Motivazione “apparente” della sentenza e controllo giurisdizionale sulla discrezionalità amministrativa (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 16 novembre 2023, n. 9824)
di Marco Magri e Enrico Zampetti
Sommario: 1. La vicenda. 2. La motivazione apparente quale causa di rimessione al primo giudice. 3. L’inconfigurabilità nel caso di specie di un’ipotesi di motivazione apparente. 4. Motivazione apparente e omessa pronuncia. 5. Motivazione apparente e discrezionalità amministrativa (in tema di sindacato sull’atto di scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose).
1. La vicenda.
L’esito della decisione annotata è già di per sé abbastanza significativo: il Consiglio di Stato riforma una sentenza del Tar Lazio[1] che, in linea con un indirizzo giurisprudenziale consolidato, aveva respinto il ricorso presentato contro il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose (art. 143 TUEL).
La pronuncia di primo grado, tipico esempio di sindacato estrinseco sul vizio di eccesso di potere[2], aveva ritenuto sostanzialmente corrette le valutazioni dell’amministrazione, annettendo valore decisivo all’ampio margine di discrezionalità di cui quest’ultima dispone nel ponderare gli elementi indiziari circa i collegamenti diretti e indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata.
In appello però i ricorrenti avevano insistito su tutte le censure sollevate in primo grado, sostenendo che il Tar non le avesse sostanzialmente esaminate. A loro avviso il giudice, anziché compiere una valutazione sulla sussistenza dei presupposti per lo scioglimento del consiglio comunale, si era limitato a richiamare princìpi generali e a recepire acriticamente gli esiti dell’istruttoria eseguita dall’amministrazione, senza alcun riguardo per le contestazioni che i ricorrenti avevano addotto per dimostrare l’infondatezza degli elementi di contiguità mafiosa rilevati a carico dell’ente locale.
La sentenza d’appello, come si accennava, rovescia la pronuncia di primo grado in modo piuttosto inaspettato. Ma altrettanto significative sono le conseguenze processuali che il Consiglio di Stato ne trae rispetto al principio del doppio grado di giurisdizione. Ci riferiamo all’esclusione dell’effetto devolutivo dell’appello e alla scelta di accogliere il gravame con una pronuncia di rito, disponendo la regressione al giudice di primo grado e la ripetizione del processo amministrativo.
Il Consiglio di Stato perviene infatti all’ulteriore considerazione che “nel caso in esame, non può riscontrarsi la presenza di requisiti minimi e nemmeno la struttura decisionale essenziale per consentire l’intervento ‘ortopedico’ del giudice di appello”. In linea con le sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 10 e 11 del 2018, la Sezione riconosce nella pronuncia del Tar il vizio di motivazione “apparente”, che comporta la nullità della sentenza appellata con rinvio della causa al primo giudice “per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d), e 105, comma 1, c.p.a.”.
È bene però subito soggiungere che la motivazione è ritenuta “apparente” non tanto perché il Tar si sia fermato alla classica petizione di principio, abbia cioè completamente trascurato di porre a fondamento della propria decisione le risultanze degli atti di causa. Gli elementi che l’atto impugnato considerava indizi di infiltrazione mafiosa erano stati tutti richiamati, valutati, ritenuti verosimili, o non irragionevoli, nella sentenza di primo grado. Non si trattava insomma di un difetto di collegamento tra la motivazione della sentenza e il concreto svolgimento del giudizio.
Decisivo, secondo il Consiglio di Stato, è che il Tar abbia rigettato il ricorso, dopo essersi rifatto alle circostanze ravvisate dall’amministrazione, senza curarsi di “confutare” la posizione dei ricorrenti. Al di sotto della nullità per motivazione apparente vi è quindi una compromissione del principio di imparzialità del giudice, un diseguale trattamento delle parti e, in ultima analisi, una menomazione del contraddittorio in senso lato. Il che è degno di nota, se posto a paragone della massima, correntemente avallata dalla giurisprudenza (e dalla stessa Plenaria), per cui la “lesione del diritto di difesa” e la “mancanza di contraddittorio”, autonomamente previste dall’art. 105 c.p.a. quali ipotesi di annullamento con rinvio, debbono intendersi come fattispecie tipiche, identificabili solo attraverso la violazione di norme processuali che prevedono poteri o garanzie strumentali a quelle di difesa e contraddittorio[3]. A più riprese la sentenza annotata offre l’impressione di non sentirsi vincolata da questa tradizionale interpretazione e di ritenere, piuttosto, che la categoria della nullità possa assicurare il doppio grado di giurisdizione in una prospettiva ampia, capace di valorizzare adeguatamente i profili sostanziali della garanzia sancita dall’articolo 24 Cost.[4]
Per il Consiglio di Stato, le “circostanze fattuali” avrebbero dovuto essere esaminate “anche alla luce delle allegazioni dei ricorrenti e non solo con l’indicazione dell’elenco di taluni elementi indizianti sulla contiguità tra gli organi comunali e la criminalità organizzata”, visto che l’art. 143 del TUEL esige una valutazione di “univocità e rilevanza” dei sintomi di infiltrazione mafiosa.
Occorreva dunque che il Tar Lazio operasse un “filtro”, una “valutazione critica” dell’operato degli organi statali, un “riferimento argomentato ai vari elementi indiziari sui quali si è basato il censurato decreto di scioglimento (pur contestati, uno per uno, nel ricorso introduttivo e nei motivi aggiunti)”.
