Sommario: 1. Un tema attuale, non certo nuovo; 2. I molteplici volti dell’imparzialità del magistrato; 3. Dall’obiettivo dell’imparzialità ai rischi della neutralità culturale; 4. L’“apparenza” d’imparzialità e la fiducia nel potere giudiziario; 5. Il dovere di apparire imparziale come regola di condotta del magistrato; 6. L’apparenza d’imparzialità e i possibili limiti di contenuto alla libertà d’espressione del magistrato: riserbo, non silenzio; 7. Quali regole per imporre “equilibrio e riserbo” e garantire l’immagine d’imparzialità della magistratura, tra hard law …; 8. … e soft law: la deontologia giudiziaria e il ruolo del C.S.M.; 9. Osservazioni conclusive.
1. Un tema attuale, non certo nuovo
Si fa un gran parlare di libertà d’espressione dei magistrati e di limiti alla stessa associabili[1]. Alcuni recenti episodi hanno ravvivato il dibattito, reso incandescente, una volta di più, dal clima di notevole tensione che caratterizza i rapporti tra magistratura e politica[2].
Il tema è attuale ma non certo nuovo, se è vero che già nel 1907, certamente in un contesto diverso da quello odierno, l’allora ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, adottava una circolare dedicata alle “Manifestazioni personali dei magistrati per mezzo della stampa”[3].
La questione, caso mai, risulta essere oggi “alterata” da alcuni fattori inediti, quali, tra tutti, la repentina affermazione di nuove forme di esercizio della libertà di esprimersi e di comunicare, a cominciare da quelle veicolate attraverso la rete o i social, tanto peculiari e per certi aspetti dirompenti da richiedere una verifica della tenuta delle tradizionali coordinate di riferimento.
Il tema richiama a prima vista l’esigenza di un bilanciamento tra libertà costituzionali del magistrato, ovviamente titolare dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento a ogni cittadino, e altri interessi di rango costituzionale eventualmente concorrenti[4]. Con riguardo poi ad alcuni specifici diritti costituzionali, quali la libertà di iscriversi a un partito politico, di svolgere attività in senso lato politica, di associarsi, di riunirsi e appunto di manifestare il proprio pensiero, si presenta la necessità di contemperare gli stessi con quello rappresentato dalla necessaria imparzialità che deve caratterizzare la funzione giurisdizionale, nelle varie declinazioni in cui essa, come dirò meglio più avanti, può essere predicata. Va da sé che l’esito di tale contemperamento di interessi può comportare, a seconda dei casi, una compressione, totale o parziale, del diritto coinvolto.
Le fonti che sottolineano l’esigenza di tale bilanciamento sono innumerevoli, sul piano internazionale e su quello interno. Numerose di esse verranno richiamate nel prosieguo.
Per adesso è sufficiente citare, per tutte, l’art. 10, comma 2, C.E.D.U., dedicato appunto alla libertà di espressione, ove si precisa che l’esercizio di tale libertà, comportando “doveri e responsabilità”, può essere sottoposto a “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni”, le quali costituiscono misure necessarie, in una società democratica, allo scopo di preservare una serie di interessi tra i quali la garanzia della “autorità e imparzialità del potere giudiziario”[5].
“Autorità” e “imparzialità”, due valori fondamentali sui quali mi riservo di tornare.
2. I molteplici volti dell’imparzialità del magistrato
Com’è stato sostenuto, la ragione determinante per la quale l’ordinamento assegna al magistrato compiti di natura giurisdizionale “sta nelle garanzie che egli offre di provvedervi in modo adeguato e imparziale”[6]. L’imparzialità è un connotato imprescindibile della giurisdizione e una qualità essenziale all’idea stessa di magistrato[7]: un magistrato non imparziale non è un magistrato[8].
Le peculiari garanzie che la Costituzione riconosce ai magistrati, a cominciare dall’indipendenza, sono, in ultima analisi, strumentali a preservare tale qualità, la quale, a propria volta, è finalizzata ad assicurare l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla giustizia. Per questa ragione può affermarsi che il fondamento costituzionale dell’imparzialità dei magistrati e della funzione giudiziaria risiede direttamente nell’art. 3 Cost. e, indirettamente, nell’art. 101, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
A tale proposito, appare secondaria la circostanza che tale concetto, così essenziale, sia stato espressamente inserito nella Carta costituzionale soltanto con la legge cost. n. 2/1999, che, com’è noto, ha introdotto, al comma 2 dell’art. 111, la previsione ai sensi della quale ogni “giusto processo” deve svolgersi “davanti a giudice terzo e imparziale”. Si può aggiungere che, mentre l’approccio seguito dagli estensori dell’art. 111 Cost. esalta l’imparzialità come caratteristica oggettiva della funzione giurisdizionale, la diversa l’impostazione seguita nell’art. 6 C.E.D.U., ove si prevede che ciascun individuo ha diritto a che la propria causa sia esaminata “equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”, privilegia la prospettiva del cittadino dinanzi al sistema giustizia, presentando l’imparzialità come un diritto soggettivo della parte di un processo.
Più in concreto, per imparzialità del giudice s’intende il suo essere in partenza super partes rispetto alla controversia da decidere, al fine di preservare la correttezza del processo attraverso il quale si forma il suo convincimento. Come ha precisato la Corte costituzionale, “va escluso, nel giudice, qualsiasi anche indiretto interesse nella causa da decidere” e qualsiasi “pregiudizio” o “convinzione precostituita”[9]. Per imparzialità del giudice, in altre parole, s’intende la sua equidistanza iniziale rispetto agli interessi che si confrontano nella causa dinanzi a lui pendente[10]. Ancora, per la Corte l’esercizio della funzione deve essere “libero da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza”[11].
Da queste condivisibili affermazioni del Giudice costituzionale si possono ricavare due prime interlocutorie conclusioni.
In primo luogo, l’imparzialità, pur essendo un valore costitutivo della funzione giudiziaria, non è un requisito che c’è o non c’è, bianco o nero, bensì esso si presenta spesso in una molteplicità di variazioni e situazioni diverse, per cui è vero che, in parte almeno, esso si impone al magistrato come un obiettivo da perseguire in ogni processo; non un presupposto della sua personalità ma un risultato che egli deve volta per volta realizzare all’atto del decidere[12].
Quest’idea dinamica dell’imparzialità, per inciso, è ben colta nell’art. 9 del Codice etico dell’A.N.M. del 2010, ai sensi del quale il magistrato, “nell’esercizio delle sue funzioni, opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità”.
In secondo luogo, l’imparzialità può essere effettivamente “misurata” soltanto all’interno di una vicenda processuale e nel momento in cui la funzione giudiziaria viene esercitata. Se infatti imparzialità significa che il percorso decisionale seguito dal magistrato non deve essere condizionato da fattori diversi dai fatti e dalle prove dedotte nel giudizio, ne consegue che la verifica del raggiungimento di tale risultato sarà possibile soltanto a conclusione del percorso, dinanzi a una motivazione che dia conto (anche) dell’effettiva imparzialità del giudizio.
Nessuna regola può assicurare che tale risultato venga effettivamente acquisito.
