ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recovery Plan e PA, tre linee d’azione per un salto di qualità
di Luigi Carbone
sommario: 1. Capitale umano. - 2. Semplificazione. - 3. Digitalizzazione.
Uno dei settori prioritari di intervento per il governo Draghi è la Pubblica Amministrazione: la sua efficienza incide sulla vita delle persone, sulla crescita economica, sulla competitività del Paese. Occorre un quantum leap: lo chiedono i cittadini, gli operatori, l’Europa. Il Recovery Plan (PNRR), in Parlamento dal 12 gennaio, fornisce alcune indicazioni per un intervento strutturale e innovativo sulla PA. Certo, si tratta di proposte da riconsiderare alla luce delle scelte del nuovo Governo. Ma si possono già cogliere tre linee di azione, strettamente connesse: capitale umano, semplificazione, digitalizzazione.
1. Capitale umano.
Vanno affrontate almeno quattro esigenze:
1. promuovere un ricambio generazionale e culturale nella PA: l'età media del personale pubblico è di 50,7 anni, il 16,9% di dipendenti è over 60 e solo il 2,9% under 30, con tutte le conseguenze anche sul livello di alfabetismo digitale. Il PNRR può finanziare reclutamenti connessi ai progetti, immettendo rapidamente giovani motivati (è già accaduto con successo per medici e infermieri nell’emergenza Covid); i più meritevoli potrebbero, nel tempo, entrare in ruolo, senza automatismi ma con meccanismi selettivi. Contestualmente, si dovrebbe riformare il reclutamento a regime: la cattiva abitudine dello scorrimento delle graduatorie degli idonei, che oggi si prorogano per anni e in cui restano i meno capaci, va superata con concorsi più mirati e più frequenti, con procedure semplificate;
2. investire sulla qualità e sulla motivazione dei dipendenti pubblici. Senza motivazioni, non si attraggono risorse di eccellenza e lo Stato adesso è più un employer of last resort che un best employer of choice. Bisogna riformare carriere oggi bloccate e incentivi stipendiali spesso distribuiti a pioggia, riconsiderandoli sulla base del merito e dei risultati (v. punto 3);
3. introdurre un effettivo sistema di valutazione delle performance, a partire da quelle nell’attuazione del PNRR, prendendo spunto dalle best practices delle aziende private e tenendo conto dell’opinione degli utenti. Solo così la meritocrazia diventa realtà e si migliora il servizio reso;
4. ripensare il sistema di formazione pubblica, puntando a competenze non prevalentemente giuridico-amministrative, ma più tecniche o più strategiche (project management, negoziazione, consultazione, policy making).
2. Semplificazione.
Oltre che sulle persone, bisogna intervenire sulle procedure burocratiche (eccesso di norme, moduli da compilare, enti da consultare). Alcune riforme, negli ultimi 25 anni, hanno introdotto strumenti importanti, come la Scia e la conferenza di servizi. Tuttavia, essi si collocano a valle di procedimenti autorizzativi complessi, regolati da normative pre-digitali, con vincoli obsoleti ma sedimentati nell’ordinamento. Occorre un censimento completo dei procedimenti a monte che conduca alla loro radicale semplificazione secondo i principi indicati dal Piano: soppressione degli adempimenti non più necessari, riduzione dei tempi e dei costi, trasparenza e affidamento, valorizzazione del behavioural approach, digitalizzazione integrale dei processi e interoperabilità digitale tra le amministrazioni. Inoltre, va combattuta la “paura della firma” dei decisori pubblici (oggi si preferisce “amministrare per legge” o “per sentenza”, come ha scritto Luisa Torchia).
3. Digitalizzazione.
La modernizzazione della PA passa per la sua digitalizzazione. Accanto agli investimenti infrastrutturali per lo sviluppo di Poli Strategici e di un cloud nazionale, in sinergia col progetto europeo Gaia-X, occorrono standard e strumenti che consentano, finalmente, la condivisione e l’interoperabilità delle informazioni e dei dati fra le amministrazioni.
La digitalizzazione va posta al servizio dei cittadini e delle imprese, attuando una volta per tutte il principio dello once only, secondo cui non si può chiedere al privato di fornire alla PA dati e certificati di cui essa è già in possesso. La stessa semplificazione deve avvenire non informatizzando le procedure esistenti, ma “ripensandole” interamente alla luce dell’interoperabilità. In parallelo, bisogna promuovere un’alfabetizzazione digitale di base, affinché le opportunità della digitalizzazione dei servizi pubblici siano colte a pieno da tutti. Su questi profili, i due Dicasteri responsabili potranno creare sinergie positive.
Un intervento che affronti queste esigenze presenta un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio è che esso, a differenza di altri, è ampiamente condiviso, ha una natura bipartisan ed è relativamente poco costoso (anzi, è un investimento che restituisce valore). Lo svantaggio è che esso è molto complesso, perché semplificare non significa banalizzare. Non è una one shot policy: servono tempo, tecnica, pazienza, determinazione, condivisione con lavoratori, operatori e attori istituzionali.
È comprensibile la preferenza per interventi mirati ed efficaci rispetto a una (ennesima) “riforma” generale, lunga nei tempi e difficile nell’attuazione, ma va comunque mantenuta una visione strategica dell’intervento e una connessione tra i suoi vari profili.
Un contributo importante può venire dalla stessa cultura amministrativa. Nella sua relazione del 23 febbraio, il presidente del TAR del Lazio Savo Amodio ha messo in guardia proprio dalla “paura della firma”. Il presidente del Consiglio di Stato Patroni Griffi ha affermato che “l’efficienza del sistema amministrativo è uno snodo cruciale della ricostruzione” e ha proposto di affidare a quell’Istituto la semplificazione del codice degli appalti, eliminando il goldplating (lo stesso potrebbe valere per altri interventi di modernizzazione della PA).
C’è un’ulteriore, decisiva ragione per modernizzare la PA: è un intervento indispensabile per sostenere l’attuazione del Recovery Plan di cui si occuperà il Mef. E quindi, in ultima analisi, per contribuire in modo determinante alla “messa in opera” della strategia più importante del Paese dal dopoguerra ad oggi.
*Luigi Carbone - Presidente di sezione del Consiglio di Stato
Il contributo è stato pubblicato in data 23 febbraio dal sole24 ore https://www.ilsole24ore.com/art/recovery-plan-e-pa-tre-linee-d-azione-un-salto-qualita-ADybDRMB
Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile*
di Franco De Stefano
[
[sul ruolo della Corte di Cassazione v.su questa Rivista, A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, 23 febbraio 2021 e R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021]
Sommario: 1. Prologo – 2. Giurisprudenza e sistema delle fonti – 3. Il ruolo del precedente e la certezza del diritto – 4. La certezza del diritto in tensione dialettica con le esigenze del cambiamento – 5. Il ruolo del precedente nella disciplina processuale – 6. La forza indiretta del precedente – 7. Una nomofilachia consapevole e responsabile – 8. I progetti tematici – 9. La rilevanza interna del principio di diritto – 10. Epilogo.
1. Prologo.
In un dibattito complessivo sul ruolo della Corte di cassazione nel sistema giudiziario civile italiano è indispensabile prendere le mosse dalle chiare coordinate costituzionali, che disegnano un giudice soggetto soltanto alla legge ed impongono l’ammissibilità sempre e comunque, contro le “sentenze”, del ricorso per cassazione per violazione di legge; ma anche dall’evidente involuzione del sistema nel senso di un incremento esponenziale del contenzioso, segnale preoccupante dell’insoddisfatta domanda di giustizia in un contesto di eccezionale crescente complessità anche nei rapporti tra fonti ed ordinamenti anche su più livelli concorrenti.
La nomofilachia, dall’antico ellenico (i sostantivi nomos - legge - e phylakìa - guardia - quale sinonimo di phylaké[1]), è appunto la custodia (del retto significato) della legge, in ultima analisi dell’ortodossia (anche in questo caso dall’antico ellenico orthos - giusto o corretto - e doxa – opinione - da cui già in quella lingua orthodoxìa) del diritto. Ci si chiede allora se la nomofilachia, che resta un valore già soltanto per positiva definizione di legge e quindi per scelta del legislatore, possa essere adeguata alle attese della moderna società in tumultuosa evoluzione: come, in sostanza, essa possa dirsi sostenibile in questo ambiente sociale e culturale, caratterizzato, nel campo giuridico, da un rapporto interattivo tra il giudice ed il precedente giurisprudenziale.
L’esigenza di conciliare la “qualità” e la “quantità” del prodotto giurisdizionale della Corte di cassazione – di come, quindi, questa Corte possa dirsi sostenibile nel sistema anche nel senso di svolgere una funzione utile e coerente – deve farsi carico allora di esaminare senza ipocrisie la situazione attuale[2], al fine di offrire una risposta che possa dirsi la più in linea possibile col dato normativo vigente e quindi de iure condito, senza rinunciare però ad una riflessione anche de iure condendo. E sempre in un equilibrio dinamico tra lo ius litigatoris e lo ius constitutionis, che connotano da sempre il giudizio di legittimità nazionale.
Ma l’analisi non può mancare di un momento progettuale, dinanzi alla constatazione della insostenibilità della situazione attuale, anacronistica in un contesto globalizzato dove si esige affidabilità e prontezza, spesso misurata in nanosecondi, di ogni decisione; ed occorre chiedersi se non sia il caso di tentare una selezione degli obiettivi ragionevolmente raggiungibili nel contesto dato in base ad un ordine assiologico chiaro.
È auspicabile che ogni tentativo di reinterpretazione della struttura processuale vigente e, al suo interno, della nomofilachia sia orientato a considerarla quale suo valore fondante, in costante tensione dialettica tra il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge e quello della certezza del diritto quale precondizione del quotidiano percorso verso l’uguaglianza sostanziale e l’effettiva tutela della dignità della persona.
2. Giurisprudenza e sistema delle fonti.
Le brevi osservazioni che qui si svolgono si riferiscono al diritto ed al processo civile.
Può definirsi una conclusione pacifica che l’ordinamento giuridico italiano non annovera la giurisprudenza dei giudici comuni - al di là quindi di quella costituzionale - nel sistema delle fonti del diritto, poiché anche i provvedimenti giudiziari che enunciano “principi di diritto” hanno il solo ruolo di comprimari nell’interpretazione delle norme giuridiche: la giurisprudenza comune, pertanto, mantiene una funzione essenzialmente dichiarativa e non altera, né integra la norma interpretata.
Soltanto in via mediata, peraltro, è accettata l’idea della dottrina e della giurisprudenza come fonti integrate di diritto[3]: ed in tanto può accettarsi tale conclusione, in quanto l’una e l’altra sono obiettivamente in grado di influire, talvolta in modo determinante anche negli ordinamenti che non vi riconoscono un ruolo formale, sulla conformazione concreta delle regole di diritto e sul sistema delle loro interazioni.
È certo tuttavia che la giurisprudenza, neppure quando si presenta in quella sua species peculiare che è il precedente in senso stretto[4] (e che, in via descrittiva, può indicarsi nella pronuncia riferita ad un caso plausibilmente suscettibile di generalizzazione o di apprezzabile reiterazione e quindi idonea a regolare una serie potenzialmente indefinita di fattispecie analoghe o simili), non implica, neppure quando è articolata sull’enunciazione esplicita di un principio di diritto, la codificazione di una norma di dettaglio a corredo di quella interpretata, ma si mantiene invece, formalmente e sostanzialmente, entro la struttura e la funzione di un’enunciazione della regola di giudizio applicata, benché suscettibile di applicazione in fattispecie uguali o analoghe[5].
L’ordinamento italiano, come tutti quelli tradizionalmente ricondotti alla struttura di civil law, non riconosce formalmente al precedente giurisprudenziale, quand’anche proveniente dagli organi di vertice delle rispettive giurisdizioni, un carattere vincolante in senso stretto, nel senso di imporsi quale regola di giudizio a sé stante al decidente di casi diversi: e pure la Corte costituzionale riconosce alla giurisprudenza una funzione essenzialmente dichiarativa[6].
D’altra parte, non è nuovo il rilievo che il riferimento al precedente non è più, da tempo, una caratteristica peculiare degli ordinamenti di common law, essendo ormai diffuso anche in quelli di civil law, allo stesso modo in cui nei primi è sempre più diffuso il ricorso alla legge scritta e ad una vera e propria codificazione di sempre maggiori settori del diritto[7].
Eppure, sebbene nel sistema non operi il canone di stare decisis[8] tipico degli ordinamenti di common law, la circostanza che un principio di diritto risulti nel tempo fissato in una massima di diritto non è senza effetti: un indirizzo costante e ripetuto negli anni comporta la formazione di una situazione qualificata come di “diritto vivente”, che esprime la norma di legge contestualizzata dai principi di diritto che ad essa afferiscono; situazione questa che crea affidamento nella tendenziale stabilità del quadro normativo e nella certezza dei rapporti giuridici.
Nel nostro ordinamento giuridico, caratterizzato dalla complessità dell’insieme delle norme che lo compongono, l’attività interpretativa della giurisprudenza svolge una funzione di completamento delle norme stesse che, pur nella dialettica delle possibili diverse soluzioni interpretative, confluisce infine a realizzare la “uniforme interpretazione della legge” e la stessa “unità del diritto oggettivo nazionale”, di cui è menzione nel richiamato art. 65 ord. giud. (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12).
Tale è il diritto vivente, categoria da tempo ben nota sul piano del giudizio di costituzionalità, tanto che la Consulta, cui si deve la teorizzazione della relativa dottrina[9], tende a dichiarare inammissibili o manifestamente inammissibili le questioni sollevate dal giudice rimettente su un presupposto interpretativo contrastante con il diritto vivente.
In primo luogo, solo in tempi relativamente recenti si è rafforzata normativamente in Italia l’obbligatorietà dell’enunciazione del principio di diritto in caso di cassazione ed il relativo istituto è stato rivitalizzato con le riforme del giudizio di legittimità, nonostante le perplessità di parte della Dottrina.
Ai limitati fini di queste riflessioni, può proporsi operativamente e descrittivamente il principio di diritto come una species del genus del precedente giurisprudenziale, in cui l’enunciazione della regola di diritto applicata in concreto dal giudicante è esplicita e formale, anche a fini di immediata identificazione ad opera vuoi del giudice del rinvio, vuoi della generalità dei consociati cui essa è diretta.
È vero che soprattutto l’enunciazione del principio di diritto in termini generali ed astratti si presta ad una generalizzazione tale da offrirne una funzione integratrice del comando contenuto nella norma, non soltanto esplicativa del suo contenuto, ma appunto di produzione della norma da applicare alla fattispecie concreta e, di conseguenza, ad una serie potenzialmente indefinita di fattispecie analoghe future o diverse: con caratteri, così, di per sé assimilabili a quelli della norma stessa.
Ed è altrettanto vero che il principio di diritto, anche al di là della sua formale enunciazione, può comunque ricavarsi dalla ragione posta a base della singola decisione del giudice: anzi, normalmente integrando la motivazione appunto la stessa esposizione dei passaggi argomentativi che, dal giudizio di fatto, hanno condotto il giudicante a quello conclusivo di diritto e, quindi, alla regolazione della fattispecie.
Tuttavia, nell’ordinamento italiano il principio di diritto, come il (più o meno autorevole) precedente giurisprudenziale pure non articolato nell’enunciazione esplicita di una regola generale ed astratta e che si limiti ad applicarla rimettendo all’attività dell’interprete la sua enucleazione, non è tecnicamente vincolante e non ha il rango di fonte del diritto. E suole dirsi che la sua valenza sta nella sua persuasività, cioè nella sua idoneità, per la coerenza del processo decisionale e motivazionale espresso, a convincere la platea potenzialmente indefinita di operatori del diritto in generale e dei futuri decisori in particolare[10].
3. Il ruolo del precedente e la certezza del diritto.
L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sul ruolo del precedente nell’ordinamento è vastissima[11].
La stabilità della giurisprudenza è solitamente ricondotta alle esigenze imposte dai principi generali di uguaglianza e della certezza del diritto: e. quanto al primo, è intuitivo che uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge significa anche uguaglianza dinanzi alle interpretazioni della legge, uguaglianza di trattamento in sede giurisdizionale[12].
Dal canto suo, la certezza del diritto può definirsi un bene giuridico autonomo, riconosciuto in quanto tale dalla generalità degli ordinamenti e pure da quelli sovranazionali[13], come l’Unione europea ed il sistema della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali, attraverso la giurisprudenza delle sue Corti: ma la ragionevole prevedibilità, intesa ormai sempre più diffusamente come autentica calcolabilità[14], del diritto è diventata obiettivo centrale degli ordinamenti, che, sia pure sotto la spinta incessante di mercati aggressivi e globalizzati, la esige quanto meno quale precondizione per la parità di trattamento in casi uguali, con la riscoperta e l’interpretazione evolutiva o adeguatrice del principio di uguaglianza in senso formale e sostanziale.
Tanto è verosimilmente dovuto alle caratteristiche che stanno via via acquistando gli scambi economici e giuridici in una dimensione globale e tecnologica del diritto, ma si correla al principio della calcolabilità e della ragionevole durata in termini di prontezza della risposta di giustizia ed alle prospettive, ancora allo stato indefinite, dell’applicazione dell’automazione anche al mondo giuridico ed alle sue articolazioni tradizionali, non ultime quelle della decisione[15].
Il medesimo principio si correla intimamente a quello della tutela dell’affidamento: se qualcuno sa che in una determinata situazione vale una certa regola adeguerà i suoi comportamenti; e, facendo affidamento sui precedenti, vengono compiuti atti e attività. Ma il mutamento di giurisprudenza colpisce, con invalidità degli atti o forme di responsabilità, chi, avendovi fatto affidamento, è ora parte soccombente nel giudizio che porta alla nuova decisione; ed il cambiamento plausibilmente colpirà anche altre persone che nel frattempo, prima delle nuove decisioni, hanno compiuto un simile atto o tenuto un determinato comportamento[16].
In generale, ogni persona ha diritto di sapere a priori quali saranno le conseguenze giuridiche delle sue scelte e dei suoi comportamenti; in proiezione giudiziale, colui che inizia un giudizio ed investe le sue risorse, impegnando al tempo stesso risorse del sistema giustizia, deve poter calcolare, o quanto meno, ragionevolmente prevedere l’esito della controversia. La ragionevole prevedibilità della soluzione di un giudizio è una componente, non secondaria, del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Essa inoltre, inducendo a rinunciare a giudizi il cui esito prevedibile è negativo, si riflette sul sistema giustizia evitando inutili appesantimenti e, di conseguenza, si riflette sugli altri giudizi che, meno numerosi potranno essere trattati con maggiore attenzione e rapidità. In ultima analisi, vi è un nesso tra ragionevole prevedibilità e i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Sono, in definitiva, sempre più pressanti le esigenze di riduzione dei margini di oscillazione e quindi di imponderabilità delle decisioni giudiziali, perché si richiede al diritto, onde consentirgli di perseguire la sua funzione di regolatore dei rapporti di forza in un contesto di effettiva e sostanziale uguaglianza, un’intima coerenza non più solo in sede di elaborazione, ma soprattutto al momento della sua applicazione, la quale è infine sentita come irrinunciabile nei traffici giuridici odierni[17].
Ogni scelta giurisprudenziale, incidendo sull’assetto normativo complessivo, ha quindi un costo in senso tecnico (non solo economico e non sempre immediatamente traducibile in termini pecuniari): ed ogni consociato si attende gli elementi per computarlo, al fine di assumere consapevolmente le corrispondenti scelte della propria quotidiana condotta.
L’esponenziale incremento degli scambi, reso possibile non solo e non tanto dalla dimensione globalizzata dei mercati, ma soprattutto dall’impiego sempre più diffuso e capillare di strumenti di comunicazione di anno in anno sempre più sofisticati e comunque nuovi ed impensabili rispetto a poco tempo prima, ha moltiplicato in modo altrettanto esponenziale la domanda di giustizia.
La risposta che il sistema deve essere in grado di apprestare deve possedere connotati tali da scoraggiare i suoi agenti dal rivolgersi a strumenti o sistemi alternativi o da scongiurare che, peggio ancora, essi restino senza alcuna tutela, abbandonati ad una moderna giungla di sfrenata anomia, dove assai semplicemente viga la legge del più forte e si regredisca quindi al mondo preistorico.
Non è un caso che sempre maggiore attenzione è riservata alla decisione robotica, sia negoziale che giudiziale, nel senso di automatizzata o standardizzata, ad ulteriore netta riduzione dell’imponderabilità delle conseguenze delle umane azioni, sia nel fisiologico momento dello sviluppo delle autoregolamentazioni tra i privati, sia nella patologica evenienza del malfunzionamento degli strumenti da questi elaborati per disciplinare i loro rapporti. In sostanza, l’aspirazione ad un diritto “automatico” – è significativo che un simile lemma può bene intendersi nell’accezione di “pertinente ad automa” o di “elaborato dall’automa” – altro non è che l’estrinsecazione di una sempre maggiore esigenza di stabilità o certezza del diritto, anche nel senso della sua prevedibilità.
Del resto, nessuna norma può dirsi coerente al suo scopo di regolare un’attività umana, se non è in grado di offrire una chiara prefigurazione al soggetto a cui è diretta sia delle condotte che da quello si attendono, sia delle conseguenze della mancata ottemperanza al comando così impartito.
In questo quadro, un delicato equilibrio va ricercato tra la parità di trattamento e la soggezione del giudice soltanto alla legge, salvaguardando l’incoercibile esigenza di uguale regolamentazione di fattispecie uguali ed al contempo l’irrinunciabile libertà di coscienza di chi deve giudicare: a volere riprendere ricostruzioni ormai classiche, sia nel giudizio di fatto che in quello di diritto il giudice civile non è mai pienamente libero, nel senso di svincolato da regole di varia natura, comunque impostegli appunto dalla legge, cui solo pure egli è soggetto.
Nel giudizio di fatto (e quindi nella ricostruzione della fattispecie da sussumere nella norma e cui applicare quindi quest’ultima nel significato), egli deve comunque applicare regole di inferenza tali da assicurare una coerenza tra premesse e conseguenze che reggano al vaglio di plausibilità, ad evitare una mera apparenza di motivazione che neppure oggi, pur dopo la severa limitazione del controllo di legittimità introdotta con la riforma del 2012, sfuggirebbe al vaglio della Corte suprema: e tanto per potere pur sempre rispondere a quell’esigenza di corrispondenza del giudizio – nella specie, di rappresentazione e cioè di raffigurazione di un fatto necessariamente anteriore ed esterno al processo all’interno di questo – a quello di una generalità indistinta di consociati in un dato contesto storico per così dire obiettivizzato, nel cui nome del resto la decisione è presa.
Nel giudizio di diritto, reso ogni giorno più arduo dall’intrico di norme anche su più livelli in settori sempre più specialistici e connotati da un tecnicismo esasperato, vigono poi regole, sostanziali e procedimentali in senso lato, di singolare complessità e sempre maggiore raffinatezza, i meccanismi della cui interazione sono assai spesso di non agevole individuazione e la cui attitudine alla generalizzazione è messa a dura prova da una molteplice multiformità dell’ordinamento che nelle epoche passate non si riscontrava.
4. La certezza del diritto in tensione dialettica con le esigenze del cambiamento.
Una decisione o una serie di decisioni possono essere ripensate in adesione alle critiche della dottrina o degli stessi operatori pratici, che ne hanno sollecitato una rimeditazione; oppure era certamente indubbia la loro congruenza con la temperie culturale, sociale e giuridica del tempo della loro emanazione, ma non anche nell’evoluzione successiva di una di queste: sul rapporto tra disposizione e norma incide sensibilmente il fattore tempo[18] e, con esso, la dinamica della realtà fenomenica che si vuole regolare e che, per sua naturale predisposizione, tende ad evolversi, svilupparsi o modificarsi.
Può essere mutato il contesto normativo con la modificazione di altre e correlate norme, idonee ad interagire con quelle poste a base delle decisioni di un tempo: in tal caso, mutato il sistema, si esige un adeguamento dell’interpretazione del suo assetto, in base appunto ad una interpretazione sistematica rinnovata; può essere cambiato il contesto culturale e sociale in cui la disposizione è destinata ad applicarsi e a produrre i suoi effetti, la cui evoluzione è direttamente proporzionale all’ampiezza dei concetti e dei riferimenti adoperati, o alla loro sensibilità alla trasformazione dei costumi, dei valori o delle tecniche[19].
L’ordinamento deve lasciare spazio all’evoluzione della giurisprudenza, come la realtà che questa governa naturalmente si evolve e si modifica; ma le ragioni per il cambiamento devono essere forti, consapevoli e convincenti: devono essere in grado di prevalere sulle ragioni della stabilità, a loro volta importanti e con implicazioni di ordine costituzionale[20].
In primo luogo, non è stata mai modificata la norma fondamentale dell’ordinamento giudiziario in base alla quale la Corte di cassazione «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge».
Con l’uso di questa duplice espressione il legislatore mostra di essere consapevole che di una disposizione a volte possono essere date ragionevolmente più interpretazioni: se fosse stato convinto che l’interpretazione esatta è necessariamente unica, avrebbe parlato solo di esattezza dell’interpretazione[21]; invece, la duplicazione delle espressioni e dei concetti – e quindi l’endiadi – indica che, anche nelle ipotesi in cui sia possibile più di una soluzione ermeneutica, deve comunque essere garantita l’uniformità dell’interpretazione, all’evidente fine di evitare che, con argomenti analogamente persuasivi, siano date risposte diverse in giudizi su casi simili.
L’ordinamento affida alla Corte di cassazione il compito di garantire questa declinazione del principio costituzionale di uguaglianza: i suoi precedenti hanno pertanto anche questa particolare valenza. Ma in generale il sistema giudiziario, in tutte le sue articolazioni, deve muoversi in questo senso[22]: un sistema per definizione deve dare risposte coerenti tra loro.
L’ordinamento giuridico deve dare alle domande di giustizia dei cittadini risposte unitarie e coerenti tra loro: stabilità e coerenza devono essere prioritariamente garantite; e mutamenti di giurisprudenza possono allora giustificarsi per ragioni gravi, così pesanti da controbilanciare e prevalere su esigenze rispondenti a principi di ordine costituzionale.
Tutto ciò è sempre stato, ma forse oggi se ne sente maggiormente la necessità; lo stesso intensificarsi del dibattito dottrinale sul tema del precedente è indice di questa particolare sensibilità. La riflessione giuridica risente naturalmente di dinamiche culturali e sociali più ampie, che oggi registrano un sentimento di perdita e spaesamento, che si tende ad affrontare guardando al passato, ricercando continuità in luogo di fratture; persino nella psicoanalisi si riscopre il valore di concetti come quello di “eredità” quale momento fondante dell’evoluzione: una declinazione, in fondo, del concetto di precedente[23].
Probabilmente vi è un rapporto tra complessità del sistema normativo ed esigenze di coerenza e affidabilità giurisprudenziale. Quanto più aumentano articolazione e disordine del quadro normativo tanto più si percepisce l’esigenza di una giurisprudenza che sia in grado di ricucire le maglie della rete, di ridurre le aporie, di dare senso e coerenza al sistema. In analoga misura, più aumenta il soggettivismo dei giudici, il loro proporsi come monadi autoreferenziali, tanto più è sentita l’esigenza di una risposta convergente e coerente alla domanda di giustizia[24].
E se questo è vero in generale, lo è ancor di più con riferimento alle regole processuali: il processo è il luogo in cui più che mai deve essere garantita l’esigenza di certezza e stabilità delle regole del gioco[25].
. Il ruolo del precedente nella disciplina processuale.
Può dirsi che il ruolo del precedente di legittimità – e quindi della nomofilachia – è oggi disegnato da una serie di dati normativi testuali: quasi una forma attenuata della regola di stare decisis[26] dopo le riforme del 2006 (d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), del 2009 (l. 18 giugno 2009, n. 69), del 2012 (art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con l. 7 agosto 2012, n. 134) e del 2016 (d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con l. 7 agosto 2016, n. 197) soprattutto del giudizio di legittimità, ma anche della disciplina sulle motivazioni del provvedimento civile.
Il sistema si regge, in sostanza, da un lato sulle norme specificamente volte alla tendenziale unificazione della giurisprudenza, cioè gli artt. 374 e 420-bis c.p.c., nonché all’enfatizzazione della forza del precedente: da un lato e quanto a quello di legittimità, gli artt. 384, 363 e 360-bis c.p.c.; dall’altro e in generale, l’art. 118, co. 1, d.a.c.p.c.