Invece il ricorso è stato respinto tramite un “apodittico richiamo a principi e regole giurisprudenziali (…) non declinati in relazione al caso concreto esaminato”; privo di “ragioni ulteriori rispetto alla generica affermazione della sua infondatezza” e senza alcuna “confutazione” delle allegazioni difensive dei ricorrenti.
Ciò secondo il giudice d’appello “non consente in alcun modo di comprendere il percorso logico-giuridico su cui il Tar ha fondato le proprie conclusioni”. Ne consegue una “parvenza” di motivazione, da cui l’applicazione dell’art. 105 c.p.a. come interpretato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 11/2018.
Il precedente della Plenaria ha costituito un riferimento obbligato perché in quella sede, allineandosi agli indirizzi della Cassazione, l’organo di nomofilachia del Consiglio di Stato ha chiarito cosa debba intendersi per “motivazione apparente” e ha precisato che essa si configura (dunque la sentenza va dichiarata nulla) non solo nel caso-limite della mancanza materiale della motivazione, ma anche nell’ipotesi di motivazione apodittica, assertiva, tautologica, incomprensibile.
Di più, il caso in esame suggerisce che la nullità della sentenza per motivazione tautologica può verificarsi anche di fronte ad argomentazioni chiare, articolate con riferimento ai fatti di causa; se il giudice aderisce al provvedimento impugnato in modo preconcetto e privo di ogni considerazione per le difese dei ricorrenti.
La sentenza della terza Sezione merita, a nostro giudizio, di essere commentata per due motivi: il primo è che il concetto di “motivazione apparente” ne risulta particolarmente esteso e offre lo spunto per qualche considerazione più generale sulla garanzia del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo; il secondo è che la nullità con rimessione al giudice di primo grado viene giustificata con riferimento all’esigenza di un confronto più serrato tra allegazioni di parte e valutazioni dell’amministrazione, richiamando un punto di vista rimasto recessivo nell’interpretazione giurisprudenziale della norma sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose e, forse, nell’intera sistematica del giudizio su atti discrezionali.
Sotto questo secondo profilo, non può sfuggire che, mentre nel giudizio civile di annullamento della sentenza per “motivazione apparente” il rinvio al giudice di grado inferiore non fa sorgere alcun problema di discrezionalità, ma, al più, di esatto rapporto del giudice con i fatti di causa, la circostanza in cui sia il Consiglio di Stato a pronunciare la nullità per “motivazione apparente” impone al Tar, nel giudizio di rinvio, un più penetrante sindacato sull’atto impugnato. In altri termini, la declaratoria di nullità per “motivazione apparente” della pronuncia di un Tar non si limita a risolvere un cattivo funzionamento del doppio grado; essa implica sempre, in qualche misura, una correzione del rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione.
2. La motivazione apparente quale causa di rimessione al primo giudice.
Come è noto, la nullità della sentenza rappresenta una delle cause di rimessione previste dall’articolo 105 c.p.a., ai sensi del quale “il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio”[5]. Il c.p.a. si riferisce genericamente alla nullità della sentenza, differenziandosi in ciò dal codice di procedura civile, che, invece, prevede la rimessione al primo giudice esclusivamente al cospetto di una sentenza nulla per difetto di sottoscrizione[6]. Senonchè, la generica espressione nullità della sentenza non offre alcuna puntuale qualificazione della correlata ipotesi di rimessione, dal momento che, come pure è stato osservato, una sentenza può ritenersi tecnicamente nulla per qualsiasi vizio processuale[7], come, ad esempio, quando nel relativo giudizio si sia perpetrato un difetto di contraddittorio o una lesione del diritto di difesa, ipotesi anch’esse incluse dal citato articolo 105 c.p.a. tra le cause di rimessione. Ciò significa che la causa di rimessione rappresentata dalla nullità della sentenza viene spesso a sovrapporsi o confondersi con altre delle cause previste dalla norma codicistica, restando così priva di una sua specifica autonomia. Dove, invece, la causa in questione acquista un’autonoma rilevanza ai fini della rimessione è nell’elaborazione giurisprudenziale sul difetto assoluto di motivazione, ossia sulle ipotesi in cui la motivazione sarebbe inesistente o soltanto “apparente” o “meramente assertiva”[8]. Al riguardo, la giurisprudenza precisa che il difetto assoluto di motivazione non “si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica” e che, più in generale, l’ordinario difetto di motivazione non può rappresentare una causa di rimessione al primo giudice, considerato che il carattere sostitutivo dell’appello consentirebbe “sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa”[9]. Piuttosto, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, il difetto assoluto di motivazione riguarderebbe soltanto le ipotesi di mancanza "fisica" o "grafica" della motivazione, di “motivazione palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta (perché fa riferimento a parti, fatti e motivi totalmente diversi da quelli dedotti negli scritti difensivi)” e di “motivazione apparente”, dove per motivazione apparente si intende la “motivazione tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” ovvero la motivazione che, a sostegno dell'accoglimento o non accoglimento del ricorso, “non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della sua fondatezza o infondatezza, di cui, però, non viene dato conto e spiegazione, se non attraverso l'utilizzo di astratte formule di stile”[10]. In sostanza, a dar luogo alla nullità della sentenza sarebbero soltanto quelle anomalie motivazionali che si identificano o nella “mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico”, o nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, o nella “motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile”[11]. In questi casi, la grave anomalia motivazionale rende nulla la sentenza imponendo la rimessione della causa ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. Il giudice di appello non potrebbe, infatti, adottare alcuna decisione sulla causa, poiché il difetto assoluto della motivazione gli impedisce “di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni”[12].
