di Costantino De Robbio
1. L’articolo 112 della Costituzione e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. 2. Obbligatorietà dell’azione penale e processo accusatorio. Il Codice del 1989 e la riforma dell’articolo 111 della Costituzione. 3. L’ingestibilità dei carichi della giustizia penale e la crisi del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. 4. La separazione delle carriere: riflesso pavloviano o panacea di tutti i mali? 5. Vie d’uscita dall’impasse: scorciatoie e soluzioni di sistema.
1.L’articolo 112 della Costituzione e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
L’articolo 112 è uno dei più brevi di tutta la Costituzione. Per questo risalta, pur in un testo normativo che enuncia i principi fondamentali del nostro Stato con doverosa ed inequivoca chiarezza, per la sua assertività. Poche e sentite parole: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Senza se e senza ma. L’organo che nel processo penale rappresenta l’accusa ed è titolare delle indagini non può dunque scegliere di quali reati occuparsi o chi tra gli indagati merita la sua attenzione e il suo tempo: gli è impedito fare distinzioni tra gli affari a lui assegnati per via del suo ufficio. Se al termine delle indagini egli avrà raccolto elementi a suo giudizio sufficienti per il processo, non potrà far altro che esercitare l’azione penale, essendogli inibita ogni scelta alternativa (quali ad esempio “graziare” o “perdonare” l’indagato o chiedere al G.I.P. di archiviare il fascicolo per qualsivoglia motivo). I costituenti, come emerge chiaramente dall’esame dei lavori preparatori al testo, hanno voluto in questo modo rendere concreti in tema di giustizia due principi: a) l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e b) l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo.
Sotto il primo profilo, è agevole rilevare infatti che il principio che afferma che “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” (articolo 3, 1° comma), baluardo del nostro sistema democratico, resterebbe mero postulato teorico se lo Stato non trattasse allo stesso modo tutti quelli che la legge la violano; ne discende che chiunque, senza eccezioni, violi un precetto deve essere assoggettato alla sanzione prevista (ovviamente, se riconosciuto colpevole al termine del processo). Conferire al pubblico ministero - così come a ogni altro potere dello Stato - la facoltà di scegliere se perseguire o no chi commette un reato vuol dire dunque, né più e né meno, vanificare il principio di uguaglianza perché rende alcuni cittadini “più” soggetti alla legge di altri. Al contempo, l’affermazione dell’obbligatorietà dell’azione penale pone il pubblico ministero al riparo da ingerenze esterne, perché impedisce che il potere esecutivo possa imporre di perseguire (o non perseguire) alcune categorie di persone o di tralasciare l’azione penale, magari in relazione a determinati periodi, per alcuni reati. Naturalmente, spetta al Parlamento legiferare su cosa sia reato e cosa no; ma una cosa è che la violazione di un precetto sia punita con sanzione penale a seguito di partecipazione al voto di tutte le forze parlamentari, altra cosa è che il discrimine della facoltà punitiva sia attribuito al Governo, espressione delle sole forze di maggioranza. Era chiara nella mente dei costituenti la necessità di evitare che, come era successo nell’Italia pre-repubblicana, il Governo modellasse l’azione penale in conseguenza dei propri desiderata, dando al processo penale l’improprio compito di realizzare per via giudiziaria l’ideologia in quel momento al potere [1]. Obbligare il pubblico ministero ad esercitare, sempre e comunque, l’azione penale (quando ne ricorrano i presupposti) vuol dire liberare la magistratura inquirente da vincoli e direttive esterne e farne uno strumento obiettivo di realizzazione di giustizia.