Va però sottolineato che soltanto per il giudice del rinvio, nella specifica sede sua propria disciplinata dagli artt. 392 e seguenti c.p.c., incontra un vincolo positivamente stabilito, quanto al principio di diritto. Neppure dà luogo ad un precedente in senso tecnico l’istituto disegnato dall’art. 420-bis c.p.c. [27], assimilabile piuttosto ad una sorta di rinvio pregiudiziale o di costituzionalità, o, a voler operare un parallelo con altri ordinamenti, ad una saisine par avis del diritto processuale francese[28]: ma è limitato al campo della contrattualistica collettiva ed esita in una sentenza interpretativa in via pregiudiziale.
Incide sulle modalità di ordinaria elaborazione della giurisprudenza successiva, di merito e di legittimità, la previsione della possibilità di motivare col richiamo ai precedenti, di cui all’art. 118, co. 1, d.a.c.p.c.: questi assurgono quindi a strumento di motivazione semplificata e, al tempo stesso, a parametri di giudizio ai quali è sufficiente un rinvio, con esenzione del giudicante dalla riproduzione di evidentemente analoghi snodi argomentativi.
Si tratta di norma sistematica di grande rilievo, riferita ad una generalità potenzialmente indefinita di provvedimenti di merito, introdotta da non molto nel nostro ordinamento nel tentativo di contenere l’inarrestabile tendenza all’espansione delle motivazioni. È ora consentito di redigerle con richiamo ai precedenti conformi: e questo sia da parte dei giudici del merito con rinvio a precedenti anch’essi di merito[29], purché – beninteso – reperibili a garanzia della trasparenza della decisione e del diritto di difesa delle parti (e restando immutato l’onere di riprodurli nelle successive impugnazioni), sia nel giudizio stesso di legittimità, per il caso di adozione di forme semplificate di motivazione[30].
In questo caso, il precedente acquista una sua forza intrinseca, in quanto esonera il giudicante successivo dall’attività di specifica motivazione, ove beninteso il relativo contenuto possa essere analogo. La capacità conformativa della giurisprudenza successiva è quindi riferita sia al momento della decisione, sia a quello della concreta estrinsecazione dei passaggi argomentativi a suo sostegno; si rivolge al momento della motivazione, ma, ovviamente, offre un indiretto stimolo al decidente a verificare l’idoneità e sufficienza del richiamo a quei passaggi, auspicabilmente dissuadendolo dalla convinzione della ineluttabilità di una ripetizione, spesso pedissequa o peggio meramente di rifinitura e rielaborazione di quelli (non solo in genere più faticosa, ma anche foriera del rischio di esaltare impropriamente le conseguenze di divergenze o sfumature semantiche adottate).
Significativamente ricondotto all’oggetto del provvedimento impugnato ed al mezzo di impugnazione posto in campo contro di esso è da segnalare l’istituto dell’inammissibilità del ricorso per cassazione per suo contrasto con un orientamento di legittimità, previsto dal n. 1 dell’art. 360-bis c.p.c..
Questo elemento esige oramai, nuovamente ricondotto com’è nell’alveo della sua testuale definizione ad una ipotesi di inammissibilità in senso tecnico[31] (sia pure per ragioni di merito), che parti e giudice del merito si facciano carico di quell’orientamento o di quella giurisprudenza ove vogliano confutarla o superarla, con un onere di argomentazione rafforzato, dovendo gli uni e l’altro prendere in considerazione critica gli argomenti a sostegno di quelle conclusioni e non bastando loro i richiami a quelli contrari già disattesi. Il riferimento della norma alla giurisprudenza della Corte di cassazione, senza altre specificazioni, esclude la necessità di una particolare costanza di reiterazione, riconoscendosi l’applicabilità dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. anche ad ipotesi di un unico precedente, quand’anche remoto, purché congruo e convincente[32]: a dimostrazione che l’autorevolezza e la persuasività di quello può bene ricondursi non tanto alla frequenza statistica della sua reiterazione, quanto all’intrinseca sua congruenza ed alla sua sostanziale accettazione nella pratica successiva, che potrebbero essere state tali da non suscitare mai la necessità di ribadirlo.
Il precedente delle Sezioni Unite vincola poi la singola sezione semplice, che è obbligata – sia pure senza la previsione di una sanzione e, certamente, senza che possa configurarsi un errore revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c., potendo semmai trattarsi di un error in procedendo (in quanto tale insindacabile se commesso dalla Corte di legittimità) e mai di un errore di fatto – a rimettere la questione alle stesse Sezioni Unite. Nella pratica, un tale vincolo è con una certa attenzione rispettato dalle sezioni semplici, le quali, quanto meno nei casi liminari, comunque si preoccupano generalmente di adottare una tecnica simile al distinguishing degli ordinamenti di common law, sottolineando le differenze tra le fattispecie tali da giustificare lo scostamento dall’apparente precedente rafforzato. È da escludere una qualsiasi forma di impugnazione alle Sezioni Unite delle pronunce delle sezioni semplici con esse in contrasto: ed è auspicabile comunque che, per il senso di leale ossequio alle norme dell’ordinamento che ci si attende da un giudice e a maggior ragione da quello di legittimità, una norma processuale di tale delicata portata sia spontaneamente osservata senza la necessaria deterrenza di una sanzione.
Più ampio discorso andrebbe fatto per l’enunciazione del principio di diritto: sia nella fattispecie, ormai generalizzata, per il caso di rigetto del ricorso, sia nell’altra, rivitalizzata appunto con la riforma del 2006, prevista dall’art. 363 c.p.c., nella duplice versione della pronuncia di ufficio direttamente dalla Corte in caso di inammissibilità del ricorso e di quella su richiesta del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione. Entrambi meriterebbero ben altro approfondimento, ma è da notare che la Corte di legittimità si è occupata sovente dell’istituto, a dimostrazione del recupero di una certa sua vitalità, sia pure dipendendo dalle determinazioni del Procuratore generale la maggiore o minore ampiezza della sua applicazione e nonostante le preoccupazioni e, talvolta, le vigorose critiche di parte della Dottrina.
6. La forza indiretta del precedente.
Pur in assenza di un obbligo di conformazione, vi è un’innegabile influenza del precedente “autorevole”: l’autorevolezza può derivare da una serie di elementi, estrinseci o intrinseci.
Quelli estrinseci concernono il giudice che lo ha emesso. A parte le sentenze che possono incidere direttamente sulle previsioni legislative, come quelle della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell’Unione europea, è indubbio che, di massima, si attende che l’autorevolezza cresca in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario e che le decisioni della Corte di cassazione abbiano una particolare valenza come guida nell’interpretazione della legge, siccome rese dall’organo funzionalmente preposto alla nomofilachia e collocato al vertice del sistema delle impugnazioni.
Quelli intrinseci attengono alla qualità della motivazione del provvedimento che forma il precedente: il grado di persuasività degli argomenti, la sua chiarezza e linearità[33]; per persuadere occorre essere certamente chiari, ma anche adottare argomenti congruenti e che si facciano carico, se possibile, anche delle tesi contrastanti, offrendo una soluzione ragionata e meditata, quand’anche opinabile, auspicabilmente finalizzata alla risoluzione del caso concreto, sia pure facendo chiara enunciazione di principi generalizzabili.
L’aspirazione alla completezza, apprezzabile in vista dello ius constitutionis, può nuocere alla fruibilità del discorso ed alla limpidità delle conclusioni, oltre a innescare talvolta più conflitti di quanto non possa sopirne; ma questo dipende, beninteso, dalla personalità del singolo decidente e dalle sue personali doti di estensore.
Il precedente autorevole si pone poi in un rapporto di tensione dialettica tra le ragioni della stabilità e quelle del cambiamento: e, sostanzialmente, l’uno e l’altra sono espressione evidente della funzione della giurisprudenza[34].
Un ruolo importante può riconoscersi al precedente nel momento in cui la sua considerazione esplicita nella motivazione da parte del decidente è imposta da norme che non incidono in maniera diretta sul procedimento decisionale in senso stretto e sul contenuto e gli eventuali vizi del provvedimento che ne costituisce l’esito, ma solo in via indiretta, nel connotare l’attività intellettuale del giudice che sta determinandosi in un senso o nell’altro.
In questo modo, il precedente è rivestito di un’indubbia sua forza o efficacia cogente, nel senso di essere in grado di orientare in concreto la decisione, sia pure senza potersi prospettare come un vincolo formale; e si tratta allora di una forza evidentemente indiretta, sebbene verosimilmente molto più significativa, in ragione degli effetti sulla persona del singolo decidente, attraverso la definizione dei suoi obblighi professionali in senso stretto, le cui violazioni siano tali da esporlo a responsabilità civile o disciplinare e quindi connotino di giuridicità l’ossequio che, entro certi limiti, l’ordinamento comunque richiede al giudicante o almeno si attende da lui.
Un’indubbia forza del precedente è, benché solo indirettamente, riconosciuta da un duplice elemento di matrice giurisprudenziale, elaborato dalla stessa Corte di legittimità nell’individuazione, da un lato, dei contorni della responsabilità dello Stato per grave violazione di legge da parte dei giudici nell’interpretazione di questa ai sensi della legge n. 117 del 1988 e, dall’altro, delle fattispecie di illecito disciplinare del magistrato per violazione di legge.
Il primo regola la delicata materia della discrezionalità del giudice nell’interpretazione delle norme e nel suo obbligo di motivazione: premesso che – come avviene anche a livello sovranazionale – non è mai richiesta una risposta puntuale del singolo giudice ad ogni singolo argomento sottopostogli dalla parte, una motivazione qualunque non è mai sufficiente ad escludere l’illegittimità della condotta del giudicante e la responsabilità dello Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117 (già nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18); infatti, a fondare una responsabilità dello Stato (prima e del singolo giudice poi), occorre che la decisione non appaia frutto di un consapevole processo interpretativo, oppure che contenga affermazioni ad esso non riconducibili perché sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero e pertanto caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile, in vari momenti dell'attività prodromica alla decisione, in cui la violazione non si sostanzia negli esiti del processo interpretativo, ma ne rimane concettualmente e logicamente distinta, ossia quando l’errore del giudice cada sulla individuazione, ovvero sulla applicazione o, infine, sul significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica. La “ribellione” ai precedenti giurisprudenziali non determina, cioè, di per sé responsabilità, perché il precedente giurisprudenziale, pur se proveniente dalla Corte di legittimità e finanche dalle Sezioni Unite, e quindi anche se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto e, pertanto, non è di norma vincolante per il giudice; tuttavia, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere né gratuita, né immotivata, né immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione[35].
Costituisce poi illecito disciplinare una grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, che si risolva nella mancata applicazione di norme anche solo processuali: l’attività interpretativa non attinge l’illecito disciplinare solo se resa evidente da chiara condotta di motivazione, idonea a rendere le ragioni della decisione verificabili a posteriori, anche mediante l’adesione ad una scelta ermeneutica riconducibile ad un orientamento minoritario, purché reso evidente da un percorso argomentativo valutabile ed impugnabile così come previsto dalla legge; in sostanza, esclude l’illecito la circostanza che l’adottata scelta ermeneutica non sia implausibile e che cioè non sia tale da qualificare abnorme il risultato dell’interpretazione, solo in tali casi si può intendere superato il limite dell’insindacabilità sancita dall’ultimo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006[36].
7. Una nomofilachia consapevole e responsabile.
In questo contesto, il ruolo di una Corte suprema in grado di elaborare una nomofilachia sostenibile dovrebbe allora quello di una Corte suprema consapevole e responsabile, nel duplice senso di attenta ad evitare contrasti involontari e pronta a rendere conto dinanzi alla collettività delle proprie scelte, ad un tempo prudente custode dell’uniformità e sensibile interprete delle esigenze del cambiamento, concentrata nel rendere un prodotto fruibile anche in termini di qualità e tentando di influire sulla quantità deprimendo, con la chiarezza e talvolta la secchezza dei propri arresti, la domanda di giustizia di legittimità.
L’effettiva applicazione delle norme sull’enunciazione del principio di diritto è essa stessa complessivamente molto prudente.
In via di fatto, nella sua forma pienamente ufficiosa quell’enunciazione è in linea di tendenza evitata oramai, dopo una prima caustica reazione negativa da parte della Dottrina nei primi anni di applicazione, quando il principio che dovrebbe essere enunciato andrebbe a favore del ricorrente nei cui confronti pure è pronunciata l’inammissibilità.
È stata sancita espressamente l’incompatibilità dell’enunciazione del principio di diritto di ufficio col rito camerale di sezione ordinaria, ma nulla vieta alla sezione semplice (compresa la sesta, cui è istituzionalmente devoluta ogni questione su inammissibilità o improcedibilità o manifesta infondatezza o fondatezza) di farvi luogo, o, in alternativa ed ove ritenga sussistere una questione di massima di particolare importanza, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite[37]: alle quali è stato, almeno in via di prassi, finora devoluto l’esame delle non moltissime richieste del Procuratore generale ai sensi dei primi due commi dell’art. 363 c.p.c.
Del resto, un altro ed apprezzabile self restraint un vincolo al mutamento di giurisprudenza, quanto meno in materia processuale, le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono imposte riconoscendolo opportuno solo quando l’interpretazione fornita dal precedente risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, poiché l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo[38].
Certo, il revirement non è mai di per sé solo precluso, nemmeno nella giurisprudenza sovranazionale, purché appunto siano apprestati strumenti per i giustiziabili atti a tutelarne l’affidamento quanto meno in materia processuale. Ma l’approfondimento della tematica condurrebbe davvero lontano, involgendo il tema della prospective overruling o comunque degli effetti immediati dei mutamenti di giurisprudenza radicali: i quali non attengono, se non altro in senso stretto, al principio della stabilità del precedente.
È certo che sulla motivazione semplice o semplificata gli sforzi della Prima Presidenza della Corte suprema di cassazione si sono appuntati da almeno dieci anni: basti pensare alle note del Primo Presidente di questa Corte del 22/03/2011 e del 14/09/2016, la prima delle quali a seguito di un interessante esperimento di autoformazione in forma di laboratorio per una riflessione sulla struttura della motivazione della sentenza civile di Cassazione, culminato in un “dodecalogo” per la sua redazione, voluto dall’allora Primo Presidente Ernesto Lupo[39].
Certamente, motivazione semplice o semplificata è funzionale ad una facilitazione nella redazione dei provvedimenti.
Ma è altrettanto certo che non si esaurisce in questo la nomofilachia, tanto meno una nomofilachia sostenibile: redigere provvedimenti agili non deve significare solamente poterne scrivere un numero infinitamente o indefinitamente maggiore, ma deve servire a liberare risorse per concentrarsi sulle questioni nuove e ad attivare motivazioni davvero sommarie nei casi agevolmente riconducibili ai precedenti. Del resto, la concentrazione degli sforzi motivazionali nei casi pilota non è una novità nemmeno nel panorama sovranazionale: già la Corte europea dei diritti dell’Uomo assicura la priorità ai ricorsi in materie caratterizzate dal well-established-case-law, in cui cioè sussiste una giurisprudenza già consolidata, che consente una definizione perfino con una composizione ridotta del Collegio decidente.
Il metodo delle cause pilota deve tendere non ad aumentare o rendere più produttiva la risposta di Giustizia di legittimità, ma a deflazionare, rendendola per quanto possibile priva di necessità (se non di ragione), la domanda di Giustizia di legittimità.
Una giurisprudenza stabile e rapida almeno sulle questioni principali, semmai accompagnata da un uso non più troppo timido, sebbene pur sempre prudente, di strumenti quali le condanne ai sensi dell’art. 96 co. 3 c.p.c., dovrebbe poter servire senz’altro a ridurre il contenzioso e a riservare le limitate risorse umane a disposizione alle fattispecie serie e degne di attenzione, evitando che le oscillazioni ed il tempo necessario per la definizione inducano, in una perversa spirale, sempre più qualunque giustiziabile ad azzardare la via del ricorso per cassazione, nella sia pur tenue possibilità di una pronuncia favorevole nel mare magnum di provvedimenti. E si potrà evitare di demotivare anche i giudici del merito, i quali, dinanzi all’instabilità intrinseca di cui può dare impressione la Corte di legittimità, potrebbero restare privi di qualunque riferimento affidabile e, al contempo, ritenersi svincolati da ogni precedente, prefigurandosene una permanente instabilità.
8. I progetti tematici.
Analogo meccanismo è tentato ormai da quasi tre anni almeno in una delle Sezioni della Corte di cassazione, ad iniziare dalla materia dell’esecuzione civile e poi via via in quella delle locazioni e della responsabilità sanitaria: un tale meccanismo è inteso a recuperare al giudice di legittimità un suo istituzionale ruolo nomofilattico e definito dalla stampa “un esempio di best practice nel settore giustizia, per coniugare le ragioni del diritto con quelle dell’economia, rafforzando la funzione della Cassazione nell’assicurare un’uniforme interpretazione della legge”[40].
Il “Progetto” (che, nella stessa giurisprudenza di legittimità, è definito la «metodologia organizzativa ... volta alla rilevazione e concentrazione delle questioni nuove o che presentano specifiche “criticità” in apposite udienze dedicate»[41]) mira a correggere gli effetti della tradizionale impostazione del giudizio di cassazione come “occasionale”, nel senso che la controversia tra privati (incentrata sullo ius litigatoris) costituisce per la Corte soltanto un’occasione per svolgere la sua funzione nomofilattica (finalizzata invece allo ius constitutionis) e dipende quindi dal caso la concreta articolazione del ruolo delle singole udienze. Con la prassi applicativa del Progetto, invece, si attribuisce centralità alla programmazione, sia pure – beninteso – in relazione al concreto carico di lavoro pendente ed alle questioni comunque portate alla cognizione della Corte dalla mutevole e imponderabile iniziativa dei singoli litiganti, poiché è lo stesso giudice di legittimità che, selezionate le questioni attualmente più rilevanti o dibattute, individua una controversia idonea a fornire l’opportunità di pronunciare una decisione idonea ad orientare le future determinazioni dei giudici di merito (e non solo a correggere le pronunce già emesse) e, così, di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto nazionale e per di più di farlo tempestivamente.
La prassi tende a una razionale e mirata gestione delle pendenze in una determinata materia mediante l’individuazione, il più possibile compartecipata da tutti gli operatori del diritto (attraverso l’interazione con forum specializzati, convegni e riviste giuridiche), delle questioni di maggior rilievo o più controverse negli uffici di merito.
La ricerca – condotta dal gruppo di lavoro istituito in seno alla Sezione (composto dai magistrati dell’Ufficio del Massimario destinati alla collaborazione nell’attività di spoglio e classificazione dei processi, da alcuni Consiglieri e Presidenti di Sezione esperti del settore) – individua le questioni che assumono rilievo nomofilattico in quanto:
- riguardano tematiche di sicura attualità e rilevanza, ma non ancora approfondite;
- patiscono divergenti interpretazioni dei giudici di merito oppure incertezze e dubbi indotti da giurisprudenza di legittimità oscillante o eccessivamente remota o la cui tenuta deve essere rimeditata in ragione di mutati contesti ordinamentali;
- hanno impatto sistematico e di ricaduta immediata sulle procedure pendenti, a causa delle conseguenze applicative nel quotidiano lavoro dei giudici dell’esecuzione forzata e dei loro ausiliari.
All’individuazione delle questioni seguono:
1) il reperimento, preferibilmente con mezzo informatico, tra le cause pendenti in Sezione (in precedenza oggetto di attenta schedatura da parte dei magistrati destinati allo spoglio e alla classificazione), di quelle che siano portatrici di una o più di quelle stesse questioni;
2) l’accorpamento di quelle controversie in più udienze dedicate;
3) la divulgazione agli operatori del settore di un calendario di udienze che faccia esplicita menzione dei temi trattati, così che i giudici di merito possano, a loro volta, razionalmente gestire il proprio ruolo;
4) l’applicazione dei principi elaborati in seno al Progetto in successive ordinanze con motivazione davvero sommaria[42].
Parallelamente, il P.G. presso la Corte di Cassazione, dopo avere promosso una consultazione degli uffici di merito con invito a formulare segnalazioni, propone alla Corte i ricorsi nell’interesse della legge, ai sensi dei primi due commi dell’art. 363 cod. proc. civ.
9. La rilevanza interna del principio di diritto.
Per concludere, solo pochi cenni alla rilevanza interna del principio di diritto, intesa come vincolo specifico al giudice del rinvio nella sede sua propria del giudizio disciplinato dagli artt. 392 a 394 c.p.c.: riguardo alla quale è indispensabile un rinvio alle trattazioni istituzionali e specialistiche e sulla quale qui ci si sofferma solo per rimarcare le differenze con la rilevanza esterna del principio di diritto fin qui esaminata, vale a dire quella che quest’ultimo ha in relazione a processi diversi da quello in cui è stato enunciato e tra soggetti diversi dalle parti o dai loro aventi causa a qualsiasi titolo.
È, tale vincolo, un istituto tipico dell’ordinamento nazionale, visto che quello da cui è stato importato, cioè quello francese, non prevede un obbligo immediato del giudice del rinvio di conformarsi al principio di diritto affermato dalla Cassazione, ma soltanto in un secondo momento, qualora, a seguito della sua “ribellione” o non condivisione, la stessa Corte di legittimità pronunci in Assemblée Plénière (si tratta quindi di un procedimento particolarmente rafforzato: che se, da un lato, esalta l’indipendenza del giudice del merito, dall’altra si inserisce in un sistema in cui le ribellioni alle pronunce di legittimità, sebbene tecnicamente ammissibili, sono praticamente rarissime).
Nell’elaborazione nazionale, esso integra una fattispecie di vero e proprio vincolo interpretativo per il giudice: è imposto al giudice di rinvio dopo la pronuncia di cassazione (secondo il disposto dell’art. 384, secondo comma, c.p.c., analogo a quello, in materia penale, posto dall’art. 627, terzo comma, c.p.p.).
È un vincolo interpretativo che ha superato il vaglio di costituzionalità fin da epoca ormai risalente[43]; ma è un vincolo interno al processo e consegue ad un suo sviluppo particolare: la regola di giudizio è fissata prima della sua applicazione alla fattispecie concreta. Questo scarto diacronico[44] crea una preclusione processuale: la regola di giudizio, pervenuta nella dialettica processuale, attraverso i vari gradi del giudizio, all’enunciazione del principio di diritto da parte della Corte di cassazione non può più essere posta in discussione non già in ragione di un’applicazione fuori sistema del principio di stare decisis, ma perché le parti ne hanno già discusso nel processo fino a quando e nei limiti in cui le regole del processo lo consentono. Pertanto, la violazione del principio di diritto da parte del giudice del rinvio determina una nullità della sentenza e la espone al successivo ricorso per cassazione sotto questo specifico profilo.
È poi consolidata la giurisprudenza di legittimità nel ritenere comprese nella preclusione derivante dall’enunciazione del principio di diritto tutte le questioni – di fatto e di diritto – logicamente sottese ed il cui esame deve aversi per necessariamente svolto in senso congruente col principio stesso[45].
Di recente, poi, quanto alla prosecuzione in sede civile del giudizio di danni già iniziato in sede penale, la giurisprudenza civilistica ha rivendicato, non senza critiche della Dottrina, la totale autonomia dei principi applicabili in sede di rinvio disposto ex art. 622 c.p.p.
Si noti che della conformità del principio di diritto a Costituzione il giudice del rinvio può dubitare, rimettendo gli atti alla Consulta e conseguendo se del caso pronuncia di accoglimento, anche quando in ipotesi il diritto vivente abbia condotto al suo superamento: in altri termini, il principio di diritto fissato al giudice del rinvio sopravvive ai mutamenti di giurisprudenza successivi[46], ma non a quelli assimilabili ad un autentico ius superveniens, quali le pronunce della Corte di Giustizia di Lussemburgo.
Tuttavia, tali ipotesi di rilevanza interna del principio di diritto, proprio perché in ultima analisi riconducibili al sistema di preclusioni, non dissimilmente del resto da quelle che si verificano in caso di sentenza non definitiva all’interno dello stesso grado, interessano in modo relativo l’interprete che si interroga sulla valenza del principio di diritto.
10. Epilogo.
In esito a queste brevi e disorganiche considerazioni dovrebbe risultare chiaro come sia preliminare ad ogni altra riflessione quella sull’utilità effettiva di una rincorsa fordista all’esaurimento della domanda di giustizia di legittimità con un parallelo o perfino pari incremento della sua risposta: in sostanza, occorre interrogarsi senza infingimenti sull’utilità effettiva degli sforzi per adeguare la produttività della Corte suprema di cassazione, che già di per sé è – con il suo carico spaventoso – un unicum nel panorama degli ordinamenti giudiziari occidentali, ad una domanda ormai fuori controllo, alimentata non solo da una conflittualità esasperata e propria della temperie culturale nazionale, ma anche, in un quadro di scarsa chiarezza di idee ed obiettivi forse tra gli stessi operatori del diritto, da scelte legislative miopi od incongrue – non ultima, di recente, quella di devolvere direttamente alla Corte di legittimità il solo controllo di impugnazione in materia di protezione internazionale in un contenzioso già di per sé dalle dimensioni epocali – e dall’evidente natura viziosa del circolo che si viene ad instaurare.
L’uniformità del diritto nazionale deve restare un presidio irrinunciabile di uguaglianza sostanziale tra i consociati; se l’approccio dinamico ed evolutivo della multiforme esperienza giurisprudenziale è assolutamente essenziale alla vitalità stessa della giurisdizione ed alla sua libertà ed indipendenza, nondimeno essenziali sono la stabilità delle risposte dei giudici e l’affidamento che vi devono riporre tutti.
Una stabilità come garanzia di uguaglianza, non come paralisi o fossilizzazione; ma al tempo stesso stabilità attraverso una tendenziale coerenza, che postula ed esige evoluzioni, ma auspicabilmente ponderate ed attente: vanno scongiurate continue oscillazioni o esercizi di rifinitura ed esasperata ricerca degli affinamenti dei precedenti. Va evitato il rischio di ridurre, col pretesto della pienezza della sua libertà, la determinazione del decidente ad un accidentale episodio di personale elaborazione di una norma astratta e, quindi, alla fortuita o casuale espressione di una discrezionalità così incontrollabile da rasentare l’arbitrio od un estenuato e narcisistico esercizio accademico.
La possibilità di assicurare l’uniformità del diritto nazionale passa, in un sistema come quello italiano, allora per una funzione nomofilattica incentrata sulla chiarezza e sulla saldezza degli interventi giurisprudenziali e sul ruolo che quelli della Corte suprema possono svolgere sull’esercizio della giurisdizione da parte dei giudici di ogni ordine e grado; ma con questi numeri richiesti alla Corte la sua giurisprudenza va incontro ad una instabilità ed inaffidabilità intrinseca, dovuta all’impossibilità materiale di garantire una coerenza anche solo sincronica – ed a maggior ragione diacronica – tra le sue pronunce.
Il vero e proprio esercito di giudici – in continua espansione, visti i cospicui incrementi della pianta organica pure necessitati dall’incalzare del soverchiante carico delle pendenze – chiamato ad affrontare l’arretrato e l’affannosa rincorsa ad un incremento della produttività marginale che resta obiettivamente inesigibile (e poco dignitoso di per sé solo per una Corte suprema) potranno forse anche conseguire un ulteriore aumento del già mirabolante carico di provvedimenti prodotti per anno, visto che pure nell’annus horribilis della pandemia si sono superati i trentamila provvedimenti civili pubblicati.
Ma, a parte ogni considerazione sui tempi biblici necessari per ridurre sensibilmente, se non anche per azzerare, l’arretrato in condizioni di aumento in progressione geometrica delle sopravvenienze annue, è forse il momento di valorizzare per quanto possibile i pochi strumenti a disposizione per tentare di reggere il passo con l’emergenza costituita dall’esplosione della domanda di Giustizia di legittimità e dalla circostanza che questa è ormai fuori controllo.
E tanto anche a costo di privilegiare non già l’aumento vertiginoso della produzione dei provvedimenti, ma la loro qualità, nell’auspicio che una nuova condivisione di obiettivi tra gli operatori del diritto possa condurre ad una giurisprudenza in grado di fornire alla collettività dei consociati risposte credibili, superando la sgradevole sensazione che essa possa costituire un azzardo che vale sempre la pena tentare, un’alea da correre, per ogni tipo di diritti o di pretese, senza farsi carico della drammatica limitatezza delle risorse.
Occorrerà, quindi, chiedersi se e fino a che punto una Giustizia – di legittimità, ma non solo – come sta diventando la nostra sia un lusso che possiamo permetterci, ma pure quale sia l’obiettivo che si vuole perseguire.