Da questo rapido excursus si evince che il difetto assoluto di motivazione impedisce in toto di individuare le ragioni alla base della decisione di accoglimento o di rigetto e che, in sua presenza, la causa deve essere rimessa al primo giudice ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. In aggiunta, si può osservare che la rimessione sarebbe giustificata anche per il vulnus inferto dal difetto assoluto di motivazione al diritto di difesa, posto che, all’evidenza, la non intellegibilità del percorso argomentativo a sostegno della decisione implica una “lesione del diritto di difesa” rilevante agli effetti dell’articolo 105. In ogni caso, il riscontro di un difetto assoluto di motivazione priva l’appello del suo tipico carattere rinnovatorio e sostitutivo, precludendo ogni intervento del giudice che non sia quello di prendere atto della nullità e disporre il rinvio.
Di per sé il richiamato orientamento non presenta particolari problemi applicativi, dal momento che l’eccezionalità delle ipotesi di motivazione apparente dovrebbe consentire agevolmente di cogliere la differenza tra un difetto di motivazione assoluto rilevante agli effetti della rimessione e un difetto di motivazione soltanto ordinario che impone al giudice di decidere la causa.
3. L’inconfigurabilità nel caso di specie di un’ipotesi di motivazione apparente.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione in commento, la sentenza del TAR non sembra affatto afflitta da un difetto assoluto di motivazione che giustifichi il rinvio della causa. Basti considerare che:
1) Il TAR richiama preliminarmente i principi della materia, rilevando che “la qualificazione della concretezza, univocità e rilevanza delle circostanze poste a fondamento del provvedimento di cui si verte, va riferita non “atomisticamente” a ogni singolo elemento preso in esame in sede istruttoria, ma a una valutazione complessiva del coacervo di elementi acquisiti” e che “l’amministrazione gode di ampi margini di discrezionalità nella valutazione degli elementi su collegamenti diretti o indiretti, non traducibili in singoli addebiti personali, ma tali da rendere plausibile il condizionamento degli amministratori, essendo asse portante della valutazione di scioglimento, da un lato, l’accertata o notoria diffusione sul territorio della criminalità organizzata e, dall’altro, le precarie condizioni di funzionalità dell’ente in conseguenza del condizionamento criminale (…)”;
2) tanto premesso, evidenzia che “il quadro emergente dall’istruttoria de qua svolta dall’autorità descrive un contesto generale che depone per una non occasionale “contiguità” tra gli organi comunali e la criminalità organizzata, talchè il disposto scioglimento resiste al sindacato estrinseco di legittimità del Giudice amministrativo”, poiché “emerge invero dagli atti un quadro connotato da diffusa illegalità e condizionamento, che la relazione ha individuato in vari ambiti della vita consiliare”;
3) con specifico riferimento al difetto di motivazione censurato nel ricorso, precisa che “la doglianza non può essere accolta, proprio alla luce delle sopra riferite coordinate ermeneutiche” poiché “vari elementi depongono per la rilevata disfunzione dell’amministrazione locale e per la “prossimità” degli organi amministrativi con le consorterie criminali”, tra cui: (…) “le varie operazioni di polizia giudiziaria sfociate anche nell’applicazione di misure cautelari; - il rilevato palesato sostegno elettorale, confermato dalle risultanze giudiziarie, di esponenti della locale criminalità in favore di taluni candidati che facevano parte della lista che sosteneva l’organo di vertice dell’ente; - la riscontrata rete di rapporti parentali e di frequentazioni che esisteva da taluni amministratori e esponenti delle locali consorterie; - la partecipazione del primo cittadino quale testimone di nozze al matrimonio di un soggetto legato a locale famiglia mafiosa e la presenza in seno al consiglio comunale di amministratori gravati da legami con i medesimi esponenti dei clan camorristici (…) i coinvolgimenti in procedimenti penali di personale amministrativo dell’ente, la carente strutturazione delle procedure di gara, anche sotto il profilo dell’acquisizione della documentazione antimafia; -l’avvenuto pagamento effettuato in favore di una società destinataria di un provvedimento interdittivo e l’affidamento di commesse in via diretta e senza rotazione”;
4) osserva che “la difesa degli istanti tenta di smontare minuziosamente tutti gli episodi valorizzati dall’amministrazione, ma lo fa in chiave “atomistica”, senza riuscire ad inficiare l’impressione d’assieme di un comune fortemente esposto all’illegalità e al condizionamento criminale, alla luce della applicazione del ridetto criterio del “più probabile che non”, il quale sorregge il giudizio di inferenza posto in essere dall’amministrazione”;
5) rileva ancora che “le risultanze dell’attività di indagine e la significatività degli elementi indiziari emersi, alla luce del sopramenzionato criterio probabilistico, siano state correttamente valutate dall’amministrazione intimata, la quale gode di ampio margine di discrezionalità nella ponderazione degli elementi indiziari circa i collegamenti diretti e indiretti, che rendano verosimile una pericolo di condizionamento ovvero di soggezione dell’amministratore locale alla criminalità organizzata; e ciò anche laddove tali elementi non siano sufficienti a sostenere un’azione penale a esitare in una condanna, posto che si tratta di due giudizi ontologicamente differenti, in ragione della natura preventiva e di “difesa anticipata” tipico della misura dissolutoria di cui si verte”;
6) conclude che “alla luce delle superiori considerazioni, la censura di illogicità e di deficit motivazionale articolata in ricorso deve essere disattesa ed il ricorso deve dunque essere respinto”.