È fuor di dubbio che l’assetto costituzionale così delineato ha retto ottimamente alla prova dei fatti, contribuendo a modellare una giustizia diffusa e priva di quei caratteri di gerarchia e obbedienza al potere che ne caratterizzavano gli anni precedenti l’instaurazione della repubblica. Accanto al potere diffuso dei giudici, soggetti soltanto alla legge (articolo 101 Cost.) la nostra Repubblica ha potuto beneficiare di una magistratura requirente pienamente indipendente dagli altri poteri e in cui tutti i magistrati – siano essi giudici o pubblici ministeri – si distinguono solo per diversità di funzioni (art. 107, 3° comma Cost.). Nei quasi ottanta anni di vita della nostra Costituzione, tuttavia, si sono verificati alcuni avvenimenti che hanno mutato il contesto operativo in cui l’articolo 112 è chiamato ad operare, sicché non appare inopportuna una verifica dell’attualità del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
2. Obbligatorietà dell’azione penale e processo accusatorio. Il Codice del 1989 e la riforma dell’articolo 111 della Costituzione.
Il primo grande scossone al sistema penale è stato dato dall’adozione nel 1989 del Codice di procedura penale, che ha ridisegnato le regole del rito sulla base di un'idea fortemente innovativa: l'innesto su una tradizione marcatamente inquisitoria, quale quella italiana, di alcune caratteristiche del processo accusatorio tipico dei sistemi anglosassoni. In conseguenza di questa nuova impostazione, il fine del processo penale nel nostro ordinamento non è di tendere alla ricerca della verità storica (verificare se il fatto di cui il reo è accusato è effettivamente avvenuto ed è a lui ascrivibile) ma di raggiungere la verità processuale: la decisione del giudice deve basarsi su ciò che è stato provato durante il confronto tra le parti avvenuto in dibattimento. Sono dunque mutati sostanzialmente ed irreversibilmente rispetto al passato i ruoli degli attori del processo: il giudice diviene mero arbitro di una contesa che si svolge al suo cospetto tra accusa e difesa, mentre le parti - in posizione di parità - presentano ciascuna gli elementi raccolti a sostegno della propria tesi e le sottopongono alla prova di resistenza del confronto con l’opponente. L'essenza del dibattimento, un tempo coincidente con il suo fine - l'accertamento della verità - è dunque oggi data dal mezzo attraverso cui le parti interagiscono: il contraddittorio.
Questo nuovo assetto del processo rende forse inattuale o obsoleto il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? A chi scrive sembra evidente che la norma costituzionale agisce su un piano nettamente distinto e indipendente rispetto alla scelta del sistema processuale: anche in un sistema accusatorio non perdono di importanza né il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge né quello dell’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo che si è visto essere i due valori tutelati dall’articolo 112 della Costituzione [2]. È vero che nell’attuale sistema processuale il Pubblico Ministero ha un ruolo del tutto peculiare, essendo sì una parte processuale, ma che al contempo rappresenta lo Stato, che è imparziale per definizione. Egli è libero nel fine, potendo determinarsi all’esito delle indagini per la richiesta di archiviazione e persino chiedere l’assoluzione dell’imputato di cui egli stesso aveva chiesto il rinvio a giudizio. Nella fase delle indagini preliminari, peraltro, non gli è dato il compito di cercare unilateralmente elementi di accusa a carico dell’indagato, essendo egli come noto obbligato anche a “svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” (art. 358 c.p.p.). In altri termini, la parità tra pubblico ministero e difesa nell’agone del contraddittorio comporta che ai due sono dati i medesimi strumenti processuali per convincere il giudice; non che tra le due parti debba esservi simmetria, perché l’una (la difesa) agisce secondo un preciso mandato e non potrebbe discostarsene, l’altra (il pubblico ministero) è invece libero di autodeterminarsi perché agisce non “contro” l’imputato - come invece il difensore deve agire “a suo favore” - ma nell’interesse della collettività.