D’altra parte, è ovvio che l’ordinamento, agendo in via cautelativa, abbia affinato alcuni strumenti che, pur non potendo assicurare in senso assoluto l’imparzialità del risultato, fungono da presidi preventivi per scongiurare, per quanto possibile, occasioni che potrebbero favorire delle valutazioni parziali. Essi sono di varia natura e attengono sia alle modalità con le quali il processo è regolato sia alle caratteristiche del soggetto che è chiamato a decidere, atteso che, come detto, l’imparzialità riguarda, allo stesso tempo, sia il processo sia il giudice.
Tali istituti possano essere classificati in ragione della loro maggiore o minore vicinanza all’oggetto del giudizio.
Soltanto a titolo di esempio, è utile richiamare una delle previsioni più caratteristiche tra quelle poste a tutela dell’imparzialità, ovvero l’art. 51 c.p.c. sull’astensione del giudice. Tra le ipotesi di astensione obbligatoria troviamo sia la sussistenza di un interesse del giudice nella causa sia l’esistenza di legami di coniugio, parentela fino al quarto grado, convivenza, rapporti di stretta amicizia (commensale abituale) con una delle parti o con un difensore, ovvero la grave inimicizia, sua o della moglie, con una delle parti o con un difensore, o infine la circostanza di essere tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti.
Si tratta di fattispecie tra loro piuttosto diverse: alcune di esse attengono appunto all’esistenza di un interesse diretto del giudice nella causa, ciò che, per il legislatore, rende quest’ultimo pregiudizialmente “incapace” di esercitare imparzialmente la giurisdizione; altre evidenziano un interesse solo potenziale e/o del tutto indiretto, che tuttavia il legislatore ha ritenuto di far rientrare tra le ipotesi che, pur con meno intensità delle prime, sono idonee a mettere a rischio la prerogativa del giudice di essere imparziale.
Se poi passiamo ai casi di astensione facoltativa, la suddetta gradualità di situazioni appare con maggiore evidenza, atteso che la norma consente al giudice di chiedere l’autorizzazione ad astenersi “in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza”; si tratta di casi in relazione ai quali il magistrato è chiamato a compiere un giudizio prognostico non soltanto sulla sua capacità di essere effettivamente imparziale ma anche sul rischio che si possano ingenerare all’esterno dubbi sulla sua reale serenità e indipendenza di giudizio.
Com’è stato sottolineato, con l’art. 51 c.p.c. il legislatore ha mostrato attenzione “a che il processo si svolga innanzi a un giudice che non soltanto sia ab intra, ma soprattutto appaia ab extra, alle parti e alla comunità intera, sereno e rigoroso custode del compito demandatogli dall’ordinamento, dai suoi stessi concives e nel loro nome: giudicare gli interessi del prossimo con imparzialità ed equanimità, senza pregiudizi di alcun genere che possano inquinare la cognizione e la decisione sul caso”[13].
Lo ha confermato di recente la stessa Corte di Cassazione, quando, proprio in tema di astensione del giudice civile, ha sottolineato che tale istituto giuridico garantisce “sia l’indipendenza del singolo giudice sia il prestigio della sua funzione”[14].
Insomma, anche nella disciplina dell’astensione, l’istituto più classico dell’imparzialità del giudice, tale valore viene richiamato alludendo ad aspetti diversi dello stesso concetto, alcuni più vicini al cuore del problema, ovvero l’assenza di interessi diretti nel processo, altri via via più distanti ma orientati a quello stesso obiettivo[15]; mano a mano che ci si allontana dall’oggetto del giudizio il canone dell’imparzialità mette in risalto anche altri interessi di rilievo costituzionale, quali, in primo luogo, il prestigio e l’autorevolezza del potere giudiziario e la fiducia dei cittadini nei confronti dello stesso.
Sul punto tornerò più avanti. Ora vorrei rimarcare che, quando giustamente si afferma che l’imparzialità è un termine “polisenso” e pertanto suscettibile di assumere significati diversi e diverse sfaccettature[16], si deve aggiungere che questi diversi significati sono spesso così strettamente legati tra loro da rendere arduo il tentativo di tracciare una precisa linea di confine.
3. Dall’obiettivo dell’imparzialità ai rischi della neutralità culturale
La circostanza che il giudice debba essere imparziale non significa che egli non possa - e per certi versi non debba - essere portatore, con riferimento a una determinata controversia, di una sua idea generale, di una personale inclinazione, di un’esperienza di vita potenzialmente in grado di orientare la decisione; vale a dire, non è possibile ritenere che l’imparzialità pretenda la completa spersonalizzazione del giudice.
Come ha osservato ancora la Corte costituzionale, l’imparzialità del giudice “non può essere intesa in modo così lato e generico da farvi rientrare anche l’interesse che egli, come privato cittadino, possa avere a una determinata soluzione di problemi di principio inerenti a quella controversia, non essendoci giudice che non sia, al tempo stesso, elettore, pubblico dipendente, proprietario od affittuario, creditore o debitore …”[17].
Imparzialità, in altre parole, non significa indifferenza o neutralità culturale.
E ciò - si può aggiungere - risulta vero tanto più oggi e per almeno due concorrenti ragioni.
In primo luogo, perché, com’è noto, la sfera della discrezionalità interpretativa del giudice si è progressivamente ampliata.
Mentre nell’impostazione tradizionale, teorizzata da Montesquieu, la funzione giurisdizionale era qualificata come esercizio di un potere “nullo” e l’attività giudiziaria era concepita come una meccanica applicazione della volontà della legge, più di recente si è diffusa la contraria consapevolezza per la quale la stessa attività si caratterizza per unconsiderevole margine di libertà. Si è passati, nello spazio di circa un secolo, dal giudice mera “bocca della legge” alla “verità banale” della natura creativa dell’attività interpretativa[18]; o meglio, com’è stato detto, è platealmente venuta al pettine una contraddizione fondamentale che albergava nella cultura giuridica classica: “il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo”[19].
Tali trasformazioni si sono realizzate in forza di alcuni fattori eterogenei, quali la crescente complessità delle società moderne pluraliste, il rapporto diverso in cui è venuto a trovarsi il giudice rispetto alla legge in un sistema a Costituzione rigida, il principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello interno, i mutamenti riguardanti la rilevanza delle norme contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il fenomeno della crisi della legge, spesso oscura, lacunosa, frammentata. In questo contesto, per inciso, è maturata anche la nota tendenza al c.d. “protagonismo giudiziario” e sono aumentate le occasioni di contrasto tra il piano della legislazione e quello della giurisdizione[20].
Per quanto qui più interessa, va da sé che i nuovi spazi dell’interpretazione del giudice non possono che essere “occupati” - o meglio orientati - anche dalle convinzioni personali e dalla visione del mondo di cui egli è portatore: pur nei limiti di ciò che il testo consente, sempre più spesso l’interpretazione richiede al giudice (anche) scelte ideali e di valore.
In secondo luogo, è divenuta del tutto insostenibile, in quanto incompatibile con la democrazia pluralista, l’idea classica del “magistrato-sacerdote”, isolato nella “torre d’avorio” e distaccato dalla vita della comunità[21].
Del resto, come di recente è stato efficacemente ricordato[22], il mito del magistrato “disincarnato”, estraneo alla dialettica culturale e politica del suo tempo, è stata in passato funzionale non tanto all’obiettivo dell’indipendenza e dell’imparzialità bensì ad un’adesione dello stesso al blocco storico-politico dominante, quale strumento di omologazione alla maggioranza del momento.
