ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Costantino De Robbio
1. L’articolo 112 della Costituzione e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. 2. Obbligatorietà dell’azione penale e processo accusatorio. Il Codice del 1989 e la riforma dell’articolo 111 della Costituzione. 3. L’ingestibilità dei carichi della giustizia penale e la crisi del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. 4. La separazione delle carriere: riflesso pavloviano o panacea di tutti i mali? 5. Vie d’uscita dall’impasse: scorciatoie e soluzioni di sistema.
1.L’articolo 112 della Costituzione e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
L’articolo 112 è uno dei più brevi di tutta la Costituzione. Per questo risalta, pur in un testo normativo che enuncia i principi fondamentali del nostro Stato con doverosa ed inequivoca chiarezza, per la sua assertività. Poche e sentite parole: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Senza se e senza ma. L’organo che nel processo penale rappresenta l’accusa ed è titolare delle indagini non può dunque scegliere di quali reati occuparsi o chi tra gli indagati merita la sua attenzione e il suo tempo: gli è impedito fare distinzioni tra gli affari a lui assegnati per via del suo ufficio. Se al termine delle indagini egli avrà raccolto elementi a suo giudizio sufficienti per il processo, non potrà far altro che esercitare l’azione penale, essendogli inibita ogni scelta alternativa (quali ad esempio “graziare” o “perdonare” l’indagato o chiedere al G.I.P. di archiviare il fascicolo per qualsivoglia motivo). I costituenti, come emerge chiaramente dall’esame dei lavori preparatori al testo, hanno voluto in questo modo rendere concreti in tema di giustizia due principi: a) l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e b) l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo.
Sotto il primo profilo, è agevole rilevare infatti che il principio che afferma che “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” (articolo 3, 1° comma), baluardo del nostro sistema democratico, resterebbe mero postulato teorico se lo Stato non trattasse allo stesso modo tutti quelli che la legge la violano; ne discende che chiunque, senza eccezioni, violi un precetto deve essere assoggettato alla sanzione prevista (ovviamente, se riconosciuto colpevole al termine del processo). Conferire al pubblico ministero - così come a ogni altro potere dello Stato - la facoltà di scegliere se perseguire o no chi commette un reato vuol dire dunque, né più e né meno, vanificare il principio di uguaglianza perché rende alcuni cittadini “più” soggetti alla legge di altri. Al contempo, l’affermazione dell’obbligatorietà dell’azione penale pone il pubblico ministero al riparo da ingerenze esterne, perché impedisce che il potere esecutivo possa imporre di perseguire (o non perseguire) alcune categorie di persone o di tralasciare l’azione penale, magari in relazione a determinati periodi, per alcuni reati. Naturalmente, spetta al Parlamento legiferare su cosa sia reato e cosa no; ma una cosa è che la violazione di un precetto sia punita con sanzione penale a seguito di partecipazione al voto di tutte le forze parlamentari, altra cosa è che il discrimine della facoltà punitiva sia attribuito al Governo, espressione delle sole forze di maggioranza. Era chiara nella mente dei costituenti la necessità di evitare che, come era successo nell’Italia pre-repubblicana, il Governo modellasse l’azione penale in conseguenza dei propri desiderata, dando al processo penale l’improprio compito di realizzare per via giudiziaria l’ideologia in quel momento al potere [1]. Obbligare il pubblico ministero ad esercitare, sempre e comunque, l’azione penale (quando ne ricorrano i presupposti) vuol dire liberare la magistratura inquirente da vincoli e direttive esterne e farne uno strumento obiettivo di realizzazione di giustizia.
È fuor di dubbio che l’assetto costituzionale così delineato ha retto ottimamente alla prova dei fatti, contribuendo a modellare una giustizia diffusa e priva di quei caratteri di gerarchia e obbedienza al potere che ne caratterizzavano gli anni precedenti l’instaurazione della repubblica. Accanto al potere diffuso dei giudici, soggetti soltanto alla legge (articolo 101 Cost.) la nostra Repubblica ha potuto beneficiare di una magistratura requirente pienamente indipendente dagli altri poteri e in cui tutti i magistrati – siano essi giudici o pubblici ministeri – si distinguono solo per diversità di funzioni (art. 107, 3° comma Cost.). Nei quasi ottanta anni di vita della nostra Costituzione, tuttavia, si sono verificati alcuni avvenimenti che hanno mutato il contesto operativo in cui l’articolo 112 è chiamato ad operare, sicché non appare inopportuna una verifica dell’attualità del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
2. Obbligatorietà dell’azione penale e processo accusatorio. Il Codice del 1989 e la riforma dell’articolo 111 della Costituzione.
Il primo grande scossone al sistema penale è stato dato dall’adozione nel 1989 del Codice di procedura penale, che ha ridisegnato le regole del rito sulla base di un'idea fortemente innovativa: l'innesto su una tradizione marcatamente inquisitoria, quale quella italiana, di alcune caratteristiche del processo accusatorio tipico dei sistemi anglosassoni. In conseguenza di questa nuova impostazione, il fine del processo penale nel nostro ordinamento non è di tendere alla ricerca della verità storica (verificare se il fatto di cui il reo è accusato è effettivamente avvenuto ed è a lui ascrivibile) ma di raggiungere la verità processuale: la decisione del giudice deve basarsi su ciò che è stato provato durante il confronto tra le parti avvenuto in dibattimento. Sono dunque mutati sostanzialmente ed irreversibilmente rispetto al passato i ruoli degli attori del processo: il giudice diviene mero arbitro di una contesa che si svolge al suo cospetto tra accusa e difesa, mentre le parti - in posizione di parità - presentano ciascuna gli elementi raccolti a sostegno della propria tesi e le sottopongono alla prova di resistenza del confronto con l’opponente. L'essenza del dibattimento, un tempo coincidente con il suo fine - l'accertamento della verità - è dunque oggi data dal mezzo attraverso cui le parti interagiscono: il contraddittorio.
Questo nuovo assetto del processo rende forse inattuale o obsoleto il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? A chi scrive sembra evidente che la norma costituzionale agisce su un piano nettamente distinto e indipendente rispetto alla scelta del sistema processuale: anche in un sistema accusatorio non perdono di importanza né il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge né quello dell’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo che si è visto essere i due valori tutelati dall’articolo 112 della Costituzione [2]. È vero che nell’attuale sistema processuale il Pubblico Ministero ha un ruolo del tutto peculiare, essendo sì una parte processuale, ma che al contempo rappresenta lo Stato, che è imparziale per definizione. Egli è libero nel fine, potendo determinarsi all’esito delle indagini per la richiesta di archiviazione e persino chiedere l’assoluzione dell’imputato di cui egli stesso aveva chiesto il rinvio a giudizio. Nella fase delle indagini preliminari, peraltro, non gli è dato il compito di cercare unilateralmente elementi di accusa a carico dell’indagato, essendo egli come noto obbligato anche a “svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” (art. 358 c.p.p.). In altri termini, la parità tra pubblico ministero e difesa nell’agone del contraddittorio comporta che ai due sono dati i medesimi strumenti processuali per convincere il giudice; non che tra le due parti debba esservi simmetria, perché l’una (la difesa) agisce secondo un preciso mandato e non potrebbe discostarsene, l’altra (il pubblico ministero) è invece libero di autodeterminarsi perché agisce non “contro” l’imputato - come invece il difensore deve agire “a suo favore” - ma nell’interesse della collettività.
Tanto premesso, è evidente che questa libertà del fine non vuol dire discrezionalità dell’azione penale: il magistrato inquirente rimane infatti vincolato nella sua scelta a dei precisi parametri dettati dal legislatore e oggi rinvenibili, dopo le ultime modifiche al Codice di procedura penale operate dalla cosiddetta “riforma Cartabia”, nell’articolo 533 del Codice di procedura penale. Modellando sia il parametro necessario per la richiesta di rinvio a giudizio che quello (previsto dall’articolo 425 del Codice di procedura penale) cui deve attenersi il G.U.P. per non emettere sentenza di non luogo a procedere sulla “ragionevole previsione di condanna”, il Codice obbliga oggi anche il pubblico ministero a determinare le proprie scelte in ordine all’esercizio dell’azione penale agli stessi criteri cui è tenuto il giudice [3]. Questo allineamento degli standards indiziari e cautelari a quelli probatori non è un portato dell’ultima riforma; al contrario, corrisponde ad un vero e proprio trend che accomuna i numerosi interventi del legislatore che si sono succeduti negli ultimi quindici anni sul processo penale. A mero titolo di esempio, le modifiche dei parametri per l’adozione di una misura cautelare personale e i ripetuti aggiustamenti di quelli (sanciti nel menzionato articolo 425 c.p.p.) per discriminare i fascicoli da mandare a giudizio da quelli destinati alla sentenza di non luogo a procedere indicano una tendenza ad assimilare il lavoro dei giudici delle indagini preliminari ad una sorta di anticipazione - con valore prognostico - dell’esito del futuro ed eventuale dibattimento.
Oggi questa responsabilizzazione investe esplicitamente anche le determinazioni del pubblico ministero, più che mai chiamato all’esercizio del proprio ruolo con un’ottica di unicità della giurisdizione: «l’orizzonte del pubblico ministero non è più quello di una dignitosa partecipazione al giudizio, ma quello di una piena assunzione di responsabilità per il suo esito» [4]. Su questi parametri deve adagiarsi anche la scelta dei casi in cui esercitare l’azione penale, che rimane in ogni caso obbligatoria nel senso previsto dall’articolo 112 della Costituzione, nel senso che – al determinarsi dei presupposti indicati dalla legge – non ci si potrà esimere dal richiedere il rinvio a giudizio. Va da sé che in nessun modo l’adozione del sistema accusatorio impedisce al pubblico ministero di svolgere indagini o è incompatibile con l’obbligo di indagare senza selezionare né il tipo di reati né le persone secondo criteri estranei a quelli descritti. Pertanto, può concludersi che non esiste alcuna incompatibilità tra il principio costituzionale sancito dall’articolo 112 della Costituzione e l’attuale assetto del processo penale (anche alla luce del rimodellato articolo 111 della Carta fondamentale).
3. L’ingestibilità dei carichi della giustizia penale e la crisi del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
La piena compatibilità del principio costituzionale in esame con l’attuale sistema del processo penale non conforta, tuttavia, a fronte di un dato di fatto ineludibile: da lungo tempo i carichi delle Procure e dei Tribunali sono talmente elevati da rendere impossibile in quasi tutti i distretti l’evasione della domanda di giustizia. Il fenomeno ha cause molteplici e risalenti, che non è possibile affrontare in questa sede, anche se la cronica mancanza di risorse, umane ed informatiche, gioca senza dubbio un ruolo di rilievo: basti pensare che per venti anni non è stato bandito alcun concorso per cancellieri, ciò ha portato all’invecchiamento ed al progressivo depauperamento quantitativo dei ruoli cardine del processo penale dal punto di vista amministrativo ed all’attuale situazione di drastica carenza di organico. Conseguenza indiretta del disastrato stato della giustizia penale del nostro Paese è che una parte delle notizie di reato non può essere lavorata o comunque non in tempi congrui, e una rilevante quota dei procedimenti per i quali il Pubblico Ministero esercita l’azione penale non trova sbocco nella fase processuale. Buona parte dei processi, infine, non viene definita mediante uno degli esiti fisiologici (sentenza di assoluzione o di condanna definitiva) poiché il reato si estingue, prima che si sia stabilito se esso sussistesse o meno, per il decorso del tempo massimo (prescrizione).
