ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. L’ordinanza del Tribunale di Verona: dubbi di legittimità costituzionale dell’art.171 bis c.p.c. per eccesso di delega e violazione del principio del contraddittorio. 2. Programma della presente nota. 3. La ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale. 4. Gli eccessi di delega che potrebbero riscontrarsi nell’ultima riforma del processo civile. L’insussistenza di essi per rispetto della ratio della legge delega da parte del decreto legislativo. 5. Segue: l’insussistenza altresì dell’incostituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. 6. Osservazioni di sintesi.
1. L’ordinanza del Tribunale di Verona; dubbi di legittimità costituzionale dell’art.171 bis c.p.c. per eccesso di delega e violazione del principio del contraddittorio
Il Tribunale di Verona, con ordinanza del 22 settembre 2023 (R.G. 4138/2023) ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 171 bis del codice di procedura civile per contrasto con gli articoli 76, 77, 3, e 24 Cost.”.
Il Tribunale ha sostenuto che tale nuova disposizione processuale, inserita nel codice di rito a seguito della riforma c.d. Cartabia di cui al d. lgs. 10 ottobre 2023 n. 149, presenta due possibili difetti di costituzionalità, uno riguardante eccesso di delega, in relazione agli artt. 76 e 77 Cost., e l’altro riguardante il diritto al contraddittorio e al trattamento di parità delle parti nel processo in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
In particolare il Tribunale di Verona ha rilevato:
a) quanto al primo aspetto che: “la legge delega (l. 26 novembre 2021, n.206), pur contenendo, all’art. 1, comma 5, lett. i), alcuni principi molto dettagliati relativi alla fase di trattazione, non prevede però un intervento anticipato del giudice prima dell'udienza di comparizione delle parti.
Al contempo, i principi di cui all'articolo 1, comma 5, lett. da c) a g), che disciplinano il contenuto degli atti di parte e i termini del loro deposito, non indicano tra le memorie delle parti, successive agli atti introduttivi, anche la trattazione delle questioni rilevate d'ufficio dal giudice.
Nella legge 206/2021 i due regimi (quello della fase di trattazione e quello delle attività delle parti) risultano quindi tra loro coerenti tanto più che l’art. 1, comma 5, lett. i), stabilisce che le disposizioni sulla trattazione devono essere adeguate proprio alle condizioni di cui alle lettera f) e g).
Sulla scorta di tali dati normativi, invero inequivoci, può affermarsi che la legge delega non aveva contemplato minimamente una fase, antecedente all’udienza di prima comparizione delle parti, deputata alle verifiche preliminari, alla quale invece il d. lgs. attribuisce il rilievo di cui si è detto, dedicandovi una disciplina alquanto articolata e differenziata”.
Da ciò, dunque, per il Tribunale di Verona, l’eccesso di delega e la violazione degli artt. 76 e 77 Cost.
b) Quanto ai profili di incostituzionalità relativi agli artt. 3 e 24 Cost., il Tribunale di Verona ha ancora osservato che l’art. 171 bis c.p.c. pone oggi una discriminazione, poiché prevede: “la decisione del giudice, inaudita altera parte, per solo alcune questioni rilevabili d’ufficio, quelle che condizionano la stessa nascita del processo o la sua estensione soggettiva (così il difetto di legittimazione, di capacità di essere parte, o di interesse ad agire), mentre per tutte le altre, non espressamente menzionate, differisce la decisione alla udienza di prima comparizione con una scelta che risulta in contrasto con l’art.3 Cost.”.
Peraltro, tale scelta discriminatoria, per il Tribunale di Verona, non viola solo l’art. 3 Cost., ma non rispetta nemmeno l’art. 24 Cost., in quanto: “nel regime ante riforma, la verifica in esame avveniva per la prima volta all’udienza di prima comparizione”, e quindi nel contraddittorio con le parti e i loro difensori, mentre oggi l’art. 171 bis c.p.c. dispone che le questioni indicate nel suo primo comma siano decise dal giudice senza udire sul punto le parti, e quindi la nuova norma: “lede il principio del contraddittorio, sancito ora in termini generali dall’art. 101, comma 2, secondo periodo, come integrato dal d. lgs. 149/2022”.
2. Programma della presente nota
Che dire?
Sinceramente, non so quante possibilità di successo possa avere questa ordinanza.
E poiché mi è stato insegnato di non esprimere giudizi in materie ancora sub iudice, in questa nota non elaborerò aspetti tecnici posati e ponderati, ma solo, scherzosamente, alcune osservazioni più generali tanto in punto di eccesso di delega quanto in riferimento al diritto alla difesa e al contraddittorio.
Se si vuole, ciò che segue è solo una caricatura delle ragioni in base alle quali, forse, chissà, perché no?, le questioni verranno dichiarate infondate.
3. La ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale
Iniziando dagli artt. 76 e 77 Cost., credo sia utile ricordare preliminarmente la ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale.
E la ratio è semplicissima: poiché la funzione legislativa spetta al Parlamento, e il Governo non ha funzione legislativa se non nei limiti dati dal Parlamento, se il Governo non rispetta detti limiti ed emana un decreto legislativo che esorbita dalle direttive ricevute, esso si appropria di una funzione che non le spetta, ovvero di quella legislativa, e da ciò ne segue l’incostituzionalità.
3.1. Orbene, il problema, però, si potrebbe osservare, è che porre simili questioni in una realtà nella quale, ormai da anni, la contrapposizione tra funzione legislativa ed esecutiva si è persa, e il Governo si è sostanzialmente appropriato anche della funzione legislativa svuotando le funzioni del Parlamento, può suscitare ilarità, poiché delle due l’una: o abbiamo la forza di opporsi a questa nuova realtà costituzionale, oppure ritenere incostituzionale che il Governo, nell’emanazione di un decreto legislativo, non rispetti la legge delega che egli stesso si è dato, è qualcosa che non può non far sorridere.
