in un’ottica di razionalità del sistema, debba rimettere gli atti al giudice delegato affinché provveda sul merito della domanda con il procedimento dettato dagli artt. 203, 204 e 205 CCII, e dunque con decreto impugnabile con i rimedi previsti dall’art. 206 CCII.
6. Le impugnazioni
La principale modifica introdotta nella disciplina delle impugnazioni riguarda l’espressa previsione e disciplina delle c.d. impugnazioni incidentali.
È bene ricordare che, con riferimento al regime normativo dettato dalla legge fallimentare, la giurisprudenza di legittimità ne ha costantemente escluso l’ammissibilità, affermando che le impugnazioni avverso il decreto di esecutività dello stato passivo, ossia l’opposizione, l’impugnazione e la revocazione, devono essere necessariamente proposte in via principale e nel termine stabilito dall’art. 99 l.f., restando quindi esclusa un’impugnazione incidentale, sia essa tempestiva o tardiva (v. Cass., sez. VI-1, 26 novembre 2020, n. 26896, secondo cui, pertanto, ove il credito dell’istante sia stato ammesso al concorso solo parzialmente, il curatore che intenda contestare il relativo accertamento del giudice delegato deve impugnare lo stato passivo nel termine di rito, non essendo sufficiente la proposizione di una mera eccezione sul punto nel giudizio di opposizione promosso dal medesimo creditore istante; in termini, v. Cass., sez. I, 15 maggio 2019, n. 13008, Cass., sez. VI-1, 3 settembre 2018, n. 21581, e Cass., sez. I, 4 luglio 2018, n. 17561).
Il comma 4 dell’art. 206 CCII sancisce invece l’ammissibilità delle impugnazioni incidentali, anche tardive, stabilendo che “la parte contro cui l'impugnazione è proposta, nei limiti delle conclusioni rassegnate nel procedimento di accertamento del passivo, può proporre impugnazione incidentale anche se è per essa decorso il termine di cui all'articolo 207, comma 1”.
La disciplina processuale di tali impugnazioni si rinviene poi nei commi 6, 7 e 8 del successivo art. 207 CCII, in cui si prevede che l’impugnazione incidentale tardiva va proposta, a pena di decadenza, nella memoria difensiva depositata almeno dieci giorni prima dell’udienza, e che “se è proposta impugnazione incidentale tardiva il tribunale adotta i provvedimenti necessari ad assicurare il contraddittorio”.
Tra le altre novità sparse nel testo dell’art. 207 CCII vanno segnalate quelle contenuta nel comma 10, che stabilisce l’applicabilità degli artt. 309 e 181 c.p.c. per il caso di mancata comparizione delle parti (applicabilità già affermata in via interpretativa dalla Suprema Corte nelle impugnazioni disciplinate dalla legge fallimentare: v. in tal senso Cass., sez. I, 10 aprile 2019, n. 10086), e aggiunge che “il curatore, anche se non costituito, partecipa all'udienza di comparizione fissata ai sensi del comma 3, per informare le altre parti ed il giudice in ordine allo stato della procedura e alle concrete prospettive di soddisfacimento dei creditori concorsuali”, partecipazione non prevista dalla legge fallimentare e considerata dalla giurisprudenza di legittimità alla stregua di una irregolarità, tale da non determinare la nullità del procedimento (v. Cass., sez. VI-1, 31 maggio 2011, n. 12012).
Ricordo di Umberto Romagnoli (1935 - 2022)
di Gian Guido Balandi
Umberto Romagnoli è stato tra gli esponenti di spicco del giuslavorismo di un lunghissimo periodo che copre l’ultimo quarantennio del secolo ventesimo e i primi venti anni dell’attuale.