Tanto premesso, è evidente che questa libertà del fine non vuol dire discrezionalità dell’azione penale: il magistrato inquirente rimane infatti vincolato nella sua scelta a dei precisi parametri dettati dal legislatore e oggi rinvenibili, dopo le ultime modifiche al Codice di procedura penale operate dalla cosiddetta “riforma Cartabia”, nell’articolo 533 del Codice di procedura penale. Modellando sia il parametro necessario per la richiesta di rinvio a giudizio che quello (previsto dall’articolo 425 del Codice di procedura penale) cui deve attenersi il G.U.P. per non emettere sentenza di non luogo a procedere sulla “ragionevole previsione di condanna”, il Codice obbliga oggi anche il pubblico ministero a determinare le proprie scelte in ordine all’esercizio dell’azione penale agli stessi criteri cui è tenuto il giudice [3]. Questo allineamento degli standards indiziari e cautelari a quelli probatori non è un portato dell’ultima riforma; al contrario, corrisponde ad un vero e proprio trend che accomuna i numerosi interventi del legislatore che si sono succeduti negli ultimi quindici anni sul processo penale. A mero titolo di esempio, le modifiche dei parametri per l’adozione di una misura cautelare personale e i ripetuti aggiustamenti di quelli (sanciti nel menzionato articolo 425 c.p.p.) per discriminare i fascicoli da mandare a giudizio da quelli destinati alla sentenza di non luogo a procedere indicano una tendenza ad assimilare il lavoro dei giudici delle indagini preliminari ad una sorta di anticipazione - con valore prognostico - dell’esito del futuro ed eventuale dibattimento.
Oggi questa responsabilizzazione investe esplicitamente anche le determinazioni del pubblico ministero, più che mai chiamato all’esercizio del proprio ruolo con un’ottica di unicità della giurisdizione: «l’orizzonte del pubblico ministero non è più quello di una dignitosa partecipazione al giudizio, ma quello di una piena assunzione di responsabilità per il suo esito» [4]. Su questi parametri deve adagiarsi anche la scelta dei casi in cui esercitare l’azione penale, che rimane in ogni caso obbligatoria nel senso previsto dall’articolo 112 della Costituzione, nel senso che – al determinarsi dei presupposti indicati dalla legge – non ci si potrà esimere dal richiedere il rinvio a giudizio. Va da sé che in nessun modo l’adozione del sistema accusatorio impedisce al pubblico ministero di svolgere indagini o è incompatibile con l’obbligo di indagare senza selezionare né il tipo di reati né le persone secondo criteri estranei a quelli descritti. Pertanto, può concludersi che non esiste alcuna incompatibilità tra il principio costituzionale sancito dall’articolo 112 della Costituzione e l’attuale assetto del processo penale (anche alla luce del rimodellato articolo 111 della Carta fondamentale).
3. L’ingestibilità dei carichi della giustizia penale e la crisi del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
La piena compatibilità del principio costituzionale in esame con l’attuale sistema del processo penale non conforta, tuttavia, a fronte di un dato di fatto ineludibile: da lungo tempo i carichi delle Procure e dei Tribunali sono talmente elevati da rendere impossibile in quasi tutti i distretti l’evasione della domanda di giustizia. Il fenomeno ha cause molteplici e risalenti, che non è possibile affrontare in questa sede, anche se la cronica mancanza di risorse, umane ed informatiche, gioca senza dubbio un ruolo di rilievo: basti pensare che per venti anni non è stato bandito alcun concorso per cancellieri, ciò ha portato all’invecchiamento ed al progressivo depauperamento quantitativo dei ruoli cardine del processo penale dal punto di vista amministrativo ed all’attuale situazione di drastica carenza di organico. Conseguenza indiretta del disastrato stato della giustizia penale del nostro Paese è che una parte delle notizie di reato non può essere lavorata o comunque non in tempi congrui, e una rilevante quota dei procedimenti per i quali il Pubblico Ministero esercita l’azione penale non trova sbocco nella fase processuale. Buona parte dei processi, infine, non viene definita mediante uno degli esiti fisiologici (sentenza di assoluzione o di condanna definitiva) poiché il reato si estingue, prima che si sia stabilito se esso sussistesse o meno, per il decorso del tempo massimo (prescrizione).
Questo stato di fatto comporta indirettamente un abbandono o quantomeno un’attenuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: i pubblici ministeri non esercitano più l’azione penale ogni volta che ne ricorrano i presupposti ma solo per quella quota parte di affari penali che riescono a lavorare (e che i giudici sono in grado di ricevere: è noto che in passato alcuni Tribunali sono stati costretti a contingentare i decreti di citazione a giudizio ricevuti dalla Procura per impossibilità di fissare le udienze, sicché il magistrato inquirente esercitava l’azione penale solo virtualmente) [5].