Per magistrati apolitici si intendeva, in altre parole, magistrati allineati.
Se dunque non si può pretendere un giudice senza idee e senza passioni, è peraltro vero che ciò comporta delle conseguenze in ordine al suo dovere d’imparzialità. Proprio perché il magistrato, oggi più che in passato, è “una persona carica di esperienze, animata da convinzioni, ispirata da ideali” - che dunque al momento del decidere non potrà che utilizzare questo suo mondo interiore per leggere la realtà all’interno della quale si cala la causa - egli dovrà riuscire a non farsi del tutto condizionare da tale lettura, rimanendo il più possibile indipendente (e imparziale) anche da se stesso, in una “consapevole tensione verso l’obiettività nello svolgimento della propria attività professionale”[23].
Anche da questa prospettiva l’imparzialità si presenta come un risultato da perseguire caso per caso.
4. L’“apparenza” d’imparzialità e la fiducia nel potere giudiziario
Si è accennato ai molteplici volti dell’imparzialità.
In particolare, è opinione diffusa che il giudice, oltre a essere imparziale, debba mostrare anche un’apparenza d’imparzialità, ovvero non debba trovarsi in situazioni o tenere comportamenti tali da far venir meno la fiducia delle parti e della comunità nella sua posizione equanime e disinteressata.
Sul punto occorre partire da una precisazione.
Si è anticipato che sostanza e apparenza d’imparzialità, pur essendo concetti autonomi - del resto, si può essere imparziali senza apparire tali e, viceversa, apparire imparziali e non esserlo in concreto[24] - nei fatti si rivelano spesso unite in modo inestricabile e ciò anche per il fatto che le regole poste a presidio dell’una assicurano, in misura variabile, anche il rispetto dell’altra. Allo scopo di assicurare il canone dell’imparzialità, infatti, il legislatore deve immaginare in anticipo le situazioni che potrebbero metterla a rischio sulla base di un giudizio prognostico, fondato su previsioni ipotetiche; difficile separare l’apparenza dalla sostanza.
Ciò precisato, quando si richiama specificamente l’apparenza d’imparzialità s’intende fare riferimento a una serie differenziata di condotte del magistrato - tra le quali sono certamente ricomprese le forme di manifestazione del pensiero - tenute al di fuori del processo e ad esso riconducibili in modo del tutto indiretto.
Si pensi, a titolo di esempio, alle ipotesi, evocate dai citati casi Apostolico e Degni, di un magistrato che partecipa a una manifestazione politica o a un dibattito pubblico, in rete o sui social media, su un tema d’attualità dal vasto impatto sociale (l’appartenenza politica, l’ambiente, i migranti, ecc.) e alle conseguenze di tali manifestazioni del pensiero sulla percezione esterna che si forma di tale magistrato circa la sua capacità di decidere imparzialmente un’eventuale causa rispetto alla quale tali temi siano in qualche misura rilevanti.
La casistica è infinita ma è possibile fornire qualche indicazione di ordine generale.
Partendo dal fondamento costituzionale, l’interesse all’apparenza d’imparzialità può essere individuato in due disposizioni della Carta ulteriori rispetto a quelle che si pongono a fondamento dell’apparenza in senso stretto.
Innanzi tutto, nell’art. 98, comma 2, Cost., ai sensi del quale “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”; essa è, in fondo, la sola disposizione che affronta direttamente il problema, atteso che il divieto d’iscrizione ad un partito politico è posto soprattutto a tutela dell’immagine d’imparzialità.
Lo ha sottolineato del resto la stessa Corte costituzionale, con la sent. n. 224/2009, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lett. h) del d. lgs. n. 109/2006, ove si sanziona disciplinarmente non soltanto l’iscrizione ma anche la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato ad un partito politico; nell’occasione il Giudice delle leggi ha osservato che tale disposizione, pur non limitandosi a prevedere il divieto d’iscrizione formale, rappresenta comunque una ragionevole attuazione dell’art. 98, comma 3, Cost., dal momento che anche la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito è suscettibile, al pari dell’iscrizione, di condizionare “l’esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di compromettere l’immagine del magistrato”[25].
Inoltre, un’altra disposizione costituzionale che sembra opportuno richiamare è l’art. 54, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Si tratta di un dovere di fedeltà “qualificato”, rafforzato ulteriormente dalla previsione del giuramento[26], teso a orientare le modalità esterne dell’operare del funzionario - e ovviamente anche del magistrato - e ad esaltare il suo senso di “responsabilità”, atteso che il suo operato è, immancabilmente, “destinato a riflettersi sull’immagine che di quella medesima istituzione i cittadini percepiscono e ad incidere, perciò, sulla fiducia che dovrebbero potervi riporre e sul rispetto che le dovrebbero portare”[27].
Il collegamento con l’art. 54 Cost. consente di confermare come l’apparenza d’imparzialità ponga al centro dell’attenzione l’interesse alla “fiducia” o alla “credibilità” nei confronti del singolo magistrato e, allo stesso tempo, della magistratura nel suo complesso[28].
Anche questo non è un tema nuovo: già Piero Calamandrei osservava che “per godere della fiducia del popolo, ai giudici non basta essere giusti ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali”[29].
Lo ha ricordato la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sottolineando come, in una società democratica, i giudici devono ispirare la fiducia dei cittadini, a cominciare dalle parti del procedimento[30].
Di recente, anche la Corte di Cassazione, a conclusione del noto caso Emiliano[31], dopo aver sottolineato che “il giudice ha il dovere non soltanto di essere imparziale ma anche di apparire tale”, ovvero di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”, ha aggiunto: “con la differenza che, mentre l’essere parziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana; l’essere magistrato implica un’immagine pubblica di imparzialità”.
Tutto ciò, ha sottolineato ancora la Cassazione, “per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”[32].
L’importanza della “immagine pubblica di imparzialità” del magistrato è stata sottolineata anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. In più occasioni - ora con riferimento alla garanzia dell’equo processo, di cui all’art. 6 C.E.D.U., ora con riguardo ai possibili limiti alla libertà di espressione, ai sensi dell’art. 10 C.E.D.U. - essa ha affermato che l’imparzialità del giudice deve essere apprezzata secondo un criterio “soggettivo” e un criterio “oggettivo”: il criterio soggettivo consiste nello stabilire se, dalle convinzioni personali e dal comportamento di un determinato giudice, si possa desumere che egli abbia un’idea preconcetta rispetto a una particolare controversia sottoposta al suo esame; il criterio oggettivo impone invece di valutare se esistano fatti verificabili che possano generare dubbi sulla sua imparzialità.
A tale proposito, anche l’apparenza è rilevante perché, ha sottolineato ancora la Corte europea, “non si deve solo fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta, essendo in gioco la fiducia che i giudici debbono ispirare nell’opinione pubblica”[33].
L’apparenza d’imparzialità del singolo magistrato, quindi, contribuisce ad assicurare la fiducia dei cittadini nella magistratura intesa come istituzione, “legittimandola” presso i cittadini; obiettivo di vitale importanza, se è vero, com’è stato detto, che il potere giudiziario non deve andare alla ricerca del consenso ma non può fare a meno della fiducia, che è il vero “banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati”[34].