Semplificazione anche nell’interazione, con il prezioso strumento dei Protocolli, utili momenti di riflessione comune nel solco dell’esperienza degli Osservatori; e perfino nella individuazione di contenuti minimi, anche se standardizzati, per ritrarre quanto di positivo c’è nell’esperienza della procedura civile eurounitaria, fondata su formulari preziosi per l’individuazione condivisa di quanto effettivamente serve alla parte per esporre le sue ragioni ed al giudicante per valutarle.
Occorrerà tentare di superare l’evidente incapacità di intesa già solo sull’individuazione degli elementi indispensabili alla comprensione della fattispecie in esame, sia per i giudici che per gli avvocati; occorrerà, almeno per i giudici, tentare di resistere ad atteggiamenti culturali, che giustificano un’incessante rivisitazione di conclusioni già raggiunte, anche faticosamente ed in via di approssimazione sostanzialmente condivisa: tendenza alla rivisitazione sorretta dalla presunzione di essere in grado di fornire la propria risposta nuova e sola corretta, ma tale in concreto da produrre, con una vera e propria eterogenesi dei fini, l’incremento ad un tempo, con un’autentica babele, dell’ingovernabilità della realtà fenomenica e dello sconcerto degli operatori pratici e soprattutto dei cittadini, nel cui nome questa Giustizia pur sempre viene amministrata.
Ma non bisogna, con franchezza, tralasciare che questo atteggiamento è al contempo concausa ed effetto di una mancanza di orizzonti ed obiettivi chiari, quasi un ripiegamento intimistico su se stessi dinanzi all’impressione dell’inanità dei propri sforzi ed al conforto che parrebbe dare l’idea di apportare, non potendo modificare un andamento generalizzato, un minimo contributo con la rifinitura e la sterile rimeditazione o riedizione dell’esistente, sola ad essere considerata attingibile: ciò che imprime un’ulteriore impronta al carattere vizioso del circolo, per cui il giurista, che già di suo indulge all’esasperazione analitica della singola fattispecie e non sempre è capace di cogliere le esigenze del sistema, ancora di più si rifugia in questi esiti nella più o meno cosciente consapevolezza di non riuscire ad attingere una visione dinamica e soprattutto di respiro ordinamentale.
Solo una condivisione quanto più ampia possibile del ruolo della giurisprudenza e di una Corte che ha tra le sue funzioni istituzionali la nomofilachia, con attenzione costante alle ricadute concrete nel mondo reale e non soltanto nell’iperuranio della perfezione formale di un sistema astratto, potrà inverare nei fatti l’indispensabilità dell’uno e dell’altra per l’uguaglianza effettiva e sostanziale di tutti davanti alla legge e quindi per l’ordinato vivere quotidiano, compito primario del Diritto anche nel moderno mondo, articolato su mercati sempre più aggressivi e violenti, ipertecnologico e globalizzato.
Perché «il giudice, il quale sa che scopo della sua funzione non è di risolvere eleganti problemi teorici per amor della scienza, ma di portare certezza giuridica nei conflitti di interessi che insorgono nella vita pratica, comprende che, specialmente in certe vexatae quaestiones di diritto processuale […] una giurisprudenza costante è preferibile, nell’interesse dei privati, a una giurisprudenza giusta»[47].
La nomofilachia sostenibile dovrebbe quindi orientarsi all’individuazione dei principi generali mediante motivazioni secche e, in presenza di precedenti complessivamente accettabili, anche soltanto meramente assertive; e non dovrebbe essere orientata ad un incremento progressivamente costante della produzione dei provvedimenti, visto che già adesso questa ha raggiunto dimensioni ingestibili e spesso mortificanti, ma alla ristrutturazione ed al riordino della domanda di Giustizia di legittimità e quindi delle sopravvenienze, fino al suo ridimensionamento in termini esigibili: una prudente ed accorta selezione dei propri interventi nomofilattici ed una maggiore confidenza nella valenza e nell’intrinseco valore dei propri stessi precedenti, riservando le elaborazioni ai mutamenti o agli adeguamenti indispensabili imposti dalla sostanziale differenza della fattispecie concreta.
La Corte di cassazione non deve chiedere di potere scrivere o produrre di più, ma di scrivere o produrre meglio, in modo che sia poi sufficiente scrivere o produrre meno; e deve tentare di persuadere e mettere in luce la superfluità di continue o sterili rimeditazioni: probabilmente solo in tal modo la nomofilachia può in concreto continuare ad essere sostenibile, in quanto funzionale a fondare l’affidamento dei consociati sull’impegno dei loro giudici nel garantire il maggiore possibile livello di garanzia dei diritti, a partire da quelli fondamentali e, tra questi, da quelli che la Costituzione definisce inviolabili.
*Relazione tenuta all’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura in data 11 e 12 febbraio 2021 su “Il giudizio civile di cassazione e la necessità di conciliare quantità e qualità”, sul tema: “Nomofilachia e giurisdizione. La costruzione del diritto vivente. La forza del precedente tra persuasività e vincolatività. La rilevanza esterna e interna del principio di diritto”
[1] Rocci, Vocabolario greco-italiano, Roma, 1939 (prima edizione, costantemente aggiornata; l’ultima è del 2011, con la collaborazione di Argan e altri).
[2] Innumerevoli i contributi in Dottrina. Tra i recenti interventi diversi dalle trattazioni istituzionali si segnalano: Scoditti, La nomofilachia naturale della Corte di cassazione. A proposito di un recente scritto sulla «deriva della Cassazione», in Foro it., 2019, V, 415 ss.; Miccolis, Nomofilachia, Sezioni Unite e questione di "particolare importanza", in Questione Giustizia on line, https://www.questionegiustizia.it/articolo/nomofilachia-sezioni-unite-e-questione-di-particolare-importanza; Costantino, Appunti sulla nomofilachia e sulle «nomofilachie di settore», in Riv. dir. proc., 2018, 1443; Id., Per la salvaguardia delle prerogative costituzionali della Corte di cassazione, in Foro it., 2018, 71; Id., Il giudizio di cassazione tra disciplina positiva e soft law, in Giur. It., 2018,777-784. In senso francamente critico, Sassani, La deriva della cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, 43 ss. e in www.judicium.it, 03/06/2019; Capponi, La Corte di cassazione e la «nomofilachia» (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), ivi, 06/04/2020; Auletta, Sulla dubbia «opportunità» e i limiti certi della pronuncia d’ufficio ai sensi dell'art. 363, 3° comma, c.p.c. etc., in www.judicium.it, 08/07/2019, in nota a Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967.
[3] Per tutti e per utili approfondimenti e richiami anche bibliografici e storici, v.: Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 1153-1167; Gorla, voce: “Giurisprudenza”, in Enc. Dir., vol. XIX, Milano, 1970, 489.
[4] Nella sconfinata letteratura sul tema si può segnalare, per un primo approccio e guida ad ulteriori approfondimenti, Carleo (a cura di), Il vincolo giudiziale del passato – i precedenti, Bologna, 2018; tra i molti classici, una menzione può farsi a Gorla, voce: “Precedente giudiziale”, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXIII, Roma, 1990.
[5] Amoroso, Morelli, La “funzione nomofilattica” e la “forza” del precedente, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei Magistrati della Corte suprema italiana, III ed., Bari, 2020, 466.
[6] Per tutte, v. Corte cost. 12 ottobre 2012, n. 230, in Giur. cost., 2012, 3440, la quale parla di “efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente ‘persuasivo’” delle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
[7] Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, 03, 709.
Non manca però chi ammonisce come, benché quello della convergenza sia il modo di vedere più sofisticato al giorno d’oggi, sarebbe bene che non lo fosse troppo, poiché nello stile, nel tono, negli atteggiamenti e persino, in buona misura, nella struttura formale, i sistemi di common law differiscono in maniera significativa da quelli di civil law (Schauer, Thinking Like a Lawyer. A New Introduction to Legal Reasoning, Harvard College, 2009, trad. it. Il ragionamento giuridico. Una nuova introduzione, Roma, 2016, 156).
[8] Al riguardo, Curzio, Il giudice e il precedente, in Questione giustizia on line, in https://www.questionegiustizia.it/ rivista/articolo/il-giudice-ed-il-precedente_578.php, § 1, ove ulteriori ampi richiami:
- a Merryman (voce: Common law (paesi di), III, Diritto degli Stati Uniti d’America, in Enc. Giur. Treccani, vol. VII, Roma, 1990), il quale sottolinea che «Lo stare decisis può essere inteso sia come una regola giuridica vera e propria in virtù della quale i giudici sono tenuti a seguire i precedenti giudiziali, sia come un principio di policy (dettato, cioè, da ragioni di giustizia e di convenienza, epperò privo di uno specifico rilievo normativo), per cui casi simili dovrebbero essere decisi nello stesso modo»; ma pure che «nell’esperienza statunitense i giudici considerano lo stare decisis più come un principio di policy che come una regola di diritto; riconoscono i vantaggi derivanti dall’affidamento fatto sui precedenti a fini di stabilità e prevedibilità del diritto, nonché di efficienza dell’amministrazione della giustizia; ma, là dove si presentano ragioni sostanziali che giustificano una soluzione diversa, il precedente può essere distinto, modificato o, meno frequentemente, eliminato (overulled), sicché per i giuristi nord-americani, rappresenta un’esagerazione parlare di «precedente strettamente vincolante (binding precedent)».
- a Stein, Common law (paesi di), I) Diritto inglese, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, vol. VII, ove si afferma che la regola ha una declinazione particolarmente rigorosa nell’esperienza inglese, ma si ricorda che nel 1966 la House of Lords annunciò che in casi eccezionali si sarebbe discostata dalle proprie precedenti decisioni, ove avesse ritenuto giusto farlo; più ampia la possibilità di deroga nel diritto statunitense.
[9] Per tutti, Morelli, Il “diritto vivente” nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giust. civ., 1995, II, 169.
[10] Amoroso, Morelli, op. cit., 467, ove si riconosce al principio di diritto “un ruolo specifico e autonomo nel processo decisionale e motivazionale del giudice, affiancandosi alla tecnica argomentativa di concatenazioni logiche discendenti (secondo un modello sillogistico-deduttivo) o ascendenti (secondo un modello dogmatico-sistematico)”; e ciò in quanto “il riferimento al precedente consente un percorso argomentativo orizzontale che non è né deduttivo, né sistematico, ma di mero rinvio” (con richiamo a Taruffo, op. cit., 710, dove si parla di “struttura topica” dell’argomentazione: i precedenti rappresentano i tòpoi che orientano l’interpretazione nella complessa fase della ricerca della norma da applicare e che sostengono l’interpretazione adottata come valida nell’ambito dell’argomentazione giustificativa). In definitiva, “il giudice indica il luogo – il precedente – in cui sono sviluppate le argomentazioni a sostegno del ‘principio di diritto’ assunto come regola di giudizio della fattispecie”.
[11] Sulla tematica del precedente giurisprudenziale la letteratura può dirsi sterminata; basti qui un richiamo, tra innumerevoli, a: Taruffo, Precedente e giurisprudenza, Napoli, 2007; R. Rordorf, Magistratura giustizia società, Bari, 2020, pp. 321 ss.; Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pubbl. 2017, 1, 21.
[12] Gorla, voce: “Precedente giudiziale”, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXIII, Roma, 1990, cit., 6, parla di «principio di uguaglianza qui inteso come uguaglianza di trattamento (giurisdizionale) di casi simili, cioè delle persone che agiscono in questi casi».
[13] Basti qui un richiamo – per la sterminata dottrina, a Lorenzi, La certezza del diritto, in Foro it. 1956, IV, 73 ss., nonché, in giurisprudenza – a Cass., S.U., 17 dicembre 2018, n. 32622, che sottolinea, con altri riferimenti alla giurisprudenza nazionale, come quel principio sia un cardine dell'ordinamento giuridico anche eurounitario, siccome teso a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia (CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, Olimpiclub; CGUE 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Kobler; CGUE 16 marzo 2006, in causa C-234/04, Kapferer). Nella giurisprudenza della Corte EDU, tra moltissime, v., per limitarsi ad una delle più recenti, Corte EDU, IV sez., 12 gennaio 2021, Albuquerque Fernades c/ Portogallo (ric. n. 50160/13; al suo punto 70 si legge, in particolare che il diritto di accesso al giudice è vulnerato nella sua sostanza quando non persegue la certezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia), oppure la tradizionale Corte EDU, G.C., 20 ottobre 2011, Nejdet e Perihan Sahin c. Turchia, § 55.
[14] Curzio, op. loc. ult. cit., con richiami a Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, nonché a Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, cit..
[15] Per un primo approccio, ci si permette un richiamo a De Stefano, L’intelligenza artificiale nel processo?, in www.giustiziainsieme.it, dal 06/03/2020, all’URL
https://www.giustiziainsieme.it/it/scienza-logica-diritto/892-l-intelligenza-artificiale-nel-processo (ultimo accesso 03/02/2021). Tra gli altri, v., per tutti: Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna 2017, passim; Carleo (a cura di), Decisione robotica, Bologna, 2019, soprattutto pp. 111 ss.; Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in Giust. civ., 2020, 2, 280; Castelli, Piana, Giustizia predittiva. La qualità della giustizia in due tempi, in www.questionegiustizia.it dal 15/05/2018, all’URL https://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-predittiva-la-qualita-della-giustizia-in-due-tempi_15-05-2018.php (ultimo accesso 03/02/2021).
[16] Curzio, Il giudice e il precedente, cit., § 6.
[17] Sull’effettività della tutela del diritto, anche nel suo momento esecutivo, v. per tutti Cass., S.U., 14 dicembre 2020, n. 28387, nonché, se si vuole, De Stefano, Il giudice dell’esecuzione e la governance del processo esecutivo, in Riv. esecuzione forzata, 2020, 1, 1.
[18] Come, con la Sua autorevolezza, sottolinea Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003, 111 ss., riflettendo su Cass., S.U., 2 agosto 1994 n. 7194; v. ora Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017.
[19] Come ricorda Curzio, op. ult. cit., § 5, questa evoluzione dei significati diviene ancora più accentuata in periodi come quello attuale in cui – come ha scritto Ulrich Beck nel suo libro rimasto incompiuto – il mondo non sta semplicemente cambiando, ma è nel mezzo di una “metamorfosi”, cioè di una trasformazione radicale in cui vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di radicalmente nuovo, che è necessario indagare puntando lo sguardo su ciò che sta emergendo dal vecchio, cercando d’intravedere, nel tumulto del presente, le strutture e le norme future (Beck, La metamorfosi del mondo, Bari-Roma, 2016).
[20] Curzio, op. loc. ult. cit., il quale sottolinea come, del resto, l’interpretazione sia sempre stata un’attività complessa, ma soggiunge che essa, oggi, lo è più che mai, per la iperproduzione normativa, per la pluralità delle fonti del diritto da coordinare e per la molteplicità dei giudici, nazionali, europei e internazionali, che vi partecipano, in un processo a più voci, a volte non collimanti, in interazione tra loro:
[21] Come si esprimeva – sottolinea Curzio, op. ult. cit., § 6 – l’art. 122 del primo ordinamento giudiziario dello Stato italiano (r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626).
[22] Per Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Contratto e impresa, n. 2, 2017, p. 368, «la nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”. Essa trova il naturale punto di sintesi nella Corte di cassazione, ma è promossa dai giudici di merito, i primi a confrontarsi con la fluidità sociale; e torna ai giudici di merito, che misurano gli effetti pratici della giurisprudenza di legittimità. Non le magistrature soltanto, bensì tutto il ‘ceto dei giuristi’ fa nomofilachia. Fondamentale è il ruolo critico della dottrina, alla quale compete l’analisi delle soluzioni e l’elaborazione delle alternative».
[23] Come nota Curzio, op. ult. cit., § 7, citando, rispettivamente: Bauman, Retropia, Bari-Roma, 2017, ovvero Boym, The Future of Nostalgia, New York, 2001; Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, 2013.
[24] Ancora una volta, Curzio, op. loc. ult. cit.
[25] Costantino, Tutela dei diritti e regole del processo. Introduzione al XXXI Congresso della A.I.S.P.C., in Riv. dir. proc. 2017, 1418.
[26] Amoroso, Morelli, op. cit., pp. 472 ss.
[27] Per un inquadramento complessivo, v. diffusamente P. Curzio, Nomofilachia e autonomia collettiva, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), op. cit., pp. 313 ss., oppure in Amoroso, Morelli, op. cit., pp. 476 ss.; per approfondimenti, v. Ianniruberto, L’accertamento pregiudiziale sull’interpretazione, validità ed efficacia dei contratti collettivi, in Ianniruberto, Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, II ed., Milano, 2010, 111 ss., nonché Curzio, Il giudizio di cassazione, in Aa.Vv., Processo del lavoro, in Curzio, Di Paola e Romei (diretta da), Pratica professionale. Lavoro, Vol. VI, Milano, 2017, 270 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
[28] Artt. 1031-1 a 1031-7 n.c.p.c. francese; artt. L. 441-1 a L. 441-4 e R. 441-1 codice dell’organizzazione giudiziaria francese. Fonte:
Tra gli interpreti è corrente l’identificazione degli scopi dell’istituto in:
- permettere l’unificazione più rapida dell’interpretazione della regola – o delle regole – di diritto di nuova introduzione;
- prevenire il contenzioso, soprattutto delle impugnazioni, per l’immediata definizione della portata della legge da parte della giurisdizione di ultima istanza.
[29] Cass. 31 gennaio 2019, n. 2861 (Ord.); in senso analogo, v. Cass. 6 settembre 2016, n. 17460. È sottolineata la funzionalizzazione di tale modalità redazionale allo scopo di massimizzare, in una prospettiva di riduzione dei tempi di definizione delle controversie, l'utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già compiuti per casi identici o caratterizzati dalla decisione di identiche questioni.
[30] Specificamente per i precedenti di legittimità Cass. 4 luglio 2012, n. 11199, sancisce che, nel giudizio di cassazione, l'adozione del modello della motivazione semplificata nella decisione dei ricorsi - sorto per esigenze organizzative di smaltimento dell'arretrato e di contenimento dei tempi di trattazione dei procedimenti civili entro termini di durata ragionevole, nel rispetto del principio di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. - si giustifica ove l'impugnazione proposta non solleciti l'esercizio della funzione nomofilattica, ponendo questioni la cui soluzione comporti l'applicazione di principi già affermati in precedenza dalla Corte e dai quali questa non intenda discostarsi; né l'utilizzazione della motivazione semplificata è preclusa dalla particolare ampiezza degli atti di parte, ove detta ampiezza - che, pur non trasgredendo alcuna prescrizione formale di ammissibilità, già collide con l'esigenza di chiarezza e sinteticità dettata dall'obiettivo di un processo celere - neppure sia proporzionale alla complessità giuridica o all'importanza economica delle fattispecie affrontate, e si risolva in un'inutile sovrabbondanza, connotata da assemblaggi e trascrizioni di atti e provvedimenti dei precedenti gradi del giudizio.
[31] Il riferimento è a Cass., S.U., 21 marzo 2017, n. 7155 in Giur. it., 2017, p. 1583 ss., con nota di Castagno, Le Sezioni unite (re)interpretano l'art. 360 bis, n. 1, c.p.c.; in Foro it., 2017, I, c. 1181 ss., con nota di Costantino, Note sulla ‘inammissibilità sopravvenuta di merito’: dal ricorso ‘antipatico’ al ricorso ‘sarchiapone’”. Tra gli interventi in materia si segnala anche Capasso, Il ricorso per cassazione avverso... la giurisprudenza. Contro uno stare decisis ‘all'italiana’”, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2019, 2, 627.
[32] Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366 (ord.). Peraltro, Cass. 2 agosto 2017, n. 19190, esige un onere di confutazione solo degli orientamenti consolidati nella materia oggetto di controversia.
[33] Sull’autorevolezza del precedente incide anche il rapporto tra concisione e qualità della decisione. «La concisione della esposizione dei fatti rilevanti, delle norme e dei principi giuridici applicati, rende in modo più sicuro percepibili le ragioni di fondo della decisione. Non è solo questione di stile, è segno di un modo non esoterico ma democratico di esercizio della funzione»: così Vittoria, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei Magistrati della Corte suprema italiana, II ed., Bari, 2015, 466). Più di recente, Cavallaro, Forma e contenuto della decisione, in Acierno, Curzio, Giusti (a cura di), La Cassazione civile – lezioni dei Magistrati della Corte suprema italiana, III ed., Bari, 2020, 452 ss.
[34] Molto interessante ed utile per riferimenti e spunti, quale primo approccio alla vasta letteratura, istituzionale e non, può rivelarsi il contributo di Condorelli, Pressacco, Overruling e prevedibilità della decisione, in Questione Giustizia on line, all'URL https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/overruling-e-prevedibilita-della-decisione_584.php (ultimo accesso 03/02/2021).
[35] Cass., Sez. U., 3 maggio 2019, n. 11747, in Giur. it., 2019, 11, 2420, con nota di Tedoldi, Responsabilità civile del giudice, clausola di salvaguardia e “patafisica” del diritto; oppure anche in Nuova giur. comm. 2019, 6, 1310, con nota di Amato, Quando l'errore condanna il giudice alla responsabilità per illecito civile. Nello stesso senso, Cass. 5 giugno 2020, n. 10832.
Prima dell’introduzione del vincolo “relativo” del precedente, la giurisprudenza affermava già che il giudice che intendesse discostarsi dagli orientamenti del giudice della nomofilachia dovesse motivare specificamente la propria scelta: cfr., in questo senso, Cass., sez. III pen., 23 febbraio 1994, n. 1999, in Foro it., Rep. 1995, voce Cassazione penale, n. 6; Cass. civ., sez. lav., 13 maggio 2003, n. 7355, in Foro it., 2004, I, 1237, e giurisprudenza ivi richiamata, cui adde Cass. civ., 3 dicembre 1983, n. 7248, in Foro it., Rep. 1983, voce Legge, n. 25.
La mancata motivazione della scelta di discostarsi da un orientamento consolidato è stata configurata come un’ipotesi di responsabilità civile del giudice: cfr., in questo senso, Cass., sez. I civ, 30 luglio 1999, n. 8260, in Foro it., 2000, I, 2671, con nota di Barone e Cass., sez. I civ., 20 settembre 2001, n. 11859, id., 2001, I, 3556, con nota di richiami. In argomento, cfr. anche Angeloni, Ancora sul precedente di Cassazione: questa volta sotto il profilo della responsabilità civile del magistrato che lo disattende senza indicare le ragioni della propria decisione, in Contratto e impresa, n. 1/2001, pp. 30 ss.
[36] Sulla prima parte: Cass., S.U., 18 giugno 2020, n. 11868. Sulla seconda, in motivazione, Cass., S.U., 9 aprile 2010, n. 8428.
[37] Cass. 10 febbraio 2020, n. 3096 (ord.), sul punto specifico avallata da Cass., S.U., 14 dicembre 2020, n. 28387; in questa, ribadita la piena discrezionalità della Corte nella loro valutazione, si ricordano i requisiti della richiesta del P.G. (Cass., S.U. 18 novembre 2016, n. 23469; Cass. S.U., 23 luglio 2019, n. 19889):
- l’avvenuta pronuncia di almeno uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non ulteriormente impugnabile, tanto meno per Cassazione;
- un interesse della legge, quale interesse pubblico o trascendente quello delle parti della specifica controversia, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua enunciazione espressa;
- la reputata illegittimità del provvedimento stesso (o, in caso di pluralità di provvedimenti divergenti, di almeno uno di essi), quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta.
[38] Cass., S.U., 6 novembre 2014, n. 23675 (ord.), in Foro it., Rep. 2014, voce Procedimento civile, n. 146: nella specie, applicando l’enunciato principio, le Sezioni Unite hanno confermato l’indirizzo di cui alla propria sentenza n. 9535 del 2013, circa l’individuazione del momento di litispendenza nei procedimenti introdotti con citazione, malgrado la richiesta di chiarimenti avanzata da una Sezione semplice pochi mesi dopo quella pronuncia.
[39] Ricordato, da ultimo, in Lupo, La Cassazione civile vista dai suoi giudici, intervista di De Stefano, in www.giustiziainsieme.it dal 01/10/2020, all’URL https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1318-la-cassazione-civile-vista-dai-suoi-giudici-recensione-di-ernesto-lupo-a-la-cassazione-civile-lezioni-dei-magistrati-della-corte-suprema-italiana-terza-edizione-bari-2020-a-cura-di-acierno-curzio-e-giusti (ultimo accesso 03/02/2021).
[40] Negri, Con il «Progetto esecuzioni» priorità alle cause più rilevanti, in IlSole24Ore, 22 novembre 2018, 34. Ci si permette un richiamo a De Stefano, I primi due anni del “progetto esecuzioni” della terza sezione civile della Cassazione, in www.inexecutivis.it all'URL
https://www.inexecutivis.it/approfondimenti/2020/luglio/i-primi-due-anni-del-progetto-esecuzioni-della-terza-sezione-civile-della-cassazione/ (ultimo accesso 03/02/2021).
[41] Così già Cass. 17 ottobre 2018, n. 26049 (ord.), oppure Cass. 28 dicembre 2018, n. 33647 (ord.).
[42] Uno dei molti esempi di rinvio al precedente è dato da Cass. 28 agosto 2020, n. 18006 (ord.), in cui la motivazione si riduce a: “la tesi della ricorrente è infondata, alla stregua dei principi elaborati da Cass. 10/06/2020, n. 11116, alla cui motivazione va qui fatto integrale richiamo: …; nemmeno in base ai contrari argomenti sviluppati in ricorso può dirsi inficiata la validità delle conclusioni raggiunte dalla richiamata recentissima pronuncia e dell’esaustiva disamina della fattispecie sotto ogni suo aspetto condottavi, a cui basta allora in questa sede un integrale richiamo;”.
[43] Corte cost. 2 aprile 1970 n. 50; in tempi più recenti, quanto al vincolo previsto dal codice di rito penale, v. Corte cost. 17 novembre 2000, n. 501, in Giur. cost., 2000, 3870. Si segnala, sull’art. 384 c.p.c., anche Corte cost. 20 giugno 2013, n. 149 (ord.).
[44] In tali sensi: Amoroso, Morelli, op. cit., p. 468.
[45] In sostanza, in caso di ricorso per cassazione avverso la pronuncia del giudice di rinvio per violazione della precedente statuizione di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice, poteri che, nell'ipotesi di rinvio per vizio di motivazione, si estendono non solo alla libera valutazione dei fatti già accertati, ma anche alla indagine su altri fatti, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi già censurati del provvedimento impugnato e con la preclusione rispetto ai fatti che il principio di diritto eventualmente enunciato presuppone come pacifici o accertati definitivamente (tra le ultime, Cass., S.U., 3 settembre 2020, n. 18303).
[46] Corte cost. 16 marzo 2007, n. 78, in Foro it., 2009, I, 1000.
[47] Calamandrei, La Cassazione civile – vol. II, in Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche, vol. VII, Napoli, 1976, 67.
Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto [1]
di Roberto Conti
Ora, in questo stato di cose, che cosa tiene legati i giudici al rispetto dei limiti? Che cosa impedisce loro di arrogarsi un potere eccessivo? Che cosa li aiuta a conservare qualcosa della metodicità e cautela dei loro omologhi del passato in un mondo tanto accelerato e proteiforme? Il metodo dialogico è la soluzione moderna affinché il giudice sia inserito in un contesto di costante confronto, conforto, ispirazione, influenza, scambio e limite con altre Corti, altre giurisdizioni, altri Stati, altri interlocutori istituzionali.
Il dialogo attenua la ferocia repentina e drastica con cui il giudice assolverebbe il suo ruolo nel contesto giuridico moderno, riaccostandolo alla prudenza mite, incessante ma graduale, che apparteneva ai suoi predecessori della common law al fine di aggiornare e migliorare il diritto.