Non possono non condividersi le preoccupazioni espresse sul punto dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha affermato che la situazione attuale dei carichi di lavoro si presta ad arbìtri, dando ai pubblici ministeri la possibilità di scegliere quali reati perseguire. Convincono assai meno, date le premesse fin qui svolte, le soluzioni che il Governo pare apprestarsi ad adottare per scongiurare il pericolo paventato.
4. La separazione delle carriere: riflesso pavloviano o panacea di tutti i mali?
In una delle sue ultime dichiarazioni rese alla stampa [6] il Ministro Nordio, nel ribadire l’intenzione del Governo di procedere alla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri in quanto, a suo dire, «consustanziale al processo accusatorio» [7], ha specificato che tale modifica legislativa, a suo dire, «richiede una revisione costituzionale anche perché deve essere correlata alla discrezionalità dell’azione penale, che in questo momento per Costituzione è obbligatoria». Il collegamento tra l’obbligatorietà dell’azione penale e il tema (un vero e proprio mantra per l’attuale compagine di maggioranza) della separazione delle carriere non appare di intuitiva evidenza. Non solo non vi è alcuna necessità ontologica, anche in un ipotetico ordinamento in cui il pubblico ministero ha la carriera separata da quella del giudice, di affidargli la discrezionalità nell’azione penale, ma - come si è detto - l’abolizione del principio espresso nell’articolo 112 della Costituzione pone a serio rischio il principio di uguaglianza e quello dell’indipendenza del magistrato inquirente rispetto al potere esecutivo. E va da sé che un pubblico ministero separato dal giudice, con conseguente perdita dello statuto che ai magistrati giudicanti garantisce indipendenza, andrebbe ancora più tutelato dal rischio di finire nell’orbita degli altri poteri dello Stato. La contestuale previsione di un pubblico ministero “separato” e non più soggetto al tranquillizzante obbligo di indagare su tutti i reati e gli indagati suscita dunque un allarme che non è possibile sottovalutare. Ne è ben consapevole lo stesso Ministro quando, nella stessa dichiarazione sopra riportata, aggiunge che «la separazione delle carriere non ha assolutamente come conseguenza la riconduzione del pm sotto l’esecutivo. Questa è una conseguenza inventata da quelli che non vogliono la separazione delle carriere per altri motivi». L’autorevolezza della fonte induce a prestare fede a questa dichiarazione di intenti: ma allora perché collegare la paventata riforma del pubblico ministero all’abolizione del più forte presidio alla sua indipendenza?
Non a caso, a commento delle predette dichiarazioni, ha espresso tutta la sua preoccupazione il Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia, dichiarando esplicitamente che "separare le carriere significa creare la premessa per porre il pubblico ministero sotto il controllo politico del ministro. Fare dell’azione penale un’azione discrezionale, significa affidarla alla politica". Una volta che l’azione penale diventerà discrezionale, occorreranno infatti dei criteri per garantire l’uniformità di tale discrezionalità tra un pubblico ministero e l’altro; in mancanza, l’arbitrio che si voleva scongiurare diventerà ben peggiore di quello che si scorge, a torto o a ragione, con l’attuale sistema.
Questi criteri possono essere dettati dall’interno (ovvero dagli stessi uffici di Procura) o dall’esterno. E dal momento che alcuni criteri interni per stabilire le priorità di trattazione delle notizie di reato esistono già, come meglio si dirà nel paragrafo che segue, è evidente che essi non sono considerati sufficienti da chi propone questa riforma e che si auspica che essi provengano dall’esterno, ovvero dal potere esecutivo, ciò che riporterebbe l’architettura del processo penale al sistema pre-costituzionale.