E se questo ragionamento vale in generale, ancor più vale nel caso della riforma del processo civile di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149.
Conviene al riguardo non dimenticare le modalità con le quali la riforma si è perfezionata.
3.2. Il Governo nomina una commissione affinché rediga un progetto.
La commissione redige il progetto, ma il Governo lo condivide solo in parte.
Il progetto è reso pubblico ed riceve critiche piuttosto numerose dagli addetti ai lavori.
Il Governo, tuttavia, non si preoccupa di queste critiche, e presenta in modo sostanzialmente invariato il suo progetto al Senato.
Il Senato è tenuto ad approvare il progetto senza discussione parlamentare, in quanto su esso viene messo dal Governo la fiducia.
E, proprio al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega viene riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662.
Il nuovo unico articolo presentato al Senato sarà infatti lungo ben 39 pagine.
In questo modo, e in queste condizioni, il Senato, approva il disegno di legge delega di riforma del processo civile in data 21 settembre 2021 (poi l. 26 novembre 2021 n. 206).
3.3. È naturale osservare che il paradosso di un Governo che si fa legislatore è ancora più forte nelle leggi delega.
In quei casi, infatti, si realizza la grottesca situazione nella quale il Governo, imponendo la legge al Parlamento, di fatto delega sé stesso a fare quella cosa che egli stesso ha determinato.
In meccanismi di questo genere, davvero abbiamo ancora la voglia di discutere di eccesso di delega?
Io, accanto all’istituto dell’eccesso di delega, proporrei quello del ripensamento: una cosa è dunque l’eccesso di delega, come tale incostituzionale; altra cosa il ripensamento, irrilevante invece ai fini della legittimità costituzionale.
Il Governo, quando ha scritto la legge delega, pensava di poter fare una cosa, poi ne ha fatta un’altra; evidentemente ha cambiato idea, che male c’è?
A tutti deve essere riconosciuto il diritto che i romani etichettavano con l’espressione re melius perpensa.
4. Gli eccessi di delega che potrebbero riscontrarsi nell’ultima riforma del processo civile. L’insussistenza di essi per rispetto della ratio della legge delega da parte del decreto legislativo.
Comunque, anche a voler convenire che l’art. 171 bis c.p.c. contenga un eccesso di delega così come rilevato dal Tribunale di Verona, questo non potrebbe egualmente comportare l’incostituzionalità della norma, poiché il d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 è pieno di eccessi di delega, e certo non è possibile dichiarare l’incostituzionalità dell’intera legge per queste ragioni.
4.1. Fra il serio e faceto mi sia così consentito ricordare almeno quattro tra questi eccessi di delega, aventi ad oggetto momenti centrali del nuovo processo civile: faccio riferimento alla disciplina della sinteticità e chiarezza degli atti processuali, oggi regolati dal decreto ministeriale 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione dell’art. 46 delle disp. att. c.p.c., alla disciplina delle udienze cartolari e a distanza, oggi regolate dagli artt. 127 bis e ter c.p.c., alla disciplina della nuova procedura in appello di cui agli artt. 348 bis, 349 bis, 350, 3° comma, 350 bis c.p.c., e infine alla disciplina del procedimento in cassazione ex nuovo art. 380 bis c.p.c.
4.2. Quanto alla sinteticità e chiarezza degli atti processuali si osserva che:
a) la legge delega (art. 1, comma 17, lettera d) ribadiva il principio della libertà delle forme nella redazione degli atti processuali, stabilendo che questi possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, mentre il decreto legislativo ha abbandonato il criterio della libertà delle forme degli atti ed ha espressamente previsto che un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti, disponendo altresì che l’atto processuale debba avere in ogni caso un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso.
b) La legge delega, poi, semplicemente prevedeva che gli atti processuali dovessero essere redatti in modo da assicurare la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, mentre il decreto legislativo ha disposto, oltre ciò, che con decreto del Ministro della Giustizia sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell'intestazione e delle altre indicazioni formali dell'atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale.
c) La legge delega, infine, giustificava l’inquadramento e la regolamentazione degli atti processuali semplicemente sulla esigenza della raccolta dati nel processo telematico, ovvero strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo; il decreto legislativo ha superato al contrario questa ratio e ha previsto una regolamentazione ministeriale di tipo generale (……rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione……), in grado così di investire gli atti processuali in ogni momento, e non solo in quello della raccolta telematica dei dati.
4.3. Qualcosa di simile è avvenuto con riferimento alle udienze a distanza e cartolari.
La disciplina delle udienze a distanza e cartolari, disposte per la prima volta nella legislazione di emergenza da COVID 19 con l’art. 221 della l. n. 77 del 2020, venivano riportate anche nella legge delega 26 novembre 2021 n. 206, e ciò esattamente nell’art. 1, comma 17, lettere l) e m).
Lì si prevedeva che il giudice: ”fatta salva la possibilità per le parti costituite di opporsi, può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice, si svolgano con collegamenti audiovisivi a distanza…oppure (alle medesime condizioni)…disporre che le udienze civili siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni”.
Orbene, non v’è bisogno di particolare acume giuridico per accorgersi che i nuovi artt. 127 bis e 127 ter c.p.c. sono andati oltre un limite affatto secondario della legge delega, e che era quello che le parti potessero opporsi alla scelta del giudice di disporre udienze cartolari e/o a distanza.
Infatti, l’opposizione delle parti prevista dalla legge delega è stata di fatto soppressa dalle nuove norme del decreto legislativo, che hanno sì previsto che queste possano chiedere l’udienza in presenza, ma hanno parimenti disposto che spetta in ogni caso al giudice assumere ogni decisione finale con “decreto non impugnabile”.