Questo stato di fatto comporta indirettamente un abbandono o quantomeno un’attenuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: i pubblici ministeri non esercitano più l’azione penale ogni volta che ne ricorrano i presupposti ma solo per quella quota parte di affari penali che riescono a lavorare (e che i giudici sono in grado di ricevere: è noto che in passato alcuni Tribunali sono stati costretti a contingentare i decreti di citazione a giudizio ricevuti dalla Procura per impossibilità di fissare le udienze, sicché il magistrato inquirente esercitava l’azione penale solo virtualmente) [5].
Non possono non condividersi le preoccupazioni espresse sul punto dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha affermato che la situazione attuale dei carichi di lavoro si presta ad arbìtri, dando ai pubblici ministeri la possibilità di scegliere quali reati perseguire. Convincono assai meno, date le premesse fin qui svolte, le soluzioni che il Governo pare apprestarsi ad adottare per scongiurare il pericolo paventato.
4. La separazione delle carriere: riflesso pavloviano o panacea di tutti i mali?
In una delle sue ultime dichiarazioni rese alla stampa [6] il Ministro Nordio, nel ribadire l’intenzione del Governo di procedere alla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri in quanto, a suo dire, «consustanziale al processo accusatorio» [7], ha specificato che tale modifica legislativa, a suo dire, «richiede una revisione costituzionale anche perché deve essere correlata alla discrezionalità dell’azione penale, che in questo momento per Costituzione è obbligatoria». Il collegamento tra l’obbligatorietà dell’azione penale e il tema (un vero e proprio mantra per l’attuale compagine di maggioranza) della separazione delle carriere non appare di intuitiva evidenza. Non solo non vi è alcuna necessità ontologica, anche in un ipotetico ordinamento in cui il pubblico ministero ha la carriera separata da quella del giudice, di affidargli la discrezionalità nell’azione penale, ma - come si è detto - l’abolizione del principio espresso nell’articolo 112 della Costituzione pone a serio rischio il principio di uguaglianza e quello dell’indipendenza del magistrato inquirente rispetto al potere esecutivo. E va da sé che un pubblico ministero separato dal giudice, con conseguente perdita dello statuto che ai magistrati giudicanti garantisce indipendenza, andrebbe ancora più tutelato dal rischio di finire nell’orbita degli altri poteri dello Stato. La contestuale previsione di un pubblico ministero “separato” e non più soggetto al tranquillizzante obbligo di indagare su tutti i reati e gli indagati suscita dunque un allarme che non è possibile sottovalutare. Ne è ben consapevole lo stesso Ministro quando, nella stessa dichiarazione sopra riportata, aggiunge che «la separazione delle carriere non ha assolutamente come conseguenza la riconduzione del pm sotto l’esecutivo. Questa è una conseguenza inventata da quelli che non vogliono la separazione delle carriere per altri motivi». L’autorevolezza della fonte induce a prestare fede a questa dichiarazione di intenti: ma allora perché collegare la paventata riforma del pubblico ministero all’abolizione del più forte presidio alla sua indipendenza?
Non a caso, a commento delle predette dichiarazioni, ha espresso tutta la sua preoccupazione il Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia, dichiarando esplicitamente che "separare le carriere significa creare la premessa per porre il pubblico ministero sotto il controllo politico del ministro. Fare dell’azione penale un’azione discrezionale, significa affidarla alla politica". Una volta che l’azione penale diventerà discrezionale, occorreranno infatti dei criteri per garantire l’uniformità di tale discrezionalità tra un pubblico ministero e l’altro; in mancanza, l’arbitrio che si voleva scongiurare diventerà ben peggiore di quello che si scorge, a torto o a ragione, con l’attuale sistema.
Questi criteri possono essere dettati dall’interno (ovvero dagli stessi uffici di Procura) o dall’esterno. E dal momento che alcuni criteri interni per stabilire le priorità di trattazione delle notizie di reato esistono già, come meglio si dirà nel paragrafo che segue, è evidente che essi non sono considerati sufficienti da chi propone questa riforma e che si auspica che essi provengano dall’esterno, ovvero dal potere esecutivo, ciò che riporterebbe l’architettura del processo penale al sistema pre-costituzionale.
La preoccupazione aumenta leggendo altre dichiarazioni del Ministro, che pare ricollegare la futura discrezionalità dell’azione penale alla necessità di sottoporre il pubblico ministero ad un vero e proprio controllo: l’obbligatorietà dell’azione penale, ha infatti riferito il Ministro Nordio, «si è tradotta in intollerabile arbitrio a causa della massa di fascicoli. Quindi il pm è costretto a una scelta, può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno e questo favorisce le ambizioni di pochi magistrati. Anche perché si agisce in assenza di responsabilità per le proprie azioni, svincolati da controlli che in ogni democrazia limitano l’esercizio di un potere» [8]. Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, sottoposizione del pubblico ministero a controllo: il fil rouge delle dichiarazioni riportate disvela una ratio legis che chi legge il processo penale con le vetuste, ma insostituibili, lenti della Costituzione fa fatica a metabolizzare [9].
5. Vie d’uscita dall’impasse: scorciatoie e soluzioni di sistema.
Occorrerebbe dunque trovare una soluzione che consenta di restituire piena effettività all’articolo 112 della Costituzione senza stravolgere l’assetto del processo penale (operazione, oltre che inutile, pericolosa per quanto detto in precedenza). Due sembrano le strade percorribili, una da adottare nel breve periodo ed una “di sistema”.
La risposta di sistema consiste in una ampia depenalizzazione, che sollevi gli uffici dal carico di migliaia di procedimenti considerati ad oggi di rilievo penale anche se, per fatti, di non rilevante allarme sociale. È infatti intuitivo che, se non è possibile esercitare l’azione penale per tutti i reati per mancanza di forze, tanto vale restringere l’area del penalmente rilevante. Questa soluzione avrebbe altresì il pregio di rafforzare l’impronta garantista del nostro Codice di procedura penale, in linea peraltro con molte altre dichiarazioni degli esponenti dell’attuale Governo.
Al contempo, un profondo e concreto investimento sulla Giustizia che consenta di dotare i Tribunali e le Procure di mezzi e personale e di una convinta transizione informatica servirebbe ad evitare che, passata l’onda positiva dell’eventuale provvedimento di depenalizzazione, si ritorni nel medio periodo alla situazione precedente (come successo in passato per i provvedimenti di amnistia e indulto).
Nel breve periodo (in attesa delle riforme ora descritte) possono senz’altro giovare i criteri di priorità nella trattazione degli affari, introdotti dalla menzionata “riforma Cartabia” (art. 3 disp. Att. C.p.p. e art. 1, lett. B, d.lgs. 106/2006) [10], soluzione che lascia all’interno della magistratura il compito e la responsabilità di individuare criteri per l’uniforme trattazione degli affari penali, scongiurando il pericolo di interventi esterni. Va peraltro rilevato che la legge assegna al Parlamento il compito di stabilire con legge i criteri generali cui gli uffici di Procura dovranno attenersi nello stabilire i criteri di priorità; questa previsione, per quanto limitata, ha già sollevato dubbi di costituzionalità per la compatibilità con l’articolo 112 Cost [11]. Un uso corretto - e depurato da torsioni eccentriche rispetto ai fini di restituzione di effettività ai principi costituzionali sottesi all’obbligatorietà dell’azione penale - potrebbe consentire una razionale gestione degli affari penali, anche mediante allineamento dei criteri di priorità della magistratura requirente a quelli previsti per la trattazione dei processi in Tribunale [12].
[1] Sul punto si veda G.SALVI, Commento all’art. 112 della Costituzione, in La Magistratura, rivista online.
[2] All’indomani dell’adozione del Codice di procedura penale del 1989, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire la piena compatibilità tra il sistema accusatorio adottato e l’articolo 112 della Costituzione, precisando che «il principio di legalità (art. 25, 2° comma Cost) che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale. Realizzare la legalità nell’uguaglianza non è però possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero» (Corte Cost. n. 88 del 1991). Pochi anni dopo lo stesso concetto è stato ribadito affermandosi che «l'obbligatorietà dell'azione penale, pur costituendo – come punto di convergenza di un complesso di principi del sistema costituzionale – la fonte essenziale della garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero» (Corte Cost., n. 420 del 1995).
[3] Così NAPPI, In difesa della riforma Cartabia, Giustizia Insieme 20 giugno 2023: «L'art. 112 Cost. non esige affatto che il pubblico ministero si determini in base a una regola di decisione diversa da quella prevista per il giudice. Al contrario, estende all'azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione, escludendo così che le determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale. Infatti la giurisdizione è un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono essere giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all'intervento del giudice».
[4] Così ancora NAPPI, In difesa, cit.
[5] Sul punto T. EPIDENDIO, “La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura”, Giustizia Insieme, 24 maggio 2022 ha parlato di crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale: «Prima ancora che scientifica o ideologica, la crisi è imposta dalla “forza del fatto”: sopra una certa dimensione demografica e in presenza di una legislazione penale inflazionistica, mancano inevitabilmente le risorse per perseguire tutti e tempestivamente i reati che vengono commessi; inizia a farsi strada l’idea che l’obbligatorietà dell’azione penale sia illusoria (molti reati si prescrivono o vengono archiviati).»
[6] Le dichiarazioni sono rinvenibili su fonti aperte e risalgono al 19 settembre 2023.
[7] Sul punto, a confutazione, si veda quanto detto nei paragrafi 1 e 2 di questo scritto.
[8] Dichiarazioni del 6 dicembre 2022, rinvenibili su fonti aperte.
[9] Sul punto si veda ancora EPIDENDIO, in questa Rivista, cit.: «…si fa sempre più diffusa la convinzione che, in realtà, il principio di obbligatorietà nasconda scelte selettive incontrollate sull’an e sul quando della persecuzione da parte delle diverse Procure della Repubblica. Così, anche su questo versante, quasi senza che ce se ne avveda, spinti dalla forza del fatto e dalla inevitabile limitatezza di risorse ed energie, si minano le fondamenta costituzionali delle garanzie e della legittimità di un pubblico ministero autonomo e indipendente da altri poteri, che trovano la loro radice appunto nell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, cui è correlato il principio di obbligatorietà dell’azione. Quanti però avvertono che ogni deriva dal principio di obbligatorietà sacrifica il principio di eguaglianza davanti alla legge?».
[10] Sul punto si veda APRATI, “Le nuove indagini preliminari tra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità”, in Giustizia Insieme, 20 dicembre 2022: «Si è infatti andato ad incidere sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, baluardo sì del principio di legalità/uguaglianza in sede processuale, ma in via di fatto in perenne crisi a causa della sua concreta inesigibilità. L’azione rimane obbligatoria, così come immutato è l’obbligo di indagare, ma l’effettivo esercizio dei due connessi doveri viene modulato: le notizie di reato che presentano certe caratteristiche – individuate dai criteri di priorità - devono essere prese in carico, tanto per l’avvio dell’indagine quanto per la scelta sull’azione, con precedenza sulle altre.»
[11] Sul punto infatti si veda la Relazione n. 2 del 2023 del Massimario della Cassazione ove si legge che «L’individuazione di siffatti criteri potrebbe porre il dubbio pregiudiziale della loro compatibilità con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., posto che non vengono disciplinati solo i criteri in ordine alla gestione delle indagini, ma vengono individuati anche i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione. Siffatta astratta previsione può, però, giustificarsi ove si considerino, sul piano pratico, la scarsità delle risorse, il numero ingente di indagini astrattamente esperibili, la differente gravità, il diverso impatto sociale dei singoli reati e la necessità di assicurare uguaglianza, imparzialità, efficienza e velocità nell’amministrazione della giustizia, in ossequio ai principi di buon andamento e imparzialità dell'azione giudiziaria desumibili dall'art. 97, comma 1, Cost.»