Al contrario, com’è stato osservato, ove dovesse insinuarsi il sospetto di deviazioni da un percorso logico-giuridico scevro da prevenzioni o interesse condizionanti, si romperebbe quel rapporto di fiducia e potrebbero trovare spazio “attacchi delegittimanti che rendono difficile l’accettazione pacifica degli esiti delle controversie giudiziarie”[35].
Si tratta, in un certo senso, di un risvolto peculiare del carattere diffuso del potere giudiziario, che parla attraverso ogni suo singolo giudice non soltanto con la sentenza che adottata ma anche, entro certi limiti, con le condotte che tiene.
Si avverte anche l’eco dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, citato in precedenza, quando esso richiama, unitamente all’imparzialità, il valore dell’“autorità” del potere giudiziario tra quelli il cui perseguimento può giustificare limitazioni alla libertà di espressione.
5. Il dovere di apparire imparziale come regola di condotta del magistrato
L’apparire imparziale, anche aldilà del concreto esercizio della funzione giurisdizionale, costituisce quindi un dovere del singolo magistrato.
Nella notissima sent. n. 100/1981, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511/1946[36], la Corte costituzionale ha riconosciuto la compatibilità di tale previsione, tra l’altro, con l’art. 21 Cost. atteso che indipendenza e imparzialità sono valori che devono essere tutelati sia con riferimento al concreto esercizio della funzioni giurisdizionale sia come “regola deontologica”, da osservarsi in ogni comportamento, “al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della indipendenza ed imparzialità dei magistrati”.
La difficoltà risiede nel comprendere in cosa effettivamente debba sostanziarsi tale regola di condotta e, di conseguenza, nell’individuare in concreto il punto di equilibrio tra la sua osservanza e la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero.
In particolare, con riguardo alla libertà di espressione, occorre chiedersi se il dovere di apparire imparziali comporti in capo al magistrato limiti di forma o anche di contenuto.
Promettendomi di affrontare la questione degli eventuali limiti di contenuto nel successivo paragrafo, con riguardo a quelli di forma mi pare non vi possano essere dubbi e numerose sono le indicazioni utilizzabili in proposito.
In proposito, di estremo interesse la già citata sent. n. 170/2018, nella quale, pur partendo da una questione riguardante i limiti che il magistrato incontra nello svolgere attività politica all’interno di un partito, si ricorda come l’esercizio dei diritti di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. sia condizionato dalla circostanza che esso si realizzi con “equilibrio e misura”, che devono caratterizzare ogni comportamento di rilevanza pubblica del magistrato.
L’invito alla “moderazione” si ritrova in molti documenti di varia natura e provenienza: possono richiamarsi, tra gli altri, il Codice etico dell’Associazione nazionale magistrati[37] e il Parere del Comitato consultivo dei Giudici europei del 2022, che si conclude con una serie di raccomandazioni tra le quali quella a mente della quale, “nell’esercitare la loro libertà di espressione, i giudici devono tener conto delle loro specifiche responsabilità e dei loro doveri nella società; devono quindi esercitare restraint nell’esprimere i loro punti di vista e opinioni in ogni circostanza in cui, dal punto di vista di un osservatore ragionevole, le loro dichiarazioni potrebbero compromettere l’indipendenza o imparzialità e la dignità del loro ufficio o mettere in crisi l’autorevolezza del potere giudiziario”[38].
In definitiva, il primo e unico limite di metodo che il magistrato incontra nell’esercizio della libertà di manifestare il proprio pensiero all’esterno della funzione giudiziaria si sostanzia in un invito, a seconda delle varie formule utilizzate, alla “moderazione”, alla “sobrietà”, alla “continenza”, alla “compostezza” o all’“equilibrio”.
Si tratta, a prima vista, di indicazioni piuttosto vaghe[39]; o meglio, condivisibili e chiare nella loro essenza ma di difficile definizione in concreto. Circostanza, com’è stato osservato, che impone uno scrutinio non particolarmente stretto del controllo sul loro rispetto, indirizzato a sanzionare i casi estremi, di evidente assenza di moderazione[40].
Inoltre, come ben si evidenzia nel citato parere del Comitato consultivo dei giudici europei del 2022, appare decisivo individuare l’interlocutore-tipo rispetto al quale deve misurarsi la correttezza della condotta del magistrato, affinché la stessa non trasmodi in una lesione dell’apparenza d’imparzialità e dunque della fiducia nella magistratura; risposta che viene in quella sede individuata nell’“osservatore ragionevole”, ovvero nel “cittadino-medio”, vale a dire una persona “mediamente ragionevole, imparziale e informata”[41].
Circostanza che rafforza ulteriormente l’idea dell’estrema vaghezza dei concetti presi in considerazione e della conseguente necessità che il controllo sulle manifestazioni del pensiero del magistrato che esorbitano i criteri di equilibrio e misura debba essere orientato a scoraggiare le deviazioni più gravi ed evidenti.
6. L’apparenza d’imparzialità e i possibili limiti di contenuto alla libertà d’espressione del magistrato: riserbo, non silenzio
Discorso diverso, invece, quello riguardante la possibilità, allo scopo di assicurare la sua immagine d’imparzialità, d’immaginare in capo al singolo magistrato anche dei limiti di contenuto, ovvero di poter precludere allo stesso di esternare le proprie idee su determinati temi.
È evidente che dei limiti s’impongono con riguardo alle esternazioni che attengono ai contenuti dei procedimenti trattati dal magistrato o sono comunque strettamente collegate all’attività dell’ufficio.
Rilevano, a tale proposito, alcune puntuali disposizioni disciplinari contenute nel d.lgs. n. 109/2006:
a) art. 2, comma 1, lettera u), ove si prevede come illecito “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui”;
b) art. 2, comma 1, lettera v), che sanziona le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui, nonché in violazione del divieto di cui all’art. 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del d. lgs. n. 106/2006” (in merito alle informazioni riguardanti le attività delle Procure della Repubblica);
c) art. 2, comma 1, lettera aa), ove si prevede l’illecito consistente nel “sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero [nel] costituire e utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati”.
Per quanto riguarda invece le esternazioni non collegate a procedimenti giudiziari in corso, la sola indicazione che pare ragionevole fornire è quella per cui certi argomenti più “sensibili”, di maggior impatto sociale e/o politico, impongono al magistrato doveri d’equilibrio e misura corrispondentemente più rigorosi[42].
Per il resto, è ben difficile anche solo ipotizzare l’idea di escludere a priori determinati contenuti della libertà di espressione del magistrato senza cadere in una violazione irragionevole della stessa libertà.
Viene in soccorso, ancora, la giurisprudenza della Corte E.D.U., laddove essa - definendo cause che hanno coinvolto ordinamenti statali nei quali le garanzie d’indipendenza della magistratura sono state poste a rischio - si è soffermata con estrema attenzione su tale delicatissimo bilanciamento. Da un lato, essa ha ricordato, ancora una volta, che la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché “le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva” ed esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria.
Tuttavia, dall’altro lato - ed è quanto qui ora più interessa - la Corte E.D.U. ha precisato che, “il fatto che un dibattito abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito”; anzi, quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, “egli ha talora il dovere, non solo il diritto, di intervenire”[43].
La giurisprudenza della Corte E.D.U., dunque, aggiunge un altro tassello di cui tenere conto nel contemperamento di interessi: la libertà d’espressione non è soltanto un diritto fondamentale del singolo ma, tanto più quando i connotati essenziali dello stato di diritto paiono messi a rischio, essa è espressione anche di un interesse della collettività intera. In questo senso, può dirsi che l’imparzialità della magistratura, intesa nella sua immagine esterna, ha come “controvalori” anche la libertà di essere informati dai cittadini.