Ora, come è noto, in base all’art. 135, 3° comma c.p.c. i decreti sono privi di motivazione se la motivazione non è espressamente prescritta dalla legge, e gli artt. 127 bis e ter c.p.c. non prevedono che i decreti in questione debbono essere motivati, e quindi i decreti che dispongono le udienze a distanza o cartolari non sono motivati; inoltre essi sono espressamente definiti dalla legge “non impugnabili”.
Ne segue, così, che mentre la legge delega prevedeva che gli avvocati potessero opporsi allo svolgimento delle udienze non in presenza (“salva la possibilità per le parti costituite di opporsi”), e non semplicemente potessero presentare una richiesta in tal senso, i nuovi articoli scaturiti dal decreto legislativo hanno trasferito ogni potere al giudice, il quale lo esercita addirittura con un provvedimento che ha la forma del decreto (una eccezione, poiché sulle istanze delle parti il giudice deve provvedere di regola con ordinanza e non con decreto), e il decreto non è ne’ motivato ne’ impugnabile (quindi il potere del giudice di disporre udienze non in presenza è pieno, e le parti non hanno strumenti per opporsi a ciò).
4.4. In tema di appello, l’idea della legge delega era quella di rivedere la disciplina degli artt. 348 bis e ter c.p.c. introdotti nel 2012, che avevano creato non pochi problemi alla Corte di Cassazione prevedendo che le impugnazioni senza ragionevole possibilità di accoglimento dovessero essere decise con ordinanza.
La legge delega, all’art. 1, comma 8, lettera e), disponeva conseguentemente che la definizione di quegli appelli dovesse essere data con sentenza e non più con ordinanza, e così statuiva che: “la decisione di manifesta infondatezza sia assunta a seguito di trattazione orale con sentenza succintamente motivata anche mediante rinvio a precedenti conformi”; e sulla base di ciò andavano modificati “conseguentemente gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.”
Il decreto legislativo, al contrario, è andato ben oltre: a) ha provveduto all’abrogazione dell’art. 348 ter c.p.c.; b) poi alla riscrittura degli artt. 348 bis e 350 c.p.c.; c) e infine ad inserire nuovi artt. 349 bis e 350 bis del codice di procedura civile.
Da segnalare, che mentre per la legge delega, in conformità con la disciplina già fatta propria dall’art. 348 bis c.p.c. nel suo testo originario, la possibilità della definizione dell’appello in via breve era riservata ai soli casi di manifesta infondatezza ovvero alle ipotesi nelle quali l’impugnazione non avesse alcuna ragionevole possibilità di essere accolta, il nuovo art. 348 bis c.p.c. ha aggiunto anche i casi di manifesta fondatezza, di nuovo non previsti dalla legge delega, e soprattutto l’art. 350, 3° comma c.p.c. ha ricompreso in tal alveo anche altre ipotesi del tutto libere, che si hanno quando il giudice discrezionalmente “lo ritenga opportuno in ragione della ridotta complessità o dell’urgenza della causa”, e ciò anche in contrasto con la lettera l) della medesima disposizione di legge delega, che individuava i poteri del giudice istruttore senza ricomprenderne questo.
Inoltre, l’art. 349 bis c.p.c. ha previsto per la prima volta la contrapposizione in appello tra un giudice “istruttore” e un giudice “relatore”, e ha rimesso al Presidente, in limine litis, e in un momento che appare addirittura anteriore alla costituzione dell’appellato, la scelta discrezionale di optare per la definizione dell’impugnazione in un modo o nell’altro.
Ed ancora, il nuovo art. 350, bis, 3° comma c.p.c. prevede che la sentenza sia “motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”, e ciò tanto per i casi di decisione immediata con la nomina del “relatore”, quanto con riferimento ai casi ordinari a seguito di trattazione con “l’istruttore”, visto che l’art. 350 bis c.p.c., fa riferimento sia al primo caso nel 1° comma, sia al secondo caso nel 2° comma.
La legge delega, invece, e per la verità, prevedeva che la sentenza in forma semplificata si potesse pronunciare solo per le ipotesi di impugnazione manifestamente infondata; al contrario con il decreto legislativo, e secondo meccanismi non conosciuti dalla legge delega ne’ nella lettera e) ne’ nella successiva lettera n), l’attuale art. 350 bis c.p.c. consente invece che tutte le sentenze in appello possano essere definite con sentenza in forma semplificata, in quanto lo stesso art. 352 c.p.c. consente all’istruttore di scegliere tra la modalità di definizione ordinaria e la modalità di definizione prevista dall’art. 350 bis c.p.c. anche fuori dai casi di cui agli artt. 348 bis e 350, 3° comma c.p.c.
4.5. Discorso analogo può essere sviluppato con riguardo al giudizio di cassazione.
L’art. 1, comma 9 lettera e) della legge delega prevedeva l’introduzione di un procedimento accelerato rispetto alla camera di consiglio per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati.
Questo procedimento accelerato si doveva realizzare attraverso: “una proposta di definizione del ricorso”, da comunicare “agli avvocati delle parti”, e “se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intende rinunciato e il giudice pronuncia decreto di estinzione, liquidando le spese”.
Orbene, anche in questo caso non è difficile rilevare come il nuovo art. 380 bis c.p.c. sia andato oltre i limiti della legge delega.
A parte la circostanza che il termine per richiedere la camera di consiglio è stato portato da venti a quaranta giorni, soprattutto l’art. 380 bis c.p.c. inserisce due nuovi elementi che condizionano fortemente la natura e la struttura dell’istituto: a) si è previsto infatti che la richiesta della camera di consiglio debba esser “sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale”; b) e si è previsto altresì che, nelle ipotesi nelle quali la definizione con ordinanza collegiale sia richiesta, se la Corte di cassazione “definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96”.