[12] Si vedano in merito le riflessioni di N.ROSSI, “I criteri di priorità tra legge cornice e indipendenza delle procure”, in Questione Giustizia, 2021, 4, nonché quelle di E.ALBAMONTE, “I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale”, in Il Penalista.
di Maria Teresa Covatta
In un intervento del 13 ottobre alla CNN Oliver Darcy [1], commentando l’escalation del conflitto scatenato dall’attacco terroristico di Hamas contro Israele denuncia la sfida di dover nuotare in un oceano di informazione inquinata, con affermazioni dubbie, poco chiare, ancor più pericolose quando provengono da fonti autorevoli o supposte tali.
Un numero infinito di immagini e informazioni fuorvianti che diventano virali online lascia al pubblico una percezione distorta di ciò che sta realmente accadendo in Medio Oriente e del perché.
Pur nel comprensibile disordine che accompagna necessariamente l’informazione a fronte di eventi di rottura di equilibri, già precari come in questo caso, tanto più forte a fronte dell’orrore causato dall’evento stesso, e in un panorama mediatico frammentario e guidato da algoritmi in cui le notizie si diffondono 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, le informazioni possono viaggiare e penetrare le coscienza dell’opinione pubblica con una rapidità sorprendente e talora incontrollata, creando un fertile terreno per le mistificazioni, talora involontarie e talora volute.
La critica non riguarda solo la stampa, ma anche il mondo della politica e dell’informazione che ne proviene, in tutti quei casi in cui l’informazione non arriva da soggetti realmente accreditati a darla ed è più che altro finalizzata ad acquisire punti sul fonte della propria influenza e dunque della propria rilevanza, partendo da un punto di vista ristretto e personale, allontanando la dimensione umana e l’impatto reale e obiettivo dei fatti che si raccontano.
Queste considerazioni, che l’autore dell’intervento riferisce esclusivamente agli eventi in corso in Medio Oriente, ma che valgono su larga scala e ben potrebbero attagliarsi anche a fatti di casa nostra, pongono degli interrogativi sulla chiarezza delle informazioni, specialmente a fronte di questa che si annuncia come una inevitabile e devastante guerra protratta che ha già falciato un enorme numero di vite tra israeliani e palestinesi e in cui gli unici esiti prevedibili – nell’assoluta imprevedibilità degli sviluppi a livello geopolitico - sono le altre enormi perdite che verranno, la più che probabile crisi umanitaria e il probabile definitivo tracollo di una prospettiva di pace tra i due popoli: in conclusione, quella che è stata definita la metastasizzazione della questione palestinese.
Lasciando da parte i mistificatori di professione [2] e i criminali che a Berlino hanno disegnato le stelle di Davide sulle porte di casa di famiglie ebree, in quanto costoro sarebbero comunque refrattari a qualunque forma di informazione che non sia basata sui loro preconcetti e sulla loro vergognosa e delirante visione della storia, c’è da chiedersi se non sia opportuno che si chiarisca, a chi vuole ascoltare, che i palestinesi non sono Hamas e che quest’ultima è un’organizzazione criminale che non si identifica con la causa palestinese.
Bisognerebbe chiarire anche che fare critiche all’attuale politica governativa israeliana è cosa lontana anni luce dall’essere antisemiti e che, anzi, avere a cuore la democrazia di quel Paese è l’esatto contrario.
Bisognerebbe raccontare che solo pochi giorni prima dell’attacco di Hamas migliaia di israeliani e di palestinesi hanno percorso, insieme e in marcia pacifica, la “strada della pace”, da Gerusalemme alla Cisgiordania, una lunga marcia che vedeva ancora una volta (già c’era stata nel 2022, l’anno più sanguinoso dopo la seconda intifada) donne palestinesi e israeliane insieme per protestare contro la catena della violenza che colpisce entrambe le parti e per chiedere che cessi l’eccidio quotidiano dei loro figli. E che l’attentato di Hamas ha cancellato, con un sanguinoso colpo di spugna, il precario e del tutto singolare equilibrio che teneva in piedi la collaborazione tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, soprattutto sul piano della sicurezza
Bisognerebbe raccontare – o raccontare con più forza e più chiarezza - che esistono centinaia di comitati per la pace, cui partecipano, uniti, israeliani e palestinesi, che da tempo manifestano insieme per la pace e la giustizia e che pacificamente hanno manifestato contro la riforma della giustizia in corso in Israele che, a opinione di molti, rappresenta un serio colpo alla democrazia del Paese, tanto che qualcuno lo ha definito un golpe alla luce del sole e senza carri armati.
Bisogna fare tutto questo perché a fronte di una guerra che si annuncia come una probabile catastrofe umanitaria, sia ben chiaro che la lotta per i diritti ci coinvolge tutti e che i diritti sono diritti da qualunque parte stiano.
[1] Oliver Darcy, Explosive claims about the Israel-Hamas war are going viral. But the truth is not always so simple, CNN Business, 13 ottobre 2023. https://edition.cnn.com/2023/10/13/media/israel-hamas-claims-reliable-sources/index.html.
[2] I TG italiani, il 15 ottobre, hanno dato la notizia di un noto terrorista italiano, già condannato per l’omicidio Tobagi, intercettato mentre inneggiava alla strage di Hamas nell’ambito di una manifestazione in favore della causa palestinese. Nello stesso contesto è stata data la notizia delle stelle di David comparse in Germania sulle abitazioni di famiglie ebree.
(Immagine: marcia del movimento Women Wage Peace, Gerusalemme, 4 ottobre 2023; photo credit: Women Wage Peace, via Jerusalem Post https://www.jpost.com/israel-news/article-761604).
di Antonio Balsamo e Alessia Fusco
Sommario: 1. Le ragioni di interesse per il tema, a partire dalla trasformazione della “natura” del procedimento di prevenzione patrimoniale – 2. Tassatività processuale e ragionamento probatorio – 3. Un nuovo calcio d’inizio per la partita U.E. sulla confisca: la proposta di una nuova direttiva – 4. NCB, istruzioni per l’uso: il documento ECCD del Consiglio d’Europa – 5. Alcuni rilievi conclusivi.
1. Le ragioni di interesse per il tema, a partire dalla trasformazione della “natura” del procedimento di prevenzione patrimoniale
Uno dei più importanti fattori di evoluzione degli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione è rappresentato oggi dal percorso di costruzione di “regole giuridiche comuni europee e persino universali (…) che incoraggiano la confisca di beni collegati a reati gravi come la corruzione, il riciclaggio, le attività illecite in materia di sostanze stupefacenti e così via, senza la precedente esistenza di una condanna penale”[2].
In questo contesto, emerge una evidente centralità del tema dell’asset recovery: il “recupero dei patrimoni” derivanti dalle attività delittuose di maggiore gravità costituisce un importante terreno di dialogo e di impegno comune anche tra paesi aventi strutture istituzionali ed economiche profondamente diverse tra loro.
Anche nella cultura giuridica italiana, negli ultimi decenni, si è manifestata una chiara consapevolezza della speciale rilevanza del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali, disciplinato dal “Codice antimafia”.
Oggi, da parte degli studiosi più autorevoli, questo sistema non viene più considerato come una “anomalia italiana”, ma come uno dei più significativi esempi, a livello internazionale, del modello della confisca non basata sulla condanna (non-conviction based confiscation).
È significativo che proprio il sistema italiano della prevenzione patrimoniale sia divenuto il modello ispiratore delle riforme recentemente introdotte in altri Stati interessati a costruire un rapporto più stretto con l’Unione Europea: ad esempio, la riforma adottata nel 2017 in Albania rispecchia in modo evidente numerose previsioni del nostro “Codice antimafia”.
Nella categoria generale della non-conviction based confiscation rientrano, oltre alle misure di prevenzione patrimoniali italiane, anche una serie di tipologie conosciute da altri ordinamenti, non solo di common law (ad es. quelli del Regno Unito, dell’Irlanda, degli Stati Uniti, dell’Australia) ma anche di civil law. Tra gli esempi più noti, vi sono la civil forfeiture, la confisca in rem, le unexplained wealth procedures.
Tutte queste tipologie sono contrassegnate da una medesima tendenza evolutiva, consistente nella progressiva concentrazione dell’accertamento processuale sugli aspetti economici di un intero fenomeno criminale, in vista della applicazione di misure che incidono essenzialmente sul patrimonio ed hanno una funzione prevalentemente preventiva o compensativa, senza comportare la irrogazione di sanzioni restrittive della libertà personale (le quali, per loro natura, richiedono necessariamente la pronunzia di una condanna penale).
Dall’Analysis of non-conviction based confiscation measures in the European Union pubblicata il 12 aprile 2019 dalla Commissione Europea emerge un dato di indubbio rilievo: in tutti gli Stati dell’Unione Europea sono state introdotte forme di confisca non basate sulla condanna, quantomeno nelle ipotesi in cui è impossibile pervenire ad una sentenza affermativa della responsabilità penale dell’imputato.
Il modello in questione ha ricevuto un forte sostegno anche da un consesso politico internazionale contrassegnato da una intensa cultura garantistica come l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, la quale nella risoluzione n. 2218 del 26 aprile 2018 ha qualificato la non-conviction based confiscation come “il modo più realistico per gli Stati di affrontare l'enorme, e inesorabilmente crescente, potere finanziario della criminalità organizzata, al fine di difendere la democrazia e lo stato di diritto”.
Si assiste, in effetti, a quello che la dottrina ha definito come lo sviluppo inarrestabile della “giustizia penale patrimoniale” (o “processo al patrimonio”)[3]. A ben vedere, l’affermazione della più evolute forme di “confisca senza condanna” è espressione di un percorso di ripensamento delle tradizionali categorie giuridiche che prefigura un vero e proprio passaggio storico: quello della costruzione di un diritto penale “mite” di stampo postmoderno, capace di superare il vecchio modello “individualistico” fondato su un orizzonte stato-centrico e sul primato della pena detentiva, per indirizzarsi decisamente verso la percezione della natura collettiva e della dimensione economica dei più gravi fenomeni criminali, la progressiva diversificazione dei modelli sanzionatori, e la costruzione di nuovi metodi di intervento inseriti nel più ampio scenario delle molteplici forme di reazione affidate non solo al sistema istituzionale ma anche alle iniziative di solidarietà della società civile.
Viene così promossa – per usare le parole di Francesco Palazzo[4] - una giustizia penale dal “volto umano”, aliena da ogni furore punitivo e capace di apprestare una risposta efficace alle sfide della modernità.
Si tratta di un percorso che nel nostro Paese ha ricevuto una spinta decisiva negli anni ’80, quando nella lotta alla mafia sono stati sperimentati metodi di intervento del tutto nuovi, dove efficienza e garanzia sono state viste come due fattori capaci di rafforzarsi a vicenda. Particolarmente significativo, al riguardo, è il pensiero espresso, proprio all’indomani dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre, da due dei magistrati più impegnati nella lotta alla mafia, Giovanni Falcone e Giuliano Turone, secondo cui «il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano dietro di sé i grandi movimenti di denaro, connessi alle attività criminose più lucrose», e di conseguenza «lo sviluppo di queste tracce, attraverso un’indagine patrimoniale che segua il flusso di denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l’aspetto decisamente da privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente consente agli inquirenti di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall’attività probatoria di tipo tradizionale»[5].
Questa impostazione è alla base della dinamica evolutiva che ha valorizzato le potenzialità del sistema italiano delle misure di prevenzione patrimoniali, applicate attraverso un procedimento ad hoc, parallelo e complementare al processo penale. Esso è stato contrassegnato da una incessante evoluzione normativa, che ha progressivamente rafforzato il ruolo della giurisdizione e la tutela dei diritti fondamentali.
Allo stesso modo, nel contesto internazionale, la consapevolezza che l’efficacia della lotta alla criminalità va necessariamente di pari passo con il pieno riconoscimento delle ragioni del garantismo, si è tradotta in una intensa valorizzazione del ruolo della giurisdizione.