7. Quali regole per imporre “equilibrio e riserbo” e garantire l’immagine d’imparzialità della magistratura, tra hard law…
Occorre, a questo punto, chiedersi quale debba essere la natura e il rango delle fonti destinate ad incidere sulla libertà d’espressione del magistrato; e poiché i limiti all’esercizio di un diritto costituzionale devono essere posti per legge, o per atto avente forza di legge, occorre avviare la ricognizione dal piano delle fonti primarie[44].
Già si è detto, a tale proposito, che sono previsti con fonte primaria - in particolare dal d. lgs. n. 109/2006, sotto forma di illeciti disciplinari - i limiti alla libertà di espressione del magistrato inerenti all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Per quanto riguarda, però, i limiti riguardanti le esternazioni rese al di fuori dell’attività giudiziaria - ovvero i richiamati doveri di riserbo e di misura, finalizzati a garantire l’apparenza d’imparzialità - il discorso è più nebuloso.
Fino al 2006 la norma più calzante in proposito era senza dubbio l’art. 18 della legge sulle guarentigie della magistratura (r.d.lgs. n. 511/1956), laddove essa stabiliva che “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari …”.
Proprio su tale previsione, del resto, si era fondato quell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale - sopra richiamato [45]- secondo cui imparzialità e indipendenza sono valori che il magistrato deve apprezzare alla stregua di una “regola deontologica”, da osservarsi in ogni comportamento; e non sono mancati negli anni, ancorché non frequentemente, taluni provvedimenti della Sezione disciplinare del C.S.M. che, in applicazione di tale norma, hanno sanzionato esternazioni improvvide, ritenute lesive del prestigio dell’ordine[46].
Tuttavia, com’è noto, anche sulla scia di un annoso dibattito che ne aveva stigmatizzato l’eccessiva genericità e indeterminatezza, tale previsione è stata abrogata con il d. lgs. n. 109/2006, che, a propria volta, a parte una generica previsione ai sensi della quale “il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con correttezza, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona” (art. 1), dedica alla questione ben pochi riferimenti.
In particolare, se si fa eccezione del richiamato divieto d’iscrizione o partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici (art. 3 del d. lgs. n. 109/2006) - che, come detto, è teso a garantire l’imparzialità soprattutto nella sua immagine esterna - nessuna disposizione è prevista a tale riguardo[47].
Nella prima versione del decreto n. 109, in realtà, la situazione era assai diversa, dal momento che esso contemplava tre illeciti rilevanti in proposito, tutti successivamente abrogati con legge n. 269/2006 in ragione della loro eccessiva indeterminatezza:
a) tenere, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, “comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio della istituzione giudiziaria” (art. 1, comma 2);
b) il “rilascio di interviste o dichiarazioni in violazione dei criteri di equilibrio e misura” (art. 2, comma 1, lettera bb);
c) ogni altro comportamento “tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza” (art. 3, comma 1, lettera l).
Soprattutto quest’ultima disposizione - che, non a caso, nel corso del dibattito originato dal citato caso Apostolico, alcuni avrebbero volute reintrodurre[48] - era espressamente orientata alla garanzia dell’immagine d’imparzialità dei magistrati; d’altra parte, la sua estrema genericità e il connesso rischio che la stessa potesse prestarsi ad attuazioni imprevedibili e potenzialmente illiberali ha convinto il Parlamento a procedere alla sua repentina abrogazione.
Tale vicenda dimostra l’estrema difficoltà in cui si trova il legislatore quando tenta di regolare in astratto fattispecie così impalpabili, essendo arduo fissare una volta per tutte il punto di equilibrio del bilanciamento tra gli interessi coinvolti in questo frangente e alto il rischio di arrecare un vulnus a principi costituzionali più grave del vantaggio che si intende perseguire[49].
Tuttavia, non è forse impossibile immaginare, nel contesto della tipizzazione rigida che caratterizza il sistema italiano di giustizia disciplinare, una fattispecie nuova di illecito, meno indeterminata di quelle appena richiamate, che sia volta a sanzionare i casi più eclatanti di deviazione dai canoni di continenza e riserbo riferiti ad esternazioni del magistrato non direttamente collegate all’esercizio della funzione disciplinare[50].
Per inciso, in linea teorica, un’altra soluzione applicabile, sotto il profilo in senso lato sanzionatorio, potrebbe essere quella del trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge sulle guarentigie della magistratura, ai sensi del quale il C.S.M può adottare tale provvedimento “quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa, [i magistrati n.d.r.] non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”[51].
Tale soluzione, peraltro, oltre a poter essere utilizzata esclusivamente in casi estremamente gravi e peculiari, per intervenire in maniera rapida in situazioni che, per la loro consistenza obbiettiva, siano idonee a mettere in discussione la credibilità dell’esercizio della funzione giudiziaria in uno specifico contesto, potrebbe essere praticabile soltanto accedendo a una interpretazione dell’art. 2, comma 2, ai sensi della quale per “causa indipendente da loro colpa” si intenda, un pò forzatamente, “prive di rilevanza disciplinare”; interpretazione, com’è noto, sovente accolta e praticata dal C.S.M. ma certamente non priva di controindicazioni[52].
8. … e soft law: la deontologia giudiziaria e il ruolo del C.S.M.
Non è dunque agevole risolvere la questione sul piano dell’intervento “repressivo” del legislatore. Sembrano in definitiva più adeguati - in linea di principio anche in concorso con i primi - strumenti più “morbidi”, di soft law, volti a promuovere comportamenti virtuosi, più che a reprimere e sanzionare le deviazioni dagli stessi.
In questa direzione si pongono alcuni recenti documenti, di carattere sovranazionale e nazionale, citati in precedenza[53].
Limitandomi alle prospettive realizzabili in ambito statale, ne segnalo due, che rappresentano altrettante possibili soluzioni del problema.
Una prima soluzione è rappresentata dalla deontologia giudiziaria e, in particolare, dalle indicazioni contenute nel Codice etico del 2010. Tale documento, all’art. 6, comma 2, sollecita il magistrato a ispirare le proprie condotte a criteri di “equilibrio, dignità e misura”; e, al successivo art. 8, precisa che “il magistrato garantisce e difende, all’esterno e all’interno dell’ordine giudiziario, l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza”.
Per inciso, alla luce anche dello sviluppo della tecnologia e dei social media, alcune norme del Codice etico potrebbero essere utilmente aggiornate.
La seconda soluzione risiede in un intervento diretto dell’organo di governo autonomo della magistratura, sulla falsariga di quanto ha fatto di recente, con riguardo alla magistratura amministrativa, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa attraverso l’adozione delle “Linee guida sull’utilizzo dei social media”[54].