Non v’è bisogno di spendere troppe parole per rilevare quanto queste due novità, non contenute nella legge delega, disciplinino in modo del tutto diverso il diritto alla difesa e il trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, poiché par evidente che solo le parti benestanti potranno affrontare le eventuali ulteriori spese di cui all’art. 96 c.p.c., mentre le classi meno abbienti avranno senz’altro più difficoltà ad accettare simili rischi per esercitare il diritto all’azione.
Ed inoltre, ad abundantiam, mentre la legge delega prevedeva che la proposta dovesse contenere “la sintetica indicazione delle ragioni di inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata”, l’art. 380 bis c.p.c. si limita a disporre che il consigliere deve dare una “sintetica proposta”, senza altro aggiungere.
In questo modo, non solo è venuto meno il riferimento alle ragioni di inammissibilità o manifesta infondatezza che il parere del consigliere doveva contenere, ma anche l’aggettivo sintetico è stato spostato dalla motivazione alla proposta stessa: è la proposta oggi che deve essere sintetica, non più la motivazione o le ragioni di manifesta infondatezza della proposta; queste ultime infatti potranno anche non esserci in base al tenore del nuovo testo.
4.6. Che fare dunque? Possiamo dichiarare incostituzionale tutta la riforma Cartabia?
Evidentemente no, e allora si tratta di ridurre, forse anche di azzerare, il problema dell’eccesso di delega.
La questione, se si vuole, è trattata dallo stesso Tribunale di Verona, laddove ricorda che la Corte costituzionale, con più di una pronuncia, ha già statuito che non può darsi eccesso di delega se il decreto legislativo non ha comunque violato la ratio della legge delega (così il Tribunale di Verona: “Occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente, ex plurimis: sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007, e, più recentemente, sentenza 24 ottobre 6 dicembre 2012, n. 272”).
La soluzione è perfetta: in questo modo la risoluzione della questione non dipende più da una sola valutazione tecnica scaturente dall’esegesi dei testi, bensì sostanzialmente da una valutazione discrezionale, rimessa al contenuto di una espressione elastica ed imprecisa quale quella della ratio, che può contenere tutto e il contrario di tutto.
La filosofia del linguaggio ci insegna che per collegare una qualunque cosa con una qualunque altra è sufficiente aumentare il livello di astrazione delle parole, e la parola ratio è ideale per ciò.
Si può, così, sempre ritenere che il decreto legislativo non abbia violato la ratio della legge delega, e il problema si dissolve.
5. Segue: l’insussistenza altresì dell’incostituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
E passiamo all’altra parte dell’ordinanza, ovvero a quella che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
Sostanzialmente, il problema, per il Tribunale di Verona, è questo: l’art. 171 bis c.p.c. si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché tale norma divide le questioni processuali tra quelle che si decidono prima dell’udienza, e quindi senza contraddittorio (ad esempio le questioni di cui agli artt. 102, 107, 164), e quelle che si mantengono invece quali questioni che si decidono in udienza, e quindi nel contraddittorio tra le parti e i loro difensori (scrive il Tribunale di Verona: mentre per tutte le altre, non espressamente menzionate, differisce la decisione alla udienza di prima comparizione).
Si tratterebbe di una disparità di trattamento non giustificata.
Soprattutto, il Tribunale di Verona rileva che le questioni indicate nel 1° comma dell’art. 171 bis c.p.c. prima stavano nel vecchio art. 183 c.p.c.: nel vecchio sistema, quindi, tale verifiche si realizzavano nel rispetto del contraddittorio con le parti e i loro difensori, perché appunto avvenivano in udienza, mentre oggi, essendo state dalla riforma anticipate in un momento anteriore, esse sono rese nella completa solitudine del giudice, che provvede senza sentire nessuno.
E qui, veramente, siamo alla parte romantica dell’ordinanza, quasi commovente per un avvocato, poiché si scopre, così, che esistono ancora giudici che ritengono costituzionalmente necessaria l’attività difensiva.
A pensarci, però, il dubbio di costituzionalità della norma per ragioni di questo genere non può che risultare alla fine infondato, e ciò non solo perché i provvedimenti resi dal giudice senza contraddittorio ai sensi dell’art. 171 bis, 1° comma c.p.c. potranno sempre essere rivisti e modificati a seguito del successivo contraddittorio nel successivo svolgimento del processo, e ciò non solo perché l’ordinanza prende a parametro del ragionamento una norma abrogata quale il vecchio resto dell’art. 183 c.p.c. e questo potrebbe addirittura condurre all’inammissibilità della questione, ma soprattutto perché è totalmente contrario allo spirito della riforma quello di immaginare una qualche rilevanza costituzionale della presenza degli avvocati nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Tutta la riforma, infatti, risponde alla logica contraria, e per la quale meno attività si fanno svolgere agli avvocati, meglio si realizza quella leale collaborazione necessaria alla realizzazione del principio di ragionevole durata dei processi e del PNRR.