Professore alla facoltà di Scienze Politiche di Bologna, dove ha ricoperto anche la funzione di Preside, dopo un breve periodo iniziale della carriera in Ancona e a Modena. Componente del gruppo bolognese, di cui Federico Mancini si considerava “capostipite”, che – con anche Giorgio Ghezzi e Luigi Montuschi – nel 1972 redasse il commentario allo Statuto dei lavoratori, nel quadro del Zanichelliano Commentario Scialoja Branca, Umberto Romagnoli si è sempre distinto per la metodologia di ricerca.
Sua infatti la grande capacità di coniugare una impeccabile conoscenza e frequentazione del dato normativo dogmatico – si era formato alla scuola processualcivilista di Redenti e Carnacini – con l’apprezzamento dei dati socio politici che costituiscono l’imprescindibile sfondo del diritto del lavoro.
Soprattutto è stata caratteristica dei suoi studi l’approfondimento storico che ne ha fatto uno dei più valorosi storici del diritto non specialista. Fondamentali, proprio a questo proposito, i suoi volumi Il lavoro in Italia. Un giurista racconta (Bologna: il Mulino 1995); Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto (Roma: Donzelli 2009); Giuristi del lavoro nel novecento italiano. Profili (Roma: Ediesse 2018).
La sua produzione monografica non si limita a questi titoli, ma comprende opere sia di impianto più “tradizionale” come Il contratto collettivo d’impresa (Milano: Giuffrè 1963), La prestazione di lavoro nel contratto di società (Milano: Giuffrè 1967), Le associazioni sindacali nel processo (Milano: Giuffrè 1969), sia altre decisamente innovative come la contemporanea Contrattazione e partecipazione (Bologna: il Mulino 1968). Questa contemporaneità dei tre lavori dimostra la straordinaria versatilità dello studioso, in quest’ultima ricerca affronta infatti le vicende sindacali di una industria tessile contaminando sapientemente il diritto del lavoro con le relazioni industriali e la sociologia.
Insieme con il sodale Giorgio Ghezzi, per un ventennio – dall’ inizio degli anni 80 ai duemila – ha pubblicato presso Zanichelli un importantissimo e innovativo Manuale di diritto del lavoro e diritto sindacale, che resta un punto di riferimento metodologico per la manualistica, almeno quella “di carta”.
E. stato per molti anni condirettore della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile – una delle “classicissime” tra i periodici giuridici – e nel 1987 ha fondato, presso l’editore il Mulino e in collaborazione con alcuni più giovani colleghi, la rivista Lavoro e diritto, che ha diretto fino al 2016. In quest’ultima ha fatto confluire l’esperienza maturata in Politica del diritto, di cui è stato una delle firme più importanti fin dalla fondazione nel 1970.
La produzione saggistica è vastissima e caratterizzata da una scrittura molto brillante e letterariamente assai pregevole, aspetto al quale Umberto Romagnoli era particolarmente sensibile.
Non ha mai espressamente frequentato metodologie comparatistiche, tuttavia i caratteri della sua ricerca, che sopra ho troppo sinteticamente richiamato, ne facevano testi “naturalmente” capaci di prestarsi ad una riflessione comparata, e così la conoscenza delle sue opere nel mondo di lingua spagnola – penisola iberica e sub continente latino americano – è stata vasta ed approfondita fino a valergli tra lauree h.c.: in Castilla La Mancha, a Buenos Aires e a Lima.
Alla diffusione del suo pensiero e alla crescita di una intera classe dirigente sud americana ha contribuito potentemente l’essere stato tra i fondatori e poi ispiratore e partecipante, dalla fine degli anni Ottanta del 900 fino a che la pandemia non ne ha impedito l’organizzazione, del “Curso de Especialización para Expertas/os Latinoamericanas/os en Relaciones Laborales”, negli ultimi circa vent’anni svoltosi a Toledo, dopo Bologna e la collaborazione con il Centro Oil di Torino.
Si è spento a Bologna il 12 dicembre 2022, all’ età di 87 anni, lasciando la moglie Lisa, le figlie Daniela e Barbara e tre nipoti.
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