Ciò è particolarmente evidente nel settore del contrasto al terrorismo internazionale, dove, per effetto del “dialogo tra le Corti” in tema di congelamento dei beni delle persone fisiche e delle organizzazioni inserite nelle liste formate presso l’ONU dal Comitato per le Sanzioni del Consiglio di Sicurezza (c.d. listing), si è sviluppata una rilevante estensione della “doppia funzionalità” dell’intervento giurisdizionale, visto come uno strumento indispensabile per realizzare un tessuto connettivo tra i diversi ordinamenti e per coniugare la tutela dei diritti con l’effettività della risposta preventiva.
In questo settore si è assistito alla crescente utilizzazione di strumenti già collaudati contro la criminalità organizzata, sulla base dell’avvertita esigenza di adeguare la reazione giuridica all’attuale realtà del finanziamento del terrorismo, che si caratterizza per la diffusa compresenza di risorse lecite e illecite, l'utilizzo di canali informali e lo sfruttamento dell'economia legale[6].
Sono assai numerosi e rilevanti i fattori che hanno condotto ad una crescita di interesse, nelle più diverse sedi di produzione normativa a livello nazionale e internazionale, nei confronti delle forme più moderne di sequestro e di confisca dei beni della criminalità organizzata, divenute ormai il costante modello di riferimento per le strategie di prevenzione e repressione di tutte le principali forme di illecito penale con una precisa dimensione economica, comprese quelle di matrice terroristica, tecnologica o amministrativa.
Il concetto di “dimensione economica” della criminalità organizzata, che sin dagli anni ’80 del secolo scorso è stato il più diffuso paradigma utilizzato nell’analisi scientifica per illustrare le caratteristiche di tale fenomeno, è divenuto parte integrante del sistema giuridico delle Nazioni Unite per effetto della risoluzione 10/4 adottata il 16 ottobre 2020 a Vienna dalla Conferenza delle Parti della Convenzione ONU di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale: un atto che la comunicazione istituzionale[7] e i mass media[8] hanno immediatamente presentato come la “risoluzione Falcone” in quanto essa - con una indicazione nominativa che è rarissima nell’ambito dei documenti ufficiali adottati nel contesto delle Nazioni Unite - menziona specificamente la grande eredità ideale del magistrato italiano che con la sua vita e il suo impegno ha aperto la strada alla stessa Convenzione.
La strada così tracciata è proseguita con la “Dichiarazione di Kyoto”, adottata il 7 marzo 2021 in apertura del Congresso ONU sulla prevenzione della criminalità e la giustizia penale, che presenta tra i propri punti più innovativi e qualificanti l’impegno di affrontare la dimensione economica della criminalità.
Il concetto di “dimensione economica” è idoneo a ricomprendere sicuramente i seguenti profili:
Non si tratta solo di una indicazione di principio, ma di un preciso orientamento di politica criminale, da attuare attraverso una serie di misure concrete. Ai fini del potenziamento delle attività di prevenzione e di contrasto incidenti su quella vastissima rete di beni e rapporti economici destinati alla conservazione ed all’esercizio dei poteri criminali, occorre tenere conto di tre esigenze fondamentali:
2. Tassatività processuale e ragionamento probatorio
Per realizzare congiuntamente le suesposte tre esigenze, può assumere un ruolo di speciale rilevanza la capacità del nostro Paese di dare vita a un “giusto processo al patrimonio”, che divenga un preciso modello di riferimento sulla base del quale dare impulso, da un lato, all’armonizzazione delle legislazioni adottate da numerosi Stati per il contrasto alle diverse forme di criminalità e, dall’altro lato, alla piena circolazione delle misure patrimoniali sia nello spazio giuridico europeo, sia nel contesto internazionale.
Com’è noto, le forme di non-conviction based confiscation solo in epoca recente hanno formato oggetto di disciplina nell’ambito della normativa “eurounitaria”, che in passato aveva già applicato il principio del reciproco riconoscimento alle decisioni giudiziarie della più diversa natura.
Precisamente, il Regolamento (UE) 2018/1805 del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca, dovrebbe applicarsi, secondo il “considerando” n. 13, a tutti i provvedimenti di congelamento e tutti i provvedimenti di confisca emessi “nel quadro di un procedimento in materia penale”, con la precisazione che quello di “procedimento in materia penale” è “un concetto autonomo del diritto dell'Unione interpretato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, ferma restando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo”.
Si tratta di un concetto che comprende tutti i tipi di sequestro e di confisca “emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato” e va sicuramente oltre i confini della Direttiva 2014/42/UE, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, la quale aveva perseguito l’obiettivo della armonizzazione delle legislazioni nazionali in questa materia, limitando però il proprio ambito di operatività al settore penale.
Nel suddetto “considerando” n. 13 viene, infatti, espressamente affermato che il nuovo Regolamento “contempla inoltre altri tipi di provvedimenti emessi in assenza di una condanna definitiva”, e si aggiunge che “benché tali provvedimenti possano non esistere nell'ordinamento giuridico di uno Stato membro, lo Stato membro interessato dovrebbe essere in grado di riconoscere ed eseguire tali provvedimenti emessi da un altro Stato membro”. Per converso, però, si precisa che i provvedimenti di sequestro e confisca “emessi nel quadro di procedimenti in materia civile o amministrativa” dovrebbero essere esclusi dall'ambito di applicazione del Regolamento.
Si è, dunque, in presenza di un persistente problema applicativo a proposito della inclusione nella sfera di operatività del Regolamento delle misure di prevenzione patrimoniali italiane, le quali, al pari di analoghe ipotesi contemplate da altri ordinamenti, da un lato sono qualificabili come provvedimenti “emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato”, ma dall’altro lato, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, restano soggette soltanto ai principi del “processo equo” valevoli per le controversie su diritti ed obbligazioni di carattere civile, di cui all’art. 6, § 1, della CEDU, in quanto sono applicate attraverso una procedura in rem, si sostanziano in forme di regolamentazione dell’uso dei beni in conformità all’interesse generale, e sono quindi riconducibili alla previsione dell’art. 1, § 2, del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU[9].
Per eliminare ogni dubbio sulla inclusione delle misure di prevenzione patrimoniali nell’area di operatività del nuovo regolamento, la soluzione preferibile sembra essere quella di una estensione al relativo procedimento di tutte le garanzie previste dall’art. 6, §§ 1 e 3, della CEDU in rapporto alla materia penale.
Viene così ulteriormente sviluppato l’approccio culturale sotteso all’attività di quella parte della giurisprudenza di merito che, valorizzando lo strumento delle misure di prevenzione patrimoniali, ha circondato il relativo procedimento di una serie di garanzie tale da rendere possibile la circolazione dei provvedimenti di sequestro e di confisca sia nello spazio giuridico europeo, sia nel territorio di paesi posti al di fuori dell’Unione Europea.
Di particolare interesse sono, al riguardo, le già citate sentenze adottate dal Tribunale Penale Federale della Svizzera il 2 giugno 2016, il 21 gennaio 2011 e l’1 dicembre 2010, che hanno accolto le richieste di cooperazione giudiziaria internazionale formulate dall’autorità giudiziaria italiana in relazione a beni situati nel territorio elvetico.
Muovendo dalla premessa che la cooperazione giudiziaria internazionale può essere attivata solo nell'ambito di un procedimento penale, il Tribunale Penale Federale ha affrontato la questione concernente la natura giuridica del procedimento di prevenzione, sul presupposto della non vincolatività esegetica della qualificazione giuridica adottata dal legislatore nazionale.
In questa prospettiva, i giudici svizzeri, hanno ravvisato la sussistenza dei presupposti della mutual legal assistance nell'ambito di ogni procedimento che, sebbene non formalmente penale, sia preordinato all'apertura di un procedimento penale, all'esercizio dell'azione penale o sia comunque collegato ad un procedimento penale.
Sulla scorta di tali argomentazioni, il Tribunale elvetico ha accolto la tesi della natura sostanzialmente penale del procedimento di prevenzione patrimoniale, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ne conferma la piena compatibilità con i principi dell'equo processo e del diritto di difesa, sanciti dall’art. 6 della CEDU.
Dunque i profili garantistici effettivamente applicati, assimilabili a quelli di un procedimento penale in senso stretto, costituiscono elementi inferenziali, per i giudici elvetici, della natura penale del procedimento di prevenzione[10].
Evidentemente, alla base di questa valutazione compiuta dall’autorità giudiziaria estera, vi è stata la capacità della magistratura italiana di costruire un “diritto vivente” del contrasto alle basi patrimoniali della criminalità organizzata connotato in senso ampiamente conforme agli standard internazionali del “processo equo”[11].
Nelle migliori esperienze applicative, infatti, il procedimento di prevenzione patrimoniale ha rivelato una sicura idoneità ad attuare pienamente i principi di efficienza e di garanzia, grazie alla riconosciuta possibilità di utilizzare il complesso dei mezzi di prova tipici del sistema penale (avvalendosi anche di banche dati basate sulla più moderna tecnologia), di concentrare l’accertamento processuale sull’analisi delle dinamiche finanziarie e di accumulazione patrimoniale avvalendosi anche del contributo di esperti provenienti da altre istituzioni (come la Banca d’Italia), di consentire una ampia esplicazione del diritto di difesa, e di fondare la decisione finale su un elevato livello di approfondimento degli aspetti fattuali e giuridici. Si tratta di una linea di pensiero che risale alla teorizzazione del modello delle indagini finanziarie contro la criminalità organizzata da parte di Giovanni Falcone e al suo «forte richiamo allo Stato di diritto ed al rispetto della legalità, proprio nel momento in cui l’accresciuta virulenza del crimine organizzato suscita suggestioni crescenti di interventi autoritari e di leggi eccezionali»[12].
I risultati concreti di questa costruzione giurisprudenziale meritano adesso di essere cristallizzati in una appropriata regolamentazione legislativa, la cui necessità appare sempre più evidente nello scenario aperto dalla sentenza de Tommaso della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo[13], che, nel ribadire l’esigenza della previsione legislativa delle misure di prevenzione, ha posto in evidenza il profilo della qualità della legge, nel duplice senso della accessibilità del testo normativo per gli interessati e della prevedibilità dei suoi effetti.
Nel prendere in esame le conseguenze “sistemiche” della suddetta pronuncia sul piano del diritto interno, la Corte Costituzionale[14] ha tracciato una rilevante distinzione tra il concetto di tassatività sostanziale - attinente al rispetto del principio di legalità sulla base degli artt. 41 e 42 Cost., nonché dell’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU, ed inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova - e il concetto di tassatività processuale.
Quest’ultimo concetto, secondo il Giudice delle leggi, attiene alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali sono comunque dotati di «fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione».
Il ruolo del principio di tassatività processuale in questa materia è rimasto finora quasi del tutto inesplorato; esso però sembra sicuramente destinato a crescere in un prossimo futuro, anche per la sua connessione con la garanzia della certezza del diritto affermata dalla Corte europea come requisito implicito essenziale del “processo equo”.
La tassatività processuale forma quindi oggetto di un preciso obbligo di matrice costituzionale e convenzionale, che grava non solo sul legislatore ma anche sull’interprete, riferendosi agli standard qualitativi – in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – di una nozione di legalità che include in sé, oltre al materiale normativo, anche il formante giurisprudenziale.
A fronte di quest’obbligo, la disciplina contenuta nel Codice antimafia appare ancora assai carente, risolvendosi in una regolamentazione vistosamente sommaria e antiquata di una materia di estrema rilevanza e attualità. Le norme dedicate dal Codice antimafia al procedimento di prevenzione patrimoniale sono, per molti aspetti, così scarne da rendere possibili prassi applicative del tutto diverse tra loro, e per nulla prevedibili dai soggetti interessati.