Credo che nessuno possa mettere in dubbio che lo spirito della riforma sia questo: gli avvocati devono infatti scrivere gli atti in modo chiaro e sintetico e nel rispetto dei criteri e dei limiti dimensionali previsti dall’art. 46 disp. att. c.p.c.; gli avvocati non hanno diritto di interloquire personalmente con il giudice, in quanto gli artt. 127 bis e 127 ter c.p.c. hanno sostanzialmente annullato la loro possibilità di opporsi alla fissazione di udienze a distanza e/o cartolari; la decisione giurisdizionale può essere chiesta solo se le parti hanno anteriormente provato a conciliare la lite, e lo stesso giudice, tanto in primo grado (artt. 183 e 185 c.p.c.) quanto in appello (art. 350, 4° comma c.p.c.), può e deve oggi formulare “la proposta transattiva o conciliativa….fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione” (art. 185 bis c.p.c.); tutti i termini per il deposito delle memorie sono stati ridotti (artt. 171 ter e 189 c.p.c.), e la funzione delle comparse conclusionali è stata gravemente ridimensionata, e ciò perché la definizione dei giudizi deve darsi sempre più in forma breve, tanto in primo grado (art. 281 sexies c.p.c.) quanto in appello (art. 350 bis c.p.c.), con procedure che escludono le difese scritte nella fase conclusiva del giudizio; è stato reintrodotto l’obbligo della presenza personale delle parti in prima udienza (art. 183 c.p.c.); si è previsto che il giudice, anche a fronte di una causa introdotta nelle forme ordinarie dalla parte attrice, possa sempre trasformare quel rito in sommario (art. 183 bis c.p.c.), e quindi poi decidere in via breve ex art. 281 sexies c.p.c., e sempre con facoltà di ridurre gli atti conclusionali scritti ex nuovo art. 275 bis c.p.c.; si è altresì previsto che l’avvocato che intenda chiedere in cassazione la definizione del giudizio con ordinanza collegiale debba munirsi di nuova procura speciale da parte del cliente (art. 380 bis c.p.c.); nel processo di famiglia sono aumentati i poteri d’ufficio del giudice (art. 473 bis 2 c.p.c.) e imposti alle parti nelle allegazioni doveri di verità (art. 473 bis 18 c.p.c.).e di completezza (art. 473 bis 48 c.p.c.); soprattutto ogni comportamento difensivo da considerare scorretto può costituire presupposto di sanzione a favore della controparte (art. 96, 3° comma c.p.c.) o dello Stato (art. 96, 4° comma c.p.c.), e si è arrivati perfino a sanzionare la mancata partecipazione al primo incontro di mediazione (art. 12 bis, 2° e 3° comma d. lgs. 28/2010).
In breve, la questione sollevata dal Tribunale di Verona è facilmente superabile: la svalutazione della funzione difensiva è parte integrante della riforma, e pertanto non si comprende perché l’art. 171 bis c.p.c., dovrebbe considerarsi in contrasto con l’art. 24 Cost. nella parte in cui prevede che i provvedimenti ivi indicati siano presi senza contraddittorio e/o l’ausilio dei difensori.
6. Osservazioni di sintesi.
In estrema sintesi, dunque, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Verona appaiono infondate: nel nostro nuovo sistema nessuna rilevanza costituzionale può avere l’eccesso di delega, e nessuna rilevanza costituzionale ha l’esercizio della difesa; l’art. 171 bis c.p.c. è quindi rispettoso dei dettati della nostra costituzione.
E poi, non dimentichiamo, detta norma si inserisce nel contesto di una riforma finalizzata all’attuazione del PNRR e porta il nome di un ex Presidente della Corte costituzionale.
Cosa vogliamo fare? Pretendiamo che la Corte dichiari l’incostituzionalità di sé stessa?
Suvvia, vedrete, andrà tutto bene.
(Immagine)
di Giorgio Spangher
Rimasto sotto traccia e progressivamente attenzionato dagli “addetti ai lavori” - soprattutto nelle fasi di merito delle misure cautelari - il tema dei criptofonini è diventato di grande attualità, anche nella informazione non solo specialistica: si attende infatti a breve la pronuncia delle Sezioni Unite e quella della Corte di Giustizia a seguito di un rinvio pregiudiziale da parte tedesca (è già disponibile un parere - ondivago - dell’Avvocato Generale).
In breve: a seguito di un sequestro di un criptofonino, cioè cellulare, ad Anversa, che quelle autorità non riuscivano a “leggere”, perché contenente messaggistica criptata, scambiata sulla piattaforma Sky ECC, venivano investite le autorità francesi che - attraverso una attività che interessava il server e con uso di trojan - riusciva a decodificare i contenuti criptati della messaggistica (in ordine al tema è stato posto il segreto di Stato), acquisendo una mole enorme di comunicazioni relative - sul piano internazionale - al traffico di droga e forse di terrorismo (da cui forse il segreto di Stato).
Informate, probabilmente anche da Eurojust, le autorità dei vari Stati, tra cui l’Italia, hanno richiesto tramite OIE il riferito materiale ponendolo alla base di indagini in corso (che così venivano irrobustite), ovvero avviandone nuove.
Tutto ciò, come detto, confluiva in provvedimenti cautelari, decisioni di riesame, di rigetto di argomentazioni difensive, di ricorsi per Cassazione, risoltisi con reiterate decisioni di rigetto.
Il progressivo approfondimento delle questioni coinvolte ha sollecitato risposte maggiormente attente anche perché nel frattempo erano maturate modifiche normative (tabulati) ed era stata pronunciata una sentenza (C. cost. 170 del 2023) in tema di messaggistica.
Con due sentenze della Cassazione che hanno annullato con rinvio due misure cautelari, il tema è stato significativamente approfondito (Cass. n. 44154 e n. 44155), ma la sua “immediata” mancata condivisione ha sollecitato la riferita richiesta di intervento delle sezioni unite (i quesiti andrebbero riscritti e resi più attinenti alle questioni implicate dal contrasto).
Il tema si articola attorno a tre aspetti, tra loro collegati: l’attività svolta in Francia; la natura degli atti trasmessi, la legittimazione e il contenuto dell’OIE emesso dal p.m. italiano.
Un punto dovrebbe essere fermo, cioè, nel caso di specie, non si può fare riferimento all’art. 234 bis c.p.p. e non si tratta di richiesta di attività da svolgere all’estero ma di consegna di materiali esistente presso le autorità francesi.
Sotto il primo profilo, si tratta di capire come l’autorità francese abbia acquisito quegli atti, cioè, se con attività statica o dinamica, ovvero con entrambe. Sotto il profilo del materiale, si tratta di capire se, escluso che si tratti di documenti, si tratti di corrispondenza (C. cost. 170 del 2023) ovvero (anche) di intercettazione (artt. 264 e segg.). Con riferimento alla legittimazione si tratta di verificare se ci sia stato o meno l’intervento del giudice per le indagini preliminari (in relazione alla natura degli atti richiesti e trasmessi).