In sintesi, il TAR evidenzia l’ampia discrezionalità che in materia caratterizza le valutazioni dell’amministrazione; individua gli elementi dell’istruttoria idonei a giustificare lo scioglimento del consiglio comunale; ritiene che tali elementi siano stati correttamente valutati dall’amministrazione ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato; reputa che la censura di illogicità e difetto di motivazione non sia accoglibile perché incapace di inficiare gli elementi presi in considerazione dall’amministrazione, anche per il carattere “atomistico” delle difese; conclude per il rigetto del ricorso sulla base delle considerazioni svolte. Dalla motivazione addotta emerge come la ratio decidendi della pronuncia sia perfettamente comprensibile nel suo percorso argomentativo, anche alla luce delle censure d’illogicità e difetto di motivazione dedotte nel ricorso. La motivazione non si basa su mere formule di stile tautologiche e apodittiche, ma individua pur sempre le ragioni poste a sostegno del rigetto anche in relazione ai motivi di ricorso, in un contesto in cui il sindacato giurisdizionale deve comunque misurarsi con l’ampia discrezionalità delle valutazioni amministrative.
Ciò non significa che le ragioni addotte siano corrette o sufficienti a giustificare il rigetto del ricorso o che la motivazione non sia carente o illogica, ma basta per escludere che nel caso di specie possa ritenersi sussistente un difetto assoluto di motivazione rilevante agli effetti della rimessione. Le anomalie motivazionali riscontrate dal Consiglio di Stato integrano al più un ordinario difetto di motivazione della sentenza, che, in conformità al carattere sostitutivo e rinnovatorio dell’appello, avrebbe potuto e dovuto essere corretto dal giudice di secondo grado[13].
4. Motivazione apparente e omessa pronuncia.
Pur nell’esplicito richiamo all’orientamento in materia di motivazione apparente, la decisione del Consiglio di Stato finisce di fatto per disattenderlo, ricomprendendo nel difetto assoluto di motivazione anche ipotesi, quale quella in esame, che andrebbero ricondotte ad un ordinario difetto di motivazione. Il concetto di motivazione apparente subisce così un’eccessiva dilatazione che, oltre a non essere giustificata dall’attuale contesto normativo, rischia in parte di comprimere il carattere sostitutivo e rinnovatorio dell’appello. È quindi auspicabile che il concetto, così come elaborato dall’attuale orientamento, resti circoscritto alle ipotesi in cui la “motivazione” impedisca completamente di individuare le ragioni alla base della decisione, arrecando così un vulnus al diritto di difesa. In questi casi, la rimessione al primo giudice è pienamente idonea a reintegrare la violazione perpetrata, in quanto garantisce che la causa sia decisa sin dal primo grado con una “vera” motivazione. Al contempo, il rinvio tutela pienamente il principio del doppio grado, perché la “vera” motivazione a corredo della nuova decisione potrà essere oggetto di una successiva impugnazione innanzi al giudice di appello.
Resta a questo punto da chiedersi perché se la rimessione è prevista nei casi di motivazione apparente, non lo sia anche nei casi di omessa pronuncia. Anche in questi casi si determina una lesione del diritto di difesa, forse anche più grave di quella arrecata da una motivazione apparente: se, infatti, la decisione corredata da motivazione apparente impedisce di comprendere le ragioni di un decisum, la sentenza afflitta dal vizio di omessa pronuncia è financo priva di un decisum, quantomeno per la domanda dimenticata dal giudice[14]. Senonchè, la giurisprudenza continua a ritenere che i casi di omessa pronuncia non integrino alcuna lesione del diritto di difesa e che il giudice di appello possa decidere la domanda dimenticata senza che ciò implichi alcuna violazione del principio del doppio grado[15]. Pur se la questione è più complessa e non può certo essere approfondita in questa sede, è lampante la contraddizione nell’ammettere la rimessione al cospetto di una motivazione apparente e nell’escluderla a fronte di un’omessa pronuncia. Nei limiti del presente scritto si può solamente osservare che, per superare la contraddizione, è necessario assumere una concezione del diritto di difesa e del principio del doppio grado diversa da quella attualmente assunta dal prevalente orientamento. Bisognerebbe, cioè, ammettere che la lesione del diritto di difesa rilevante agli effetti della rimessione possa dipendere anche da un vizio della decisione e non soltanto da un vizio del procedimento; e che la garanzia del doppio grado, lungi dall’esaurirsi nel potere di appellare, comporti che ogni decisione di merito debba poter sempre essere sindacata in appello, così da impedire che le controversie attribuite ai TAR possano essere decise per la prima volta nel merito dal Consiglio di Stato, di fatto in unico grado[16]. Si tratta di una strada oggi impervia che si scontra frontalmente con il prevalente orientamento, ma che sembra meglio adattarsi alla specificità costituzionale di una giurisdizione amministrativa articolata in due gradi di giudizio e priva del controllo in cassazione per violazione di legge.
5. Motivazione apparente e discrezionalità amministrativa (in tema di sindacato sull’atto di scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose).
Può darsi tuttavia che l’eccessiva dilatazione del concetto di motivazione apparente sia, nella sentenza in esame, anche la conseguenza di una particolare sensibilità del giudice verso gli interessi coinvolti caso concreto.
Gli appellanti erano rimasti ingiustamente senza risposta, davanti a un provvedimento che, come sempre, tocca profili alquanto delicati della vita delle comunità locali. Di fronte all’enorme latitudine del potere di scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose (quale senza dubbio si ricava dall’art. 143 TUEL), il giudice amministrativo è costretto a rispettare il principio di separazione dei poteri, ma non può rinunciare a quel briciolo di garanzia data dalla sua stessa posizione di terzietà.