Emerge quindi con chiarezza la necessità della costruzione di un “giusto procedimento di prevenzione” con una riforma legislativa che riempia i vastissimi “spazi interstiziali” lasciati vuoti dalla lacunosa disciplina attualmente contenuta nel Codice antimafia, implementando in modo efficace tutte le garanzie processuali previste dall’art. 6, § 3, della CEDU in rapporto alla materia penale: si tratta di un passaggio che assume una valenza decisiva sia per assicurare il rispetto dei principi costituzionali e convenzionali, sia per internazionalizzare le strategie di contrasto alle basi economiche delle organizzazioni criminali[15].
3. Un nuovo calcio d’inizio per la partita U.E. sulla confisca: la proposta di una nuova direttiva
Nell’ambito delle iniziative adottate sul piano sovranazionale per incrementare le potenzialità dello strumento della confisca di prevenzione ai fini del contrasto alla criminalità organizzata, merita specifica considerazione la proposta di direttiva riguardante il recupero e la confisca dei beni adottata a Bruxelles il 25 maggio del 2022 dal Parlamento e dal Consiglio.
Sin dalle prime battute, le istituzioni dell’U.E. sottolineano quanto lo strumento della confisca sia essenziale per garantire la sicurezza all’interno dell’Unione. Attraverso un riferimento esplicito alla Strategia dell’U.E. per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025[16], si pone il focus sulla necessità di colpire il profitto economico, scopo principale delle reti della criminalità organizzata. In questa prospettiva, introdurre disposizioni normative a ulteriore presidio delle operazioni di confisca e recupero dei beni si pone come una priorità dell’Unione per conseguire l’obiettivo che «il crimine non paghi»[17].
Un nuovo atto normativo in materia si è reso per di più necessario all’indomani dello scoppio del conflitto russo-ucraino. Misure restrittive che colpiscono il patrimonio – sotto forma di congelamenti di beni, restrizioni all’ammissione, clausole anti-elusione – sono state irrogate nei confronti di Russia e Bielorussia, sulla scorta di quanto già disposto nel 2014 in risposta all’annessione illegale di Crimea e Sebastopoli.
Sul piano internazionale, la proposta di direttiva è sinergica rispetto ad alcune misure adottate su scala mondiale. In particolare, si pone in linea con le Convenzioni ONU sulla criminalità organizzata e i relativi protocolli, la Convenzione ONU contro la corruzione, la Convenzione di Varsavia del Consiglio d’Europa e la raccomandazione n. 4 del GAFI, il Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale: il cuore normativo di tali atti è l’imposizione agli Stati parte di introdurre provvedimenti atti a congelare e confiscare I beni che risultino connessi ad attività criminali.
L’art. 83 TFUE costituisce la base giuridica della direttiva in oggetto: esso è uno dei fulcri della cooperazione giudiziaria in materia penale e include la criminalità organizzata nel novero delle «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale». Insieme con l’art. 83, anche gli art. 82 e 87 contribuiscono a delineare la base giuridica delle nuove misure, rispettivamente per i meccanismi di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale e per la cooperazione transfrontaliera in materia di indagini.
Di facile deduzione risultano la necessarietà e l’opportunità dell’intervento U.E. in tema di contrasto alla criminalità organizzata: il rispetto del principio di sussidiarietà si evince per tabulas dalla pervasività del fenomeno e dalla fatica che i singoli Stati membri incontrano nel combatterla motu proprio e, in questa direzione, l’introduzione di una norma minima comune si impone in ossequio al principio di proporzionalità.
La direttiva in commento accorpa in un unico atto la decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, la decisione del Consiglio relativa agli uffici per il recupero dei beni e la direttiva relativa alla confisca, stabilendo norme comuni per il reperimento e l'identificazione, il congelamento, la gestione e la confisca dei beni. La scelta di procedere alla riunione in un’unica direttiva di più atti normativi vigenti va oltre mere esigenze di drafting e si mostra maggiormente idonea a perseguire la realizzazione dello scopo principale attraverso una strategia più efficace anche sul piano normativo. La scelta della direttiva, fondata sulle basi giuridiche predette, assegna agli Stati un margine di manovra rilevante nell’individuazione, attraverso gli atti normativi di recepimento, delle linee di azione realizzative degli scopi fissati dall’Unione.
Misure restrittive della capacità patrimoniale del soggetto, come quelle attualmente in discussione, chiamano in gioco numerosi diritti fondamentali. La proposta di direttiva contiene un rimando esplicito al rispetto di questi ultimi, per come previsto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., e segnatamente a quella clausola, contenuta nell’art. 52, che pone in stretta connessione principio di proporzionalità e finalità legittima di realizzare obiettivi di interesse generale dell’U.E. e salvaguardia dei diritti e delle libertà di tutti.
L'ingerenza delle misure proposte nei diritti fondamentali (compresi segnatamente i diritti di proprietà) è giustificata dalla necessità di privare efficacemente i criminali e in particolare la criminalità organizzata dei loro beni illeciti, in quanto questi rappresentano sia la principale ragione che li induce a commettere reati, sia i mezzi per proseguire ed espandere le loro attività criminose. Le misure proposte sono limitate a quanto necessario per conseguire tale obiettivo. Il nuovo modello di confisca introdotto è giustificato dalle difficoltà intrinseche nel ricondurre i beni a specifici reati nei casi in cui il proprietario è coinvolto in attività della criminalità organizzata che consistono in molteplici reati commessi lungo un arco di tempo prolungato. Infine, il rispetto dei diritti fondamentali sarà assicurato mediante garanzie che comprendono efficaci mezzi di ricorso a disposizione dell'interessato per tutte le misure previste nella direttiva proposta, comprese le nuove prescrizioni riguardanti le vendite pre-confisca o il nuovo modello di confisca.
Non va tralasciata, da ultimo, l’attività di stakeholders engagement avviata in fase di redazione della proposta di direttiva. Law Enforcement Agencies, soggetti privati, enti territoriali, università, organizzazioni non-governative, organizzazioni internazionali, istituzioni europee, centri di ricerca sono stati opportunamente consultati per individuare le misure normative più opportune alla luce degli interessi concretamente presenti nella realtà fattuale.
Monitorando l’iter di formazione dell’atto legislativo, si osserva che il 22 maggio 2023 la Presidenza del Consiglio U.E. ha trasmesso al Comitato dei Rappresentanti permanenti e al Consiglio un general approach relativo alla proposta della Commissione[18]. Si tratta di uno strumento attraverso cui l’istituzione U.E. si preoccupa di fornire agli Stati membri indicazioni circa il recepimento della Direttiva che verrà, in particolare per quel che concerne le operazioni di individuazione dei beni, che saranno organizzate secondo le regole degli ordinamenti interni, e che si dovranno svolgere in sinergia con i recovery offices. È meritevole di attenzione il riferimento al trattamento dei dati, il cui accesso diretto e immediato dovrà essere garantito, con speciale riferimento alle categorie di dati sensibili, quali i dati fiscali e i dati nazionali di sicurezza sociale: per quanto concerne tali categorie, gli Stati membri dovranno garantire ai recovery offices «un accesso rapido in conformità al diritto nazionale e nella misura in cui ciò sia necessario al fine del rintracciamento e dell’identificazione di proventi, strumenti e proprietà»[19].
L’interesse delle istituzioni U.E. nei confronti dei problemi oggetto della direttiva è pressante. Nella seduta dell’8 e 9 giugno 2023, il Consiglio ha avuto modo di adottare alcune posizioni comuni, prodromiche alla negoziazione con il Parlamento europeo nel contesto della procedura legislativa ordinaria, relative a temi cui esso assegna una rilevante priorità nelle sue strategies: tra questi, appunto la lotta alla criminalità organizzata, che l’istituzione intende rafforzare nel rispetto della tutela dei diritti fondamentali[20].
4. NCB, istruzioni per l’uso: il documento ECCD del Consiglio d’Europa
Nell’aprile del 2021, il Consiglio d’Europa, attraverso l’Economic Crime and Cooperation Division (di seguito: ECCD), ha ribadito quanto lo strumento della NCB possa essere decisivo per la lotta alla criminalità organizzata e, in un paper, ha consegnato alla comunità della c.d. “Grande Europa” alcune “istruzioni per l’uso” riferite a tale strumento[21]. Come noto, il tema non è nuovo per il Consiglio d’Europa, che vi ha profuso la sua attenzione anche sul piano normativo, introducendo, nel 1990, la Convention on Laundering, Search, Seizure and Confiscation of the Proceeds from Crime[22], in cui la confisca è definita «following proceedings in relation to a criminal offence or criminal offences resulting in the final deprivation of property». Sul piano delle fonti del diritto internazionale convenzionale, tra quelle che maggiormente disciplinano l’oggetto in questione, è opportune fare riferimento alla Convenzione ONU di Palermo, alla Convenzione di Vienna e alla Convenzione di Merida[23].
La lettura del paper del 2021 aiuta a rinvenire la genesi della NCB sul terreno anglosassone. A tal proposito, è riportato un passo assai significativo di uno speech parlamentare di Lord Goldsmith:
Someone at the centre of a criminal organisation may succeed in distancing himself sufficiently from the criminal acts themselves so that there is not sufficient evidence to demonstrate actual criminal participation on his part. Witnesses may decline to come forward because they feel intimidated. Alternatively, there may be strong evidence that the luxury house … the yachts and the fast motor cars have not been acquired by any lawful activity because none is apparent. It may also be plain from intelligence that the person is someone engaged in criminal activity, but it may not be clear what type of crime. It could be drug trafficking, money laundering or bank robbery. However, the prosecution may not be able to say exactly what is the crime, and thus the person will be entitled to be acquitted of each and every offence. If, in a criminal trial, the prosecution cannot prove that the person before the court is in fact guilty of this bank robbery or that act of money laundering, then he is entitled to be acquitted. Yet it is as plain as a pikestaff that his money has been acquired as the proceeds of crime[24].
L’ECCD compie un’interessante rassegna della confisca in vari ordinamenti - non solo degli Stati parte del Consiglio d’Europa - volta a dimostrare come lo strumento della NCB si sia inverato in modi differenti nelle esperienze dei singoli Stati e come, in alcuni Paesi, la cattura dei proventi illeciti non sia condotta in alcun modo. Degno di nota è il riferimento all’ordinamento italiano e alle previsioni del codice antimafia. Sul punto della definizione della pericolosità generica, non appare corretto il riferimento all’art. 1 del Codice antimafia, in particolare ove si afferma che il carattere di detta pericolosità è da provarsi in relazione alle stesse regole che presiedono la prova nel processo penale. Il tratto distintivo della NCB che si ricava dall’analisi dei vari modelli presentati è da rinvenirsi in una base probatoria solida su cui fondare lo strumento e nella remissione della valutazione in capo all’applicazione della confisca a un tribunale specializzato o a un giudice anziano.
Centrale è altresì l’analisi dei benefits e challenges compiuta dall’ECCD.
Il piano delle sfide è dominato dai rischi connessi al mancato presidio delle garanzie processuali penali. Applicare una NCB significa incidere in modo massiccio nell’ambito dei diritti fondamentali della persona, che viene spogliata dei suoi beni, senza che tale procedimento sia garantito dalle regole del processo penale. In particolare, non dovrebbero essere sottovalutati lo stress e lo stato di incertezza giuridica arrecati al preposto. Un pregiudizio serio si misura in relazione all’ambito della civic constitutional culture e all’impatto che un procedimento di prevenzione potrebbe avere sul cittadino. Un soggetto cui è applicata la misura della confisca – che comporta un depauperamento della sua capacità patrimoniale – potrebbe erroneamente credere di essere coinvolto in un procedimento penale, a motivo della rilevanza delle accuse a suo carico.