Si tratta degli interrogativi che la sentenza di annullamento (Cass. n. 44154) pone dettagliatamente al giudice di rinvio e che tuttavia, consentono già di formulare un punto di non ritorno: non possono entrare nel processo penale italiano, neppure attraverso l’art. 270 c.p.p., atti avuti attraverso indagini presso altri paesi, atti che non avrebbero, per la nostra legislazione, possibilità di essere valutati dai nostri giudici.
Come si può agevolmente intendere, anche da questi riferimenti seppur schematici, si tratta di temi centrali, destinati ad un confronto alla cui base si pongono i temi del bilanciamento tra diritti individuali (riservatezza; diritto di difesa) riserva di giurisdizione, ed esigenze investigative (e securitarie) legate alla gravità dei reati oggetto di indagini (significativi gli interventi del Procuratore Nazionale Antimafia e del Capo del ROS che ha sottolineato, come l’attività svolta in Francia no sarebbe stata possibile in Italia).
Sotto questi profili - di ordine generale - dando il giusto rilievo alle Sezioni Unite (che non dovrebbero discostarsi dalle pronunce della VI Sezione), sicuramente la decisione della Corte di Giustizia assumerà un pregnante significato.
Nel secondo dopoguerra romano ancora presidiato dalle forze alleate, Ivano e Delia, coppia popolare afflitta da un ménage coniugale gravato dal mito del dominio maschile, duplicato e potenziato dalla convivenza con nonno Ottorino, papà di Ivano, e con tre figli da mantenere, incarnano, con l’enfasi della rappresentazione filmica, gli estremi di un modello familiare integralista che ancora oggi genera non pochi proseliti. Un modello del quale lo schiaffo del mattutino buongiorno che Ivano dà a Delia al primo risveglio, ancora a letto, inscena il suo prologo più espressivo, avvisando lo spettatore, già da questo suo esordio, che la narrazione procederà per iperbole e come un rock in quattro quarti, dove musica e danza, che già si annunciano offrirsi in coerente sequenza, sono convocate ad animare i fotogrammi di un riscatto di genere.
Dei tre figli la ragazza, Marcella, mal tollerando la soggezione materna, alimenta la coscienza di Delia con continue arringhe, sollecitatrici di una ribellione che in verità già cova nel ventre materno, ma che per maturare necessita di una strategia del silenzio da mescolare senza troppi danni collaterali alla tirannia di un Ivano violento e sospettoso.
Le donne devono tenere la bocca chiusa! Questo il mantra destinato ad attraversare l’intero racconto, ben cadenzato nel convinto sermone fatto al figlio da sor Ottorino (un assai convincente Giorgio Colangeli) come lascito di una moribonda e malintesa saggezza sulla necessità del silenzio femminile; e pure nella flemmatica censura del ricco borghese all’azzardata incursione verbale della moglie, rea di avere espresso un suo pensiero in una salottiera discussione tra uomini; e ancora nella dispotica asserzione di Mario alla moglie Orietta - pittoreschi genitori di Giulio, promesso sposo di Marcella, e proprietari di un bar poi esploso e finito in fumo all’unisono con le nozze dell’ormai nullatenente figliolo - nel prospettare l’imposizione di una scelta paterna per il matrimonio della figlia femmina.
Ed è in questo clima che l’accesso al voto delle donne del 1946, annunciato in pressoché tutte le riprese esterne con visibili manifesti, diventa occasione e ragione di una vittoria universale della parola al femminile; una vittoria della e per la civiltà, messaggera di uno slancio rivoluzionario dall’energia creativa di un atto d’amore.
Un atto d’amore, infatti, già sospettato come tale nel contenuto della lettera spiegata solo sul finale quale certificato elettorale e sulle prime fatta invece deliberatamente equivocare allo spettatore come scritto di un innamorato; amore e ribellione civile, dunque, trasfigurati come sinonimi tattili di indipendenza esistenziale.
Un gesto d’amore, ancora, che, a ritroso di pellicola, rinviene già i suoi germi nel riuscito girotondo scenico al sapore - e colore - di cioccolata tra Delia e Nino (un ottimo Vinicio Marchioni), spiantato meccanico di periferia colmo d’amore per la donna; simboli statici ed estatici insieme di una trasgressione dei sensi, con la forza potente dell’ammutinamento e la gentile vibrazione di un’intesa che nella miseria di quei tempi, ma nell’eterna influenza dell’amore, ritrova il senso della resistenza.
La fuga di Delia da Ivano e la corsa verso la fila delle votanti - più gagliarda di un ceffone, più persuasiva di un lauto guadagno - edifica l’altare del riscatto, innanzi al quale Ivano, simbolo di un esercito ormai piegato, silenziosamente retrocede sconfitto.
Un film felicemente rock si diceva, senza implicazioni cromatiche eppure con la lucentezza di uno spettro variopinto di intime coloriture e dove musica e danza con felice espediente scenico concorrono da protagoniste nel proposito di rendere invisibili le violenze maschili, senza però privarle dell’implicita barbarie.
Ancora un prodotto d’abilità di una Cortellesi attrice, marionetta pasionaria questa volta alla sua regia d’esordio, in grado di emergere illesa in piena consonanza espressiva con un brillante e sempre efficace Mastandrea.
In occasione del centenario dalla prima legge sugli stupefacenti, n. 396 del 18 febbraio 1923, la Rivista Giustizia insieme ha organizzato il convegno dal titolo:
“100 anni di leggi sugli stupefacenti”
che si terrà a Roma, il 1° dicembre 2023 presso l’Aula magna della corte di Cassazione.