Tali linee guida sono espressamente dedicate a promuovere le condotte virtuose dei magistrati amministrativi con riguardo alle manifestazioni del loro pensiero soprattutto attraverso i social. Tra di esse si legge che “i magistrati amministrativi utilizzano i social media, quale forma della libertà di manifestazione del pensiero, nel rispetto dei canoni di comportamento da essi esigibili, anche nella vita privata, secondo i codici etici dei magistrati amministrativi e le vigenti norme disciplinari, al fine di salvaguardare il prestigio e l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica”; e ancora, che “i magistrati amministrativi fanno un uso dei social media ispirato a parametri di consapevolezza dei rischi e dei vantaggi derivanti dall’utilizzo di tale forma di comunicazione, e di assunzione di responsabilità individuale per comportamenti e dichiarazioni divulgati con tali mezzi”; e infine che “i magistrati amministrativi adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media, nonché con riferimento al rischio della perdita di controllo del o dei contenuti immessi ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione”.
Entrambe le soluzioni, quella del Codice etico e quella delle Linee guida adottate dall’organo di governo autonomo - tra loro non alternative anche se andrebbero probabilmente coordinate - avrebbero il vantaggio della flessibilità, di avere una natura eminentemente promozionale e di essere orientate a costruire una cultura diffusa di attenzione a tali problemi.
Nessuna delle due, peraltro, appare priva di controindicazioni.
Quanto alla prima, lasciare alle sole norme deontologiche il compito di garantire l’immagine d’imparzialità dei magistrati sconta un’evidente debolezza che risiede sia nella stessa natura “fragile” di tali regole, dalla finalità eminentemente persuasiva, sia nel procedimento di formazione delle stesse: ovvero, nella circostanza che la definizione e il rispetto di tali norme è affidato per legge a un’associazione privata (l’A.N.M.) alla quale non tutti i magistrati sono iscritti e dalla quale non tutti potrebbero sentirsi “rappresentati”[55].
Quanto alla seconda, la predisposizione di “Linee guida” da parte dell’organo del governo autonomo della magistratura - in prospettiva il C.S.M. si sta ponendo tale problema[56] - potrebbe far conseguire il risultato con maggiore efficacia ma sconterebbe il rischio di un’eccessiva concentrazione, in capo a tale organo, di molteplici ed eterogenee funzioni: quella promozionale-orientativa propria delle eventuali “Linee guida”, quella disciplinare esercitata dalla Sezione e infine quella riguardante le valutazioni di professionalità.
Concentrazione che, pur da non doversi escludere in modo assoluto, determinerebbe probabilmente alcune criticità[57].
9. Osservazioni conclusive
Difficile, in conclusione, individuare la soluzione più adeguata allo scopo di presidiare il dovere di ciascun magistrato di preservare l’immagine d’imparzialità. L’alternativa tra intervento legislativo in ambito disciplinare, misure di natura deontologica e possibile adozione da parte del C.S.M. di Linee guida comporta, per ciascuna di tali soluzioni, costi e benefici che non rendono agevole la scelta.
In linea di principio, sarebbe possibile pensare ad un intervento su più livelli.
In conclusione, mi sentirei di riprendere l’osservazione fatta in apertura: il tema di cui oggi si discute non è affatto nuovo e il dibattito attuale andrebbe depurato di alcuni evidenti esagerazioni.
Certamente, come detto, sono nuove le forme del comunicare, più dirette, efficaci, immediate, durature e meno controllate, impensabili soltanto qualche anno fa. Circostanza che, pur non mettendo a rischio le coordinate teoriche e giuridiche richiamate in precedenza, inserisce nel bilanciamento relativo ai singoli casi concreti degli elementi inediti di cui occorre tenere conto[58].
Si pensi, a tale proposito, alla circostanza che le manifestazioni del pensiero, quando finiscono nella rete, sono destinate a rimanerci tendenzialmente per sempre e a “spuntare fuori” al momento opportuno, all’esito di una semplice “ricerca”. Dato, quest’ultimo, che, se da un lato sembra rafforzare l’esigenza di equilibrio e misura nelle esternazioni del magistrato, dall’altro lato non può certo rappresentare un fattore di compressione “continuativa” della libertà di espressione.
Altrettanto certamente si sono registrati, nei tempi più recenti, dei protagonismi eccessivi da parte di alcuni magistrati, delle esternazioni abbondantemente sopra le righe, che non hanno fatto un buon servizio alla credibilità della magistratura nel suo insieme. E tuttavia, si è trattato di episodi isolati, in un contesto di una magistratura composta da migliaia di magistrati, spesso i primi a provare imbarazzo dinanzi agli eccessi dei colleghi.
Ma vi è un altro elemento nuovo di cui non si può non tenere conto, ovvero la crescente strumentalizzazione politica del tema.
Ciò che più colpisce, infatti, è la diffusa insofferenza di una larga parte della classe politica nei confronti delle esternazioni non gradite provenienti anche da cittadini-magistrati, che conduce con troppa leggerezza a sollevare polemiche pretestuose circa presunte violazioni dell’imparzialità, con ciò screditando - magari avendo anche altri fini - la legittimità e l’autorità della magistratura come istituzione.
Situazione che non può non preoccupare, perché essa mette a rischio non soltanto il pluralismo democratico ma anche i tratti costitutivi dello Stato di diritto.
[1] Di grande interesse, da ultimo, le riflessioni contenute nel numero monografico di Questione giustizia, n. 1/2 del 2024, intitolato Magistrati: essere o apparire imparziali.
[2] Di recente si sono registrati i casi, pur tra loro diversi, della giudice Iolanda Apostolico - la quale, alcuni anni prima dell’adozione di un provvedimento con il quale non aveva convalidato il trattenimento di uno straniero, aveva partecipato a una manifestazione pubblica a sostegno dei migranti; cfr. per tutti N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia, 10 ottobre 2023 - e del consigliere (di nomina governativa) della Corte dei Conti Marcello Degni, autore di un messaggio social nel quale aveva duramente criticato la manovra economica varata dal Governo (cfr. V. Azzolini, Il consigliere della Corte dei Conti Marcello Degni ha sbagliato, il Pd lo censuri senza remore, in Domani, 8 gennaio 2024).
[3] Lo ricorda C. Bologna, La libertà di espressione dei “funzionari”, Bologna, 2020, 150 e, prima ancora, S. De Nardi, La libertà di espressione dei magistrati, Napoli, 2008, 555 s.
[4] Cfr. per tutti A. Pizzorusso, Appunti per lo studio della libertà di opinioni dei funzionari: ambito soggettivo del problema, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 1631 ss.
[5] Questo il testo completo dell’art. 10, comma 2, C.E.D.U.: “L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
[6] A. Pizzorusso, Giustizia e giurisdizione: nozioni fondamentali, ora in L’Ordinamento giudiziario, vol. 1, Napoli, 2019, 13.
[7] Cfr. P. Gaeta, Poteri e garanzie (la magistratura), in Enc. Dir., Milano, 2023, 843 ss.
[8] Per quanto la Corte costituzionale le richiami sovente come se fossero intercambiabili (cfr. Corte cost., sent. n. 240/2003), è utile precisare che imparzialità e terzietà, spesso associate, non sono concetti del tutto sovrapponibili: l’imparzialità attiene alla posizione sostanziale del magistrato rispetto agli interessi in gioco nel processo mentre la terzietà evoca una collocazione anche formale di equidistanza dalle parti.
A tale proposito può dirsi che la terzietà rappresenta la forma più intensa d’imparzialità, richiesta al solo magistrato giudicante, mentre l’imparzialità contraddistingue anche il magistrato requirente, che assume il ruolo di parte nel processo, sebbene, a differenza dell’avvocato difensore, di parte pubblica.