Bisogna quindi fare il giusto credito all’ipotesi che l’annullamento con rinvio sia stato anche, forse soprattutto, una soluzione escogitata per rimandare il processo al Tar con il vincolo a un più stringente effetto conformativo, un sindacato più penetrante sulla discrezionalità amministrativa, a garanzia della stessa impugnabilità dei decreti di scioglimento. Nullità della sentenza e regressione del giudizio servirebbero, allora, non tanto a ripristinare l’integrità del doppio grado dinanzi a un vizio del procedimento giurisdizionale, quando a provocare una valutazione giudiziaria più oculata degli apprezzamenti svolti dall’amministrazione resistente (nel caso di specie: gli indizi di contiguità mafiosa dell’ente locale e dei suoi amministratori).
Va detto che la sentenza in esame ha il merito di un atteggiamento più spregiudicato verso l’amplissima discrezionalità dei provvedimenti di scioglimento per infiltrazioni mafiose. Tanto che il Consiglio di Stato dà l’impressione di rifarsi all’interpretazione più rigorosa e costituzionalmente conforme dell’art. 143 del TUEL.
La pronuncia annullata, come tante altre, seguiva un indirizzo giurisprudenziale oramai consuetudinario, al punto che, se non si conoscesse la sentenza di appello, sarebbe assai difficile imputare al Tar Lazio un qualche margine di errore.
È prassi consolidata che il giudice amministrativo, nel respingere i ricorsi avverso i decreti di scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, metta davanti a tutto la natura ampiamente discrezionale dell’atto impugnato e neghi la necessità di confutare “una per una” le circostanze fattuali contestate dai ricorrenti, sul presupposto che la ricostruzione della dinamica infiltrativa operata dall’amministrazione statale vada giudicata nel suo complesso e non “atomisticamente”[17].
A rafforzare tale indirizzo ha contribuito, con ogni probabilità, la modifica intervenuta con la legge n. 94/2009, che ha introdotto nel testo dell’art. 143 TUEL (comma 11), una nuova misura di prevenzione, cosiddetta “interdittiva elettorale”: l’incandidabilità per due turni, dichiarata dal tribunale civile ad esito di giudizio camerale che si svolge, su istanza del Ministero dell’interno, contro gli amministratori locali ritenuti responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento.
L’esistenza di un giudizio civile sulla responsabilità dei singoli amministratori offre un nuovo quadro di accertamento dell’imputazione soggettiva dell’infiltrazione mafiosa, sia pure con riguardo a comportamenti non necessariamente rilevanti a fini penali e, anzi, neppure isolatamente considerati o parcellizzati. Vale anche per il giudizio d’interdittiva elettorale la massima per cui, trattandosi di misure di prevenzione, la valutazione indiziaria a carico della persona non deve essere “atomistica”[18], nel senso che i fatti rilevanti per la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori locali prescindono dal coinvolgimento in processi penali e possono quindi essere considerati nel loro complesso, secondo la regola del “più probabile che non”.
Il procedimento d’incandidabilità implica un più ampio potere di rivalutazione dei fatti da parte del giudice civile, che, come ha chiarito la Cassazione, non è vincolato dagli accertamenti eseguiti dall’amministrazione e tanto meno dalle conclusioni alle quali essa è pervenuta; può qualificare autonomamente le condotte (attive od omissive) degli amministratori al fine di giudicare sulla loro responsabilità[19].
Ciò peraltro non sottrae al giudice amministrativo, davanti al quale sia stato proposto il ricorso contro l’atto di scioglimento del consiglio comunale, la potestà di apprezzamento della contiguità mafiosa delle persone coinvolte: l’atteggiamento dei singoli, nonostante la devoluzione al giudice civile del suo accertamento ai fini dell’incandidabilità, resta elemento essenziale anche del controllo sull’organo[20]. Ai sensi del comma 1 dell’art. 143, il consiglio comunale può essere sciolto in presenza di due requisiti: il primo – preliminare – è la sussistenza di elementi “concreti, univoci e rilevanti” su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata degli amministratori di cui all’articolo 77 comma 2 o su forme di condizionamento degli stessi; il secondo – conseguenziale – è che gli indizi di collegamento o condizionamento mafioso, rilevati a carico degli amministratori dell’ente, siano “tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati”.
Il giudizio sul contegno dei singoli, ossia l’origine dell’infiltrazione mafiosa, non può quindi ritenersi “assorbito” dalla valutazione di malfunzionamento dell’ente, che ne rappresenta solo il contraccolpo organizzativo. Le due situazioni sono collegate da un nesso di causa-effetto, ma proprio per questo rappresentano passaggi autonomi e distinti della decisione sullo scioglimento del consiglio, che deve valutarli entrambi: le situazioni di collegamento o condizionamento degli amministratori, in cui trova spazio la specificità ordinamentale della mafia[21], e la compromissione funzionale dell’organizzazione, che, nonostante sia provocata dalla presenza della criminalità, rimane di per sé costituita da semplice cattivo andamento politico-amministrativo, il quale si può verificare anche in enti locali non interessati da fenomeni di contiguità mafiosa degli amministratori (i Comuni in stato di dissesto, per esempio).