[G. Calabresi, Il mestiere del giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna, 2013]
[Sul ruolo della Corte di Cassazione v.,su questa Rivista, A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, 23 febbraio 2021 e F. De Stefano, Giudice e precedente. Per una nomofilachia sostenibile, 3 marzo 2021]
SOMMARIO: 1. Il ruolo della Corte di Cassazione e la sua mutazione genetica per effetto dell’impatto delle Carte e delle Corti sovranazionali. 2. La Cassazione (ma anche il giudice di merito) e la CEDU seguendo il ruolo dell’interpretazione convenzionalmente orientata fino a Cass., S.U., 19 febbraio 2021, n.6551, a proposito di sovraffollamento carcerario, spazio vitale e “letto a castello”. 3. La Corte di Cassazione e la massimizzazione delle tutele come Grundnorm del sistema. 4. Il volto della Cassazione visto dal giudice non di legittimità. Il dialogo fra Cassazione e merito, la nomofilachia orizzontale e discorsiva e la sovranità democratica. 5. Il ruolo della Corte di Cassazione a proposito del bilanciamento fra diritti fondamentali. 6. Il rinvio pregiudiziale e il dialogo fra la Corte di giustizia e la Cassazione. Perché dialogare con la Corte di Giustizia. 7.La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il ruolo ed i volti della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. 8. Il dialogo con la Corte edu e il ruolo della Corte di Cassazione. Dal soft law- il Protocollo concluso dalla Cassazione con la Corte edu l’11 dicembre 2015- al Protocollo n.16 – efficace ma non per l’Italia- ad oggi-. 9. Chi ha paura del Protocollo 16? 10. L’interpretazione convenzionalmente orientata anche in assenza di precedenti della Corte edu. Il problema delle lacune e il volto operativo della Cassazione. 11. Cass., S.U., 23 ottobre 2020, n.29541, Filardo. Un altro volto della Cassazione. 12. Alla ricerca di una mediazione fra i volti della Cassazione. Il principium cooperationis. Il coraggio nella consapevolezza del limite.*
1. Il ruolo della Corte di Cassazione e la sua mutazione genetica per effetto dell’impatto delle Carte e delle Corti sovranazionali.
Non mi sento particolarmente legittimato ad offrire punti di riferimento validi in senso oggettivo rispetto ai complessi e per certi versi ontologicamente “divisivi” temi affidatimi che, comunque, risentono di un’impostazione culturale personale che non può in alcun modo ambire a rappresentare la Corte di cassazione.
Forte di questa premessa che per onestà intellettuale occorre fare, il tentativo che si cercherà di condurre a termine è quello di fotografare il ruolo in movimento della Corte di Cassazione in ragione dell’accresciuto impatto di fonti sovranazionali e della crescente valenza dei diritti fondamentali e della progressiva apertura della Corte di Cassazione stessa verso sempre più pressanti occasioni di confronto, non sempre indolori, con altre Corti, nazionali e sovranazionali, capaci di cambiarne il volto a legge invariata, visto che essa è pur sempre tenuta ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, insieme all’unità del diritto oggettivo nazionale – così recita testualmente l’art.65 del R.D.30.1.1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario – ma anche il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni ed a tutti gli altri compiti affidati dallo stesso art.65 e dalla legge.
Il giudice- quello di legittimità- è istituzionalmente chiamato ad affermare ed esprimere, in ragione dei compiti affidatigli dall'art.65 ord.giud.,[1] la massima destinata ad operare per il futuro che si può trarre dal caso esaminato dal giudice di merito e la tutela della legalità della decisione nel singolo caso concreto[2].
Oggi il ruolo del giudice di legittimità assume tratti, in parte non completamente sovrapponibili a quelli del giudice di merito, sui quali occorre riflettere trovandosi la Corte di cassazione in posizione privilegiata per: a) compiere operazioni di vera e propria emersione dei principî fondamentali previsti dalla Carta costituzionale e dalle Carte dei diritti; b) interloquire con le giurisdizioni sovranazionali per effetto dell'obbligo del rinvio pregiudiziale ex art.267 TFUE e- dopo l'auspicabile varo del Protocollo n.16 annesso alla CEDU- con la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo; c) esercitare, per come già accennato, la funzione nomofilattica ad essa riservata, salvo a comprendere l’attuale significato che oggi tale funzione assume per la Corte stessa.
Giudice di ultima istanza chiamato, dunque, a dovere curare e gestire i rapporti con il suo ordinario interlocutore, il giudice di merito appunto, ma che è sempre più assillato dal trovarsi all’interno di quel circuito di Corti nelle quali ‘inventa’ il diritto vivente, per dirla con Paolo Grossi[3].
Cassazione che, proprio per l’esistenza di sistemi normativi che si affiancano a quello interno è posta, addirittura, in una posizione tale da potere essere bypassata o sconfessata dal giudice di merito, divenendo essa stessa ‘controllata’ da quest’ultimo che, soggetto anch’egli soltanto alla legge (art.101 Cost.), reputa, addirittura anche in sede di rinvio ed al cospetto del principio di diritto fissato dalla Corte (art.384 c.2 c.p.c.), di non doversi allo stesso conformare, magari attingendo alle giurisprudenze sovranazionali che a tanto sembrerebbero abilitarlo, per disapplicare la legge contrastante con il diritto UE [4] o per rivolgersi alla Corte di giustizia al fine di sollecitare un’interpretazione ‘contro’ il principio fissato dalla Cassazione in sede di rinvio[5].
È, d’altra parte, noto che non vige il principio del precedente vincolante, sicché qualunque giudice di merito può motivatamente discostarsi dall’orientamento espresso dalla Corte di legittimità, contribuendo a quel dinamismo interpretativo ed a quei mutamenti giurisprudenziali che, purché frutto di consapevole e ragionato dissenso, costituiscono sempre e comunque linfa vitale del nostro sistema[6]
Dunque, una Cassazione per certi versi vulnerabile e, per altri, vocata al dialogo[7] interno –anche se “blindato” fra singole Sezioni e le Sezioni Unite ( civili e penali) per effetto dell’art.374 c.p.c. e del novellato art.618 c.p.p.[8]– ed esterno con la Corte costituzionale la Corte di Giustizia e la Corte edu come si vedrà nel prosieguo.
Focalizzando dunque il discorso sull’avvento del diritto di matrice sovranazionale – diritto UE, CEDU, trattati internazionali che riconoscono diritti fondamentali, in relazione a quanto previsto dall’art.117, 1^ comma, Cost. – esso rende viepiù evidente il cambio di prospettiva della funzione nomofilattica e, in definitiva la mutazione genetica della Corte di Cassazione, ormai "giuridicamente obbligata" a garantire – anche – l’uniforme interpretazione della legge come reinterpretata alla luce della CEDU e delle altre Carta dei diritti fondamentali.
In questa prospettiva abbiamo già proposto alcune riflessioni sui temi della metamorfosi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e della c.d. nomofilachia europea alle quali qui è sufficiente rinviare[9].
Tutto ciò essa fa al servizio di plurime funzioni che ne atteggiano il tratto, al contempo, di giudice controllore rispetto al merito – ma non sempre, per quanto detto appena sopra – e giudice controllato rispetto alle altre giurisdizioni nazionali – Corte costituzionale – e sovranazionali – Corte europea dei diritti dell’uomo e, per con tratti diversi, ma non troppo, Corte di Giustizia dell’UE–[10].
Le riflessioni che seguono proveranno, dunque, ad offrire al lettore non già le pur sicuramente esistenti disarmonie all’interno della giurisdizione di legittimità, quanto la diversità di volti che nella Corte stessa convivono rispetto alle questioni sopra sommariamente tratteggiate.
2. La Cassazione (ma anche il giudice di merito) e la CEDU seguendo il ruolo dell’interpretazione convenzionalmente orientata fino a Cass., S.U., 19 febbraio 2021, n.6551, a proposito di sovraffollamento carcerario, spazio vitale e “letto a castello”
Con le note sentenze gemelle del 2007 – nn.348 e 349 – la Corte costituzionale affermò che il primo artefice dell’applicazione della Convenzione edu è "il giudice". In quell’occasione fu parimenti confermato che "il giudice" è tenuto ad interpretare in modo conforme il diritto interno alla Convenzione-".... Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme." - p. 6.2 cons. in diritto sent.n.349/2007-. Passaggio ulteriormente ribadito quando la Corte riconosce che "....L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione….” – cfr. sent. ult. cit. –.
Non è qui il caso di soffermarsi sui successivi seguiti, pur rilevanti, ai quali ha messo mano la Corte costituzionale, anche se il pensiero corre alle seconde sentenze gemelle del 2009- nn.311 e 317-, alla per certi versi “dolorosa” presa di posizione della sentenza n.49/2015 della Corte costituzionale[11], nella quale tutto ruota attorno al tema della giurisprudenza consolidata, sul quale la stessa si sforza di costruire un quadro di principia che dovrebbero valere per il giudice comune, impedendo alla radice il pericolo (duplice) di diventare entusiasta propagatore del verbo delle Corti internazionali e di rimanere attratto dal fascino ipnotico proveniente dalla CEDU[12].
Orientamenti, quelli espressi dalla Corte costituzionale che, pur nelle oscillazioni del pendolo[13], confermano come il giudice comune sia ancora una volta investito di un ruolo a fisarmonica, che lo vedrebbe a volte soggetto vincolato all’altrui interpretazione – il che avverrebbe, in definitiva, quando la Costituzione è interpretata dalla Corte costituzionale – v.sent.n.6/2018 ed i seguiti recenti culminati nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle Sezioni Unite civili in materia di eccesso di potere giurisdizionale (Cass.S.U. n.19598/2020, su cui v., infra), altre volte artefice abbastanza libero dell’individuazione del diritto del caso concreto.
Serve qui dunque evidenziare e valorizzare, ancora una volta, l’accresciuto ruolo del giudice soprattutto di legittimità – e la centralità della sua funzione, per dirla con le parole usate dal Primo presidente Curzio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario – e dell’interpretazione “convenzionalmente” orientata allo stesso affidata.
Un’interpretazione che alla luce della sentenza n.49/2015, risulterebbe inconvenzionale (e dunque non ammessa) in assenza del consolidamento della giurisprudenza di Strasburgo, ma che, ancora una volta, passa per l’attività riservata al giudice comune, al quale viene confezionato il compito di stabilire quando la giurisprudenza della Corte edu sia o meno consolidata.
Tale situazione sarebbe, del resto, ulteriormente indotta dall’estrema genericità degli indici rivelatori del consolidamento indicati dalla sentenza n. 49/2015.
Come che sia – e salvo a ritornare alla fine sul ruolo del consolidamento –, risulta dunque evidente un accresciuto livello di responsabilità in capo al giudice comune che fa il paio con il parimenti crescente livello di professionalità reclamato su un interprete sempre più proiettato verso un confronto, un dialogo, con altre giurisdizioni ed altre tecniche decisorie, non proprio sovrapponibili a quelle che governato il piano nazionale interno.
Ed infetti, dietro alle sirene del dialogo vi è, nemmeno tanto nascosto, il rischio che il confronto con le altre giurisdizioni possa essere foriero di risultati non adeguati quando al confronto non si arriva con adeguati strumenti di conoscenza.
Si intende, in definitiva, sottolineare che la progressiva valorizzazione del diritto di accesso alla giustizia e l’implementazione di centri decisionali, nazionali e sovranazionali, chiamati ad esprimere il loro avviso su una stessa questione secondo un quadro giuridico di riferimento non sempre omogeneo rispetto alle singole giurisdizioni rappresenta, oggi, un ‘dato di certezza’ dal quale non è possibile prescindere per intavolare una riflessione onesta e seria sulla giustiziabilità dei diritti.
Non è senza significato, ancora una volta, il ricorso a vicende che hanno visto in campo i giudici comuni, i giudici costituzionali, quelli delle Corti sovranazionali e, infine, il legislatore.
Il pensiero corre al tema del sovraffollamento carcerario, nel quale le pressioni sul giudiziario che non avevano trovato largo riconoscimento a livello interno circa una condizione carceraria disumana, dopo il loro pieno riconoscimento innanzi alla Corte edu con la nota sentenza “pilota” Torreggiani c. Italia, hanno stimolato il legislatore ad intervenire, pressato dalla vigilanza del Comitato dei Ministri presso il Consiglio d’Europa sullo stato di attuazione della sentenza appena ricordata, alla fine determinando l’introduzione di una novella alla legge sull’ordinamento penitenziario sfociata negli artt. 35 bis e ter[14].
Orbene, con l’art. 35 ter o.p., è stato lo stesso legislatore a formalizzare l’obbligo di interpretazione conforme alla Corte dei diritti dell’uomo, quanto all’art. 3 CEDU.
Tale disposizione si apre, infatti, chiarendo che ”Quando il pregiudizio di cui all'articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo”.
Emerge, ancora una volta, il ruolo per così dire "di frontiera" della Corte di Cassazione che anche sulla questione appena ricordata, così profondamente innervata di profili fattuali, è chiamata a gestire un contenzioso nel quale il numero considerevole di precedenti della Corte edu in materia di sovraffollamento, molti dei quali legati a situazioni fattuali e peculiari di realtà normative diverse da quelle interne, mette a nudo in modo adamantino la complessità dei tempi alla quale accenna, in modo approfondito, anche Davide Galliani[15].
E proprio la recentissima decisione delle Sezioni unite penali, a proposito dell'incidenza o meno sullo spazio minimo vitale del letto singolo e del letto a castello- Cass., S.U., 19 febbraio 2021, n.6551, Min.Giustizia c. Comisso[16] - mostra quanto sia tuttora da approfondire il ruolo del giudice rispetto al ricordato art.35 ter l.ord.pen. e, più in generale, del primo rispetto alle fonti ed alle dinamiche che si agitano quando se ne pongono contemporaneamente diverse sullo scrittoio del giudicante.
La lettura del precedente da ultimo ricordato mostra ancora una volta le oscillazioni del pendolo alle quali si faceva riferimento quanto al rapporto fra giudice, Costituzione, CEDU ed interpretazioni, confermando la complessità della trama di un ragionamento che si snoda verso percorsi non univoci. A volta, infatti, si ha la sensazione che si intenda spingere verso il consolidamento della giurisprudenza convenzionale evocato dalla sentenza n.49/2015, in ciò le Sezioni Unite penali ribadendo l’impostazione espressa da Cass., S.U. pen., 24 ottobre 2019 - 3 marzo 2020, n. 8544, Genco[17], a proposito del valore della sentenza Contrada della Corte edu e della sua non estensibilità alle vicende dei c.d. fratelli minori, ingessando l’interpretazione convenzionalmente orientata maggiormente protettiva. Altre verso si tende, invece, ad ammettere l’integrazione della giurisprudenza convenzionale rivelatasi “ muta” rispetto al tema in discussione per coglierne il senso- e quindi in definitiva superando la teoria del consolidamento attraverso l’interpretazione. Altre volte ancora caldeggiando quella – invero auspicabile– tendenza a fondere i parametri e le giurisprudenze nazionali e sovranazionali al fine di garantire il massimo di tutela passibile, proprio realizzando quel canone della massimizzazione delle tutele in tesi negato. Ciò che costituisce, appunto, l’approdo finale delle S.U. appena ricordate in tema di spazio vitale e letto a castello. Il tutto, ça va sans dire, giungendo a simile conclusione attraverso affermazioni intrise di fattualità, a dir poco inusitate da parte di un giudice di legittimità, quali sono quelle che muovono dal dato fattuale della amovibilità del letto a castello che non riguarderebbe, invece, il letto singolo!
Un ruolo che, ancora una volta, mette continuamente a nudo i diversi volti della Corte di Cassazione ed in particolare quello più favorevole ad una prospettiva di aperta compenetrazione dei parametri, qualunque che ne sia la fonte, ed altri più attenti alla prospettiva domestica, al punto da trarne spunto per operazioni che possono in tesi determinare una minore tutela rimuovibile solo con il ricorso alla Corte costituzionale[18]. E proprio sulle ricadute in termini di giustiziabilità dei diritti che derivano dai diversi volti della Corte ci si riserva di dire qualcosa in coda alle riflessioni.
3. La Corte di Cassazione e la massimizzazione delle tutele come Grundnorm del sistema.
Ancora, una Corte che, a volte, sembra supplire all’inerzia del legislatore richiamandosi al principialismo [19] ed alla duttilità strutturale dei suoi canoni, visti da taluni come attività di vera e propria usurpazione di poteri camuffata da interpretazioni ardite che mascherano vere e proprie attività di produzione legislativa, al punto da ipotizzare una vera e propria eversione rispetto ai canoni costituzionali – primo fra tutti quello rappresentato dall’art. 101 Cost.(Bin) – e, da altri, come fulgida espressione di una giurisdizione dinamica, indirizzata ad un’opera di ‘invenzione’ rivolta ad attuare in modo pieno la Costituzione e le Carte internazionali con i diritti che lì vengono riconosciuti e protesa verso un ideale di massimizzazione delle tutele.
Anche quest’ultimo tema, evocato nel titolo della sessione, risulta spesso fortemente divisivo.
La Corte costituzionale ne ha più volte fatto cenno. Ed infatti, essa ha ritenuto che la necessità di una valutazione congiunta, e virtualmente paritaria, di tutti i parametri (costituzionali e sovranazionali) coinvolti è stata espressa nella sentenza n. 191 del 2014, dove si sottolinea il ruolo della Corte costituzionale finalizzato ad una « una valutazione sistemica e non frazionata dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, in modo da assicurare la massima espansione delle garanzie di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione e reciproco bilanciamento (sentenze n. 170 e n. 85 del 2013 e n. 264 del 2012)»
Proprio con riguardo ai rapporti fra Costituzione e CEDU, Corte cost. n. 317/2009 ha chiarito l’obbligo di considerare contestualmente tutte le norme (costituzionali e convenzionali) rilevanti, allo scopo di individuare, su un piano sostanziale e concreto, la soluzione in grado di assicurare nel caso di specie (ma chiaramente non trascurando di rivolgere, per così dire, un attento sguardo al passato e uno ancor più attento al futuro) la “massima espansione delle tutele”.
Ha invece parlato di “massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico” Corte cost. n. 269 del 2017; operazione, quest’ultima, che in molti casi “complessi” (tra cui in primis quelli di conflitto o divergenza qui evocati) i giudici comuni forse ben potrebbero, se non dovrebbero, rinunciare a svolgere autonomamente, richiedendo invece l’intervento del giudice costituzionale (così Sciarabba[20]).
Su questa scia le Sezioni Unite della Cassazione non mancato di affermare che –Cass., S.U., 23 luglio 2019, n.19886– se la funzione del giudice nazionale è, stando ai più recenti arresti di questa Corte a Sezione Unite- sent., 21 dicembre 2018, n. 33208 e altri precedenti ivi richiamati – e della Corte costituzionale- sent. n. 49/2015, 24 e 25 del 2019-, quella di cooperare attivamente, attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire un livello elevato di protezione dei diritti fondamentali, il definitivo assestamento della giurisprudenza della Corte edu in ordine ad una data materia - nel caso di specie in ordine alla non necessità dell’attivazione di un procedimento esecutivo nei confronti dello Stato debitore dal quale deriva la unitarietà piena fra fase di cognizione e fase esecutiva quando il soggetto debitore è appunto lo Stato- consente di modificare i principi espressi dalle stesse Sezioni Unite in precedenza- Cass.S.U.n. 6312/2016, conformandole alle più elevate nicchie di tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU.
Questo principio viene dunque guardato da una parte della dottrina come autentico canone-guida delle relazioni fra le Carte e le norme, rilevandosi come quello della massimizzazione delle tutele costituisce un’autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali, visto che è ‘...nella natura ed indeclinabile vocazione di ogni valore, il tendere alla propria espansione e salvaguardia, la massima appunto possibile alle condizioni oggettive di contesto”[21]. Prospettiva che, se accolta, vede (anche) la Corte di Cassazione, come giudice “garante di diritti a protezione multilivello”[22] ed ultimo avamposto della giurisdizione interna, capace di assumersi le responsabilità che, per funzione, ad essa competono rispetto alla tutela dei diritti.
E per ragioni di brevità può qui soltanto accennarsi all’esistenza di precisi ed inequivocabili canoni normativi che attestano la propensione delle carte sovranazionali dei diritti fondamentali a regolare i rapporti fra detti strumenti proprio in base al principio della massimizzazione delle tutele- v.art.53 della Carta UE dei diritti fondamentali e art.53 CEDU-[23].
Altra dottrina invece non ha mancato di avversare tale prospettiva in modo altrettanto fermo, soprattutto valorizzando il fatto che non di accrescimento dei diritti può realmente parlarsi se ci si pone nella prospettiva della riduzione di tutela che deriverebbe su un altro diritto, proprio per effetto del bilanciamento. Ciò che finirebbe, forse, per assecondare la critica di chi, ancora una volta, intravede un'improvvida confusione di ruoli fra legislatore e giudici, a questi ultimi, appunto a volte accostandosi una prospettiva, come si diceva, eversiva, rispetto alla Costituzione.
Troppo difficile esaminare compiutamente le tesi a favore o contro rispetto al tema della massimizzazione delle tutele.
Qui, senza pretesa alcuna di offrire risposte, può forse solo accennarsi ad un’idea che tende a circoscrivere la funzione nomofilattica di precedente per quei casi che dovessero avere le medesime, identiche caratteristiche; ipotesi che spesso appaiono residuali e che si misurano continuamente e dinamicamente con il caso concreto attuale e controverso.
Se, dunque, si condivide l'assunto che l'unità dell'ordinamento da perseguire "...è quella fondata sulla garanzia dell'eguaglianza, attuata empiricamente da un'opera di uniformizzazione nomofilattica aperta al dinamismo di un sistema costituzionale perennemente proteso all'attuazione di principi fondamentali muniti di una carica assiologica inesauribile ed attento all'accurata rilevazione delle differenze"[24] si riescono, forse, a garantire tanto il naturale dinamismo della giurisprudenza di legittimità, protesa anch'essa a rigenerarsi progressivamente e continuamente in ragione di un sempre più elevato standard di tutela dei diritti fondamentali su base costituzionale ed sovranazionale, che la valenza generalizzante del dato normativo, capace di regolare pro futuro la materia e di integrarsi attraverso l'interpretazione, con i principi costituzionali.
4. Il volto della Cassazione visto dal giudice non di legittimità. Il dialogo fra Cassazione e merito, la nomofilachia orizzontale e discorsiva e la sovranità democratica.
Queste dunque, elencate sicuramente per difetto e con una certa approssimazione, appaiono essere alcune delle peculiarità del mestiere del giudice di legittimità[25], per effetto delle quali chi vi opera, almeno i più coscienziosi, ha ormai perso completamente la velleità di sentirsi “organo supremo della giustizia” come pure ancora recita l’art. 65 cit., invece maturando, progressivamente, un habitus di vero e proprio crocevia di pulsioni centrifughe e centripete assai difficili da gestire e controllare.
A mia opinione, l’attivismo che ha caratterizzato il mondo giudiziario e la Corte di legittimità, sia pure in maniera zigzagante, nel corso degli ultimi anni, al netto di possibili esasperazioni che pure potranno esserci state, spesso dipeso dal recepimento di input provenienti dalle Corti sovranazionali di Lussemburgo e Strasburgo e da innegabili vuoti normativi, ben lungi dall’essere espressione di arretramento culturale e decadente rispetto ai fasti del passato, contribuisce ad inverare le democrazie occidentali dei nostri tempi, al contempo individuando alcuni canoni fondativi imprescindibili, per l’appunto rappresentati dal rispetto della dignità umana, nella sua proteiforme dimensione, e dei diritti fondamentali della persona.
Un percorso che non solo non può essere interrotto, ma che deve essere continuamente implementato ed arricchito.
Si fa in ogni caso strada la consapevolezza che l’idea del giudice nazionale di vertice come portatore e dispensatore di “certezze cristallizzate” risulta inadeguata.
Si delinea infatti, con tratti marcati, un’immagine della giurisdizione nazionale di ultima istanza costantemente in progress proprio perché chiamata, fuori da una dimensione museale, a misurarsi e prim’ancora a dialogare, in un ciclo continuo e mai conchiuso, con le altre Corti – nazionali e sovranazionali-[26], contribuendo ad un’evoluzione sempre più incessante dei diritti, i quali tendono costantemente e continuamente a favorire nuove forme di bilanciamento fra diritto vigente e diritto vivente.
Facile, a questo punto, fermarsi alla critica che intravede in questa Corte una fucina di incertezze, a fronte del perseguimento della certezza del diritto classicamente intesa.
Ma altrettanto agevole è rispondere ad essa riflettendo sul fatto che la certezza, se calibrata sull’appiattimento del diritto visto in dimensione formalistica e statica, finisce con l’essere certezza del nulla, come ha finemente riconosciuto Lipari[27].
Preme sottolineare che quelle tensioni, quelle pulsioni, quelle contraddizioni, quei nodi irrisolti che si è cercato di rappresentate qui altro non sono – recte, devono essere – che le ansie di qualunque giudice, di merito o di legittimità.
Si tratta di uno scenario rispetto al quale il giudice – soprattutto se di merito –, si trova per l’un verso tutto a contatto con i fatti che, nella loro innata diversità e nella loro carnalità – per usare un’espressione cara a Paolo Grossi [28]– vengono portati al suo cospetto e, per l’altro, viene chiamato a maneggiare Costituzioni, Carte sovranazionali, pronunzie delle Corti (nazionali e non), fonti, giuridiche e non – soft law –.
Si stenta, quindi, a trovare su questi temi delle diversità di sostanza fra la posizione del giudice a seconda delle funzioni di legittimità o di merito svolte.
Si tratta, del resto, di nodi problematici sui quali le opinioni e le prospettive sono fortemente contrastanti anche all’interno della giurisdizione[29] e che alimentano, pertanto, modi di esercitare le funzioni giudiziarie profondamente diversi, tanto nel merito che in sede di legittimità.
A mia opinione, allora, non è tanto importante dare o trovare una soluzione fissa e preconfezionata alle questioni controverse, quanto propugnare la prospettiva che tutti i giudici, in tutte le loro articolazioni, partecipano attivamente, senza scale gerarchiche e senza gradini, ad un’idea di giurisdizione al servizio dei diritti, rispetto alla quale è vitale recuperare un’unità di intenti fra merito e legittimità, implementando le occasioni di reciproca conoscenza e confronto, alimentando le occasioni di formazione comune, coinvolgendo in questi percorsi la dottrina e l'avvocatura, allentando le tensioni che un deficit di conoscenza delle dinamiche interne alla Corte può in qualche modo favorire, ponendo, infine, a beneficio di tutti i giudici strumenti di conoscenza e iniziative che possano andare a beneficio dell’intera giurisdizione.
Può far tutto questo il giudice, pur in difetto di una diretta investitura democratica?
Rordorf, nella conversazione già ricordata, non sembra nutrire dubbi "... perché la sovranità appartiene al popolo ma si esercita nelle forme previste dalla legge. Quindi anche la giurisdizione, che è appunto una forma di esercizio di sovranità, è pienamente legittima nella misura in cui trova nella Costituzione e nelle leggi in base ad essa emanate il proprio fondamento ed i propri limiti."
Si va così manifestando una sovranità costituzionale che, in apparenza contrasta con la sovranità democratica del popolo ma che, a ben considerare, affonda le sue radici proprio nella difesa dei valori costituzionali, caratterizzando la democrazia stessa del nostro paese[30]. Ma esistono due fattori che possono minare la prospettiva che si è qui accennata. Per un verso, la produzione elefantiaca della giurisprudenza di legittimità reca inevitabilmente un decadimento delle motivazioni del giudice di legittimità, minandone pericolosamente la credibilità. In dottrina, Davide Galliani ha iniziato una riflessione approfondita sul ruolo della motivazione che si attaglia in modo particolare alla figura del giudice di legittimità[31]. Analisi approfondita e complessa che, condivisibile o meno che sia, coglie la crisi in cui versa il principale strumento operativo nelle mani del giudice e, dunque, l’aspetto più qualificante della sua funzione sulla quale si costruisce tanto lo ius litigatoris ma anche lo ius constitutionis. Di guisa che la necessità di motivazioni adeguate alla causa trattata non è esigenza che riguarda tanto e solo il giudice di legittimità, ma a, monte, l’intero sistema giudiziario, potendosi agevolmente preconizzare che ad una crescente richiesta di maggiore produttività non potrà che seguire uno scadimento ulteriore del prodotto e dunque della giustizia.
Per altro verso, il peso del contenzioso ed i numeri che spesso aggravano i giudici di merito costituiscono la migliore giustificazione per ritenere che quello della Cassazione sia, spesso, un ‘volare alto’ che poco consideri, appunto, il lavoro sporco e quotidiano del giudice di merito e, a volte, l’impossibilità oggettiva, in relazione al fattore tempo, di misurarsi, magari pur volendolo, con ciò che si avverte essere mera speculazione astratta, sulla quale prevale il peso delle carte, dei ruoli, dei capi che stringono sui tempi di deposito, che assillano brandendo lo spettro dei ritardi e dei conseguenti procedimenti disciplinari e della incombente Legge Pinto.