A tale proposito v. Corte cost., sent. n. 34/2020, dove si evidenzia l’“asimmetria strutturale” tra i due principali antagonisti del processo penale e si sottolinea che il principio di parità non si traduce in un’assoluta simmetria di poteri: l’avvocato e il pubblico ministero sono due realtà tra loro “irriducibili”, nella misura in cui il primo è un privato professionista il cui mandato è quello di assicurare al meglio gli interessi del suo assistito, a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza (ovvero difendere i suoi diritti fondamentali: in primis, la sua libertà personale), mentre l’altro è un soggetto pubblico, che agisce nell’esercizio di un potere ed è chiamato a garantire l’interesse generale alla ricerca della verità nel processo.
[9] Corte cost., sentt. nn. 60/1969 e 155/1996.
[10] È del tutto ovvio che il giudice, avendo il compito di decidere, deve alla fine, per così dire, scegliere una parte, ovvero distribuire i torti e le ragioni, ma ciò avviene sulla base di un percorso e di un atteggiamento in partenza disinteressato ed equidistante.
[11] Corte cost., sent. n. 18/1989.
[12] Cfr. L. De Renzis, L’imparzialità del giudice: un obiettivo raggiungibile, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 20 ss.
[13] Così A. Tedoldi, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario del Codice di Procedura Civile, a cura di S. Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, 54.
[14] Cass. civ., sez. un., sent. n. 24148/2013.
[15] Analogamente, con riguardo all’art. 34 c.p.p., la Corte costituzionale ha ricordato che la disciplina della incompatibilità del giudice per atti già compiuti nel procedimento è volta a garantire il “giusto processo” tramite “un giudizio imparziale, che non sia né possa apparire condizionato da precedenti valutazioni del giudice” (Corte cost., sent. n. 177/1996).
[16] Cfr. Volpi, L’imparzialità dei magistrati e la loro partecipazione alla vita politico-sociale, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 57 ss.
[17] Così Corte cost., sent. n. 135/1975.
[18] Cfr., per tutti, M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Milano, 1984, I ss.
[19] M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, in Analisi del diritto 2004. Ricerche di giurisprudenza analitica, a cura di P. Comanducci e G. Guastini, Torino, 2005, 1 ss.
In argomento, da ultimo, cfr. I. Massa Pinto, Il dilemma del giudice che non deve produrre diritto, ma che non può non produrlo: il costituzionalismo e le ragioni di Creonte, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 90 ss.
È noto che, nell’esperienza italiana, uno snodo cruciale del cammino verso la suddetta consapevolezza è stato rappresentato dal Convegno di Gardone nel 1965, in occasione del quale, tra gli orientamenti più radicali, si manifestò addirittura l’idea secondo cui i magistrati avrebbero dovuto essere considerati portatori di un proprio “indirizzo politico-costituzionale”; cfr. G. Maranini, Funzione giurisdizionale e indirizzo politico nella Costituzione, in Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione, Atti del XII Congresso nazionale magistrati italiani, Gardone Riviera, 25-28 settembre 1965, Roma, 1966, 7 ss.
Nella mozione finale del Convegno di Gardone viene espressamente rifiutata “la concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese”, per affermare che “il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione giudiziaria, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. La mozione è ripresa in A. Pizzorusso (a cura di), L’ordinamento giudiziario, Bologna, 1974, 31, in nota.
[20] Cfr. ora, per tutti, M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano 2023, spec. 147 ss.
[21] Cfr. G. Persico, La nuova magistratura, Roma, 1945, 46, che osservava, allora, che i magistrati “dovranno considerare la loro missione come un vero e proprio sacerdozio …”.
[22] G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 42 ss.
[23] N. Rossi, Sull’imparzialità dei magistrati: intelligenze e competenze diverse a confronto, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 7.
[24] T. Giovannetti, I magistrati, la politica e l’insostenibile peso dell’apparenza, in Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti, a cura di G. Campanelli, F. Dal Canto, E. Malfatti, S. Panizza, P. Passaglia e A. Pertici, Torino, 2010, 371 ss.
[25] Analogamente sul punto, v. anche Corte cost., sent. n. 170/2018.
[26] Cfr., per i magistrati, l’art. 9 del r.d. n. 12/1941.
[27] Così R. Rordorf, L’art. 54 della Costituzione, in La magistratura, 22 aprile 2022.
Per un “rilancio” del dovere sotteso alla “disciplina ed onore” dei funzionari pubblici, v. F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, 2009, 1 ss.
[28] Analogamente, cfr. P. Curzio, Una questione di fiducia, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 50 ss.
[29] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1954, 239.
Di recente il Capo dello Stato ha ricordato che “l’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte” (S. Mattarella, Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio, 15 giugno 2023, disponibile su www.quirinale.it.).
[30] Cfr. C.G.U.E., C-585/18 del 19 novembre 2019, richiamata anche in R. Sanlorenzo-E. Scoditti, Presentazione. Le ragioni di questo fascicolo, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 9.
[31] Vicenda cui si riferiscono anche le già citate pronunce costituzionali nn. 224/2009 e 170/2018. Per un esame di tale complessa vicenda giudiziaria sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Magistrati e impegno politico: problemi e prospettive a partire dalla recente definizione della vicenda Emiliano, in Giustizia insieme, 21 luglio 2020.
[32] Cass. civ, sez. un., sent. n. 8906/2020. Cfr. anche Corte Cost., sent. n. 197/2018 e ord. n. 81/1995.
[33] Cfr., ex multis, Corte E.D.U., Danilet v. Romania, sent. 20 febbraio 2024; Daineliene v. Lituania, sent. 16 ottobre 2018; Kamenos contro Cipro, sent. 31 ottobre 2017; Morice v. Francia, sent., Grande Camera, 23 aprile 2015; Dragojevic v. Croazia, sent. 15 gennaio 2015; Di Giovanni v. Italia, sent. n. 9 luglio 2013; Castello Algar v. Spagna, 28 ottobre 1998; Piersack v. Belgio, sent. 1° ottobre 1982.
[34] L. Ferrajoli, Etica e giurisdizione. I fondamenti teorici, in Scuola superiore della magistratura, 15 aprile 2024, di cui si riporta il seguente brano: “non è il consenso, ma la fiducia dei cittadini e soprattutto delle parti in causa, primi tra tutti gli imputati, il banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati. Consenso e fiducia sono sentimenti tra loro diversi. Il consenso è l’adesione o la condivisione del merito dei provvedimenti giudiziari, frutto talora delle pressioni dell’opinione pubblica e dell’inclinazione dei giudici a soddisfarle. La fiducia riguarda invece la correttezza, la soggezione alla legge, il rispetto delle garanzie e l’indipendenza dei magistrati ed è anzi tanto maggiore quanto più è sorretta dalla convinzione che essi siano capaci, ripeto, di assolvere quando tutti pretendono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione”.
[35] Così G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, cit., 44.
[36] Ai sensi del quale veniva sanzionato disciplinarmente il magistrato che teneva una condotta che lo rendeva “immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere” o comprometteva “il prestigio dell’ordine giudiziario”; com’è noto, tale previsione è stata abrogata con il d.lgs. n. 109/2006.
[37] Cfr., in particolare, l’art. 6, ripreso più avanti nel testo.