Non di rado invece le sentenze dei giudici amministrativi tollerano una visione attenuata o addirittura capovolta di tale ordine logico, sganciando lo scioglimento del Consiglio da una prospettiva di stretta causalità e configurandolo come un controllo di tipo oggettivo, i cui parametri sono il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione locale; mentre la contiguità mafiosa dei singoli viene declassata a conseguenza, spesso immotivata, di una diffusa malamministrazione. In tale prospettiva, l’idea che il giudizio infiltrativo non possa essere “atomistico” viene a significare alcunché di diverso dalla non necessaria rilevanza penale del fatto; diventa un modo di spiegare che lo scioglimento deve spingersi a valutare ciascun elemento indiziario nella sua connessione con gli altri, come se nessuno fosse decisivo, ma tutti, nell’insieme, si reggessero vicendevolmente, l’uno rappresentando la “stampella” dell’altro.
Assumono allora rilievo, ai fini dello scioglimento del Consiglio, situazioni non traducibili in episodici addebiti individuali, che, prese per loro stesse, sarebbero insufficienti per l’applicazione di misure di prevenzione personali[22].
Così argomentando, però, la giurisprudenza amministrativa si allontana dalle coordinate interpretative della Corte costituzionale[23], che ha sempre annesso allo scioglimento la natura di sanzione (e non di misura di prevenzione) diretta a colpire “l’organo collegiale considerato nel suo complesso, in ragione della sua inidoneità a gestire la cosa pubblica”. Muovendo da tale premessa, la Corte ha sottolineato che la norma implica una “stringente consequenzialità” tra due fattori: le situazioni di collegamento o condizionamento mafioso, da un lato, e l’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi o la compromissione del buon andamento o dell’imparzialità dell’amministrazione locale, dall’altro. E ne ha concluso – dal punto di vista che a noi interessa – che il rispetto della garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 113 Cost.) è assicurata proprio dal controllo del giudice amministrativo sulla “consistenza fattuale” degli elementi addotti a giustificazione dello scioglimento (sentenza n. 103/1993), fino ad ammettere che lo scioglimento per mafia “evoca chiaramente una fattispecie penale ben specifica: il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen.” (sentenza n. 195/2019).
L’ampia discrezionalità che caratterizza il potere di scioglimento non viene meno; ma si localizza soprattutto nel secondo momento di cui si è detto: quello in cui lo Stato valuta gli effetti, pregiudizievoli per l’ente locale, delle situazioni di collegamento e condizionamento acclarate a carico dei singoli amministratori locali.
Differente è la natura del potere amministrativo quando si tratta di stabilire l’origine delle infiltrazioni, ovverosia il rapporto di contiguità, compiacente o soggiacente, tra le condotte degli amministratori e il mondo della criminalità organizzata; momento in cui, per la Corte costituzionale, va messa al primo posto l’esigenza che le ragioni dello scioglimento trovino riscontro “con riferimento a risultanze obbiettive circa l’effettiva sussistenza di quelle situazioni” (sentenza n. 103/1993)[24].
Il principio del controllo giudiziario “non atomistico”, sul quale, nel caso qui esaminato, aveva fatto perno la sentenza di primo grado, tende a confondere questi due piani del discorso ed è pertanto ragguardevole che il Consiglio di Stato lo abbia colto, ancorando il sindacato del giudice amministrativo a un “minimo costituzionale”, coincidente con il confronto tra la ricostruzione dei fatti basata sull’attività informativa degli organi statali e le contrarie allegazioni del ricorrente[25].
Rimane tuttavia il dubbio – se questo era ciò che il Consiglio di Stato voleva garantire (una valutazione più mirata dei comportamenti che avevano dato causa allo scioglimento) – che la correzione di cui il Tar sarà capace, nel giudizio di rinvio, valga la pena di un nuovo processo di primo grado. Senza dubbio una motivazione che non si limiti a uno scrutinio di ragionevolezza del provvedimento e si spinga fino a confutare le difese dei ricorrenti è più giusta: su questo la sentenza in esame è assolutamente da condividere. Ma difficilmente il giudizio sull’eccesso di potere, pur così riorganizzato, potrà andare oltre i limiti di un sindacato estrinseco sulle ragioni che hanno portato il governo allo scioglimento del consiglio comunale. Il Tar Lazio potrà prendere posizione sulle argomentazioni dei ricorrenti; sempre, però, nel quadro di un giudizio su valutazioni riservate all’amministrazione (stabilire se esistono indizi concreti, univoci e rilevanti di collegamento o condizionamento mafioso).
Forse allora tanto sarebbe valso non impedire all’appello di svolgere la propria funzione rinnovatoria e rinunciare a un’interpretazione così ampia dell’art. 105 c.p.a.. La quale rischia, tra l’altro, di estendersi a tutti i giudizi su provvedimenti discrezionali, trasformando l’annullamento con rinvio in un rimedio operante ogniqualvolta il giudice di primo grado non abbia portato il proprio sindacato al “minimo” sufficiente.
* Nell’ambito di una riflessione comune, i paragrafi 1 e 5 sono di Marco Magri e i paragrafi 2, 3 e 4 sono di Enrico Zampetti.
[1] Tar Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2023 n. 6586,
[2] Limite che la giurisprudenza amministrativa riconosce a sé stessa oramai tradizionalmente, come sottolinea senza eccezioni (ma non senza voci critiche) la dottrina. Si vedano al riguardo, per stare solo agli scritti più recenti, F. Manganaro, R. Parisi, Note sullo scioglimento dei consigli degli enti locali per infiltrazioni mafiose, in Dir. econ., 2023, pp. 251 ss., 265; R. Rolli, Dura lex, sed lex. Scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, interdittive prefettizie antimafia e controllo giudiziario, in Ist. Fed., 2023, pp. 15 ss., 23.