Il convegno si articolerà in due sessioni.
La prima sessione al mattino riguarderà la legislazione sulle droghe nella società italiana dal 1923 ad oggi. Ad una relazione sull’evoluzione della normativa vista nel suo sviluppo storico e nei rapporti con i vari assetti politici, seguirà una tavola rotonda sullo scenario nazionale e internazionale del traffico degli stupefacenti, sull’attuale situazione sociale e politica, sugli effetti psicofisici del consumo di droghe e sui possibili prossimi sviluppi della legislazione riguardanti proibizionismo, forme di legalizzazione, normativa sull’uso personale.
Partendo dalla illustrazione del quadro attuale delle dimensioni del fenomeno nei suoi risvolti sociali e criminali, delle diverse risposte date da un numero sempre crescente di paesi, si affronterà la questione da tempo assai dibattuta delle effetti delle sostanze stupefacenti e in particolare della cannabis, la sua evoluzione a livello di tipologia di pianta e di modalità di utilizzo, per esporre il quadro delle ipotesi di nuove normative in cui si contrappongono approcci di minore tolleranza e proposte di legalizzazione, nelle sue diverse accezioni.
La seconda sessione nel pomeriggio si incentrerà sui vari aspetti dell’intervento riguardante il consumo di sostanze stupefacenti.
A due relazioni che inquadreranno la disciplina attuale e in particolare il ruolo della giurisprudenza, seguirà una tavola rotonda sul trattamento del consumo e della dipendenza, con una riflessione sull’approccio istituzionale al fenomeno da parte delle istituzioni: sulla tossicodipendenza, sulle forme di esecuzione della pena, sul trattamento carcerario, sul ruolo delle Comunità e dei servizi territoriali.
Partendo dalla descrizione del quadro attuale del consumo di stupefacenti e del suo rapporto con il disagio sociale, si approfondiranno gli aspetti del coinvolgimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nella difficile gestione dei detenuti per droga, delle misure alternative attuali o che potrebbero essere incentivate, della condizione del tossicodipendente in carcere, della funzione dei SERD e del trattamento del tossicodipendente sul territorio, delle molteplici facce della dipendenza (ludopatia, alcolismo, anoressia/bulimia ecc.), del ruolo delle Comunità e delle richieste alle istituzioni.
Entrambe le sessioni termineranno con un dibattito.
La partecipazione dà diritto al riconoscimento di 6 crediti formativi.
Qui la registrazione video del convegno (tre video):
Introduzione e indirizzi di saluto
Prima sessione
Seconda sessione
(Immagine: Gaetano Previati, Fumatrici di oppio, bozzetto, 1887, olio su tela, cm 27 x 51,5. Collezione privata)
di Giuseppe Cascini
Rivolgo un ringraziamento non formale al Ministro della giustizia per la sua partecipazione al nostro congresso. Come dirò meglio più avanti ritengo che il dialogo e l’ascolto siano una necessità inderogabile per migliorare la situazione della giustizia. E per questo ho apprezzato la scelta del Ministro di essere qui e la sua disponibilità al dialogo.
Alcune delle cose dette dal Ministro mi trovano d’accordo, in particolare quando ha parlato della necessità di intervenire sulla giustizia civile e di dotare di uomini e mezzi gli uffici giudiziari.
Purtroppo, però, noi dobbiamo fare i conti con l’immagine che ci restituiscono le iniziative fin qui adottate dalla maggioranza di governo in materia di giustizia, che è quella di una politica che da un lato è feroce, per certi versi anche spietata, nei confronti delle fasce marginali, dei più deboli, di chi avrebbe bisogno di aiuto e soccorso più che di una punizione. E dall’altro è più che indulgente nei confronti dei potenti.
Nella prima categoria, mi limito ad indicarli, rientrano il decreto sul rave, il decreto Cutro, le norme in materia di criminalità minorile, quelle che addirittura pretendono di affrontare con lo strumento penale un fenomeno sociale come la dispersione scolastica; nella seconda le proposte di abolizione dell’abuso d’ufficio (un delitto odioso, che punisce la prevaricazione di chi ha potere nei confronti di chi non ne ha), le limitazioni all’uso delle intercettazioni, la annunciata riforma in materia di prescrizione (l’ennesima nel giro di pochi anni, senza che nessuno si domandi quali conseguenze possa avere sulla organizzazione di uffici già di per sé disastrati questo continuo mutamento delle regole), i ricorrenti condoni. Tutto questo condito da una manifesta insofferenza nei confronti dei controlli di legalità e della indipendenza dei magistrati, che trova la sua espressione più evidente nel disegno di legge costituzionale in materia di separazione delle carriere (disegno che, come già era per la proposta delle Camere penali, utilizza lo slogan della separazione delle carriere per attuare in realtà una ben più ampia e incisiva riforma della Costituzione diretta ad incidere sulla indipendenza dei magistrati). D’altra parte l’idea di società che è alla base di un’azione politica che, come è stato efficacemente detto nella tavola rotonda di ieri, aumenta, invece che ridurre, le diseguaglianze sociali ed economiche non può tollerare una magistratura indipendente e fedele solo alla costituzione, che invece trova il suo fondamento proprio nel principio di uguaglianza sostanziale scolpito nell’art. 3 capoverso.
Al riguardo consentitemi una breve digressione rispetto a quanto detto ieri dal Vicepresidente del Csm e dal prof. Grosso in tema di rapporto tra giustizia e politica
Nei moderni stati costituzionali la magistratura ha il dovere di difendere e preservare i diritti umani fondamentali a prescindere dalla volontà delle contingenti maggioranze. In questo non vi è alcuna supplenza o invasione di campo, in quanto il carattere universale ed irrinunciabile dei diritti fondamentali rappresenta un limite invalicabile all’azione di governo (che non è più libera nei fini e nei mezzi, come era nell’800). Su questi principi si fondano le moderne democrazie costituzionali, all’interno delle quali l’equilibrato bilanciamento dei poteri implica una magistratura indipendente quale irrinunciabile strumento di garanzia.