Insomma, un pensare alto che allontana quasi ineluttabilmente il merito dalla legittimità e si scontra con una realtà bassa, nella quale il bilanciamento che ciascuno deve operare, per tentare almeno la sopravvivenza, non sia quello, arduo e complesso, che vede in posizione contrapposti diversi valori fondamentali – di matrice costituzionale e sovranazionale –, ma sia quello che più efficacemente tende ad orientarsi verso l’esercizio di una giurisdizione meno cervellotica e più celere, senza porsi grandi problemi.
E tuttavia, sarebbe dunque illusorio pensare che il “volare alto” della Corte di Cassazione, nel senso in verità problematico che si è qui cercato di rappresentare, possa o debba rimanere nel compartimento stagno di quel giudice che, per posizione, è chiamato a controllare l’operato del giudice di merito, a fornire la risposta (quasi) definitiva al processo e, al contempo, a garantire l’unità del diritto oggetto e l’uniforme interpretazione .
Potrebbe dunque essere utile e fecondo ispirarsi ad un’idea di giurisdizione capace di favorire il massimo travaso di esperienze tra merito e legittimità, scevre queste ultime da logiche di sovraordinazione ed invece orientate ad affermare, all’interno di una comune cultura dei diritti fondamentali, la centralità della persona, cittadino e non, e con essa, della funzione giudiziaria per la democrazia del Paese.
Vi è forte la necessità di costruire una nuova nomofilachia che, per dirla con le efficaci parole usate dal Primo Presidente emerito Gianni Canzio, tende a divenire sempre di più orizzontale, discorsiva, dialogica con gli stessi giudici di merito e circolare[32].
Ancora una volta la prospettiva gerarchica che si è visto poco persuasiva se utilizzata per spiegare i rapporti fra giurisdizioni nazionali e sovranazionali va riconsiderata, pur se a legislazione invariata (art.65 l.ord.giud.) fra giudici di merito e giudice di legittimità, arricchendosi l’una per effetto delle concretizzazioni che gli altri operano quotidianamente in un processo osmotico, che trae alimento dal sempre maggiore peso assunto dal principio di effettività delle tutele[33].
In questa prospettiva, la creazione di più stringenti canali di collegamento fra legittimità e merito, magari valorizzando al meglio le strutture che in atto già esistono in Corte, come anche il travaso diretto delle esperienze lavorative, realizzato anche attraverso i meccanismi già previsti a livello ordinamentale – ricorso nell’interesse della legge del Procuratore generale, affermazione del principio di diritto nei ricorsi inammissibili (art. 373 c.p.c.) –, potrebbe favorire quella “contaminazione tra i gradi della giurisdizione” di cui si è già parlato[34], tutta indirizzata ad allontanare da sé il vizio peggiore del giurista, la pigrizia[35].
Ciò consentirebbe di fare conoscere più in profondità le dinamiche del lavoro del consigliere di Corte e di fare emergere meglio le criticità evidenziate dai giudici di merito rispetto alle decisioni della Cassazione[36] , comprimendo l’autoreferenzialità che viene avvertita come dato non rispondente a ciò che serve al giudice non di ultima istanza[37], così venendo incontro all’esigenza del "merito" di avere fissati dei punti saldi da parte del giudice di legittimità in materie particolarmente delicate[38]e, al contempo, di potere allentare il peso dell’arretrato.
Una Corte, quella di Cassazione, che non va, in definitiva, in cerca di salvacondotti né di consensi al di fuori del modo con il quale essa continua ad operare – per l’appunto rappresentato dalla sua produzione giurisprudenziale e dai principia che essa fissa nelle proprie decisioni – ma alla quale, nemmeno, può essere negato il ruolo – che essa non intende peraltro in alcun modo abdicare – di crocevia del diritto nazionale e sovranazionale, giocato in modo relazionale con le altre giurisdizioni superiori, a patto che essa riesca a mettersi al servizio dei suoi destinatari e dell’intera giurisdizione nazionale in modo efficace e lineare, pur nella complessità dei tempi moderni.
In questa prospettiva, la sciagura del COVID, che tanto sta condizionando la formazione dei magistrati, potrebbe rappresentare forse, paradossalmente, proprio per le modalità con le quali si sta offrendo – da remoto – a tutti i magistrati, un’occasione di travaso dei modi di pensare e di formarsi fra giudici di merito e di legittimità ed anche dell'avvocatura. In questo senso l’idea che ai corsi di formazione pubblicizzati dal sito della Corte di cassazione prendano parte attiva anche i giudici di merito, l'accademia e l'avvocatura come già da tempo avviene potrebbe essere un fattore di grande crescita. Come lo è già la sperimentazione di incontri organizzati dalla formazione decentrata della Corte per anticipare alcune delle questioni di massima di particolare importanza all’esame delle Sezioni Unite.
5. Il ruolo della Corte di Cassazione a proposito del bilanciamento fra diritti fondamentali.
Nel tratteggiare il ruolo della Corte di cassazione degli ultimi anni, la sua dinamica apertura verso le tecniche decisorie delle giurisdizioni sovranazionali e più in generale verso nicchie di protezione dei diritti sempre più in linea con la protezione dei valori fondamentali della persona umana un posto di rilievo va riconoscimento al tema del bilanciamento[39].
Bilanciamento che si atteggia in modo diverso a seconda che esso riguardi la necessità di conciliare un diritto fondamentale con altre esigenze di natura pubblica ovvero attenga realmente all’esistenza di due diritti che insistono sulla stessa circostanza e, per dirla con Giuliano Amato, si contendono un medesimo spazio di libertà[40].
E che, dunque, questa sia proprio una delle sfide più complesse che si aprono innanzi all’operato del giudiziario non sembra discutibile se si considera quanto il sistema interno sia tarato su coordinate di legalità formale che guardano con sfavore a siffatto intervento operato fra legge e valori[41].
Ad ogni buon conto che tale attività di bilanciamento spetti, in prima battuta, al legislatore, è fuori di dubbio.
Ma che a quest’ultimo si affianchi, ineludibilmente, il ruolo del giudice, costituzionale e non, al quale spetta non soltanto il compito di verificare che l’opera legislativa di bilanciamento sia conforme ai valori fondamentali anzidetti, ma anche quello di “interpretare” il diritto scritto e valutarne, fin quando possibile, la conformità con i parametri della Costituzione e delle altre Carte[42], offrendone letture coerenti ai valori fondamentali pare altrettanto evidente.
Il bilanciamento è, dunque, un fenomeno, comune alle giurisdizioni superiori nazionali e sovranazionali, che compare tanto nella giurisprudenza costituzionale - come ha anche di recente testimoniato il Giudice costituzionale Silvana Sciarra nel podcast della Corte costituzionale dedicato al diritto del lavoro[43]- e di legittimità[44], quanto in quella di Lussemburgo[45] e di Strasburgo[46].
È proprio nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ove si è sviluppata la teoria del c.d. margine di apprezzamento e del giudizio di proporzionalità degli interessi in gioco, a dimostrare la particolare tecnica utilizzata da quel giudice per sciogliere i nodi di vicende spesso ingarbugliate e di difficile soluzione[47].
Il punto è che sono proprio le giurisdizioni sovranazionali appena ricordate ad investire direttamente il giudice nazionale di siffatte operazioni di bilanciamento[48].
Ed è attraverso queste operazioni che il giudice comune, proprio nel compiere tale attività di conformazione del diritto interno alla CEDU, proceda attraverso una tecnica che prende in considerazione i diversi diritti che entrano in gioco al fine di giungere al “risultato” che appare il migliore possibile per l’affermazione della massima tutela del valore.
È in altri termini, l’attività stessa dell’individuazione di un diritto che richiama in sé la necessità di un previo bilanciamento di quel valore, senza il quale il diritto non potrà essere individuato nella sua corretta consistenza[49].
Ogni volta che il giudice comune è chiamato a definire la portata del diritto fondamentale protetto dalla Costituzione, dalla CEDU e/o dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE e ad acclarare se le limitazioni ammesse, ai vari livelli, impediscono l’operatività del valore fondamentale in esame, egli si troverà a dover esaminare, all’interno di quella verifica, i valori che sono in gioco, proprio al fine di considerare la ricorrenza o meno del diritto preso in esame[50].
Si tratterà, allora, di un bilanciamento che non avviene, a monte, sulle disposizioni, ma sulle "norme" per come esse vivono e sui "casi" per come essi si declinano volta per volta.
È qui sufficiente rinviare al quadro sinottico allegato alla relazione relativo ad alcune delle pronunzie della Corte di Cassazione nelle quali le tecniche di bilanciamento di cui si è detto sono spiegate in modo dettagliato, contenendo una sorta di decalogo assai utile per il giudice, anche di merito, su come maneggiare il delicato tema qui affrontato quando in gioco entrato i diritti fondamentali, con quella dose di coraggio intriso di senso del limite di cui si dirà nel paragrafo finale[51].
6. Il rinvio pregiudiziale e il dialogo fra la Corte di giustizia e la Cassazione. Perché dialogare con la Corte di Giustizia.
All’interrogativo proposto nel titolo del presente paragrafo si può tentare di rispondere dicendo che attraverso la domanda di pronuncia pregiudiziale, il giudice nazionale diventa parte di una discussione di diritto UE senza dipendere da altri poteri o da altre autorità giudiziarie nazionali, le quali nemmeno possono limitare od opporsi a tale scelta, anche se strutturate in (apparente) posizione gerarchica superiore rispetto al giudice che intende sollevare il rinvio.
Comincia, così, a delinearsi la portata del dialogo di cui qui si discorre, sul quale è ancora una volta tornato ad insistere il Primo Presidente Curzio nel corso della già ricordata Relazione inaugurale dell’anno giudiziario dell’anno 2020 (p.188).
Utile appare, ancora una volta, il rinvio alle Conclusioni dell’Avvocato Generale Colomer presentate il 25 giugno 2009 nella causa C-205/08, ove si intravede nel dialogo pregiudiziale uno strumento straordinario per il «rafforzamento della voce istituzionale di un potere degli Stati membri: la giustizia». Tanto, in definitiva, significa valorizzare il ruolo centrale dei giudici nello spazio costituzionale europeo. È dunque la giurisdizione «in quanto potere basato sull’indipendenza - sull’imparzialità n.d.r.-, sul rispetto della legge e sulla risoluzione delle controversie» a godere di «una voce singolare, staccata dallo scenario politico e legata unicamente alla volontà del diritto». Può, a ragione affermarsi che « L’autorevolezza dell’ordinamento europeo è quindi intrisa di una forte componente giudiziaria. Non è esagerato ritenere che la Corte di giustizia sia il responsabile ultimo del diritto dell’Unione grazie ai giudici nazionali». Ed è sempre Colomer a sottolineare che «grazie al dialogo tra giudici sono stati definiti, uno ad uno, i tratti genetici del nuovo ordinamento: l’effetto diretto, il primato del diritto comunitario, la responsabilità, l’effettività, l’equivalenza e molti altri principi che articolano il sistema giuridico dell’Unione ».
Importante è dunque comprendere il ruolo del dialogo pregiudiziale.
Per far ciò ci sia consentito usare, ancora una volta, le parole dell’Avvocato Colomer, quando afferma che «la giurisprudenza comunitaria ha introdotto tali giudici nel dialogo pregiudiziale, non tanto allo scopo di aumentare il numero dei rinvii, quanto piuttosto per preservare l’autonomia istituzionale degli Stati membri. »
Ed è proprio questo il punto nodale del dialogo visto che proprio la richiesta di rinvio crea un percorso virtuoso di avvicinamento del diritto comunitario a quelle tradizioni culturali comuni che costituiscono, come è noto, una delle basi fondamentali dei principi generali dell’ordinamento comunitario coniati, ancora una volta, dalla Corte di Giustizia.
Ha dunque ragione Colomer nel ritenere che è proprio il rinvio pregiudiziale ad alimentare il dibattito giudiziario europeo. Sotteso a tale rinvio non è dunque il desiderio della Corte di giustizia di esercitare un controllo sull’affluenza di procedimenti sottoposti alla sua giurisdizione, quanto l’intenzione di rispettare e mostrare una certa deferenza nei confronti della concezione della funzione giurisdizionale in ciascuno Stato membro.
Riemerge, nemmeno poi tanto sottotraccia, l'idea che nei rapporti fra legislazione nazionale e UE non vi sia un meccanismo di pari ordinazione o di equi-ordinazione che, per converso, i giudici di Lussemburgo sembrano volere riconoscere ai giudici nazionali nel rapporto che essi hanno con la Corte europea.
Quando questi vestono i panni del giudice comune del diritto UE partecipano a pieno titolo proprio alla costruzione dell'edificio europeo e non possono in alcun modo rimanere condizionati da eventuali limitazioni normativamente introdotte dal legislatore nazionale che finirebbero non tanto per pregiudicare l'attuazione del diritto europeo nello Stato ma, piuttosto, quanto per condizionare l'intero meccanismo di operatività del sistema di tutela offerto dalla Corte di Giustizia, la quale sarebbe impedita di svolgere il proprio ruolo al servizio di tutti i cittadini dell'UE.
Il punto problematico è semmai rappresentato dal "come" questo dialogo vada gestito dopo l’intervento della Corte costituzionale inaugurato dal famoso obiter contenuto nella sentenza n.269/2017[52] e dai successivi seguiti [53].
Ed un caso assai paradigmatico della complessità del tema è sicuramente rappresentato dall’ordinanza delle Sezioni Unite civili (n.19598/2020[54]) di rimessione alla Corte di Giustizia del rinvio pregiudiziale sulla coerenza rispetto ad alcuni canoni fondamentali dell’UE dell’orientamento manifestatosi nelle stesse sezioni Unite in seguito ad una pronunzia della Corte costituzionale – n.6/2018- a proposito della determinazione del concetto di motivo inerente la giurisdizione.
La valenza della questione appena ricordata risulta in questa sede marcata se si considera che Cass. S.U. n.19598/2020 ha volutamente scelto la “strada” di Lussemburgo, pur consapevole che in gioco vi era l’interpretazione di un parametro contemplato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, speculare ad altra parametro costituzionale(art.24 Cost.), in tal modo espressamente scartando l’alternativa rappresentata dalla proposizione della questione di costituzionalità per violazione dell’art.117 1^ comma Cost. -integrato dall’art.47 Carta UE - che l’obiter della sentenza n.269/2017 della Corte costituzionale ed i successivi seguiti avrebbero secondo taluni imposto come percorso prioritario, secondo altri quanto meno suggerito come opportuno il nuovo rinvio della questione alla Corte costituzionale per eventualmente consentirle di rimeditare i principi espressi dalla sentenza n.6/2018.
Non ritenendo in alcun modo di dovere pendere posizione sulla questione in questa sede, rimane la circostanza che la scelta della “strada Lussemburgo” adottata dalle Sezioni Unite, comunque la si interpreti, provenendo dal più autorevole consesso della Corte di Cassazione, denota la piena autonomia del giudice nazionale rispetto all’alternativa “rinvio pregiudiziale/questione di legittimità costituzionale” che pure continua ad agitare gli studiosi quanto all'esistenza di eventuali criteri che possano chiarire in via generale le modalità operative che il giudice comune deve seguire.
Strada "Lussemburgo", è appena il caso di riconoscere, che non venne percorsa dalla medesima Corte di Cassazione che con l’ordinanza n.3831 del 16 febbraio 2018 diede il via al giudizio di costituzionalità che condusse all’ordinanza n.117/2019, individuando in modo nitido il dubbio che sarebbe stato opportuno devolvere alla Corte di giustizia- v. punti 11.3.6.6 dell’ordinanza – eppure ritenendo che la “strada” indicata da Corte cost.n.269/2017 dovesse essere quella che portava a Palazzo della Consulta – pur consentendo la strada di Lussemburgo ma soltanto “dopo” l’intervento della Corte costituzionale–. Principi che poi la stessa Corte cost.n.117/2019, nel sollevare il rinvio pregiudiziale, si è presa cura di “precisare” in modo diverso ed in linea con quanto affermato da Corte cost.n.20/2019, dando il là alla recente pronunzia della Grande sezione della Corte di giustizia – Corte giust., 2 febbraio 2021, in C-489/19, D.B. – sul tema del nemo se detegere riconosciuto come dotato di copertura sovranazionale anche nei procedimenti sanzionatori proprio grazie al rinvio pregiudiziale sollevato dalla nostra Corte costituzionale.
7.La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il ruolo ed i volti della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale.
Qualche anno addietro ci siamo sforzati di tratteggiare il ruolo della Corte di Cassazione nell’applicazione e nell’uso della Carta UE dei diritti fondamentali[55].
L’analisi alla quale è qui sufficiente rinviare va decisamente attualizzata per effetto delle questioni più scottanti insorte all’indomani dell’obiter contenuto nella sentenza n.269/2017 della Corte costituzionale a proposito della questione della doppia pregiudizialità e dei rapporti fra Carta UE dei diritti e Costituzione. Una riflessione tutt’altro che accademica proprio perché sagomata sul tema dei diritti fondamentali e dei soggetti attuatori o protettori e promotori di essi[56] e, dunque, sui limiti e sulla consistenza dei poteri riservati alla giurisdizione comune.
In discussione, all’evidenza, vi è infatti il potere-dovere del giudice comune di applicare direttamente le disposizioni precettive della Carta dei diritti fondamentali UE del quale prima dell'obiter nessuno poteva dubitare.
Potere-dovere che tutto al contrario dopo l’obiter della 269/2017 sembrò anestetizzato, introducendo un sindacato di costituzionalità mai sagomato in materia con le rime espresse nella ricordata pronunzia del giudice costituzionale. Tutto questo in nome del predominio assiologico della Costituzione affermato con riguardo alla CEDU ma di fatto ora esteso alla Carta UE che, alla prima spesso sovrapponendosi, rischierebbe di offuscare il sindacato accentrato di costituzionalità e, in definitiva, la stessa Costituzione.
Da qui un mutamento di sensibilità nell’atteggiamento della Corte costituzionale e la sua scelta di riprendersi uno spazio e un ruolo centrale nell’applicazione del diritto dell’Unione che va peraltro oltre la Carta Ue, involgendo tutte le controversie nelle quali si discute di diritti fondamentali, come è reso palese dalla sentenza n.20/2019. Una partita che si gioca all’evidenza “a tre”, coinvolgendo direttamente la Corte di Giustizia con la quale lo strumento privilegiato del rinvio pregiudiziale, se attivato dal giudice comune nazionale del diritto UE, rischierebbe di tagliare fuori, con la mossa del cavallo, la Corte costituzionale.
Dunque un obiter, quello della 269, che sembrava destinato a correggere e superare quel sistema Onida che aveva invece fortemente enfatizzato il ruolo del giudice comune di garante principale della immediata ed uniforme applicazione delle regole europee dotate di efficacia diretta[57].
Sullo sfondo un’idea di riconformazione del giudice comune che, accostandosi alla Carta UE, dovrebbe in definitiva comportarsi come si comporta quando maneggia la CEDU, non potendo disapplicare direttamente la norma interna contrastante con la Carta.
Sembrava così compiuto il disegno riformatore dei poteri del giudice comune in nome di una continuità sistemica fra le Carte dei diritti sovranazionali che vengono accomunate quanto a modalità operative ed entrambe “sottoposte” al giudice costituzionale ed alla supremazia della Carta costituzionale.
Questo possibile “volto” del new deal della Corte costituzionale è stato, tuttavia, in parte risagomato dallo stesso giudice costituzionale nei suoi seguiti (sentenze nn.20 e 63 del 2019) che, forse condizionati dal clima di scarso gradimento della posizione espressa nell’obiter, hanno mostrato un altro volto, molto più conciliante ed aperto verso il giudice comune, tutto improntato all’idea della cooperazione e della condivisione, della flessibilità, che era poi stato il canone originariamente suggerito da Marta Cartabia alla fine degli anni '90[58].
Quel che colpisce non poco è, dunque, la sottolineatura circa il fatto che, secondo Corte cost.n.20/2019, le tre strade astrattamente percorribili da parte del giudice comune – rinvio pregiudiziale, rinvio alla Corte costituzionale o disapplicazione della norma contrastante con il parametro Carta UE di immediata efficacia – integrano, secondo la Corte costituzionale, un “concorso di rimedi giurisdizionali” capace di arricchire “gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali”.
Si tratta di rimedi che sono destinati ad integrarsi, creando effetti benefici e per l’appunto favorendo una congrua soluzione di compromesso fra le esigenze esposte dalla Corte costituzionale e quelle di sistema poste dalla Cassazione.
Insomma, il risultato raggiunto sembra realmente avere realizzato una fusione fra i diversi volti che abbiamo provato a tinteggiare.
Dunque tutto come prima?
La concorrenza di strumenti di tutela che vengono offerti ai titolari dei diritti sembra arricchirsi per effetto della possibilità che non uno ma due “giudici” – quello comune e quello costituzionale – possano offrire tutela ai diritti fondamentali che campeggiano nella Carta UE, entrambi potendo dialogare con la Corte di Giustizia.
Stando alle rime della sentenza n.63/2019, infatti, la Corte costituzionale, ove chiamata in causa dal giudice comune, non può esimersi dal fornire una risposta alla questione con gli strumenti che le sono propri, ivi compreso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. E così, in effetti, la Corte costituzionale ha inteso fare con l’ordinanza n.117/2019, i frutti fecondi dei quali torneremo a sottolineare in prosieguo.
In questo processo cooperativo il ruolo della Corte di Cassazione e dei giudici di merito risulta comunque rilevante e ad essi toccherà scrivere le pagine ancora bianche e riempire di contenuti espressivi i volti dei giudici che saranno chiamati a fornire ulteriori chiarimenti.
Il nodo sul quale polarizzare energie di mente e di saggezza sarà quello del “criterio ordinatore” – se mai se ne possa e debba individuare uno – per decidere se ad interloquire con la Corte di Giustizia, ove sia in discussione la portata del parametro Carta UE di immediata efficacia debba essere “prima il giudice comune o la Corte costituzionale. Questione che, proprio di recente, ha visto la dottrina continuamente misurarsi[59] e che, dunque, attende di avere le prime risposte “giurisprudenziali”.
La Corte costituzionale, per parte sua, insieme ad una nutrita schiera di autorevoli studiosi, sembra volere lusingare il giudice comune e per condurlo sulla sua strada, quella della Consulta, insistendo sulla capacità rigeneratrice del controllo di costituzionalità, all’esito del quale il sistema verrebbe, proprio grazie all’incidente di costituzionalità sollevato da quest’ultimo, per sempre depurato dalla disposizione in contrasto con il parametro Carta UE, impedendo quindi applicazioni giurisprudenziali frastagliate ed invece favorendo la mai indomita esigenza di certezza del diritto.
Si tratta di lusinghe che muovono da intenti commendevoli[60] ma che non finiscono di persuadere laddove il canone della libera scelta fra rinvio pregiudiziale ed incidente di costituzionalità fa da schermo all’intento più o meno dichiarato che individua nella questione di legittimità costituzionale “il rimedio dei rimedi” che meglio e più di altri favorire la massima protezione dei diritti.
Postulato, quest’ultimo, che sconta un sentimento negativo sempre più diffuso verso la sovranità europea[61] e che carica, in apparenza, il giudice comune di un compito – quello di purificare il sistema- che l’ordinamento dell’Unione europea non gli attribuisce in alcun modo e che, in definitiva, tende a sovvertire, appunto, quel sistema accentrando nel giudice costituzionale lo scettro dell’interpretazione del diritto UE, pur mediandolo con la possibilità di poter sempre ricorrere al dialogo con la Corte UE se ed in quanto dovuto. Tema, quest’ultimo, quello della obbligatorietà o meno del rinvio pregiudiziale per la Corte costituzionale che porterebbe lontano ma, conferma la sovrapposizione di campo e di ruolo che il new deal potrebbe nascondere, a tutto vantaggio del giudice costituzionale se si dovesse caldeggiare la prospettiva che, in fin dei conti, quel che comanda è la Costituzione ed il suo giudice naturale[62].
Insomma al volto conciliante e dialogante della Corte costituzionale pronta a riconoscere, in astratto, il ruolo e l’autonomia del giudice comune nell’andare in contrario avviso a quanto precedentemente ritenuto dalla stessa Consulta – previamente investita con l’incidente di costituzionalità – in nome del diritto UE sembra fare capolino un volto elegantemente nascosto, ma che in chiaroscuro si affaccia. Ed è il volto della Corte costituzionale ben consapevole della diversa “autorevolezza” e del diverso peso fra Consulta e giudice comune – recte, piccolo giudice comune–. Una disparità destinata, se si indossa la lente dell’operatore concreto, svestendo quella presbite dell’ideologo, verosimilmente a determinare la conclusione della vicenda che riguarda la portata di un diritto con la parola data dalla Corte costituzionale. Risulta difficile immaginare che il piccolo giudice comune possa in concreto sovrastare la voce della Corte costituzionale ponendosi di traverso ed appare invece agevole preconizzare gli attacchi ai quali andrebbe incontro per avere “violato” la Costituzione, discostandosi dalla soluzione offerta dalla Consulta.
Ed è, d’altra parte, questo panorama a tratti caravaggesco si arricchisce quando si afferma che il giudice comune avrebbe una grande opportunità, scegliendo la strada di Piazza del Quirinale, di depurare il sistema proprio grazie all’accoglimento dell’incidente di costituzionalità.
Questa posizione che anche di recente è stata sostenuta da Elisabetta Lamarque, ancora una volta non finisce di convincere se si considera che essa tende ad applicare al sistema del diritto dell’Unione europea un meccanismo ad esso totalmente estraneo rispetto al ruolo del giudice nazionale. Nella prospettiva del diritto UE mai un giudice nazionale potrà invalidare o eliminare dal mondo giuridico una disposizione del diritto UE contrastante con i valori fondamentali riversati nella Carta UE, spettando tale potere in via esclusiva alla Corte di Giustizia.
Preme, invece alla Corte di giustizia ed al sistema del quale essa si fa custode che nell’ordinamento nazionale non produca effetti la disposizione contrastante con il diritto UE e ciò attraverso i meccanismi “propri” del diritto UE, appunto costituiti dall’interpretazione eurounitariamente conforme, della disapplicazione e dell’azione di responsabilità, tutti ben saldamente uniti dal meccanismo del rinvio pregiudiziale riconosciuto a qualsiasi giudice dei 27 Paesi dell’Unione europea, dal più periferico e piccolo al più autorevole.
Ora, il volto nascosto della Corte costituzionale sembra disinteressarsi di questo sistema, pretendendo di applicare le proprie regole sul presupposto della coincidenza del diritto protetto dalla Carta UE con la Costituzione. Coincidenza che, però, ca va sans dire, non può che essere ponderata e verificata volta per volta dal giudice del caso concreto e che, in ogni caso, non sembra potere tollerare una riduzione ad unità del sistema di protezione dei diritti di matrice costituzionale, nel quale il sindacato accentrato non è un’opportunità o una mera possibilità grandemente consigliata ma un dovere che nasce dalla Costituzione .
Se, in conclusione, il “piano” tratteggiato dalla sentenza n.269/2017 si è andato depotenziando progressivamente per volontà stessa del giudice costituzionale, rimangono tutti in piedi i dubbi che il volto caravaggesco della Corte costituzionale possa prendere il sopravvento, determinando in modo più o meno consapevole un depotenziamento delle forme di tutela dei diritti fondamentali.
Da qui la necessità che l’interprete rimanga sempre vigile e attento, un po’ come una sentinella.
E non che questo, ovviamente, voglia o possa rappresentare una sorta di lesa maestà rispetto alla funzione autorevolissima della Corte costituzionale, ma semplicemente e solo un modo di essere pienamente rispettosi delle funzioni giudiziarie che sullo stesso giudice ricadono, non per sua scelta, nelle cangianti e variegate forme che si è visto caratterizzare il ruolo del giudiziario.
E ciò anche per fugare l’idea, a volte sussurrata, altre apertamente espressa, che l’entusiasmo del giudice comune verso il diritto UE e la Corte di giustizia sia frutto di superficialità, esso piuttosto dimostrando la fatica e la complessità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie, alla ricerca di quella “invenzione del diritto” che, appunto, in senso grossiano, è tutto fuorché leggerezza, spensieratezza e superficialità, dimostrando la fatica del giudicare nel confronto con diritti viventi e dottrine spesso contrastanti e divaricate.
In questa prospettiva assume, dunque, maggiore senso e significato la proposta di consentire contestualmente al giudice comune di sollevare, ove lo ritenga utile e necessario, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e l’incidente di costituzionalità innanzi alla Consulta.