Da un lato, a ben vedere, la confisca dei beni acquisiti illegalmente - che pure colpisce le proprietà e non la persona - ha effetti che si avvicinano nella percezione sociale a quelli dei procedimenti penali. Dall’altro, una puntuale informazione dei soggetti coinvolti è resa necessaria dall’assenza di connessione automatica tra sequestro dei beni e comportamento illecito del loro detentore, laddove la proprietà confiscata sia passata nelle mani di terzi, i quali non siano direttamente responsabili di comportamenti di rilevanza penale. Questi ultimi devono in ogni momento poter esercitare il loro diritto alla conoscenza della natura dei procedimenti in corso ed essere in grado di opporvisi.
Un’ulteriore criticità collegata alla NCB risiede nella debolezza dell’onere della prova e nel conseguente rischio che la sanzione comminata risulti sproporzionata rispetto all’entità delle situazioni contestabili sulla base delle prove fornite. La relativa facilità con cui è possibile accedere a misure gravemente penalizzanti sul piano patrimoniale potrebbe incoraggiare le autorità giudiziarie a servirsi di preferenza della via civile, anziché della via penale, come strumento di sanzione dell’illecito. Strategie di questo tipo, emerse per esempio nel Regno Unito (nell’ambito della causa Regina vs. Innospec Limited), hanno suscitato i rilievi critici degli osservatori, colpiti dalle potenzialità delegittimanti che, agli occhi dell’opinione pubblica, può avere la scelta di perseguire comportamenti criminali gravi - in quel caso, la corruzione di pubblici ufficiali - con dei mezzi civili, i quali del resto, non prevedendo misure di custodia, rischiano di essere inefficaci nel disincentivare dai reati contestati.
Garanzie per i soggetti coinvolti e uso non arbitrario sono, insomma, le condizioni necessarie di un efficace esercizio della NCB, che non può servire come un surrogato del processo penale laddove questo sia possibile e opportuno, ma si rivela efficace nella misura in cui, venuta meno la possibilità di perseguire penalmente i presunti criminali, permette di danneggiarli concretamente sul piano economico.
5. Notazioni conclusive
Nell’analisi svolta si è cercato di far emergere quanto sdrucciolevole sia il terreno, sostanziale e processuale, della prevenzione patrimoniale. Nata come strumento potente della lotta contro la criminalità organizzata, essa sconta alcune lacune vistose sul piano della fairness procedimentale, a cominciare dallo scarso inveramento del principio di tassatività processuale. L’introduzione di maggiori e più adeguati presidi nell’ambito procedimentale è postulata con forza dalla delicatezza degli interessi coinvolti nel procedimento di prevenzione patrimoniale: da un lato, l’interesse dello Stato a emettere provvedimenti ablativi del patrimonio che colpiscano al cuore nuclei criminogenetici; dall’altro, l’interesse del singolo a confidare su regole formulate in modo chiaro e prevedibile, che siano in linea con gli standard sovranazionali. Appunto in questa direzione, volgendo lo sguardo al panorama sovranazionale, si ha come la percezione di uno iato esistente tra la prescrizione - o, in ogni caso, l’indicazione - da parte di istituzioni dell’U.E., da un lato, e di organi internazionali, dall’altro, di soglie di legalità atte a garantire il cittadino nei procedimenti di prevenzione e l’ubi consistam delle misure di prevenzione patrimoniale sul terreno dei singoli ordinamenti nazionali.
In questa prospettiva, il caso italiano mostra dei tratti emblematici, a cominciare dalla vexata quaestio inerente la natura penale dell’intero sistema processuale della prevenzione. Trattasi di una discussione che si connota a tratti come stantia e poco aggiornata: copiosa giurisprudenza di merito, di legittimità e costituzionale italiana, che si rifà anche a precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, argomenta la natura civile-amministrativa del procedimento di prevenzione basandosi su precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo[25] che trovano la loro origine in un momento storico in cui l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali era effettuata congiuntamente a quella delle misure di prevenzione personali. Sinora, però, non è rintracciabile un precedente in cui la Corte europea abbia scrutinato la questione della natura della confisca di prevenzione - misura patrimoniale - applicata disgiuntamente dalle misure personali.
Nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, le carenze applicative del principio di tassatività processuale rendono evidente la “frode delle etichette”[26]: la scarsità delle garanzie non aiuta di certo a costruire il rispetto delle regole del giusto processo in un procedimento che, appunto in quanto autonomo rispetto al procedimento penale, esige un intervento chirurgico dello Stato nella costruzione dei suoi presidi. Il recupero della vera natura del procedimento di prevenzione patrimoniale passa anche attraverso la costruzione di un giusto procedimento della prevenzione.
*Lo scritto riprende, con alcune modifiche, il contributo destinato a Galileu – Rivista di Diritto ed Economia del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Autonoma di Lisbona.
[1]Sebbene frutto di una riflessione congiunta dei due autori, i paragrafi 1 e 2 sono stati scritti da Antonio Balsamo, mentre i paragrafi 3, 4 e 5 da Alessia Fusco.
[2] Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 maggio 2015, Gogitidze e altri c. Georgia.
[3] Luparia, Contrasto alla criminalità economica e ruolo del processo penale: orizzonti comparativi e vedute nazionali, in Processo penale e giustizia, 2015, n. 5, 5.
[4] Palazzo, Diritti, pena e…Antigone, in disCrimen, 2020.
[5] Falcone - Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, in AA.VV., Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, Quaderni del CSM, Roma, 1983, 46.
[6] Balsamo, La prevenzione ante-delictum, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di Kostoris-Orlandi, Giappichelli, 2006.
[7] Cfr. la lettera dei Ministri degli Esteri, dell’Interno e della Giustizia, "Su quali gambe cammineranno le idee di Falcone", in Corriere della Sera, 13 dicembre 2020.
[8] V. ad esempio Ribaudo, L’Onu vota la «risoluzione Falcone». Il metodo del giudice ispirerà la lotta alle mafie del mondo, in www.corriere.it, 17 ottobre 2020; Mafie, ok a Vienna a "risoluzione Falcone". La sorella Maria: "Grande traguardo", in www.repubblica.it , 17 ottobre 2020.
[9] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia; 15 giugno 1999, Prisco c. Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri c. Italia. Con riguardo alle forme di forfeiture previste nell’ordinamento inglese rispettivamente dal Drug Trafficking Act 1994 e dal Criminal Justice (International Co-operation) Act 1990, v. Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 giugno 2002, Butler c. Regno Unito, e 10 febbraio 2004, Webb c. Regno Unito, che le qualificano come misure preventive non assimilabili a sanzioni penali, in quanto finalizzate a togliere dalla circolazione denaro presumibilmente connesso al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, all’esito di un procedimento che non implica una decisione su un’accusa penale.
[10] In proposito, si rinvia a Balsamo – Luparello, La controversa natura delle misure di prevenzione patrimoniali, in Le misure di prevenzione, a cura di Furfaro, Utet, 2013.
[11] Sull’argomento si rinvia a Balsamo – Recchione, Mafie al Nord. L'interpretazione dell'art. 416 bis c.p. e l'efficacia degli strumenti di contrasto, in www.penalecontemporaneo.it, 18 ottobre 2013.
[12] Falcone, La lotta alla mafia - perché si vince coi giudici, in La Stampa, 6 novembre 1991.
[13] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, su cui v. i commenti di Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, in www.penalecontemporaneo.it, 3 marzo 2017; Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità̀ generica: la Corte Europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità̀ della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in www.penalecontemporaneo.it, 6 marzo 2017, 13 ss.; Menditto, La sentenza De Tommaso c. Italia: verso la piena modernizzazione e la compatibilità̀ convenzionale del sistema della prevenzione, in www.penalecontemporaneo.it, 26 aprile 2017.
[14] C. cost., 24 gennaio 2019, n. 24.
[15] In proposito, si rinvia a Balsamo, Le misure di prevenzione patrimoniali. profili processuali, in La legislazione antimafia, a cura di Mezzetti - Luparia, Zanichelli, 2020.
[16] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52021DC0170.
[17] Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Recupero e confisca dei beni: garantire che "il crimine non paghi" (COM(2020) 217 final del 2.6.2020.
[18] Disponibile all’URL https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9314-2023-INIT/en/pdf.
[19] Ibidem, § 17 (trad. nostra).
[20] Così il Ministro della Giustizia svedese, Gunnar Strömmer: «Combatting organised crime is a top priority for the Swedish presidency. The important decisions made today will improve the capability of law enforcement to fight organised crime, at the same time respecting fundamental human rights. This will strengthen the freedom and security of all citizens in the EU member states» (cfr. https://www.consilium.europa.eu/en/meetings/jha/2023/06/08-09/).
[21]https://www.coe.int/en/web/corruption/-/eccd-publishes-a-paper-on-the-use-of-non-conviction-based-seizure-and-confiscation.
[22] Council of Europe Convention on Laundering, Search, Seizure and Confiscation of the Proceeds from Crime (ETS No.141), Article 1(d).
[23] Un esame dei profili convenzionali sul tema è compiuto da Balsamo, Le misure patrimoniali tra armonizzazione e cooperazione giudiziaria internazionale, in Balsamo-Mattarella-Tartaglia, La Convenzione di Palermo: il future della lotta alla criminalità organizzata transnazionale, Giappichelli 2020, 257 ss.
[24] House of Lords Debate 25 June 2002, vol 636, cols 1270-71, per Lord Goldsmith.
[25] CtEDU Raimondo c. Italia, Prisco c. Italia e Bongiorno c. Italia.
[26] Già denunciata, ad esempio, nei confronti dell’ordinamento italiano, dal giudice portoghese Paulo Pinto de Albuquerque nella sua opinione dissenziente in CtEDU, De Tommaso c. Italia. Attesa la natura di «incubatrice dell’indirizzo giurisprudenziale di domani» (l’espressione, del Presidente della Corte suprema federale Earl Warren, è riportata da P. Barile, Risposta a Per un miglioramento della comprensione e della funzionalità della giustizia costituzionale, in Democrazia e diritto, 1963, 509) posseduto dalle opinioni dissenzienti e, in generale, separate, non sorprenderebbe se il contenuto argomentativo dell’opinione del giudice Pinto potesse essere ripreso in un nuovo arresto della Corte europea sul punto.
(Immagine: Victor Dubreuil, Take One, olio su tela, circa 1886)
di Paolo Mancuso
In cosa risiede la legittimazione della delega che i componenti di una comunità affidano ai loro magistrati per giudicare ed essere giudicati? Le risposte che nella storia del diritto sono state date a questa domanda sono state tante, ma la prevalente, e più convincente consiste nella pretesa che essi garantiscano i loro diritti ed amministrino i loro interessi secundum ius, con impegno, professionalità ed imparzialità, cioè senza pre-giudizio dettato da posizioni o convincimenti personali o di parte.
Di qui nasce la domanda: ma un giudice per essere imparziale, cioè per rispondere correttamente a quella delega, deve anche apparire imparziale? E soprattutto: qual è il limite di una condotta da non superare per garantire l’immagine di imparzialità?
Sappiamo tutti che il giudice della turris eburnea, il giudice di Montesquieu, è figura immaginaria, non esistente in natura. Se hai un figlio licenziato per giusta causa, sarai un buon (i.e. imparziale) giudice del lavoro? Se una tua amica ha subito una condotta violenta, lo sarai per un codice rosso? Se sei in lite con il tuo condominio, lo sarai in un analogo procedimento civile? E gli esempi possono essere innumerevoli. Ma, cambiando registro: se sei orientato politicamente (leggi con continuità ad esempio, la Repubblica o il Foglio); se fai parte di un’associazione di volontariato per l’assistenza ai senza tetto, o ai detenuti, o ai migranti? Se scrivi articoli sui diritti delle persone LGBTQ? Se eri nel milione di persone che ha manifestato con Cofferati contro l’attacco allo Statuto dei lavoratori al Circo Massimo, ormai lontano nel tempo? Sarai un buon giudice? Risponderai a quella pretesa della tua comunità che è alla base della terribile delega che ti è stata affidata?