[3] Cons. St., ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10; Id., 30 luglio 2018 n. 11.
[4] E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli editi del giudizio di appello, Napoli, 2020, p. 180.
[5] Sulla disciplina della rimessione recata nell’articolo 105 c.p.a., senza pretesa di completezza, D. Corletto, commento all’articolo 105 c.p.a., in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta - V. Lopilato, Milano, 2011, 810 ss.; F.P. Luiso, Le impugnazioni, in Il codice del processo amministrativo, a cura di R.Villata – B. Sassani, Torino, 2012, 1207 ss.; R. De Nictolis - M. Nunziata, commento all’articolo 105 c.p.a. in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. Morbidelli, cit., 965 ss.; C.E. Gallo, Omessa pronuncia e annullamento con rinvio da parte del giudice di appello nel processo amministrativo, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Napoli, 2019, 81 ss.; M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio), in Dir. proc. amm., 2/2020, 341 ss.; E. Zampetti, L’appello, in Il giudizio amministrativo. Principi e regole, a cura di M.A. Sandulli, Napoli, 2024, 608 ss.; Id., Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit.; Id., Riflessioni a margine delle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 10.11 e 15 del 2018 in tema di annullamento con rinvio, in Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, cit., 427 ss.; G. Tropea, art. 105, in Commentario breve al codice del processo amministrativo, a cura di G. Falcon, F. Cortese, B. Marchetti, Padova, 2021, 820 ss.
[6] Come noto, l’articolo 354 c.p.c. prevede che “il giudice d'appello, se dichiara la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, oppure dichiara la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'articolo 161 secondo comma, pronuncia sentenza con cui rimette la causa al primo giudice”; a sua volta, l’articolo 161, co. 2, stabilisce che la regola generale, secondo cui la nullità della sentenza deve essere fatta valere nei limiti e secondo le regole dei mezzi d’impugnazione (appello e ricorso in cassazione), non si applica alle ipotesi in cui “la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”; per approfondimenti in tema, B. Gambineri, Appello, in Commentario al Codice di Procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2018, 768 ss.; C. Besso, art. 161, in C. Besso – M. Lupano, Atti processuali, Bologna, 2016, 798 ss.
[7] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, 339, evidenzia che l’espressione “nullità della sentenza” è utilizzata “in modo palesemente improprio, perché qualsiasi vizio processuale nel giudizio di primo grado determina tecnicamente la nullità della sentenza, mentre la rimessione al giudice di primo grado va disposta solo in casi particolari”.
[8] Sulla motivazione della sentenza del giudice amministrativo, G. Strazza, La motivazione della sentenza amministrativa, in Il giudizio amministrativo. Principi e regole, a cura di M.A. Sandulli, Napoli, 2024, 533 ss.
[9] Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.; cfr. anche Cons. St., ad.pl., 5 settembre 2018 n. 14; Id., 28 settembre 2018 n. 15.
[10] Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018
[11] Così, sempre Cons. St., ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.
[12] Cons. St., ad. pl. nn. 10 e 11 del 2018, cit.; Cons.St., ad. pl., n. 14 del 2018, cit., evidenzia che, ai fini dell’integrazione di un’ipotesi di nullità della sentenza, il difetto assoluto di motivazione deve essere apprezzato “con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso” e non “in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso”.
[13] Merita ribadire che “il carattere sostitutivo dell'appello consente sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa” (Cons. St., ad. pl., n. 10/2018, cit.); sulla tassonomia dei vizi della motivazione della sentenza, G. Strazza, La motivazione della sentenza amministrativa, cit., 544 ss.
[14] Le stesse considerazioni dovrebbero valere anche per i casi di erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del ricorso in cui, a causa di un errore del giudice, la sentenza si arresta ad un profilo di rito senza decidere nel merito la controversia. Anche in queste ipotesi, secondo la prospettiva indicata, l’errore del giudice verrebbe ad integrare una lesione del diritto di difesa, ossia un’ipotesi che l’articolo 105 c.p.a. annovera testualmente tra le cause di rimessione al primo giudice. Tuttavia, come noto, questa soluzione non è condivisa dal prevalente orientamento giurisprudenziale, fermo nell’escludere che l’errore in rito del primo giudice determini una violazione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’articolo 105 c.p.a., dovendosi piuttosto inquadrare in un ordinario error in iudicando che, come tale, non comporta l’annullamento con rinvio (Cons. ad. pl., nn. 10 e 11 del 2018, cit.). Va segnalato che, con una recentissima decisione, il Cons. St., sez. VII, 19 febbraio 2024, n. 1653, ha riesaminato la questione alla luce dell’altrettanto recente orientamento espresso dalle Corte di cassazione, sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559 (v. anche Cass., sez. un., 9 gennaio 2024, n. 786), secondo il quale integrerebbe una questione di giurisdizione, sindacabile con il ricorso ai sensi dell’articolo 111, co.8 Cost, “la decisione con cui il giudice amministrativo esclude la sussistenza di una posizione giuridica attiva che consente di agire in giudizio”. Come rilevato dal Consiglio di Stato, questo nuovo orientamento della Cassazione potrebbe avere degli effetti anche sulla disciplina di cui all’articolo 105 c.p.a., in quanto se, in linea con quanto affermato dalla Cassazione, la rilevata insussistenza della legittimazione ad agire viene ad integrare un diniego di giurisdizione, coerentemente l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione dovrebbe considerarsi alla stregua di un erroneo diniego di giurisdizione rilevante agli effetti della rimessione della causa al primo giudice. Senonchè, il Consiglio di Stato ritiene di non condividere il nuovo orientamento della Cassazione e ribadisce, pertanto, che “l’errata declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva, così come l’errata estromissione dal giudizio di una parte intervenuta, non rientrano nell’ambito delle questioni di giurisdizione di cui all’articolo 105”, pur evidenziando “le persistenti criticità dell’attuale assetto della disciplina che, secondo un’opinione talvolta prospettata in dottrina, non consentirebbero il pieno e completo sviluppo del principio del doppio grado”. Va, tuttavia, sottolineato che la decisione del Consiglio di Stato riesamina la questione solo dal punto di vista del diniego di giurisdizione, ma non anche nella diversa prospettiva qui indicata, secondo cui l’erronea declaratoria d’inammissibilità, irricevibilità e improcedibilità del ricorso integrerebbe una lesione del diritto di difesa rilevante ai sensi dell’articolo 105 c.p.a. (E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit., 183 ss.).