Il ricorso contemporaneo alle due strade, come in altra occasione abbiamo provato a sostenere[63] renderebbe manifestato che i volti dei dialoganti si illuminano entrambi di luce propria irradiandosi l’uno l’altro, in una prospettiva di pieno, leale e franco confronto Conflitti e contrasti sui quali, appunto, quel “piccolo giudice” non potrà che decidere, suo malgrado, in nome di quella fedeltà ai valori della Costituzione ed alle sue leggi scolpita dall’art.54, c.1, Cost.
8.Il dialogo con la Corte edu e il ruolo della Corte di Cassazione. Dal soft law- il Protocollo concluso dalla Cassazione con la Corte edu l’11 dicembre 2015- al Protocollo n.16 – efficace ma non per l’Italia- ad oggi-.
In questa prospettiva cooperativa, del resto, si muove il protocollo d’intesa concluso fra la Corte di Cassazione e la Corte edu l’11 dicembre 2015[64], al quale chi scrive ebbe l’opportunità di partecipare accompagnando il compianto Primo Presidente Giorgio Santacroce a Strasburgo per la firma dell’accordo con il Presidente della Corte edu Guido Raimondi.
A riprova della fecondità di queste forme di dialogo è opportuno rammentare la posizione di chi per lunghi anni ha svolto con autorevolezza indiscussa un ruolo apicale all’interno della Corte di Cassazione.
Gianni Canzio ha più volte sottolineato la centralità del dialogo fra le Corti così realizzato, riconoscendo che la strada segnata dai Protocolli d’intesa rappresenta un punto di non ritorno e una straordinaria evoluzione di cui non potrà farsi a meno nel percorso di costruzione dell’ordinamento integrato[65].
Analogamente, Renato Rordorf ha ancora di recente testualmente riconosciuto[66] il ruolo del Protocollo, “…destinato a favorire la conoscenza da parte del giudice europeo delle specificità di ogni singolo ordinamento nazionale, facendo sì che la sua giurisprudenza riesca meglio ad esprimere la sintesi dei valori e dei principi fondamentali ai quali sono ispirati gli ordinamenti dei diversi paesi; e per altro verso consente alle corti nazionali di sentirsi partecipi del processo di elaborazione del diritto vivente sovranazionale e di avvertirlo come parte integrante del proprio patrimonio giuridico anziché come un corpo estraneo col quale faticosamente ed a malavoglia convivere”[67].
Maria Gabriella Luccioli non ha poi mancato di evidenziare che il Protocollo d’intesa del dicembre 2015 siglato fra Corte di Cassazione e Corte edu, inglobandosi all’interno della Rete delle Corti europee gestita dalla Corte di Strasburgo, “ … ha assunto la posizione di crocevia tra diritto nazionale e sovranazionale. L’operatività dei richiamati strumenti ha comportato uno straordinario cambio di paradigma rispetto ad un passato non troppo lontano, del tutto chiuso in una prospettiva statalista, consentendo alla Cassazione di sentirsi parte attiva del processo di elaborazione del diritto vivente sovranazionale, ora percepito come parte del suo patrimonio giuridico. Ne deriva che la funzione nomofilattica si arricchisce di nuove potenzialità in direzione di una nomofilachia europea, in quanto il dovere di assicurare l’uniforme interpretazione della legge ai sensi dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario si declina ora anche in termini di garanzia dell’uniforme interpretazione della legge alla luce della CEDU, delle altre Carte dei diritti fondamentali e del diritto di matrice europea. Si passa così dal dialogo tra le Corti all’integrazione dei sistemi, perseguendo l’obiettivo della massima estensione possibile della tutela dei diritti, e segnatamente della tutela della dignità della persona, che in numerose decisioni della Corte Europea è assunta come principio immanente, immediatamente efficace ed inderogabile”.
Anche il Primo Presidente Curzio, nella relazione presentata all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 del 29 gennaio 2021, non ha mancato di sottolineare la centralità delle forme di dialogo fra la Corte di cassazione e la Corte edu[68] (p.189).
Si tratta di prese di posizione che segnano un cambio di passo nei rapporti fra le due Corti improntato al canone della “fiducia reciproca” che non vuol dire deferenza dell’una Corte all’altra, ma riconoscimento e rispetto dell’autonomia e della funzione che ciascuna ricopre.
Sedersi ad uno stesso tavolo e dialogare in posizione equiordinata su questioni di comune interesse vuol dire guardare con convinzione e fiducia al futuro dei rapporti fra le due Corti e, probabilmente, la migliore risposta a chi pensa di bollare come retorico il concetto stesso di dialogo fra le Corti[69].
9. Chi ha paura del Protocollo 16?
Si tratta di affermazioni di particolare rilevanza, poiché espresse con riguardo alle forme di dialogo correlate ad atti di soft law anteriori al Protocollo n.16 annesso alla CEDU, che ha introdotto la possibilità per le Alte Corti nazionali di richiedere un parere preventivo non vincolante alla Grande Camera della Corte edu su questioni che involgono l’interpretazione dei principi contenuti nella CEDU.
Strumento quest’ultimo – entrato in vigore dopo la ratifica di 10 Paesi del Consiglio d’Europa - che mostra il ruolo propulsivo per la tutela dei diritti fondamentali svolto dal giudice nazionale, senza che ne esca in alcun modo scalfita l’autonomia e l’indipendenza del giudice nazionale, al contrario artefice in prima persona di una tutela dei diritti piena ed effettiva, svolta soprattutto in ambito nazionale ed all’interno del canone di sussidiarietà, fortemente implementato dalle possibilità di scambio e di confronto appunto rappresentata dal parere che può essere chiesto alla Corte edu prima della definizione del giudizio sul piano interno.
L’attuale situazione di stallo venutasi a creare rispetto alla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU in Italia, dopo che il Protocollo n.15 è stato invece ratificato dalla recente legge n.11/2021- è grave e pericolosa. E sul punto la magistratura in qualunque sua veste, come anche l’Accademia dovrebbero fare sentire la loro voce[70].
Ma perché si è bloccato il processo di ratifica del Protocollo 16 in Italia lasciando via libera soltanto al Protocollo n.15, ratificato con la legge n.11/2021? E chi ha paura del Protocollo 16?
Ecco emergere, nuovamente, i diversi volti che dentro Corte di Cassazione e fuori dalla Corte, nelle istituzioni, si agitano attorno ai temi che qui si dibattono.
Un volto che investe nel dialogo e si affida ad esso con fiducia reciproca; un altro che lo guarda con sospetto, con preoccupazione, stretto nella morsa rappresentata dall’ordine di appartenenza, dalla paura di perdere, nel dialogo, fette di potere – a volte indicate strumentalmente come di autonomia – evocando addirittura lo spettro dell’erosione della sovranità o del proprio ordine di appartenenza.
Non è certo questa la sede per approfondire il discorso sul piano del Protocollo di attuazione fra Cassazione e Corte edu.
Molto più utile è semmai riflettere sugli aspetti legati al Protocollo n.16.
Ed il pensiero va quasi naturalmente, per descrivere la situazione di attuale stallo, all’immagine biblica dei babelici che nella edificazione della Torre avevano pensato di realizzare la propria impresa e la loro sfida a Dio, escludendo la possibilità di lingue differenti e dunque radunandosi attorno a un principio forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”[71].
Oggi il volto di chi ha paura del Protocollo si raduna attorno ad un’idea fortemente identitaria, pensando di eliminare le diversità con l’affermazione di un solo diritto, una sola Costituzione, un solo giudice.
Ma vi è un altro volto, al quale non fa invece paura, il Protocollo, a chi è convinto che il diritto nasca dalla composizione delle diversità, dal confronto, dalle traduzioni dei linguaggi diversi provenienti anche da diverse “lingue giuridiche”[72].
Non fa paura, ancora, a chi crede che proprio nel confronto e nella fatica della ricomposizione fra le diversità, ove esistenti, stia il sale del diritto nella dimensione concreta e stia dunque la democrazia dei giorni nostri, pervasa anche dal formante giurisprudenziale, come ancora una volta Rordorf mostra di sapere.
Una Costituzione che, così, scende dalla Torre di Babele e si mostra porosa, aperta, capace di arricchirsi dei materiali costituzionali posti al di fuori di essa, ma che partecipano della medesima natura costituzionale.
Il Protocollo non fa paura a chi ha come stella polare l’idea di un diritto che si compone, dunque, della legge e della sua applicazione e attuazione nel caso concreto.
Un’idea nella quale anche il singolo, si fa costruttore del diritto, partecipe della realizzazione di ciò che è diritto.
Un diritto che, dunque, è in continua evoluzione, nel quale fatto e diritto non riescono più nettamente a distinguersi, ma si fondono armonicamente nella ricerca di uno ius litigatoris che è anche ius constitutionis.
Un diritto fatto di complessità[73] e problematicità proprio perché si alimenta incessantemente di materiali provenienti non soltanto dall’interno ma anche dall’esterno.
Piace, dunque, il Protocollo n.16 a chi si oppone ad ogni idea di totalitarismo, di diritto uno e primo rispetto a ciò che, stando fuori dai confini, costituirebbe sempre e comunque attacco alla sovranità e che, invece, è democrazia, è ricerca della composizione.
Non piace il Protocollo n.16 al volto di chi non si accorge che le diversità non si appianano eliminandole, ma, come si diceva, attraverso la fatica della ricomposizione delle stesse.
In questa prospettiva, il dialogo fra le Corti che il Protocollo n.16 intende realizzare ed incentivare costituisce uno strumento di straordinaria rilevanza, del quale non bisognerebbe avere paura, a meno di acconciarsi a prospettive sovraniste che lascerebbero peraltro fuori il nostro Paese da un dialogo fra altri plessi giurisdizionali, senza potervi contribuire con la propria tradizione costituzionale e con il proprio patrimonio culturale e giuridico, come già emerge dai primi interventi delle Corte costituzionale – che ha riconosciuto pieno valore ai pareri resi dalla Grande Camera sulla base di richieste di pareri provenienti dai Paesi che hanno ratificato il Protocollo – e della Corte edu – che nella sua giurisprudenza ha già richiamato i pareri resi indicandoli, ai fini del loro valore di precedenti, in modo omologo alle pronunzie rese sui ricorsi individuali –.
Del resto, quanto appena sostenuto trova piena conferma in quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n.49/2015[74].
In definitiva, si avverte sempre di più l’esigenza di cercare modalità operative e tecniche decisorie che, anche in ragione della pluralità di fonti che governano i diritti, tanto in chiave nazionale che in prospettiva sovranazionale, attenuino o riducano le possibilità di conflitti fra i diversi plessi giurisdizionali, proprio in una prospettiva che prima ancora di essere orientata all’alleggerimento del contenzioso da parte di un sistema giudiziario sempre più in crisi sul versante dei tempi, offra a chi ha a che fare con la giustizia risposte tendenzialmente prevedibili proprio grazie alla conoscenza della posizione della Corte edu.
Il Parlamento, riprendendo in mano il progetto di ratifica del Protocollo 16 avrebbe dunque l’opportunità di mettersi dalla parte dei diritti dei cittadini, dei più deboli, di quelli che non possono permettersi di arrivare a Strasburgo e di sostenere i costi ulteriori di un processo già definito sul piano interno e che hanno dunque bisogno di essere sostenuti dallo Stato. Stato che assume qui il volto della giurisdizione che coopera con quello del legislatore, unitariamente rivolto a salvaguardare i diritti fondamentali delle persone.
In conclusione, la scelta italiana di chiudere le porte al Protocollo 16 appare come una occasione persa.
Occorre dunque che l’accademia ed il mondo degli operatori di giustizia si attivino per indurre il Parlamento a ritornare sull’ argomento con una visione più ampia e re cognita, valutando le conseguenze negative che essa procura alla giurisdizione e ancor prima all’ordinamento italiano inteso nella sua complessità e pluralità .
Se però questo dialogo sotto il paradigma del Protocollo n.16 non resterà che alle Corti il compito di continuare incessantemente il dialogo intrecciato sulla base dei Protocolli d'intesa di cui si è detto[75], a patto di continuare ad intendere il ruolo dei Protocolli come motore propulsivo della cultura dei diritti fondamentali.
In questo contesto si inscrive la decisione del CSM, in itinere, alla quale ha fatto anche cenno il Presidente Curzio nella sua relazione (p.192), di diffondere a tutti i magistrati italiani i report che il Gruppo di attuazione del Protocollo d’intesa concluso fra Corte di Cassazione e Corte edu dedica alle novità giurisprudenziali della Cassazione e della Corte edu, unitamente ad altro materiale proveniente dalla Corte di Strasburgo[76].
10. L’interpretazione convenzionalmente orientata anche in assenza di precedenti della Corte edu. Il problema delle lacune e il volto operativo della Cassazione.
Un aspetto importante che va sottolineato per comprendere il ruolo della giurisdizione – di legittimità e di merito – nel processo di implementazione del diritto di matrice convenzionale può cogliersi esaminando la posizione del giudice costituzionale rivolta ad attenuare l’idea di un’operatività della CEDU che varrebbe solo in via mediata ed in presenza di plurimi e costanti precedenti della Corte edu.
In questa direzione si inscrive, con certezza, Corte cost. n. 109/2017 (§ 3.1) ove si è, fra l’altro, affermato: “...[n]ell’attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima”, ponendosi in linea con quanto affermato da Corte cost. n.68/2017.
Si tratta, a ben considerare, di posizioni che non si pongono in posizione distonica con la sentenza n.49/2015, ma che aiutano la Corte costituzionale a scrollarsi, almeno le critiche, a volte pesanti, che aveva suscitato la presa di posizione in tema di giurisprudenza consolidata[77].
La piena riconferma dei superiori principi da parte di Corte cost. n. 63/2019 rende ormai pienamente consolidato il principio in forza del quale l’interprete è tenuto ad applicare la CEDU anche in assenza di pronunzie della Corte edu.
Ne esce, così, confermata l’idea che è l’interprete, e per quel che ci riguarda il giudice comune, a dovere fare vivere (o morire, seguendo le indicazioni di Corte cost. n. 49/2015, in caso di mancanza di giurisprudenza consolidata) la CEDU all’interno dei casi posti al suo vaglio, in una prospettiva che guarda, a me pare in ogni caso, alla CEDU come strumento di innalzamento di tutela dei diritti fondamentali e di massimizzazione delle tutele le volte in cui la tutela apprestata a livello convenzionale è possibile inserendosi negli interstizi del sistema interno che non prenda espressamente posizione su una data questione[78].
Quando la Corte costituzionale riconosce che “...[n]ell’attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU…-Corte cost. n. 109/2017- essa dimostra, ancora una volta, quanto centrale sia il riferimento al canone ermeneutico nell’attività giudiziale. Concetti, questi ultimi, sui quali sono tornati di recente con parole nitide Francesco Viganò, Vittorio Manes e Raffaello Magi [79].
Affermazione, quest’ultima, che potrebbe tornare utile per rispondere alle critiche, spesso aspre, mosse contro la deriva che sarebbe rappresentata da un ricorso senza controllo al canone ermeneutico per superare la legge e porre, dunque, il giudice, fuori dal perimetro delle sue attribuzioni.
Del resto, anche recentemente la Corte costituzionale è tornata a parlare di interpretazione convenzionalmente orientata e lo ha fatto in ambito di misure di prevenzione, personali e patrimoniali, gestendo i “seguiti” prodotti dalla sentenza de Tommaso c. Italia della Grande Camera della Corte edu con le sentenze n.24 e 25 del 2019, sulle quali è possibile rinviare a riflessioni già in precedenza esposte[80].
Proprio le sentenze da ultimo ricordate della Corte costituzionale (nn.24 e 25 del 2019) attestano con espressioni terminologiche inequivoche l’attuale contesto storico, nel quale si parla ormai abitualmente di “confluenza della giurisprudenza” delle tre Corti (per descrivere il fenomeno ricordato al punto 8 del considerato in diritto della sent. n. 25/2019), di “confronto” fra la Corte di Cassazione e la sentenza de Tommaso – p. 11 sent. n. 25/2019 –, di rilettura del diritto interno aderente alla CEDU – ibidem –, di attività interpretativa idonea a determinare un grado di precisione sufficiente del precetto non penale. Linea che le Sezioni Unite penali avevano già pienamente e convintamente seguito – Cass., S.U., Paternò n. 40076/2017, Cass., S.U. (pen.), 22 febbraio 2018, n. 8770 –.
Nella medesima prospettiva l’ordinanza n. 117/2019 della Corte costituzionale non ha mancato di confermare l’esigenza di una leale cooperazione fra le giurisdizioni quando, chiamata a valutare la portata del principio nemo tenetur se detegere in ambito “coperto” dal diritto UE (abuso di informazioni riservate), ha mostrato di individuare i contenuti di tale “valore” sotto il profilo della Costituzione, della CEDU e della Carta UE, poi sollevando questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia proprio in relazione allo “spirito di leale cooperazione tra corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali – obiettivo questo di primaria importanza in materie oggetto di armonizzazione normativa” – cfr. p. 10 del cons. in diritto Corte cost.n.117/2019 –. Spirito che ha prodotto frutti fecondi, come è lo stesso estensore dell'ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale ad avere puntualmente individuato (Viganò, cit.)
Insomma, pronunzie, queste ultime, che confermano quanto oggi “il diritto non è fatto, ma viene fatto”[81] dalle Corti attraverso il caso esaminato, l’interpretazione del quadro normativo di riferimento, la motivazione della decisione[82] e la sua argomentazione.
L’interpretazione, dunque, ritorna a campeggiare nel discorso giuridico, con i toni spesso pugnaci con i quali i sostenitori della necessità di un suo contenimento si confrontano con quelli che vedono, invece, in essa il luogo di naturale composizione dei conflitti tra norme.
Ed è estremamente importante che la prospettiva segnata dalle sentenze della Corte costituzionale ora ricordate sia stata pienamente recepita proprio dal giudice di legittimità, che invece talvolta, anche nella sua articolazione più autorevole, mostra di non volerla apertamente riconoscere – cfr.Cass.S.U. pen., n. 6551/2012-.
È infatti interessante notare come, a titolo meramente esemplificativo, Cass. n. 2438/2018 ha offerto una lettura accorta del canone dell’interpretazione consolidata, recuperando la linea fondamentale dei principia espressi dalla Corte EDU in materia di ragionevole durata del processo e di effettività dei rimedi per poi applicarli a vicenda non espressamente esaminata dallo stesso giudice della Convenzione, senza che ciò abbia indotto il giudice di legittimità a ritenere il parametro convenzionale non operativo benché non interpretato dal suo giudice naturale con riferimento specifico alla questione esaminata dal giudice nazionale.
Tutto questo induce quasi naturalmente a ricostruire il sistema attraverso un lento, ma ineluttabile passaggio dalla centralità delle fonti alla centralità dell’interpretazione, che poi diventa realmente centralità delle interpretazioni, se si guarda alla naturale vocazione del giudice ad essere all’un tempo chiamato a rileggere i dati normativi in chiave costituzionale, convenzionale (sulla quale qui abbiamo discusso) e del diritto dell’Unione Europea, egli vestendo insieme, fuori da pianificazioni gerarchiche, questi ‘tre cappelli’ quando maneggia il caso posto alla sua attenzione[83].
Dunque un percorso ed un confronto che, nelle parole sapienti della giudice costituzionale Silvana Sciarra pronunziate ad un recente webinar sul ruolo del rinvio pregiudiziale[84]si deve percorrere sul piano deliberativo, del perseguimento di un obiettivo che persegue un'unità complessa ma tuttavia perseguita con parole comuni, piuttosto che con la logica poco appagante e che ha il respiro corto della prima e ultima parola[85]. Una via che occorre perseguire attraverso il canone, da utilizzare sempre e comunque, della trasparenza discorsiva, anche quando dovesse fare emergere una possibilità diversità di vedute.
Un interpretare, un inventare, un cercare per trovare, un reperire [86] (come pure afferma Cass., S.U., 25 gennaio 2017, n.1946), un ricercare (Cass., S.U., 12 dicembre 2012, n.22784), un individuare il significato della legge attraverso la confluenza della giurisprudenza e le puntualizzazioni giurisprudenziali – Corte cost. n. 25/2019 – che conducono, dunque, il giudice a trarre linfa dai principi[87], non più visti come ricavabili da norme particolari, ma nella loro dimensione elastica e potenziale, direttamente proveniente dal complesso e variegato sistema che va individuato attraverso operazioni ermeneutiche ben lontane dall’angusto piano dell’art.12 delle preleggi al codice civile[88].
Un quadro, quello appena descritto, che certo sembra difficilmente compatibile con quella giustizia predittiva che si affaccia all’orizzonte, proprio per alimentarsi di valori che trovano volta per volta, caso per caso, dimensione e protezione diversa a seconda dei casi che vengono all’esame del giudice[89]. Una giustizia che, dunque, sia ha difficoltà estrema a pensare che possa essere dispensata da un algoritmo.
Una visione, quest’ultima che, d’altra parte, costituisce la naturale proiezione di quanto andava dicendo Piero Calamandrei sessant’anni fa, quando ricordava che l’infinita ricchezza del casellario rappresentato dal sistema delle fonti scritte lascia spesso spazio al vuoto ed alla necessità di aggiungere una casella supplementare da parte del giudice attraverso l’interpretazione senza che ciò integri opera di creazione, essendo piuttosto “ricerca, nella legge generale e astratta, di qualche cosa che c’è già per volontà del legislatore, e che si tratta non di creare ex novo, ma di scoprire e riconoscere”[90].
11. Cass., S.U., 23 ottobre 2020, n.29541, Filardo. Un altro volto della Cassazione.
Ma la Corte di cassazione, si diceva all’inizio, ha vari volti.
Proprio rispetto al ruolo e alla rilevanza dell’interpretazione convenzionalmente orientata può essere utile richiamare una recente pronunzia delle Sezioni Unite penali.
Il giudice della nomofilachia, nella sua più autorevole composizione – Cass., S.U., 23 ottobre 2020, n.29541, Filardo – ha di recente affermato, pur non investito specificatamente della questione dal Primo Presidente, che la CEDU, al pari della Costituzione, avrebbe un ruolo assolutamente ridotto all’interno del giudizio di legittimità, poiché la presunta violazione del parametro convenzionale “…a sua volta proponibile in ricorso unicamente a sostegno di una questione di costituzionalità di una norma interna” dovrebbe fare i conti con il rango che la CEDU ha all’interno del sistema delle fonti, appunto meramente “integratrice del precetto di cui all’art.117, comma 1, Cost.”.
Da qui l’inammissibilità della censura che pone alla sua base la violazione del parametro convenzionale in assenza di una questione di legittimità costituzionale proposta.
Orbene, stando al ragionamento delle Sezioni Unite penali –che sul punto seguono un orientamento espresso dalla sezione seconda penale (Cass. pen. n. 12623/2020) – il rango sottordinato della CEDU alla Costituzione non potrebbe che consentire il ricorso al parametro convenzionale se ed in quanto funzionale ad una questione di costituzionalità che, non essendo stata prospettata dal ricorrente, rende la censura non esaminabile dal giudice di legittimità.
Quel che più colpisce rispetto alla netta presa di posizione delle Sezioni Unite è la totale pretermissione, all’interno del processo decisionale del giudice di nomofilachia, del piano interpretativo sul quale si colloca la CEDU e del quale si è detto nel precedente paragrafo.
Piano al quale, si è visto le Sezioni Unite penali, almeno nei precedenti sopra ricordati, sembravano essersi richiamati – Cass., S.U., Paternò n. 40076/2017, Cass., S.U. (pen.), 22 febbraio 2018, n. 8770 –.
Un piano, quello interpretativo, che alle sezioni unite penali Paternò era invece ineludibile, al punto da renderlo indispensabile al fine di evitare il vizio di costituzionalità di una disposizione incriminatrice e conseguentemente l’incidente di costituzionalità -cfr. p.9 sent.Paternò, cit.- ed al quale il decisore di turno, compreso quello di ultima istanza, non sembrava in alcun modo doversi e potersi sottrarsi tutte le volte in cui gli sia prospettato un vulnus della decisione giudiziale rispetto al parametro convenzionale.
Sicché in quel caso spetterebbe al giudice comune verificare se detto vulnus, ove ritenuto esistente, possa essere rimosso attraverso un’interpretazione del dato normativo interno coerente con il parametro convenzionale, senza dunque alcuna necessità di investire il giudice costituzionale e con l’ovvia ulteriore possibilità di considerare che l’incidente di costituzionalità potrà eventualmente essere sollevato dal giudice al quale è stata proposta la censura, ove egli dovesse ravvisare una radicale incompatibilità del dato normativo interno con la CEDU tale da richiedere necessariamente l’intervento del giudice costituzionale.
Le diverse coordinate invece espresse da Cass., S.U. n.29541/2020 segnano, così, un altro volto della Corte che ha peraltro il suo pendant in ampi settori della dottrina.
Dottrina che guarda con sfavore quella giurisdizione, tanto comune che – con rime variegate e a fisarmonica, come si avrà modo di spiegare nel prosieguo – costituzionale che si muoverebbe ben oltre la Costituzione al punto da risultare eversiva, in quanto destinata a scavalcare il parametro costituzionale dell’art. 101 Cost.[91] Si tratterebbe di un’operazione fortemente ideologica che troverebbe conferma in un certo numero di pronunzie dei giudici comuni, innaturalmente rivolte a modificare i rapporti tra legge e interpretazione[92], operando uno slittamento eversivo dal piano delle fonti a quello dei valori, addirittura prefigurando un’inesistente principio di massimizzazione delle tutele che non potrebbe appartenere ad un giudice terzo[93].
Sfavore, che ancora una volta, si indirizza soprattutto rispetto al peso ed il ruolo progressivamente assunto dal diritto di matrice sovranazionale e all’influenza, innaturale, che le giurisdizioni sovranazionali chiamate ad interpretare quello stesso diritto giocherebbero proprio sui giudici interni. Si tratterebbe di sistemi che mettono in discussione il primato della Costituzione e, in una parola, la sovranità dello Stato -sotto forma del principio del libero convincimento del giudice ( quando in gioco dovesse entrare il parere preventivo sollecitato alla Corte edu in forza del protocollo n.16 annesso alla CEDU, aggredito dalla forza sostanzialmente vincolante del parere reso in sede di richiesta consultiva dalle Alte Corti nazionali) –.
Dunque due volti di una stessa Corte, due diverse prospettive che convivono e che trovano composizione all’interno della Corte.
Non ci si nasconde gli effetti, a volte indesiderati, che queste diversità di indirizzi possono produrre, ma non può nemmeno sottacersi come le diversità all’interno di un organo giurisdizionale rappresentano ricchezza, dinamicità, garanzia di indipendenza ed espressione di quella prerogativa costituzionale (art.101, c.2 Cost.), che comunque deve indurre il giudicante a trovare, dopo il confronto dialettico, una composizione per perseguire il canone, parimenti fondamentale, della prevedibilità delle decisioni.
Si potrà certo sostenere, come molti autorevolmente fanno, che le oscillazioni cui la giurisprudenza nazionale è soggetta tra i vincoli discendenti dalla cooperazione coi giudici sovranazionali, considerato il dovere di fedeltà ai valori fondamentali del diritto interno possono alimentare contenzioso, incertezza ed imprevedibilità, rimettendo “nelle mani del singolo operatore di giustizia un potere enorme, di opzione tra l’obbedienza alle pronunzie delle Corti sovranazionali e la opposizione ad esse in nome dell’identità costituzionale”[94].
Il sistema fondato sull’interpretazione ed il dialogo fra le Corti favorirebbe così la frantumazione del precedente – anch'esso valore fondamentale del sistema – e farebbe da "anticamera" all’incertezza dei diritti alla quale, tuttavia, la stessa dottrina ha opportunamente affiancato il valore, parimenti essenziale per l'attuale contesto sociale, rappresentato dalla certezza dei diritti.
A tal proposito, sembra di particolare rilievo il rinvio ad una recente conversazione fra Luigi Salvato e Renato Rordorf su diritto legislativo e diritto giurisprudenziale[95] nella quale si misurano due esponenti di spicco della Corte di Cassazione.
Da quella lettura emerge come il secolare dissidio fra certezza del diritto ed effettività delle tutele può forse trovare rimedio solo considerando che l’alternativa secca favorevole ad un interprete che determini in modo fisso ed inemendabile il diritto del caso concreto imponendolo a chi debba decidere i casi omologhi senza possibilità di modificarne i postulati ed in nome di un canone di certezza e prevedibilità, oltre a non considerare la realtà dei tempi complessi che stiamo vivendo, non riesce a dare risposta appagante all’ipotesi in cui il “precedente” abbia prodotto una ingiustizia che solo l’accorto intervento di un altro interprete rispetto al caso concreto è in grado di emendare, come ha sapientemente evidenziato Rordorf.