Ovviamente, quello che viene fuori a questo punto è la domanda delle domande: qual è il modello di giudice ideale? Pensare che esista una risposta a questa domanda è irreale. Tuttavia, di là da quanto prevedono norme disciplinare ormai (più o meno!) codificate, si può tentare di dare una risposta ad una domanda diversa, ragionando per inversione. Quale giudice non vorremmo incontrare, come nostro giudice? È forse il caso di ricordare che il Ministro della Giustizia del Partito Liberale prof Vincenzo Arangio Ruiz, noto grandissimo giurista napoletano, abolì nel 1944 (Governo Badoglio) il divieto (introdotto dal Governo Mussolini) per i magistrati di partecipare alla vita politica, e addirittura abolì il divieto di essere iscritto a partiti politici, osservando che essendo impossibile che un magistrato non abbia idee politiche è preferibile conoscerle.
Impossibile non avere idee politiche? Forse non proprio: c’è davvero chi è convinto di non averle, o almeno di averne poche, confuse e irrilevanti. Sarà un buon giudice, costui? Cosa sarebbe la società italiana, cosa la nostra giurisprudenza, cosa lo stesso mondo del diritto se non avessimo avuto figure di ‘rottura’ di orientamenti consolidati quali i pretori che contrastarono i monopoli dei petrolieri? O altri monopoli, quelli dell’informazione? O che protessero lo stesso nostro ambiente prima di qualsiasi legislazione (procedendo ad esempio contro gli inquinatori delle acque utilizzando la legge sulla pesca)? O che elaborarono una giurisprudenza in materia di sicurezza sul lavoro alla fine tradotta in normativa? E si potrebbe continuare fino ai giorni nostri, sul fine vita, sulla procreazione assistita e, e, e. La verità è che solo la progressiva espansione di una sensibilità ai valori della nostra Costituzione ha consentito, ad una magistratura che andava sempre più abbandonando l’ingannevole mito del giudice indifferente, di spezzare pigre prassi consolidate, paludi mefitiche, e di dare un senso al valore tanto mitizzato, e tanto ingannevole se declinato in astratto, della propria indipendenza.
Perché cos’altro è l’indipendenza se non la capacità di decidere senza aspettative, senza timori, senza pregiudizi, ma avendo ben presente che ogni decisione deve rispettare una scala di valori che è scritta nella pietra su cui ogni magistrato ha giurato. E se ritiene che un Governo che stabilisce un prezzo alla libertà personale stia violando i valori della Costituzione (e che il contrasto con la normativa europea lo consenta), semplicemente disapplica il decreto che impone quel prezzo. Ed è facile prevedere che se davvero in manovra finanziaria verrà introdotta la tassa di 2.000 € per gli stranieri che vogliano usufruire del SSN, ci sarà un giudice in Italia che disapplicherà anche questo. E quel giudice, se ritiene che il cd. decreto Cutro consenta l’espulsione di stranieri senza valutarne l’inserimento familiare nel nostro Paese, disapplica il decreto Cutro (Cass., I Sez civ., 10/7/2023, ric. 27304). Ora dobbiamo aspettarci che anche il Presidente Abete, che ha emesso questa decisione, venga sottoposto ad un vero e proprio dossieraggio, come la malcapitata collega Apostolico? E gli contesteranno il colore dei calzini (anche questo è avvenuto, Berlusconi governante) o andranno a spulciare qualche sua dichiarazione di critica al Governo?
Perché alla fine oggi è sull’immigrazione che si scarica l’ansia di prestazione del Governo: inadeguato a comprendere la portata storica del fenomeno, incapace di trovare una risposta che garantisca i diritti dei migranti e la sicurezza dei cittadini, indifferente rispetto alla sofferenza di donne, minori, malati, in fuga da miseria, malattie, fame e guerre, mosso unicamente da un’urgenza securitaria che gli garantisca consenso e potere, reagisce producendo normative affrettate e tecnicamente inadeguate, gravemente lesive dei diritti di umanità, ma anche della normativa europea e soprattutto della nostra Costituzione.
Oggi è qui, su questa materia, che la magistratura è chiamata a esercitare, e non solo declamare, la propria indipendenza. Che è, ovviamente e prima di tutto, indipendenza dal potere ed affermazione della legge (che, diceva un nostro filosofo, è il potere dei senza potere). E i dossieraggi, e le fotografie, e il coinvolgimento di familiari in vicende del tutto lontane ed irrilevanti potranno restare ininfluenti e non scalfire il senso di autonomia che quel giudice manifesta solo se l’intera categoria respingerà come odiose, vili ed intimidatorie tali manovre. Manovre che hanno un unico vero obiettivo: costringere al silenzio ogni manifestazione di dissenso rispetto al sacrificio dei valori che in questo momento sono in gioco: consapevoli tutti che una magistratura silente, conformista ed intimidita al suo interno, ma mitizzata e premiata all’esterno, sarà proprio quel cane da guardia del potere in cui dovrebbe realizzarsi, secondo alcuni, il corretto rapporto fra politica e giurisdizione.
Ma il gioco è vecchio; è scoperto; questo tavolo la magistratura (guidata dalla sua parte migliore e più consapevole) lo ha rovesciato da tempo. Nessuno provi a rimetterlo in piedi.
di Chiara Polini
Sommario: 1. Fatti all’origine della controversia e prime osservazioni 2. L’integrazione delle attività come obiettivo prioritario del PIAO 3. Ulteriori obiettivi apprezzabili alla luce della disciplina sul PIAO 4. Sintesi conclusiva: individuazione di alcuni aspetti di metodo utili per la redazione di un PIAO “modello”.
1. Fatti all’origine della controversia e prime osservazioni
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di approfondire i contenuti di una recente pronuncia del giudice contabile (in particolare, Corte dei conti, Sez. cont., Sicilia, 15 febbraio 2023, n. 48) che, per la prima volta, si diffonde sul PIAO (Piano integrato di attività e organizzazione) come atto idoneo a configurarsi (come rileva il medesimo giudice) «quale documento unico finalizzato a compendiare, in una logica organica e coordinata, i molteplici contenuti ad esso assegnati»[1].
Merita subito evidenziare che, a differenza di quanto accaduto in altre pronunce in materia, solo in quella oggetto del presente commento si va oltre il semplice richiamo al PIAO[2].
Prima di trattarne più approfonditamente, merita ricordare che il PIAO è stato introdotto nel nostro ordinamento con il d.l. n. 80 del 2021, al fine di rafforzare la «capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni[3]» per poter attuare il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza)[4].
In base alla disciplina positiva che lo regola, anziché redigere separatamente una molteplicità di piani autonomi, come ad esempio il piano triennale dei fabbisogni di personale, il piano anticorruzione e trasparenza, il piano per le azioni positive e quello organizzativo del lavoro agile, viene predisposto tramite questo nuovo strumento un unico atto nel quale confluiscono alcuni piani, tra cui quello dei fabbisogni di personale menzionato[5]; a ciascuno di essi corrisponde attualmente una Sezione (o Sottosezione) in cui il PIAO è articolato.
Nonostante la disciplina del 2021 si diffonda sugli aspetti relativi al contenuto e alle modalità con cui deve essere redatto, la stessa non risulta essere esaustiva. Infatti, l’assetto delineato in astratto potrebbe in concreto assumere svariate configurazioni ed in tal senso risulta emblematica proprio la pronuncia oggetto di disamina.
In quest’ultima, a rivolgersi al giudice contabile erano il Comune di Lampedusa e di Linosa.
Essi in particolare chiedevano all’organo giurisdizionale come collegare il proprio PIAO con un procedimento attivato successivamente all’approvazione dello stesso e riguardante l’assunzione di personale con contratto di lavoro flessibile. Ed in effetti, nella disciplina relativa al PIAO la programmazione costituisce un presupposto fondamentale per la redazione della sottosezione 3.3 concernente i fabbisogni di personale[6]. Più in particolare, il dubbio riguardava la possibilità di procedere alternativamente all’aggiornamento della sola sottosezione predetta[7], lasciando immutate le altre, ovvero se fosse necessario approvare un nuovo PIAO al fine di tener conto degli eventuali effetti prodotti anche sulle altre sezioni.
Alla prima ipotesi indicata è sottesa una concezione del PIAO come strumento di semplice sovrapposizione di piani che non sono tra loro coordinati e non si integrano vicendevolmente. Una condizione, questa, che legittima la modificazione di singole sezioni senza procedere ad alcun riesame complessivo. Evidentemente si tratta di un’idea che riduce sensibilmente la portata innovativa del PIAO, poiché ricalca nella sostanza l’assetto previgente dei piani separati, con la sola differenza che gli stessi vengono inseriti all’interno di un documento unico.
Se passasse questa linea di pensiero si andrebbe fatalmente a verificare quella problematica già adombrata dal Consiglio di Stato, secondo cui: piuttosto che semplificare e migliorare l’azione si sarebbe creato un altro layer of bureaucracy[8].
Se fosse così sarebbe allora preferibile, anziché introdurre uno strumento unitario, lasciare i piani separati, evitando di dar luogo ad un nuovo adempimento a carico dell’amministrazione.
Prospettate le due possibili opzioni, la Corte dei conti ha ritenuto di prediligere quella che si ritiene più fedele allo spirito innovativo del PIAO, ossia che impone il riesame complessivo a fronte di ogni modifica subita dallo stesso, precludendo ad aggiornamenti di singole sezioni che non tengano conto del contesto generale in cui vengono inserite.
Nel prosieguo si preciseranno le ragioni a fondamento della correttezza di tale impostazione.
2. L’integrazione delle attività come obiettivo prioritario del PIAO
Come anticipato; la decisione a cui è approdata la Corte dei conti si fonda su una concezione del PIAO che si caratterizza per il necessario coordinamento tra i piani assorbiti in esso, dunque tra le Sezioni e Sottosezioni in cui si articola[9]. Certo, da ciò non deriva che si debbano sempre rettificare le restanti parti, ma quantomeno occorre una verifica in tal senso.
Ora, anche in ragione dei «criteri» contenuti nel successivo D.M. n. 132 del 2022, di attuazione del PIAO, la decisione assunta dal giudice contabile risulta essere quella più conforme non solo allo spirito della norma ma anche alla sua lettera.
Infatti, secondo il giudice «una approvazione per “stralci”» del PIAO, vale a dire «una sua non meglio precisata “formazione progressiva”», non sarebbe in sintonia con la disciplina positiva indicata. Ciò trova conferma nell’incipit dell’Allegato al D.M. 132 già menzionato, in cui si specifica che «il presupposto logico dell’intero sistema delineato dal PIAO consiste nel coordinamento delle diverse sezioni in cui è articolato»; coordinamento che evidentemente non potrebbe configurarsi qualora si modificasse una singola sezione del piano.
Da questa esigenza di coordinamento consegue quasi come suo naturale corollario, la centralità dell’aspetto relativo alla ricerca di forme di integrazione tra le varie Sezioni che il PIAO reca con sé al fine del miglioramento dell’azione amministrativa; e la pronuncia presa in esame merita apprezzamento proprio per questo, poiché coglie pienamente il profilo innovativo alla base del PIAO[10].