È evidente, allora, che questa impostazione ideologica dell’azione di governo in tema di giustizia rende molto difficile affrontare una discussione seria sui reali problemi e sugli effettivi bisogni del sistema giudiziario. Efficienza del sistema e professionalità dei magistrati dovrebbero essere gli obiettivi di qualunque maggioranza di governo. E invece ogni volta prende il sopravvento la "guerra contro i giudici". Il sistema giudiziario ha bisogno di recuperare un livello di funzionalità, non dico al passo con gli altri paesi europei, ma almeno decente. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario un "cessate il fuoco"; tutti gli attori in campo dovrebbero deporre le armi della ideologia e confrontarsi con animo costruttivo per trovare soluzioni condivise nell’esclusivo interesse del paese e dei cittadini.
Revisione della geografia giudiziaria, adeguamento delle risorse umane (magistratuali e non) adeguamento della struttura tecnologica di servizio, razionalizzazione delle procedure per ridurre i tempi dei giudizi; effettività dell’azione esecutiva e di recupero dei crediti; decriminalizzazione dei fatti di minore rilevanza e semplificazione delle procedure di accertamento.
Questo solo come interventi diretti sull’apparato giudiziario nella consapevolezza che la crisi della giustizia trova le sue cause profonde nella inefficienza dell’apparato amministrativo dello stato, nelle diseguaglianze economiche e sociali e nell’assenza di idonei strumenti di assistenza e sostegno sociale.
Noi siamo pronti a questo confronto e chiediamo agli altri di fare lo stesso.
Una giustizia che funzioni ha bisogno non solo di efficienza, ma anche di qualità delle decisioni. Da troppi anni la politica ha scelto di mortificare la professionalità dei magistrati, introducendo gerarchia, controlli burocratici e sanzioni.
L’esempio più eclatante è dato dal sistema dei giudizi differenziati introdotto dalla riforma Cartabia.
Con il risultato che la magistratura tende a ripiegarsi su stessa in una ridotta burocratica, fatta di ossequio ai dirigenti degli uffici, di conformismo ai precedenti, di scelte prudenti di carattere "difensivo", mentre quello di cui abbiamo realmente bisogno è di escludere dall’ordine coloro che si sono dimostrati inadeguati. Non sono molti, ma ci sono. Al riguardo potrebbe aiutare, mi permetto di suggerirlo, una previsione che consenta di ricollocare il magistrato nell’ambito della pubblica amministrazione come già avviene per i casi di dispensa per ragioni di salute. Questo potrebbe consentire di vincere le resistenze corporative che spesso si registrano in questi casi.
Avremmo anche di bisogno di affrontare con serietà il tema della questione morale in magistratura. Anche in questo caso riguarda una minoranza molto ridotta di casi, che però esige una risposta ferma. Io non credo, per richiamare un tema discusso ieri, che i magistrati abbiano la pretesa di ergersi ad autorità morale. Può essere capitato in singoli casi, ma non è certamente una cifra caratteristica della magistratura italiana. Sono convinto però che chi come noi esercita questo terribile potere (come lo definiva Montesquieu) debba essere ed apparire sempre del tutto immacolato dal punto di vista etico. Su questo tema devo dire, da semplice osservatore volutamente un po’ distratto delle cose consiliari, che mi pare di registrare un qualche arretramento nella attuale consiliatura. In particolare mi sorprende il comportamento della componente laica di centrodestra. Il costituente ha previsto la presenza di una componente laica in Csm (in minoranza per evitare che la politica mettesse il tacco sulla testa dei magistrati) proprio allo scopo di arginare il rischio di derive corporative ed autoreferenziali delle componenti togate. Mi sembra, invece, che oggi - non so se per ragioni legate ad equilibri di potere all’interno del consiglio o per una malintesa idea di garantismo, ahimè molto diffusa nel paese, che confonde il garantismo con la garanzia di impunità - si registri un forte abbassamento della attenzione su questo tema. E lo stesso mi pare di notare riguardo ai due consiglieri indipendenti, a riprova del fatto che probabilmente il corporativismo non è un male solo delle correnti, ma più in generale dei magistrati
È possibile che continuando su questa strada la politica alla fine riuscirà a vincerla questa guerra contro i magistrati.
Non credo attraverso una modifica della Costituzione, perché il popolo italiano (quella maggioranza silenziosa di cui parlava ieri Anna Falcone) per fortuna ha dimostrato negli ultimi decenni di non fidarsi tanto dello "spirito costituente" degli attuali governanti ed ha sempre bocciato le riforme costituzionali. Ma la guerra potrà essere vinta fiaccando lo spirito dei magistrati e la loro capacità di essere indipendenti.
Solo allora, però, vi accorgerete di avere segato il ramo sul quale eravate seduti anche voi e la nostra debole democrazia, perché senza una magistratura indipendente è la libertà di tutti ad essere indebolita.
Spesso quando si parla di riforme della giustizia si evoca la necessità di evitare l’errore giudiziario. Vorrei ricordarvi che il più famoso errore giudiziario della storia dell’umanità fu quello di un prefetto di Giudea che scelse di condannare un innocente e mandare libero un colpevole, perché ciò la folla gli chiedeva. Mentre l’indipendenza del giudice, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, serve proprio a questo: assolvere l’innocente anche quando la maggioranza ne chiede la condanna, condannare il colpevole anche quando la maggioranza ne chiede l’assoluzione.
*Intervento al IV Congresso nazionale di Area DG, Palermo 29-30 settembre 2023.
(Immagine: Ponzio Pilato si lava le mani, attribuito a Giacomo Manecchia, olio su tela, circa 1640-1660, collezione privata)
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