Come che sia, le posizioni sicuramente diverse sui grandi temi che si agitano all’interno della Corte nel confronto Salvato-Rordorf, mostrano l'arte del giudicare, alimentata dal confronto, dal dialogo, dal ragionamento al punto che la sintesi delle due posizioni compone e rappresenta la Corte di Cassazione, con le sue accezioni e caratterizzazioni necessariamente variegate.
12. Alla ricerca di una mediazione fra i volti della Cassazione. Il principium cooperationis. Il coraggio nella consapevolezza del limite.
Non ci si nasconde, peraltro, che le conclusioni del paragrafo precedente possano apparire ammantate da una prospettiva troppo partigiana e sfuggente rispetto al conflitto che le posizioni ed i volti della Cassazione mostrano.
In effetti, il tema qui esaminato del ruolo del giudice rispetto all’interpretazione costituzionalmente, eurounitariamente convenzionalmente orientata e, più in generale, degli ambiti dell’interpretazione delle norme interne e sovranazionali, in relazione alla tutela multilivello disegna questioni nuove, tutt’altro che agevoli da dipanare e come si è visto, spesso divisive.
Come trovare un componimento fra queste prospettive avvertite come inconciliabili e dicotomiche?
Può forse dirsi che il giudice e il legislatore hanno entrambi l'obbligo di contribuire in modo solidale, nei contesti normativi e fattuali storicamente dati, alla salvaguardia dell'ordinamento nell'identità dei suoi principi fondamentali, vicendevolmente riconoscendosi come attori insostituibili al servizio dei diritti delle persone.
Per altro verso, non sembra nemmeno vero che in assenza dell'intervento del legislatore il giudice si dimostri infedele alla Repubblica allorché si mette al servizio delle domande di giustizia poste al suo vaglio, applicando al caso concreto il diritto, per come esso si sedimenta attraverso i principi-cardine della Costituzione e delle Carte dei diritti fondamentali[96].
Quest'obbligo di fedeltà, d'altra parte, non può non considerare la particolarità del ruolo attribuito al giudice comune - di legittimità e di merito - nel nostro sistema e il processo di progressivo cambiamento dei rapporti del giudice con la legge positiva nazionale.
Si tratta allora forse di sperimentare una prospettiva che trae le sue origini dalla Costituzione[97] e dal principium cooperationis, ispirato dall’esigenza di integrazione fra le Carte dei diritti già espresso da Corte cost.n.388/1989 e che si declina su diversi piani.
Essa, anzitutto, per dirla ancora con Antonio Ruggeri, suggerisce di considerare tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, comunque bisognosi di essere espressi al massimo rendimento possibile ad ogni livello istituzionale, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee[98].
Ne consegue che sia nel rapporto fra giudice di merito, giudice di legittimità e giudice costituzionale che in quello fra giudice nazionale e sovranazionale, la logica ispiratrice non potrà che essere quella della leale cooperazione, essa riuscendo a perseguire il miglior risultato possibile per le parti che sono davanti al giudice.
Questa sembra la prospettiva corretta per gestire la complessità che si è andata tratteggiando.
Occorre un giudice che, chiamato a far vivere le Carte dei diritti nazionali e sovranazionali, sia capace di essere sì coraggioso al punto che, per dirla con Antonio Ruggeri, “se privo del coraggio di mettersi in gioco anche – laddove necessario – esponendosi in prima persona farebbe bene a cambiare mestiere”. Ma un giudice che, al contempo, non può non avere una “mentalità ispirata al senso del limite e alla consapevolezza delle risorse di mente e di cuore di cui ciascuno operatore può e deve essere dotato e che vanno fino in fondo portate a frutto”. Il pensiero va quasi naturalmente all’ultimo Calamandrei, quando ricordava che “…nel sistema di legalità, la stessa legge offre al giudice i mezzi per non perderla mai di vista, per mantenersi sempre in contatto con essa, anche quando i tempi cambiano più velocemente delle leggi: l’interpretazione evolutiva, l’analogia, i principi generali, finestre aperte sul mondo, dalle quali, se il giudice sa affacciarsi a tempo, può entrare l’aria ossigenata della società che si rinnova”[99].
Un invito alla prudenza coraggiosa, si potrebbe dire, che va rivolto soprattutto quando si tocca il tema, centrale, dell’interpretazione.
In questa prospettiva il giudice, di legittimità come di merito, non può temere di essere contromaggioritario ma, invece, deve conoscere con professionalità gli strumenti che si trovano davanti al suo scrittoio.
Il giudice di Cassazione non deve quindi avere timore di essere accusato di atteggiamenti eversivi quando egli si muove nel rigoroso rispetto delle regole di ingaggio prevista dal sistema.
Tocca dunque impegnarsi in una continua ricerca, non in astratto ma in concreto, in vivo e non in vitro, del limite che i soggetti istituzionali coinvolti devono sapere cogliere per perseguire una prospettiva che senza retorica alcuna si muove nel verso della massimizzazione delle tutele alimentata, appunto, dal confronto, dalla conoscenza, dalla formazione degli operatori rispetto alle fonti costituzionali di matrice interna e sovranazionale, dalla intelligente e consapevole attenzione al perenne interscambio fra le Corti, capace di determinare, alla fine del confronto, un risultato che (quasi incredibilmente) attribuisce comunque notevole valore all’interpretazione fornita proprio dalle autorità interne che sono “di prossimità” rispetto alle spesso dolorose vicende della vita.
Il futuro, dunque, non è nello scontro, ma nell’incontro delle diversità.
Il giudice nazionale è in realtà il "sovrano" ed al tempo stesso il “servo” dei diritti, allo stesso spettando una straordinaria opera di costruzione di una trama nella quale gli interessi, i valori, qualunque sia la loro matrice, costituzionale, sovranazionale, eurounitaria, rappresentano i rocchetti che "il giudice operaio" cerca di armonizzare e fare girare tutti insieme.
Un giudice, quello attuale, dunque non mero lettore di un sistema di norme, ma ingranaggio essenziale del processo produttivo del diritto[100].
Resterà da valutare se la visione qui prospettata contrasti con la funzione nomofilattica fissata dalla Costituzione e con l’art.111 Cost. Ancora se essa sia frutto di una posizione “minoritaria” della dottrina costituzionalistica e proietti il giudice in modo innaturale verso una dimensione che non gli appartiene o non gli dovrebbe appartenere. E ancora se tutto ciò finisca altresì per fomentare lo scontro fra plessi giurisprudenziali, introducendo in dibattiti di matrice meramente interna elementi estranei, così in definitiva trasfigurando il ruolo stesso del giudice di legittimità.
A questi interrogativi, meritevoli di attenta analisi, non si può qui che rispondere con affermazioni che rischiano di apparire assertive, ma che lo spazio e la pazienza di chi legge questo già assai e troppo lungo scritto comunque suggeriscono.
Il richiamo al rispetto della Costituzione ed a quel patriottismo costituzionale sotteso alle critiche anzidette appare forse ingeneroso e non coglie, forse, l’essenza e l’esistenza, all’interno della Costituzione, di parametri che completano l’art.111 e che trovano negli artt.2, 11, 117 1^ c., Cost. altrettanti valori fondanti ed essenziali, tutti informati ad un controllo di garanzia e di protezione forte dei diritti fondamentali delle persone.
Il tratto armato che a volte si vorrebbe cogliere e stigmatizzare in alcune decisioni della Cassazione - ordinanza di rinvio alla Corte costituzione n.8325/2020 in tema di maternità surrogata, rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia nell'ordinanza delle S.U. n.19598/2020 di cui si è già ampiamente detto in precedenza - non persuade.
In entrambe le vicende la Cassazione non sembra affatto avere utilizzato in maniera disinvolta alcuni strumenti pur normativamente previsti – questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale, rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia – essendosi anzi mossa nel pieno rispetto delle prerogative riservate al giudice di ultima istanza.
Nel caso esaminato da Cass.n.8325/2020 la Corte non ha inteso disattendere la decisione delle Sezioni Unite, ma ha al contrario dubitato della compatibilità dell'orientamento espresso da quell'organo con i parametri costituzionali integrati dalla CEDU, evocando il parere della Grande Camera dei diritti dell'uomo reso il 9 aprile 2019[101] che ha piena valenza giuridica al pari delle altre pronunzie della Corte edu, come già affermato dalla Corte costituzionale (Cort. cost.n.230/2020) e dalla stessa giurisprudenza della Corte edu che richiama i pareri come suoi precedenti (Corte edu, 16 luglio 2020, D. c. Francia, ric.n.11288/18).
Cass.S.U. n.19598/2020, per converso, ha chiesto - fra l'altro - alla Corte di Giustizia l'interpretazione di un parametro contenuto nella Carta UE dei diritti fondamentali al fine di verificare la tenuta di un orientamento delle stesse Sezioni Unite, ancora una volta muovendosi nel rigoroso rispetto dell'art.111 Cost. che affida alle Sezioni Unite e non alla Corte costituzionale il compito di regolare i plessi giurisdizionali, senza invadere o scavalcare alcun organo costituzionale ma al contrario, richiamando i precedenti della Corte di giustizia che affermano principi magari non digeriti da qualcuno ma pur sempre diritto vigente e vivente e dunque "dialogando" con quel giudice e sollecitandone l'interpretazione di parametri UE.
Tanto vale la pena di precisare, al di là del merito delle questioni sull'eccesso di potere giurisdizionale e sulla maternità surrogata, rispetto alle quali qui non si intende in alcun modo entrare. E ciò non già per giustificare o assecondare un procedere per così dire "deragliato" della Cassazione, ma soltanto per sottolineare che anche i due provvedimenti della Cassazione indicati come casi paradigmatici di un incedere fuori binario, visti in diversa prospettiva, sembrano allineati nella prospettiva del dialogo costruttivo, coraggioso e comprensivo dei limiti al quale qui si è accennato. Decisioni, peraltro, queste ultime che, al pari di quelle di qualunque altro provvedimento giurisdizionale, si misurano sulla motivazione che esse utilizzano, sulla plausibilità e persuasività delle argomentazioni utilizzate che, appunto, si proiettano in quella comunità interpretativa dei giuristi che ne verificherà poi la correttezza e solidità. Il che è accaduto anche in relazione alle due vicende che, ancora una volta, hanno suscitato reazioni e riflessioni divaricate, a volte favorevoli, a volte aspramente contrarie. Verrebbe da dire, ancora una volta, nihil sub sole novi.
In definitiva che il ragionamento qui esposto e alcune delle linee di tendenza accennate a proposito del ruolo nomofilattico della Cassazione siano in linea non già con la maggioranza della dottrina, ma con posizioni ritenute minoritarie forse non tengono nel dovuto conto alcune non secondarie considerazioni di ordine valoriale sulle scelte adottate, in ogni caso trascurando l'essenza dell'essere giudice soggetto soltanto alla legge, il quale non misura il suo incedere e le sue decisioni sulle linee delle occasionali maggioranze – politiche o accademiche che siano –, quanto sui valori della Costituzione integrati fra loro con i sistemi dotati di piena efficacia normativa per come esso li interpreta secondo la sua responsabilità.
*In allegato:1) Quadro sinottico di alcune pronunzie adottate dalle SU civili e dalle sezioni semplici della Corte di Cassazione in tema di bilanciamento, proporzionalità e cooperazione fra le Corti nazionali e sovranazionali e valore del parere non vincolante reso dalla Corte edu in forza del Protocollo n.16 annesso alla CEDU); 2) R. G. Conti, Diritto all’anonimato versus diritto alla conoscenza delle origini dell’adottato. Il punto di vista della Corte edu, in AA, Fattore tempo e diritti fondamentali. Corte di cassazione e CEDU a confronto, IPZS, 2017.
[1] E.Carbone, Quattro tesi sulla nomofilachia, in Pol.dir., 2004, 599 ss.
[2] M.Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991, 13; G.Silvestri, Le Corti supreme negli ordinamenti costituzionali contemporanei, in AA.VV., Le Corti supreme, Atti conv. Perugia, 5-6 maggio 2000, Milano, 2001, 36 ss. ed in particolare, 39:"...Le tradizionali Corti supreme si sono spostate sempre più a ridosso degli organi giudiziari diffusi sul territorio e svolgono funzioni sempre più lontane dalla nomofilachia proiettata al futuro, per assumere le sembianze di controllori specifici della giusta definizione del caso, garanti in ultima istanza della legalità che serve all'immediata tutela dei diritti del cittadino."
[3] P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari-Roma 2017, 82 e 115. Lo stesso P. Grossi, in Prefazione a Il mestiere del giudice, a cura di R. G. Conti, Padova, 2020, XVI, chiarisce in modo autentico il concetto di invenzione che Egli stesso ha canonizzato, precisando che nel parlare di ruolo inventivo, "...si fa esclusivo riferimento alla inventio dei latini consistente appunto in un 'cercare per trovare'".
[4] V. Corte Giust. 5 ottobre 2010, causa C–173/09, Elchinov V. altresì, Corte giust. 15 gennaio 2013, causa C–416/10, Križan, ove si è addirittura ritenuto che il giudice del rinvio al quale sia stato rimessa dal giudice di ultima istanza la decisione sulla base di un principio di diritto confliggente con il diritto UE, non è vincolato a detto principio, ma è a sua volta legittimato a prospettare un nuovo rinvio pregiudiziale per avere l’interpretazione del diritto UE sul quale esistono seri dubbi.
[5] In questa direzione può ricordarsi Corte giust., 24 giugno 2019, C-573/17, Poplawsky, ove la Corte ha già dichiarato che l’obbligo di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto interno incompatibile con gli scopi di una decisione quadro, e di disapplicare, di propria iniziativa, qualsiasi interpretazione accolta da un organo giurisdizionale superiore alla quale essi siano vincolati, ai sensi di tale disposizione nazionale, se detta interpretazione non è compatibile con la decisione quadro di cui trattasi (v., in tal senso, sentenze del 19 aprile 2016, DI, C‑441/14, EU:C:2016:278, punto 33, nonché del 29 giugno 2017, Popławski, C‑579/15, EU:C:2017:503, punti 35 e 36). Pertanto, un giudice nazionale non può, in particolare, validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto (sentenze dell’8 novembre 2016, Ognyanov, C‑554/14, EU:C:2016:835, punto 69, e del 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, C‑684/16, EU:C:2018:874, punto 60)
[6] Cfr. R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in http://www.giurcost.org/studi/conti5.pdf.
[7] V., sulla centralità del dialogo per il giudice federale americano, ma in una prospettiva che non è molto diversa da quella del giudice di ultima istanza nazionale, G. Calabresi, Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano, Bologna 2014, 66 e ss. Anche l’ordinanza n.207/2018 della Corte costituzionale, sulla vicenda “Cappato” è sintomatica di quanto le Corti superiori tendano quasi naturalmente a favorire soluzioni che presuppongono un dialogo con il legislatore o le altre Corti. Dialogo cercato addirittura forzando prassi secolari ed attingendo ad esperienze oltre oceaniche pur se proprie di sistemi giuridici che la tradizione giuridica colloca in ambiti diversi da quelli nostrani.
[8] Sui rapporti fra Sezioni semplici e S.U. penali v., di recente, G. De Amicis, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra Sezioni semplici e Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione , Relazione tenuta all’incontro di studio organizzato dalla Struttura della formazione decentrata presso la Corte di Cassazione il 30 novembre 2018.
[9] V., volendo, R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, Relazione al Convegno sul tema "Le questioni ancora aperte nei rapporti tra le Corti Supreme Nazionali e le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo" – 23 e 29 ottobre 2014–, organizzato presso la Corte di Cassazione dalla Strutture territoriali di formazione decentrata della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Roma, in www.cortedicassazione.it.; Id., La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in www.questionegiustizia.com.; A. Barone, The european « nomofilachia » network, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., fasc.2, 2013, pag. 351.
[10] Sui tratti, a volte accidentati, di questo cammino della Corte di Cassazione v. A. Cosentino, Il dialogo fra le Corti e le sorti (sembra non magnifiche, né progressive) dell’integrazione europea; in www.questionegiustizia.com.
[11] Oltre ai numerosissimi commenti alla sentenza ricordata nel testo, in calce alla pubblicazione della stessa su Consultaonline, v., A. Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Milano 2017, 195.
[12] V., di recente, in termini assai favorevoli sulla scelta di C. Cost.n.49/2015 E. Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in La Corte costituzionale del XXI secolo, in Questionegiustizia, n.4/2020, 93 ss. Per un risalente commento v. volendo, R. Conti, La CEDU assediata?(osservazioni a Corte cost. sent. n. 49/2015), in Consultaonline, 26 marzo 2015.
[13] A. Ruggeri, I rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e l’oscillazione del pendolo, in Consultaonline, f.1/2019, 25 marzo 2019.
[14] V., volendo sul tema, R. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e il legislatore, in La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, a cura di F. Fiorentin e D. Galliani, Torino 2019, 599.
[15] D. Galliani, È più facile perdonare un nemico che un amico" La Corte europea dei diritti dell'uomo, la giusta giustizia, la giurisprudenza consolidata, l'ordinamento italiano, in P. Pinto de Albouquerque, I diritti umani in una prospettiva europea, opinioni concorrenti e dissenzienti, a cura di D. Galliani, Torino, 2016, 5
[16] V., sul punto l’assai interessante riflessione alla sentenza delle S.U. penali citata nel testo di F. Gianfilippi, Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale, in Giustiziainsieme, 2 marzo 2021.
[17] M. S. Mori, I “Fratelli minori” di Contrada e le possibili conseguenze nei rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo: note a margine di SS.UU. n. 8544 24.10.2019 – 3.3.2020, Genco, in Giustiziainsieme,12 giugno 2020.
[18] V. sul tema, volendo, R. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e il legislatore, in La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, a cura di F. Fiorentin, Torino, 2019, 628 ss
[19] Sui tormentati rapporti fra giudice e legislatore v., per tutti, R. Rordorf, Giudizio di cassazione. Nomofilachia e motivazione, in Libro dell’anno del diritto 2012, spec. par.2.1, in www.treccani.it. e in più scritti, A. Ruggeri, «Non gli è lecito separarmi da ciò che è mio»: riflessioni sulla maternità surrogata alla luce della rivendicazione di Antigone, in “itinerari” di una ricerca, sul sistema delle fonti, XXI, Torino 2018, 101 ss. V., ancora, R. Conti, Leggendo l’ultimo Lipari, in www.questionegiustizia.co.
[20] V. Sciarabba, Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, Roma 2019, pag. 169.
[21] A. Ruggeri, Il primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale: lo scarto tra il modello e l’esperienza e la ricerca dei modi della loro possibile ricomposizione, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, XX, Torino, 8 ss.; id., Disordine del sistema delle fonti, crisi della legge e ruolo del giudice (tornando a riconsiderare talune correnti categorie teoriche alla luce delle più salienti esperienze della normazione e dei più recenti sviluppi istituzionali), in Consultaonline, 9 novembre 2020, 613; F. Viganò, Cedu e cultura giuridica italiana, 13) Conversando con i penalisti su Cedu e dintorni, Intervista di R. Conti e V. Militello a R. Magi, V. Manes e F. Viganò, in Giustizia insieme, 8 febbraio 2021. Sul tema, sia consentito il rinvio a R. Conti, CEDU e Carta UE dei diritti fondamentali, tra contenuti affini e ambiti di applicazione divergenti, Relazione svolta al corso di formazione organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura sul tema “ I diritti fondamentali alla luce della Costituzione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e della giurisprudenza delle Corti” nei giorni 7 e 8 settembre 2020, in Consultaonline, fasc.3/2020.
[22] M. G. Luccioli, I miei cinquant’anni in magistratura, Udine, 2016,139.
[23] Cfr., volendo, R. Conti, CEDU e Carta UE dei diritti fondamentali, tra contenuti affini e ambiti di applicazione divergenti, Relazione svolta all’incontro di studio organizzato dalla SSM sul tema I diritti fondamentali alla luce della Costituzione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e della giurisprudenza delle Corti, in Consultaonline, 2 novembre 2020.
[24] G. Silvestri, Le Corti supreme negli ordinamenti costituzionali contemporanei, in AA.VV., Le Corti supreme, Atti conv.Perugia 5-6 maggio 2000, Milano, 2001,45
[25] Per un’analisi approfondita del ruolo del giudice di legittimità, v. A. Valitutti, Il valore vincolante del precedente di legittimità. La Corte di Cassazione tra nomofilachia e nomopoietica, in http://www.lanuovaproceduracivile.com/valitutti-il-valore-vincolante-del-precedente-di-legittimita-la-corte-di-cassazione-tra-nomofilachia-e-nomopoietica/; F. De Stefano, Giudice e precedente. Per una nomofilachia sostenibile, in Giustiziainsieme, 3 marzo 2021; A. Scarpa, Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti, in Giustiziainsieme, 23 febbraio 2021.
[26] La Corte di Cassazione è stata la seconda in Europa a stilare un protocollo di dialogo con la Corte edu che si è rivelato assai fruttuoso, coinvolgendo tutte le sezioni, civili e penali, all’interno del Gruppo di attuazione appositamente creato per favorire sia la diffusione della giurisprudenza sovranazionale, che la conoscenza delle tecniche di decisione della Corte edu e delle pronunzie interne che alla stessa fanno riferimento. V., sul punto, A. Di Stasi, Corte di Cassazione e Corti europee, in I processi civili in Cassazione, a cura di A. Didone e F. De Santis, Milano 2018, 248 ss.
[27] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 184.
[28] P. Grossi, Il diritto civile italiano alle soglie del terzo millennio(una pos–fazione), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2010, 473; id., Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, Napoli, 2007, p.73.
[29] E che sul tema vi siano diversità di vedute marcate anche nel mondo giudiziario pare dimostrato dall’esistenza di voci fortemente dissonanti sui temi qui in discussione. V., ad es., G. Cricenti, I giudici e la bioetica. Casi e questioni, 16 ss. che si colloca lontano dal principialismo, come anche L. Cavallaro, La memoria e il desiderio, in www.questionegiustizia.it. e, dello stesso Autore, Il diritto civile tra legge e giudizio. Note in margine a un libro di Nicolò Lipari, in www.giustiziaonline.com, 30 aprile 2018. Invece, favorevoli ad una visione più aperta del diritto mediante operazioni di bilanciamento che coinvolgono i diritti fondamentali e della loro influenza sul processo di interpretazione E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in www.questionegiustizia.com.
[30] V, sul punto, Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità, Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro, cit.in Giustiziainsieme, 24 febbraio 2021.
[31] D. Galliani, I criceti e la ruota che gira. Il senso costituzionale dell’obbligo di motivazione, in Scritti per Roberto Bin,Torino, 2019, 684 ss.
[32] V. G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Contratto e impresa, 2/2017. Sul tema v., altresì, R. Rordorf, A cosa serve la Corte di cassazione, in Magistratura giustizia società, Bari, 2020,329; E. Lupo, La funzione nomofilattica della Corte di cassazione e l'indipendenza funzionale del giudice, in Cass. pen. 2020, 991.
[33] G.Vettori, Effettività fra legge e diritto, Milano, 2020,79 ss.
[34] G. Cataldi, Ruolo e funzione della Corte di Cassazione: il punto di vista del giudice d’appello, in www.questionegiustizia.com, f.n.3/2017.
[35] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., 103.
[36] L. de Ruggiero, Cosa si aspettano i giudici di merito dalla Cassazione: i “precedenti” e il controllo della motivazione, in www.questionegiustizia.com, f.n.3/2017.
[37] B. Rizzardi, Il giudice di merito e la Corte di cassazione: alla ricerca della nomofilachia perduta, in www.questionegiustizia.com., f.n.3/2017.
[38] Sulla solitudine del giudice di merito in relazione a materie sensibili insiste, opportunamente, M. G. Luccioli, I miei cinquant’anni in magistratura, cit., 67.
[39] Generalmente ci si troverà di fronte a diritti comprimibili, talaltra a diritti assoluti, rispetto ai quali si sfruttano tecniche interpretative dietro alle quali si celano, ancora una volta, operazioni di bilanciamento: cfr. A. Tancredi, La tutela dei diritti fondamentali “assoluti” in Europa: “It’s all balacing”, in Ragion pratica, 2007, 383 ss.; id., L’emersione dei diritti fondamentali “assoluti” nella giurisprudenza comunitaria, cit., 692. Sul tema del bilanciamento v. R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino, 1996, 142 ss.; A. Cerri, Il “principio” come fattore di orientamento interpretativo e come valore “privilegiato”:spunti ed ipotesi per una distinzione, in Giur.cost., 1987,1860 ss.; D. U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano,1998, 11 ss.
[40] G. Amato, Corte costituzionale e Corti europee, Fra diversità nazionali e visione comune, Bologna, 2015, 86.
[41] V., in modo molto incisivo R. Rordorf, nell’Intervista di R. Conti allo stesso Rordorf ed a E. Lupo, G. Canzio e G. Luccioli, Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in Giustiziainsieme, 19 giugno 2019: “…i diritti fondamentali si traducono spesso non tanto in regole quanto in principi. Secondo la nota distinzione proposta da Dworkin, le regole sono applicabili “nella forma del tutto-o-niente”: se si danno i fatti stabiliti da una regola, allora o la regola è valida, e in tal caso si deve accettare la risposta che essa fornisce, oppure la regola è invalida, ed allora non influisce sulla decisione; i principi, invece, esprimono i valori supremi dell’ordinamento di una comunità e la loro applicazione può richiedere ponderazione e bilanciamento (eventualmente imponendo la disapplicazione di regole incompatibili con essi), onde può accadere che un principio, in determinate circostanze o in particolari contesti, prevalga su un altro o viceversa, oppure che possa essere applicato in maniera più o meno ampia. Ed è proprio in questo aspetto che mi pare sia dato cogliere una significativa evoluzione del modus operandi del giudice di legittimità, posto a confronto con i diritti fondamentali: cioè nel sempre più frequente ricorso a criteri di bilanciamento e ponderazione ed, al contempo, nella sempre maggiore propensione ad interpretare le regole del diritto positivo in modo costituzionalmente orientato (o orientato in conformità ai dettami del diritto europeo e della Convenzione dei diritti umani), ossia adeguando di volta in volta il dettato normativo a principi fondamentali – quali l’uguaglianza, la solidarietà, la dignità, la buona fede, ecc. – che, per la loro valenza generale, sono suscettibili di una vasta gamma di modulazioni.” Sulla centralità del bilanciamento v., nella stessa intervista, cit., le considerazioni di G. Luccioli.
[42] Cfr. anche V. Zagrebelsky, La prevista adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in www.europeanrights.eu: “…E in ogni caso mi pare si debba considerare che in un sistema di diritti dell’uomo come quello europeo, sofisticato e ricco di diritti riconosciuti, il conflitto giurisprudenziale può facilmente sorgere quando più diritti si pongano in contrasto o concorrenza, senza che l’uno possa essere completamente sacrificato all’altro e con la necessità quindi di procedere a valutazioni di bilanciamento e proporzione.”
[43] V. sul punto, S.Sciarra, La Corte e il lavoro, podcast di Silvana Sciarra, 9 ottobre 2020, in www.treccani.it . V. anche, S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali, in www.giurcost.it, sub par. 10.
[44] Cfr.S. U. 25 ottobre 2010 n. 21799, in tema di ricongiungimento familiare - art.31 t.u. espulsione -.
[45] A tal proposito possono ricordarsi le sentenze Schidberger –12 giugno 2003, causa C-112/00, Racc., p. I-5659- e Omega - Corte giust. 14 ottobre 2004, causa C-36/02, ivi, Racc., I-9609-. Ora, Corte giust. (Grande Sezione) 29 gennaio 2008, causa C‑275/06, Productores de Música de España (Promusicae).
[46] V. Corte dir. uomo, 10 gennaio 2008, Kears c. Francia, in www.echr.coe.int.
[47] Corte dir. uomo, 31 maggio 2007, Bistrovic c. Croatia, § 3.
[48] Basti, sul punto, ricordare, a titolo di esempio, la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 20 maggio 2003, Rechnungshof, nella quale il giudice europeo, dovendo risolvere il conflitto fra un diritto sancito a livello comunitario ed un diritto costituzionalmente garantito, ha rimesso al giudice la valutazione sulla proporzionalità della misura limitativa a carico del diritto dell’Unione, in tal modo riconducendo all’autorità remittente il compito di operare il bilanciamento necessario tra i diritti.