L’individuazione di opportuni momenti di sintesi tra le diverse attività amministrative comporta un naturale innalzamento dei livelli di qualità dell’azione amministrativa. Meritano in tal senso di essere ricordati alcuni peculiari obiettivi cui il PIAO è preordinato e fra questi: «assicurare la qualità e la trasparenza dell’attività amministrativa e migliorare la qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese» procedendo «alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi[11]».
Più in generale è attraverso questo strumento di integrazione che si rafforza la “capacità amministrativa” delle P.A. anticipata in apertura finalizzata anche all’attuazione del PNRR.
Dunque, il fatto di far confluire piani (prima separati) nelle diverse Sezioni e Sottosezioni del PIAO sembra poter rappresentare un nuovo metodo di integrazione tra attività. Se si approdasse ad una valutazione diversa e per così dire “più conservatrice”, sarebbe complesso cogliere elementi di innovazione utili a giustificare l’introduzione di questo nuovo istituto. A quel punto l’unica reale novità rispetto ai contenuti dei piani previgenti (e assorbiti dal PIAO) sarebbe forse esclusivamente riferibile a due obiettivi nuovi di cui il PIAO si deve comunque occupare, vale a dire: «piena accessibilità, fisica e digitale, alle amministrazioni da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilità[12]», che costituisce a ben vedere un’originale declinazione dell’ampia nozione di valore pubblico previgente,[13] nonché l’individuazione dell’«elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare[14]».
Partendo da questa visione innovativa, fine prioritario del PIAO non è di ridurre il volume di attività che le P.A. devono svolgere, bensì di ricercare integrazioni utili ad innalzare la qualità dell’azione amministrativa. Deve trattarsi - in ogni caso - di integrazioni che siano in grado di apportare un miglioramento sulla qualità dei servizi offerti alla comunità di riferimento. Ne deriva che non ogni attività prevista nel PIAO debba integrarsi con un’altra, con la sola eccezione costituita dalle attività di monitoraggio che per loro natura si rapportano con le altre, trattandosi di strumenti di controllo sull’attuazione delle misure previste in astratto nel piano. Il monitoraggio è infatti per definizione un’attività trasversale a tutte le attività indicate nel PIAO.
Nonostante la centralità dell’aspetto riguardante l’integrazione, la normativa fornisce però pochi esempi utili in tale direzione. Questo è forse il principale profilo di criticità dell’intera disciplina sul PIAO. Da esso derivano sicure difficoltà in fase applicativa, al punto che sarà probabilmente necessario un particolare sforzo creativo nella stesura dei PIAO. Di contro, la disciplina prevede scadenze abbastanza ravvicinate, avendo il piano validità triennale, con la necessità di aggiornamenti annuali; dunque, sarebbe stato utile predisporre una fattispecie più puntuale in grado di veicolare il disporre col successivo provvedere, istituendo ad esempio un “PIAO modello”.
3. Ulteriori obiettivi apprezzabili alla luce della disciplina sul PIAO
Un’altra osservazione derivante dalla pronuncia in commento è quella in cui il giudice, riprendendo l’espressione usata dall’istante, definisce il PIAO come uno «strumento integrato» orientato «al valore pubblico». Da ciò sembra potersi desumere come la creazione di valore pubblico costituisca obiettivo esclusivo o quantomeno prioritario del PIAO. Tuttavia, dalla lettura della disciplina in materia emerge un esito diverso, nel senso che il menzionato valore pubblico rappresenta soltanto uno degli obiettivi del PIAO e peraltro neppure il principale, come dimostra il fatto che questo sia appena accennato nel già menzionato D.M. n. 132 del 2022 (e nel relativo Allegato).
Merita poi precisare che la disciplina sul PIAO ha il pregio di fornire una specificazione dell’ampia nozione di “valore pubblico”, qualificandola come azione finalizzata «a realizzare la piena accessibilità alle amministrazioni, fisica e digitale, da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilità», ossia di quei soggetti che sono definibili come vulnerabili.
È appena il caso di rilevare che quanto appena indicato risulta essere coerente con l’idea secondo cui il valore pubblico coincide con l’incremento del benessere dei destinatari dei servizi[15].
Resta il fatto che la nozione di valore pubblico può essere declinata in modi diversi e fra i meriti da ascrivere al PIAO, vi è anche quello di aver contribuito ad individuarne il contenuto sostanziale senza per questo averne ancora definito completamente l’essenza.
Spetta dunque alle pubbliche amministrazioni in fase di redazione del PIAO specificare che cosa si debba intendere quando si utilizza la locuzione valore pubblico al fine di evitare che siano inseriti obiettivi troppo generici.
Del resto, a ben vedere qualora non si tenesse conto di questa indicazione sarebbe difficile poter misurare l’efficacia del PIAO in direzione del “valore pubblico”.
4. Sintesi conclusiva: individuazione di alcuni aspetti di metodo utili per la redazione di un PIAO “modello”.
La pronuncia in esame si segnala per aver saputo cogliere aspetti fondamentali di questo nuovo atto pianificatorio, evidenziando le possibili ragioni poste a fondamento di una riforma dell’assetto previgente che si caratterizzava per la redazione di piani separati.
Particolarmente significativo è il fatto che il giudicante abbia sottolineato come «una approvazione per “stralci”» o a «“formazione progressiva”» non appaia in sintonia con la disciplina sul PIAO.
Questo nuovo istituto è infatti, come si intuisce dalla stessa denominazione attribuita dal Legislatore, uno strumento per effettuare integrazioni, il che costituisce un qualcosa in più rispetto alla somma delle singole componenti che lo formano.
Secondo questa visione d’insieme le varie sezioni e sottosezioni che ne fanno parte non possono essere prese in considerazione in modo isolato e modificate senza verificare gli eventuali aggiornamenti delle restanti parti.
In sostanza, ciò che fa la differenza rispetto all’assetto previgente non è tanto il contenuto del piano, quanto il modo in cui lo si predispone, dando luogo a forme di integrazione.
Inoltre, trattandosi di uno strumento in cui confluiscono, al fine di coordinarli, diversi adempimenti prima contenuti in piani separati, è importante attenersi particolarmente a due indicazioni fornite dall’Allegato al D.M. 132 del 2022 più volte menzionato, vale a dire la sinteticità e la necessità che il contenuto del PIAO sia sufficientemente specifico.
Con riferimento al primo requisito, i singoli piani saranno inevitabilmente ridimensionati a beneficio dell’agevole fruibilità del documento, eliminando gli adempimenti superflui e facendo risaltare al contempo gli elementi in grado di apportare un concreto miglioramento all’attività amministrativa[16].
Per quando riguarda invece il secondo requisito è necessario che il contenuto del PIAO sia adeguatamente specificato agli obiettivi che persegue, anche attraverso l’eventuale indicazione di obiettivi intermedi e di breve periodo, al fine di evitare di predisporre un piano privo di effettività.
Indubbiamente sarà necessario, specie in questa fase immediatamente successiva alla sua introduzione, uno sforzo delle P.A. per poter attuare al meglio la relativa disciplina, in maniera tale che questo nuovo strumento venga valorizzato nella sua portata innovativa[17].
È un compito certamente impegnativo che pronunce come quella qui analizzata contribuiscono ad affrontare.
[1] In generale, sul tema del PIAO vedi fra gli altri: A. Bianco, Il Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO), in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 1/2022, pag. 20 ss.; P. Morigi, Il bilancio e il nuovo Piano integrato di attività e organizzazione, in Finanza e tributi locali, 2021, pag. 7 ss.; Id., Il nuovo Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO) implica attività di programmazione e lavoro in team, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 1/2022, pag. 10 ss.; A. Riccobono, Concorsi pubblici e progressioni di carriera nella stagione del «grande reclutamento», in Riv. giur. lav., n. 1/2022, pag. 71 ss.; C. Siccardi, Anticorruzione e PNRR: profili costituzionali, in Consulta online, 1/2022, pag. 430 ss; E. Tagliaferri, La costruzione del PIAO: l’esperienza del comune di Forlì, in Azienditalia, 1/2023, p. 114 ss.
[2] Alcune recenti sentenze in cui si effettua un richiamo al PIAO sono: TAR Lazio, Roma, n. 12492/2023; TAR Campania, Napoli, n.5210/2023; TAR Toscana, Firenze, n. 484/2023.
[3] Così l’introduzione del d.l. n. 80 del 2021.
[4] Sono escluse dall’ambito di applicazione della disciplina sul PIAO le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, mentre per le pubbliche amministrazioni con meno di cinquanta dipendenti sono previsti adempimenti semplificati (art. 6, comma 1, d. l. n 80 del 2021).
[5] In particolare, gli adempimenti assorbiti dal PIAO sono individuati nel d.P.R. n. 81/2022. Sulla semplificazione degli adempimenti «cartolari» cui è tenuta la pubblica amministrazione vedi: A. Riccobono, op. cit., pag. 72.
[6] Art. 8, comma 1, d.P.R. 132 del 2022.
[7] Corrispondente al previgente piano triennale dei fabbisogni di personale.
[8] In particolare si fa riferimento al punto 4.1 del parere del CDS, n. 506 del 2022. Sul rischio di dar luogo a mere sovrapposizioni di piani si veda: A. M. Savazzi,Il piano integrato di attività e amministrazione, in Azienditalia, 4/2022, pag. 776 e 784; C. Siccardi, op. cit., pag. 430 e 431; A. M. Savazzi, Organizzazione e gestione del personale, in Azienditalia 4/2022, pag 776.
[9] P. Morigi, Il nuovo Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO) implica attività di programmazione e lavoro in team, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 1/2022, pag. 10 ss.
[10] In senso contrario rispetto alla reale portata innovativa del PIAO R. Nobile, Il Piano integrato di attività e organizzazione negli enti locali: un documento privo di reale efficacia innovativa, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 2/2022, pag. 44 ss.
[11] Art. 6, comma 1, del d.l. n. 80 del 2021.
[12] Art. 6, comma 2, l. f) del d. l. n. 80 del 2021.
[13] C. Tubertini, La nuova pianificazione integrata dell’attività e dell’organizzazione amministrativa, in Gior. dir. amm., 2022, pag. 620, in cui si definisce, invece, la sezione valore pubblico come «la parte senz’altro più nuova».
[14] Art. 6, comma 2, l. e), d.l. n. 80 del 2021.
[15] Linee guida sulla performance del 2016 e d.lgs. n. 150 del 2009.
[16] Sul ridimensionamento dei singoli piani confluiti nel PIAO vedi: C. Ascani, L'impatto del PNRR nell'ambito dell'anticorruzione, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 3/2021, pag. 57 e 58; R. Dagostino, Nuovi percorsi di ibridazione fra pubblico e privato: dai modelli organizzativi ex D.lgs. n. 231/2001 ai piani per la prevenzione della corruzione nella p.a., in Dir. soc., 1/2022, pag. 159.; C. Siccardi, op. cit., p. 431; C. Tubertini, op. cit., 2022, pag. 621; E. Carloni, A. Nieli, Bagliori al tramonto. I piani di prevenzione della corruzione tra contrasto della criminalità e assorbimento nel piano integrato, in Ist. fed., 1/2022, pag. 117 ss.
[17] Sulle difficoltà legate all’attuazione del PIAO: C. Siccardi, Anticorruzione e PNRR: profili costituzionali, in Consulta online, 1/2022, pag. 431; C. D’Aries, Il Piano Integrato di Attività e Organizzazione (P.I.A.O.) quale occasione per una programmazione-gestione- controllo di 'qualità' della P.A., in Finanza e tributi locali, 9/2022, pag. 45. A. Corrado, La difficile strada della semplificazione imboccata dal PIAO, in Federialismi.it, n. 27/2022, pag. 203; E. Tagliaferri, La costruzione del PIAO: l’esperienza del comune di Forlì, in Azienditalia, n. 1/2023, pag. 121.
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