La preoccupazione aumenta leggendo altre dichiarazioni del Ministro, che pare ricollegare la futura discrezionalità dell’azione penale alla necessità di sottoporre il pubblico ministero ad un vero e proprio controllo: l’obbligatorietà dell’azione penale, ha infatti riferito il Ministro Nordio, «si è tradotta in intollerabile arbitrio a causa della massa di fascicoli. Quindi il pm è costretto a una scelta, può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno e questo favorisce le ambizioni di pochi magistrati. Anche perché si agisce in assenza di responsabilità per le proprie azioni, svincolati da controlli che in ogni democrazia limitano l’esercizio di un potere» [8]. Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, sottoposizione del pubblico ministero a controllo: il fil rouge delle dichiarazioni riportate disvela una ratio legis che chi legge il processo penale con le vetuste, ma insostituibili, lenti della Costituzione fa fatica a metabolizzare [9].
5. Vie d’uscita dall’impasse: scorciatoie e soluzioni di sistema.
Occorrerebbe dunque trovare una soluzione che consenta di restituire piena effettività all’articolo 112 della Costituzione senza stravolgere l’assetto del processo penale (operazione, oltre che inutile, pericolosa per quanto detto in precedenza). Due sembrano le strade percorribili, una da adottare nel breve periodo ed una “di sistema”.
La risposta di sistema consiste in una ampia depenalizzazione, che sollevi gli uffici dal carico di migliaia di procedimenti considerati ad oggi di rilievo penale anche se, per fatti, di non rilevante allarme sociale. È infatti intuitivo che, se non è possibile esercitare l’azione penale per tutti i reati per mancanza di forze, tanto vale restringere l’area del penalmente rilevante. Questa soluzione avrebbe altresì il pregio di rafforzare l’impronta garantista del nostro Codice di procedura penale, in linea peraltro con molte altre dichiarazioni degli esponenti dell’attuale Governo.
Al contempo, un profondo e concreto investimento sulla Giustizia che consenta di dotare i Tribunali e le Procure di mezzi e personale e di una convinta transizione informatica servirebbe ad evitare che, passata l’onda positiva dell’eventuale provvedimento di depenalizzazione, si ritorni nel medio periodo alla situazione precedente (come successo in passato per i provvedimenti di amnistia e indulto).
Nel breve periodo (in attesa delle riforme ora descritte) possono senz’altro giovare i criteri di priorità nella trattazione degli affari, introdotti dalla menzionata “riforma Cartabia” (art. 3 disp. Att. C.p.p. e art. 1, lett. B, d.lgs. 106/2006) [10], soluzione che lascia all’interno della magistratura il compito e la responsabilità di individuare criteri per l’uniforme trattazione degli affari penali, scongiurando il pericolo di interventi esterni. Va peraltro rilevato che la legge assegna al Parlamento il compito di stabilire con legge i criteri generali cui gli uffici di Procura dovranno attenersi nello stabilire i criteri di priorità; questa previsione, per quanto limitata, ha già sollevato dubbi di costituzionalità per la compatibilità con l’articolo 112 Cost [11]. Un uso corretto - e depurato da torsioni eccentriche rispetto ai fini di restituzione di effettività ai principi costituzionali sottesi all’obbligatorietà dell’azione penale - potrebbe consentire una razionale gestione degli affari penali, anche mediante allineamento dei criteri di priorità della magistratura requirente a quelli previsti per la trattazione dei processi in Tribunale [12].
[1] Sul punto si veda G.SALVI, Commento all’art. 112 della Costituzione, in La Magistratura, rivista online.
[2] All’indomani dell’adozione del Codice di procedura penale del 1989, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire la piena compatibilità tra il sistema accusatorio adottato e l’articolo 112 della Costituzione, precisando che «il principio di legalità (art. 25, 2° comma Cost) che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale. Realizzare la legalità nell’uguaglianza non è però possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero» (Corte Cost. n. 88 del 1991). Pochi anni dopo lo stesso concetto è stato ribadito affermandosi che «l'obbligatorietà dell'azione penale, pur costituendo – come punto di convergenza di un complesso di principi del sistema costituzionale – la fonte essenziale della garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero» (Corte Cost., n. 420 del 1995).