Si veda anche, di recente, la Mozione del 36° Congresso dell’A.N.M., svoltosi a Palermo il 12 maggio 2024, disponibile su www.anm.it., ove si legge, tra l’altro: “proprio perché riteniamo che il contributo del magistrato possa essere particolarmente qualificato per l’apporto delle specifiche ed uniche peculiarità professionali, è importante che queste traspaiono nella scelta del linguaggio e dell’argomentazione, evidenziando così anche le differenze rispetto alla comunicazione pubblica del politico o di portatori di diverse culture”.
[38] Parere n. 25/2022 del Comitato consultivo dei Giudici europei, adottato a Strasburgo il 2 dicembre 2022, dedicato alla Libertà di espressione, reperibile su www.coe.int/CCJE, sul quale si veda E. Bruti Liberati, La libertà di espressione dei giudici in Europa, in Questione giustizia, 2023.
[39] Cfr. N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione giustizia, n. 4/2018, 250, il quale raccomanda che il magistrato “parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile, che partecipi al dibattito pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante”.
Cfr. anche V. Roppo, Su imparzialità e indipendenza del magistrato: concetti, principi, casi, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 55.
[40] Cfr. G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, cit., 46.
Cfr. anche C. Bologna, La libertà di espressione dei “funzionari”, cit., spec. 188 ss., che invita ad evitare la “tirannia dell’apparenza”.
[41] In argomento, entrami criticamente, cfr. T. Giovannetti, I magistrati, la politica e l’insostenibile peso dell’apparenza, cit., 378 e L. Pepino,Apparire imparziali: ma agli occhi di chi? in Magistrati: essere e apparire imparziali, cit., 47 ss., che legge nella richiesta ai giudici di apparire imparziali un disegno di omologazione alla maggioranza e al pensiero dominante.
[42] Cfr. Mozione del 36° Congresso A.N.M., cit., 2, ove si legge: “Più in generale è necessario prendere atto che, per una parte dell’uditorio, le dichiarazioni rese dal magistrato vengono percepite quali espressioni di pensieri e valori riferibili all’intera magistratura e la comunicazione deve quindi adeguarsi a questo dato quanto a scelta dei temi, stile e contenuti. Siamo consapevoli della difficoltà di perimetrare un ambito predefinito dei temi, ma certamente ne fanno parte quelli attinenti alla funzione, al ruolo e alle attribuzioni della magistratura, così come quelli correlati alle leggi sostanziali e processuali che ne governano l’operato, comprese quelle che definiscono, accrescono o restringono il catalogo dei diritti. Né possono essere esclusi i temi che, essendo pertinenti all’equilibrio tra i poteri definiti dalla Costituzione, incidono, anche indirettamente, sul ruolo della giurisdizione rispetto agli altri poteri pubblici. Non vi è dubbio che, in ogni caso, il magistrato debba sempre interrogarsi se vi sia un interesse a ricevere le sue opinioni e valutazioni e se la sua cultura e la sua esperienza possano arricchire in modo qualificante il dibattito pubblico sul tema specifico, ovvero essere di pari valore rispetto a quelle espresse da ogni altro cittadino”.
[43] Cfr. Corte E.D.U., San Leonard Band Club v. Malta, sent. 29 luglio 2004; Buscemi v. Italia, sent. 16 settembre 1999. In dottrina, cfr. F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 313 ss.
[44] Cfr. Corte cost., sent. n. 100/1981.
[45] Cfr. ancora Corte cost., sent. n. 100/1981.
[46] Cfr. R. Pinardi, La libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati nella giurisprudenza costituzionale e disciplinare, in A. Pizzorusso, R. Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri (a cura di), Libertà di manifestazione del pensiero e giurisprudenza costituzionale, Milano, 2005, 293 ss.
[47] Cfr. L. Imarisio, La libertà di espressione dei magistrati tra responsabilità disciplinare, responsabilità deontologica ed equilibri del sistema informativo, in Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, Napoli, 2010, 260 ss.
[48] Cfr. A. Carestia, La violazione del dovere del giudice di essere e apparire imparziale, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, cit., 181, che richiama, a tale proposito, la risposta a un’interrogazione parlamentare del ministro della Giustizia Nordio.
[49] In linea di principio si potrebbero distinguere diverse tipologie di manifestazioni del pensiero rese fuori dall’esercizio della funzione (dichiarazioni alla stampa, partecipazione a dibattiti pubblici, interventi in convegni di natura scientifica, ecc.), ma rimarrebbe comunque decisivo il singolo caso.
[50] Cfr. S. R. Vinceti, Magistrati e social media: una riflessione alla luce dell’esperienza statunitense, in Media laws, 26 ottobre 2023, 181 ss.
[51] Cfr. art. 2, comma 2, del r. d. lgs. n. 511/1946, come modificato dall’art. 26 del d. lgs. n. 109/2006.
[52] Cfr. F. Troncone, Il trasferimento d’ufficio in via amministrativa dei magistrati: le visioni del governo autonomo e le conseguenti declinazioni dei limiti interni dell’istituto, in R. Balduzzi (a cura di), La riforma della legislazione del Consiglio superiore della magistratura, Milano, 2022, 148 ss.
[53] Sul piano sovranazionale si veda il Parere n. 25/2022 del Comitato consultivo dei Giudici europei, citato alla nota 37. In argomento cfr. G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati sui rapporti tra giustizia, comunicazione e informazione, in Scuola Superiore della Magistratura, Comunicazione e giustizia, Torino, 2024, 3 ss.
[54] Cfr. delibera n. 40 del 25/03/2021.
[55] Cfr. art. 58-bis del d. lgs. n. 29/1993 (introdotto con l’art. 26 del d. lgs. n. 546/1993), i cui contenuti sono stati successivamente trasfusi, con qualche modifica, nell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001 e poi ulteriormente modificati con l’art. 1 della legge n. 190/2012: all’art. 54, comma 4, del decreto n. 165, nel testo vigente, si prevede che, “per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia, il codice è adottato dall’organo di autogoverno”.
Si noti la formula, introdotta nel 2012, “devono aderire”, che impone l’adesione al Codice anche ai magistrati non iscritti all’A.N.M. (ovviamente per quanto riguarda la magistratura ordinaria), considerando implicitamente quest’ultima una sorta di “sindacato” rappresentativo dell’intera categoria. Si noti, inoltre, la “stranezza” per cui, in caso d’inerzia dell’A.N.M., è il C.S.M. a dover intervenire per adottare il codice deontologico.
In argomento cfr. L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse e R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria. Il Codice etico alla prova dei primi dieci anni, Napoli, 2006, 1 ss.
[56] Proprio dal C.S.M. è stato organizzato nei giorni 16-17 maggio 2024 un Incontro di studio dal titolo La magistratura e i social network,espressamente finalizzato a “trovare risposte” da offrire ai magistrati (consultabile su https://www.youtube.com/@ConsiglioSuperioreMagistratura).
[57] Già A. Pizzorusso, Il “codice etico” dei magistrati, in L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse e R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria, cit., 56, con specifico riferimento all’eventualità che il C.S.M. approvasse il codice deontologico in caso di inerzia dell’A.N.M., osservava come tale prospettiva mal si conciliasse con la titolarità, sempre in capo al C.S.M., della funzione disciplinare.
[58] Cfr. S. R. Vinceti, Magistrati e social media, cit., 181 ss.
Immagine: Vuk Cosic, Raging Bull, Video, 1999.