[15] In dottrina, M. Trimarchi, Omessa pronuncia in primo grado e regime dell’appello (sull’alternativa tra ritenzione della causa e annullamento con rinvio), cit., 385, ritiene che l’omissione di pronuncia “su una porzione della domanda o su una o più domande proposte cumulativamente (…) comporta la nullità della sentenza” e che, pertanto, si potrebbe configurare l’ipotesi di rimessione della causa al primo giudice prevista dall’articolo 105 c.p.a.
[16] In questi termini, E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo, cit., 194.
[17] Tra le tante, Cons. St., sez. III, 18 luglio 2023, n. 7049; 15 dicembre 2021, n. 8362; 22 settembre 2020, n. 5548. Per più ampia trattazione del tema, anche con riferimento alla giurisprudenza, R. Rolli, Il comune degli altri. Lo scioglimento degli organi di governo degli enti locali per infiltrazioni mafiose, Roma, Aracne, 2013; F. Manganaro, R. Parisi, Note sullo scioglimento dei consigli degli enti locali per infiltrazioni mafiose, cit.; M. Magri, Il commissariamento degli enti locali per infiltrazioni o condizionamenti della criminalità organizzata, in F. Astone, F. Manganaro. R. Rolli, F. Saitta (a cura di) Legalità ed efficienza nell’amministrazione commissariata, Napoli, E.S.I., 2020, pp. 131 ss.
[18] Cass. civ., sez. I, 12 aprile 2024, n. 9928; sez. I, 2 novembre 2023, n. 30428; sez. I, 21 ottobre 2022, n. 31214;
[19] Cass. civ., sez. I, 13 novembre 2023, n. 31550, dove si precisa che “l’accertamento della incandidabilità degli amministratori attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell'organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell'organo, che quelle hanno pure generato” e che “la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum, costituendo l’atto un mero presupposto dell'indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell'ente locale con riferimento alle loro condotte (omissive o commissive) che hanno dato causa allo scioglimento dell'organo consiliare o ne siano state una concausa (Cass. n. 3024/2019)”.
[20] Tra l’altro, è un’anomalia che questo dualismo comporti convinzioni opposte di giudici civili e amministrativi sulla situazione di contiguità mafiosa, partendo dai medesimi elementi di fatto (F.G. Scoca, Organi elettivi sciolti per condizionamento mafioso: stessi fatti, diverse valutazioni giudiziali, in Giustamm., n. 9/2019); non manca peraltro chi, ricostruendo la storia della disposizione oggi tradotta nell’art. 143 TUEL, arriva a mettere in dubbio la razionalità dell’istituto dell’incandidabilità in quanto tale (M. Magri,Osservazioni critiche sulla incandidabilità degli amministratori locali a seguito di scioglimento del consiglio per infiltrazioni mafiose, in federalismi.it, 7 aprile 2021).
[21] Sull’uso giudiziario dell’equazione tra mafia e ordinamento giuridico, G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, in Foro it., 1992, V, pp. 22 ss.
[22] Tipico l’esempio dei vincoli di parentela o di affinità, dei rapporti di amicizia o di affari, delle frequentazioni, della continuità amministrativa tra tornate elettorali, ecc. In giurisprudenza, le tante affermazioni del principio citato nel testo, TAR Lazio, Roma, sez. I, 5 marzo 2024, n. 4419); tra le tante altre, sez. I, 22 giugno 2023, n. 10570; Cons. St., sez. III, 12 marzo 2020, n. 1764; sez. III, 11 ottobre 2019, n. 6918; sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1165.
[23] Come rileva anche A. Crismani, L’influenza della criminalità organizzata sul libero esercizio dell’azione amministrativa degli enti locali, in federalsimi.it, 2 aprile 2014, p. 17.
[24] Non a torto, osserva F.G. Scoca, Scioglimento di organi elettivi per condizionamento della criminalità organizzata, in Giur. it., 2016, pp. 1722 ss., che in questo caso a rigore non dovrebbe neppure parlarsi di discrezionalità amministrativa: “l’esercizio del potere prende avvio dall’accertamento di elementi di fatto. In questa prima operazione non è ipotizzabile alcuna valutazione discrezionale, ossia valutazione di interessi (pubblici); tanto più che i fatti devono essere concreti, univoci e rilevanti. Si tratta semplicemente di accertarli” (p. 1725).
[25] Per la garanzia di questo “minimo costituzionale” nel giudizio civile di incandidabilità degli amministratori locali, cfr. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2024, n. 6200 (con esisti diversi da quelli della decisione in commento).