[3] Così NAPPI, In difesa della riforma Cartabia, Giustizia Insieme 20 giugno 2023: «L'art. 112 Cost. non esige affatto che il pubblico ministero si determini in base a una regola di decisione diversa da quella prevista per il giudice. Al contrario, estende all'azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione, escludendo così che le determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale. Infatti la giurisdizione è un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono essere giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all'intervento del giudice».
[4] Così ancora NAPPI, In difesa, cit.
[5] Sul punto T. EPIDENDIO, “La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura”, Giustizia Insieme, 24 maggio 2022 ha parlato di crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale: «Prima ancora che scientifica o ideologica, la crisi è imposta dalla “forza del fatto”: sopra una certa dimensione demografica e in presenza di una legislazione penale inflazionistica, mancano inevitabilmente le risorse per perseguire tutti e tempestivamente i reati che vengono commessi; inizia a farsi strada l’idea che l’obbligatorietà dell’azione penale sia illusoria (molti reati si prescrivono o vengono archiviati).»
[6] Le dichiarazioni sono rinvenibili su fonti aperte e risalgono al 19 settembre 2023.
[7] Sul punto, a confutazione, si veda quanto detto nei paragrafi 1 e 2 di questo scritto.
[8] Dichiarazioni del 6 dicembre 2022, rinvenibili su fonti aperte.
[9] Sul punto si veda ancora EPIDENDIO, in questa Rivista, cit.: «…si fa sempre più diffusa la convinzione che, in realtà, il principio di obbligatorietà nasconda scelte selettive incontrollate sull’an e sul quando della persecuzione da parte delle diverse Procure della Repubblica. Così, anche su questo versante, quasi senza che ce se ne avveda, spinti dalla forza del fatto e dalla inevitabile limitatezza di risorse ed energie, si minano le fondamenta costituzionali delle garanzie e della legittimità di un pubblico ministero autonomo e indipendente da altri poteri, che trovano la loro radice appunto nell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, cui è correlato il principio di obbligatorietà dell’azione. Quanti però avvertono che ogni deriva dal principio di obbligatorietà sacrifica il principio di eguaglianza davanti alla legge?».
[10] Sul punto si veda APRATI, “Le nuove indagini preliminari tra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità”, in Giustizia Insieme, 20 dicembre 2022: «Si è infatti andato ad incidere sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, baluardo sì del principio di legalità/uguaglianza in sede processuale, ma in via di fatto in perenne crisi a causa della sua concreta inesigibilità. L’azione rimane obbligatoria, così come immutato è l’obbligo di indagare, ma l’effettivo esercizio dei due connessi doveri viene modulato: le notizie di reato che presentano certe caratteristiche – individuate dai criteri di priorità - devono essere prese in carico, tanto per l’avvio dell’indagine quanto per la scelta sull’azione, con precedenza sulle altre.»
[11] Sul punto infatti si veda la Relazione n. 2 del 2023 del Massimario della Cassazione ove si legge che «L’individuazione di siffatti criteri potrebbe porre il dubbio pregiudiziale della loro compatibilità con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., posto che non vengono disciplinati solo i criteri in ordine alla gestione delle indagini, ma vengono individuati anche i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione. Siffatta astratta previsione può, però, giustificarsi ove si considerino, sul piano pratico, la scarsità delle risorse, il numero ingente di indagini astrattamente esperibili, la differente gravità, il diverso impatto sociale dei singoli reati e la necessità di assicurare uguaglianza, imparzialità, efficienza e velocità nell’amministrazione della giustizia, in ossequio ai principi di buon andamento e imparzialità dell'azione giudiziaria desumibili dall'art. 97, comma 1, Cost.»
[12] Si vedano in merito le riflessioni di N.ROSSI, “I criteri di priorità tra legge cornice e indipendenza delle procure”, in Questione Giustizia, 2021, 4, nonché quelle di E.ALBAMONTE, “I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale”, in Il Penalista.