[49] A. Ruggeri, Composizione delle norme in sistema e ruolo dei giudici a garanzia dei diritti fondamentali e nella costruzione di un ordinamento “intercostituzionale”, in Federalismi, n.10/2009.
[50] A. Ruggeri, Dimensione europea della tutela dei diritti fondamentali e tecniche interpretative, cit.; idem, Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, XIII, Studi dell'anno 2009, Torino, 2010, 480. Sul valore dei diritti fondamentali in dimensione multilivello v. P. Gianniti e C. Sartea, “Diritti umani e sistemi di protezione sovranazionali”, Roma, 2019 e L. Salvato, Diritti umani e sistemi di protezione sovranazionali: considerazioni a margine di un recente volume di Pasquale Gianniti e Claudio Sartea, in Giustiziainsieme, 22 novembre 2019.
[51] Cass., n.18279/2010; Cass., S.U., 9 dicembre 2015, n.24822; Cass. n.3831/2018; Cass., S.U., 21 dicembre 2018 n.33208; Cass., S.U., 12 giugno 2019, n. 15750; Cass., S.U., 23 luglio 2019 19888; Cass., S.U., 26 luglio 2019, n.20404; Cass. n. 19618/2020; Cass.n. 29469/2020; Cass. n. 28887/2020; Cass. n. 9147/2020; Cass. n. 8325/2020; Cass. n. 4791/2020.
[52] V., sul tema, l'attenta ricostruzione dei prodromi alla sentenza n.269/2019 e dei seguiti AA.VV., Granital revisited? L'integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, a cura di C. Caruso, F. Medico, A. Morrone, Bologna, 2020; D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bologna, 2020, 184 ss.. Ancora per l'esame di importanti contributi in materia, assai utile il rinvio a La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Efficacia ed effettività, (a cura di) O. Pollicino e V. Piccone, Napoli, 2018. V., ancora, A Cosentino, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee, in Questione giustizia,6 febbraio 2020; L. S. Rossi, La sentenza 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter 'creativi' (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell'Unione europea, in Federalismi, 31 gennaio 2018; V. Piccone, Primato e pregiudizialità: il ruolo dell’interpretazione conforme, in F. Ferraro, C. Iannone, Il rinvio pregiudiziale,Torino, 2020, 325.
[53] Sul tema ripetutamente trattato in dottrina, ci si astiene dal riportare analiticamente i numerosi contributi di molti autorevoli studiosi, già potendosi rinviare ai richiami contenuti nelle opere indicate alla nota precedente.
[54] B. Nascimbene - P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 24 novembre 2019; P. Baratta, È censurabile per Cassazione la violazione del diritto sovranazionale imputabile al giudice amministrativo?, in www.apertacontrada.it; S. Barbareschi, L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione «fuori contesto»: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Federalismi.it, 2020; R.Bin, È scoppiata la terza “guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi.it, 2020; M. A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustiziainsieme, 30 novembre 2020; G. Costantino, A. Carratta, G. Ruffini, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione giustizia, 2020; F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustiziainsieme, 2020; G. Greco, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 7 ottobre 2019; B. De Santis, Considerazioni di prima lettura sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia di Cass. S.U. n. 19598/2020, in wwwjudicium.it 12 ottobre 2020.
[55] R. Conti, L’uso fatto della Carta dei diritti dell’Unione da parte della Corte di Cassazione, in Consultaonline, 26 gennaio 2016.
[56] V., del resto, i contenuti dell’Intervista di R. Conti a A. Ruggeri e R. Bin Giudice o giudici nell’Italia postmoderna?, cit.
[57] Così R. Mastroianni, La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?, in Intervista di R. Conti a B. Nascimbene, P. Mori e R. Mastroianni, in Giustizia insieme, 26 aprile 2019. Sul tema, oltre alle riflessione profonde degli altri due intervistati, v., anche La Carta UE in condominio fra Corte costituzionale e giudici comuni. Conflitto armato, coabitazione forzosa o armonico ménage? Intervista di R. Conti a L. Trucco, G. Martinico e V. Sciarabba, in Giustizia insieme, 8 maggio 2019.
[58] V.M. Cartabia, Considerazioni sulla posizione del giudice comune di fronte a casi di “doppia pregiudizialità”, comunitaria e costituzionale, in Foro it., 1997, 222 ss.
[59] Cfr. da ultimo, A. Ruggeri, Il giudice e la 'doppia pregiudizialità': istruzioni per l'uso, in Federalismi, 24.2.2021. In precedenza, La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? Intervista di R. Conti a P. Mori, B. Nascimbene e R. Mastroianni, 27 aprile 2019.
[60] Lamarque, op. cit., 96.
[61] Pur una raffinata analisi del concetto proteiforme di sovranità v., di recente, E. Cannizzaro, La sovranità oltre lo stato, Bologna, 2020 e, a margine, Ragionando sulla (recte, sulle) sovranità, Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro, cit.
[62] Prospettiva, quest’ultima, assai cara a R. Bin, L’interpretazione conforme. Due o tre cose che so di lei, in www.rivistaAIC.it, fasc. n. 1/2015, pp. 2
[63] V., volendo, R. Conti, An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è ‘in gioco’ la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, in Giudice donna (www.giudicedonna.it), 4/2017; id., Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustizia insieme, 4 marzo 2019; id., Il rinvio pregiudiziale visto da un giudice nazionale. Le virtù di uno strumento da proteggere e applicare correttamente, Relazione tenuta al corso organizzato dalla Scuola superiore della magistratura in favore dei Mot nei giorni 12 e 13 gennaio 2021, in corso di pubblicazione su www.giudicedonna.it. Si sono espressi nello stesso senso C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune,Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osser. Sulle fonti, f.2/2019, 25 ss..; G. Martinico, Conflitti interpretativi e concorrenza fra corti nel diritto costituzionale europeo, in Dir. soc., 4/2019, 691 ss., spec. 702 ss.; I. Massa Pinto, Il giudizio d’incostituzionalità delle leggi in caso di doppio parametro (interno ed europeo): il conflitto sulle regole d’ingaggio, in Riv. Gruppo di Pisa, 1/2020, 8 gennaio 2020, 77 e nt. 41.
[64] V., volendo, sulla storia del Protocollo di attuazione fra Cassazione e Corte edu, R. Conti, La Corte di Cassazione italiana e il ruolo svolto da Guido Raimondi nel dialogo con la Corte EDU, in Liber Amicorum Guido Raimondi-Intersecting Views on National and International Human Rights Protection, p. 173 ss.
[65] Da ultimo, v. G. Canzio, L’applicazione della Carta dei diritti fondamentali e il dialogo tra le parti, in Europa Umana, Scritti in onore di P.Pinto de Albouquerque, a cura di D. Galliani e E. Santoro, Pisa, 2020, 147; id., Gianni Canzio in Magistratura, Intervista di ER. Conti e G. Liberati, in Giustizia insieme, 14 settembre 2020.
[66] V.Intervista di R.Conti a R.Rordorf, G. Luccioli, E. Lupo e G. Canzio sul tema “Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in Giustizia insieme, 19 giugno 2019.
[67] Nella stessa occasione Rordorf ebbe ad aggiungere che “…la strada dei protocolli d’intesa, percorsa ormai in diverse direzioni per migliorare l’interazione tra diversi soggetti ed istituzioni operanti nel mondo della giurisdizione, è suscettibile di ulteriori e più ampi sviluppi nel rapporto tra Corte di cassazione e Corti sovranazionali europee. È una strada lungo la quale mi sembra doveroso incamminarsi per cercare di sviluppare una visione più dialettica e meno autoritaria della funzione giurisdizionale: la sola che, in un’ottica di auspicabile ulteriore superamento delle tradizionali barriere nazionali, può davvero garantire una tutela diffusa ed omogenea dei diritti fondamentali, ma rappresenta una risorsa da implementare ed alimentare sulla strada, sempre accidentata ma obbligata, dei diritti fondamentali.”
[68] P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, 29 gennaio 2021, in Cortedicassazione.it
[69] Su un esempio tangibile di dialogo concreto svolto fra le due Corti v., R. Conti, Diritto all’anonimato versus diritto alla conoscenza delle origini dell’adottato, in Fattore tempo e diritti fondamentali, Corte di Cassazione e Cedu a confronto, IPZS, 2017, 75, qui allegato, in cui si dà atto delle interlocuzioni fra le due Corti svolte sul tema del diritto alla conoscenza delle proprie origini, delle quali vi sono tracce nella successiva Cass., S.U., n.1946/2017.
[70] Il dibattito lanciato da Giustizia Insieme sulla mancata ratifica del Protocollo n.16 con l'editoriale L'estremo saluto al Protocollo 16 annesso alla CEDU, è stato animato dai contributi dottrinari di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare – e Bruno Nascimbene – La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto –. V., volendo, R. Conti, Chi ha paura del Protocollo n.16 -e perché?–in Sistema penale, 28 dicembre 2019.
[71] M. Recalcati, La Torre di Babele simbolo eterno dell'antipolitica, La Repubblica, 12 giugno 2016 e, più di recente, id., Il gesto di Caino, Lezioni magistrali, Carpi, 13 settembre 2019, https://www.youtube.com/watch?v=RkPohFGLvO0&feature=youtu.be&fbclid=IwAR1ywJmYgJZVhHdR49ybnEHjdzs4tIyFbgjnks6OQzKuuoCo1TQ047 k5Ic&app=desktop.
[72] A. Ruggeri, Ragionando sui possibili sviluppi dei rapporti tra le Corti europee e i giudici nazionali (con specifico riguardo all’adesione dell’Unione alla CEDU e all’entrata in vigore del prot. 16), in www.diritticomparati.it, 3 febbraio 2014, e in www.rivistaaic.it, 1/2014 (7 febbraio 2014).
[73] A. Falzea, Complessità giuridica, in AA.VV., Oltre il «positivismo giuridico ». In onore di Angelo Falzea, a cura di P. Sirena, Napoli, 2012, 3 ss.
[74] In Corte cost.n.49/2015 si chiarì, infatti, che “…È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.”
[75] R. Conti, Il Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Questionegiustizia, 29 gennaio 2019.
[76] La prospettiva di “aprire” all’intera platea della giurisdiizone l’esperienza di dialogo della Corte di Cassazione con la Corte edu muove dalle audizioni disposte dalla Nona Commissione del CSM a partire dal 10 aprile 2019 con il coordinatore del gruppo di attuazione del Protocollo della Cassazione, il punto di contatto della Corte edu ed a seguire del focal point con la Corte edu della Cassazione e dei referenti delle Alte Corti nazionali.
[77] Ciò si coglie in altri precedenti della Corte costituzionale, allorché quello stesso giudice ha ritenuto di potersi spingere sul terreno della verifica di convenzionalità di una norma interna anche in assenza di precedenti specifici del giudice europeo – cfr. Corte cost.n.276/2016 che, con riguardo al tema del diritto di elettorato passivo e alla protezione riconosciuta ad esso dalla Convenzione ed in assenza di precedenti specifici della Corte EDU relativi a normative che facciano derivare da condanne penali la perdita dei requisiti di candidabilità e di mantenimento della carica, si è spinta ad individuare in autonomia la linea di tutela offerta a livello convenzionale per valutare la compatibilità con l’art. 117, primo comma, Cost. della normativa oggetto del giudizio –.
[78] V., ancora, C. V. Giabardo, Per la chiarezza di idee in tema di creazione giudiziale di diritto e ruolo della giurisprudenza nel tempo presente (Riflessioni al confine tra filosofia del diritto, diritto comparato e diritto processuale civile), in Giustiziainsieme, 4 settembre 2020, sub par.5.1.
[79] R. Magi, V. Manes e F. Viganò, Conversando con i penalisti su CEDU e dintorni, Intervista a cura di V. Militello e R. Conti, in Giustizia insieme, 8 febbraio 2021.
[80] V., R. Conti, Ruggeri, i giudici comuni e l’interpretazione, cit.
[81] N. Lipari, Diritto civile e ragione, Milano 2019, 74.
[82] Sul ruolo centrate della motivazione delle decisioni ritorna, N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit., 66.
[83] Estremamente raffinata, di recente, l’analisi sul tema delle interpretazioni conformi di V. Sciarabba, Spunti di riflessione in tema di “interpretazione conforme”, in Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, Roma, 2019.
[84] Webinar organizzato dall’Università degli Studi di Napoli il 22 gennaio 2021 sul tema Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: attualità e prospettive, in occasione della presentazione del libro curato da F. Ferraro e C. Iannone su Il rinvio pregiudiziale, Giappichelli, Torino 2020.
[85] S. Sciarra, Lenti bifocali e parole comuni: antidoti all’accentramento nel giudizio di costituzionalità, in Federalismi, 3/2012, 41.
[86] Su tale espressione insiste particolarmente il già citato P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari-Roma, 2017, 115 e 127, specificamente ricordando Cass. S.U. n.1946/2017. Analoga attenzione riserva a tale pronunzia N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit., 93. V. ancora E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in www.questionegiustizia.com.; C. V. Giabardo, Per la chiarezza di idee in tema di creazione giudiziale di diritto e ruolo della giurisprudenza nel tempo presente (Riflessioni al confine tra filosofia del diritto, diritto comparato e diritto processuale civile), cit.
[87] Sul ruolo dell’interpretazione nell’individuazione dei principi v. T. Mazzarese, Interpretazione della costituzione. Quali i pregiudizi ideologici?, in A. Donati, A. Sassi, Fondamenti etici del processo. Vol. 1 di Diritto privato. Studi in onore di Antonio Palazzo, Torino 2009,439 ss.
[88] Cass., S.U. (pen.), 22 febbraio 2018, n. 8770.
[89] V.M. R. Ferrarese, Introduzione a A. Garapon e J. Lasségue, La giustizia digitale, Bologna, 2021, 19.
[90] P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, cit., 604.
[91] R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, 2019, n.4, 757.
[92] M. Luciani, L’attivismo, la deferenza e la giustizia del caso singolo, in Questione giustizia, 29 dicembre 2020. In precedenza, id., Diritto giurisprudenziale, limiti dell’interpretazione e certezza del diritto, in Lo Stato, 12/2019, 345 ss. V. anche F. Biondi, Quale dialogo tra le Corti?, in Federalismi.it, 18/2019, 2 ottobre 2019.
[93] Ancora R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, cit. Il riferimento è a A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Spunti su sconfinamenti e legittimazione della corte costituzionale, in Quad. cost., 2019, pp. 251 ss. Sul medesimo tema v. il confronto tra lo stesso R. Bin e A. Ruggeri nell’intervista su Giudice e giudici nell’Italia postmoderna?, a cura di R.G. Conti, in Giustizia Insieme, 10 aprile 2019 e ancora, A. Ruggeri, Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie, in Consultaonline,2019, f. 3, 16 dicembre 2019, 713 e 714 in note 26 e 30.
[94] A. Ruggeri, Corte EDU e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, XXIII, Studi dell’anno 2018, Torino, 2019,469
[95] Conversando su diritto legislativo e diritto giurisprudenziale, Intervista di Luigi Salvato a Renato Rordorf, in Giustizia insieme, 2 febbraio 2021.
[96] Temi già in passato affrontati in altra sede alla quale si rimanda. V., volendo, R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma, 2011; id., I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma 2015; id, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sopranazionali, in www.questionegiustizia.com, Rivista on line, 4/2016; id., Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana?, cit.
[97] M. Fioravanti, Il legislatore e i giudici di fronte alla Costituzione, in Quaderni costituzionali, Fascicolo 1, marzo 2016, 7 ss.
[98] A. Ruggeri, Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVI. Studi dell’anno 2012, Torino 2013, 246.
[99] P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Opere giuridiche – Volume I – Problemi generali del diritto e del processo, Roma 2019, 610. Per l’evoluzione del pensiero di Calamandrei sui temi della legalità e del ruolo del giudice v., M. Vogliotti, Legalità, in Enciclopedia del diritto, Annali, VI, Milano 2013, 393.
[100] N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit., 98.
[101] R. Conti, Il parere preventivo della Corte Edu (post-Prot. 16) in tema di maternità surrogata, in Questionegiustizia,28 maggio 2019.
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Collateral damages e Corte di Strasburgo: dalla giurisdizione agli obblighi positivi procedurali. A proposito di Corte edu, Hanan c. Germania, [GC] 16 febbraio 2021.
di Marina Silvia Mori[*]
L’attesa sentenza Hanan contro Germania, decisa dalla Corte il 16 febbraio 2021 un anno dopo l’udienza di Grande Camera, affronta in particolare il tema dell’applicabilità della Cedu in caso di operazioni militari all’estero, utilizzando il criterio della “connessione giurisdizionale” per far scattare gli obblighi di inchiesta da parte degli Stati, in una evoluzione dei principi espressi dalla sentenza Güzelyurtu
Sommario: 1.La vicenda all’esame della Corte. 2. Le indagini tedesche e le iniziative del ricorrente.3. Le questioni relative alla ricevibilità: la giurisdizione ratione personae e ratione loci e la connessione giurisdizionale derivante dall’inchiesta. 4. Gli obblighi procedurali di inchiesta. 5. Conclusioni
1.La vicenda all’esame della Corte
La sentenza della Corte europea riporta con meticolosità le vicende connesse al raid effettuato dalle forze armate tedesche il 4 settembre 2009 nella zona di Kunduz, nel nord dell’Afghanistan[1].
Come noto, a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti e il Regno Unito attivavano nell’ottobre 2001 una serie di operazioni militari (“Enduring Freedom”) in Afghanistan, finalizzate a distruggere i campi di addestramento dei terroristi, a catturare i capi di Al-Qaeda e a far cadere il regime talebano. Il Parlamento tedesco il 16 novembre 2001 autorizzava l’invio di 3900 soldati a supporto.
Il 5 dicembre 2001 veniva sottoscritto l’Accordo di Bonn[2], nel quale venticinque leader afghani, rappresentanti di diverse fazioni, chiedevano tra l’altro l’assistenza della comunità internazionale per il mantenimento della sicurezza nel Paese, con la creazione di una Forza internazionale di assistenza (ISAF, in lingua inglese). Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con risoluzione 1386 (2001) del 20 dicembre 2001 autorizzava la creazione della Forza di assistenza, inizialmente con mandato limitato a sei mesi e alla sola zona di Kabul, e successivamente esteso sia temporalmente sia quanto all’applicazione territoriale ad altre aree dello Stato afghano, fino a giungere a fine 2006 a coprire l’intero territorio nazionale[3].
Il 22 dicembre 2001 il Parlamento tedesco autorizzava la partecipazione delle forze armate tedesche all’ISAF; l’11 agosto 2003 la NATO assumeva il comando della Forza di assistenza. Le truppe tedesche venivano destinate al Comando Regionale del nord del Paese, diretto dal generale di brigata V.; il Provincial Reconstruction Team (PRT) di Kunduz, facente parte del Comando Regionale predetto, era comandato dal colonnello K.
Dall’aprile 2009, la situazione nella regione di Kunduz degenerava sensibilmente, con numerosi attacchi e perdite umane nella ISAF. Il 3 settembre 2009 alcuni insorti si appropriavano di due autocisterne, uccidendo uno dei due conducenti. I due veicoli restavano bloccati in un banco di sabbia e, per liberarli, gli insorti facevano intervenire gli abitanti dei paesi vicini per svuotare in parte le cisterne. Il PRT, avvertito da un informatore, inviava un primo aereo in ricognizione che trasmetteva al comando un video con le due autocisterne e numerosi veicoli e persone; l’informatore, ripetutamente sollecitato dal comando tedesco, comunicava successivamente che le autocisterne erano state parzialmente svuotate e che non vi erano civili in prossimità delle medesime. Giunti sul posto gli F-15 verso l’1,10 di notte, il colonnello K. dava loro ordine di bombardare le due autocisterne. All’1,49 venivano sganciate due bombe da cinquecento libbre, che distruggevano le due autocisterne ed uccidevano e ferivano numerose persone (il numero complessivo di vittime non è mai stato accertato)[4]. Tra le vittime, Abdul Bayan e Nesarullah, di dodici e otto anni, figli del ricorrente Abdul Hanan.
2.Le indagini tedesche e le iniziative del ricorrente
La polizia militare tedesca (Feldjäger), inviata dalla città di Mazar-i-Sharif, e una squadra del PRT di Kunduz procedevano alle prime indagini, sia sul luogo del raid (significativamente modificato: in particolare i corpi delle vittime erano già stati rimossi) sia attraverso l’audizione di numerosi testimoni presso gli ospedali e i villaggi della zona. La sentenza rammenta che, per le convinzioni religiose e gli usi afghani, era impossibile l’utilizzo di tecniche forensi come l’esame del DNA che presupponeva l’esumazione dei corpi[5].
Su segnalazione delle forze armate, la Procura di Potsdam apriva un’inchiesta, poi trasferita a Lipsia e poi alla Procura Generale di Dresda, nei confronti del colonnello K. e del sergente di stato maggiore W. All’esito dell’interrogatorio degli indagati, dell’esame di alcune persone informate sui fatti, dell’esame della documentazione raccolta in loco e dei video filmati dagli aerei, il procuratore generale con atto del 16 aprile 2010 escludeva la sussistenza di responsabilità, sia secondo il codice dei crimini di diritto internazionale (Völkerstrafgesetzbuch[6]), sia secondo il codice penale tedesco. Queste, in estrema sintesi, le valutazioni della procura:
-In Afghanistan, o almeno nell’area settentrionale del Paese, dove le forze armate tedesche erano dispiegate, al momento del raid era in corso un conflitto armato non internazionale, secondo i parametri del diritto internazionale umanitario, sebbene con la partecipazione di truppe internazionali;
-Le autorità afghane avevano consentito al dispiegamento dell’ISAF, che stava combattendo in nome dello Stato afghano;
-Gli insorti talebani e i gruppi ad essi correlati dovevano essere considerati “parti in conflitto” e, secondo il diritto internazionale, ogni persona funzionalmente integrata in un gruppo armato organizzato e che svolga una funzione di combattimento continuo al suo interno perde lo status di civile, diventando un obiettivo militare legittimo;
-Per le caratteristiche del conflitto venivano in rilievo il diritto internazionale umanitario e il codice tedesco dei crimini di diritto internazionale;
-Le forze armate tedesche erano combattenti regolari e, di conseguenza, non potevano essere ritenute responsabili per azioni di guerra conformi al diritto internazionale;
-Il dolo era necessario per la sussistenza del reato, ma mancava nel colonnello K. la volontà di uccidere o ferire civili, e inoltre la liceità dell’operazione di guerra costituiva una causa di giustificazione;
-La valutazione compiuta dal colonnello K. sulla assenza di civili al momento del raid era basata sulle notizie ripetutamente sollecitate e ricevute dall’informatore, che si era rivelato sempre affidabile, e le cui indicazioni corrispondevano alle immagini tratte dai video degli aerei; la presenza di talebani armati e l’orario notturno rendevano improbabile la presenza di civili, oltretutto nel corso del Ramadan;
-Era incontestato che le due autocisterne fossero in quel momento in mano ai talebani, che già in precedenza avevano commesso attentati con veicoli imbottiti di esplosivo, e la base tedesca risultava essere uno dei possibili obiettivi;
-Due comandanti talebani erano stati uccisi nel raid, che quindi aveva colpito sia insorti sia civili;
-La credibilità delle dichiarazioni del colonnello K., supportate dalle altre testimonianze, portava ad escludere la necessità di valutare l’eventuale sproporzione del danno collaterale occorso, e comunque erano stati utilizzati gli ordigni di minor potenza disponibili e razzi ad esplosione ritardata, che ne limitavano la portata effettiva;
-il colonnello K. non poteva essere ritenuto responsabile nemmeno ai sensi del codice penale, e il sergente maggiore W. non poteva essere accusato di concorso con il colonnello K. perché le azioni del colonnello K. erano legittime secondo il diritto internazionale e sussisteva quindi una causa di giustificazione per l’azione militare.
Il 12 aprile 2010 il difensore del ricorrente (e, solo inizialmente, anche dei familiari di 113 altre persone asseritamente decedute nel raid) presentava una denuncia e chiedeva di poter accedere al fascicolo dell’indagine. Il 27 aprile la Procura Generale comunicava che il procedimento era già stato archiviato. Dopo una serie di memorie, al ricorrente era consentito l’accesso alle parti del fascicolo non secretate per ragioni di sicurezza. Il ricorrente presentava quindi un’istanza, chiedendo alla Corte di appello di Düsseldorf che gli indagati fossero rinviati a giudizio o che la Procura procedesse ad ulteriori indagini. Il 16 febbraio 2011 la Corte dichiarava inammissibile la richiesta del ricorrente. Seguiva un nuovo ricorso (Gehörsrüge, reclamo d’udienza), rigettato dalla Corte d’appello il 31 marzo 2011.
Il ricorrente presentava quindi due ricorsi alla Corte costituzionale federale, sostenendo tra l’altro di avere avuto solo tardivamente e parzialmente accesso al fascicolo dell’indagine, di non essere mai stato sentito dagli inquirenti e che l’indagine non fosse stata completa ed effettiva, non essendo mai stati esaminati esperti militari o testimoni oculari del raid al fine di stabilire se l’intervento fosse giustificato e se fossero state poste in essere delle adeguate misure per evitare danni ai civili. La Corte costituzionale federale rigettava il ricorso relativo all’accesso al fascicolo l’8 dicembre 2014, e la doglianza non veniva poi portata all’attenzione della Corte europea[7]. Il successivo 19 maggio 2015 la Corte costituzionale federale rigettava anche il secondo ricorso, relativo alla incompletezza e ineffettività delle indagini, essenzialmente ritenendo che ulteriori misure investigative, come l'audizione di testimoni oculari del raid, non avrebbero apportato elementi aggiuntivi, considerato che il bombardamento e le perdite civili non erano mai stati messi in discussione, che la decisione di chiudere l'indagine era stata presa principalmente perché non era possibile provare che gli indagati avessero saputo con certezza che l'attacco avrebbe ferito o ucciso dei civili e che né la decisione, né le indagini ponevano un problema dal punto di vista costituzionale.
Il Signor Hanan presentava ricorso alla Corte europea, lamentando la violazione da parte della Repubblica federale tedesca dell’obbligo procedurale imposto dall’art. 2 della Convenzione di svolgere un’indagine effettiva sul raid del 4 settembre 2009, e dell’art. 13 combinato con l’art. 2, per non avere avuto a disposizione un rimedio interno effettivo finalizzato a contestare la decisione della Procura Generale di Dresda di archiviare l’indagine[8].
3.Le questioni relative alla ricevibilità: la giurisdizione ratione personae e ratione loci e la connessione giurisdizionale derivante dall’inchiesta
Sulla ricevibilità del ricorso si sono concentrate le valutazioni più significative delle parti e dei terzi intervenuti[9], in particolare sulla giurisdizione della Corte e sull’applicabilità dell’art. 1 della Convenzione[10].
La prima eccezione sollevata dal Governo tedesco riguardava l’insussistenza della giurisdizione[11] della Corte ratione personae. Secondo lo Stato convenuto, le operazioni militari condotte sotto l’egida e il controllo del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite[12] non potrebbero essere fonte di responsabilità per il singolo Stato, e di conseguenza verrebbe meno la giurisdizione della Corte.
Il Governo evidenziava la creazione dell’ISAF attraverso la risoluzione 1386 (2001), con la delega di poteri fornita dal Consiglio di Sicurezza e l’esistenza di un mandato preciso e con obiettivi definiti; l’obbligo per gli Stati partecipanti all’ISAF di fornire resoconti; l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza e dei diversi organi della Nazioni Unite delle attività militari dell’ISAF, compresi i raid aerei contro i talebani. Sottolineava, il Governo, la sovrapponibilità delle caratteristiche dell’ISAF con quelle della Forza internazionale di sicurezza del Kosovo (KFOR), già oggetto di precedenti decisioni[13].
La seconda eccezione riguardava la carenza di giurisdizione della Corte ratione loci. La Germania non avrebbe esercitato un controllo effettivo sulla zona del raid: nella vasta area di Kunduz c’erano combattimenti attivi, con gli insorti ben organizzati e numericamente equivalenti alle truppe ISAF. Inoltre, la ISAF si limitava a prestare assistenza al Governo afghano (che disponeva delle proprie forze di sicurezza nella regione) senza esercitare poteri governativi o di polizia per mantenere ordine e sicurezza.
Il Governo, in sintesi, con le proprie eccezioni riprendeva la giurisprudenza “storica” della Corte europea che limita a circostanze di carattere eccezionale la possibilità di estendere la propria giurisdizione al di fuori del territorio statale, eccezioni elaborate già nella decisione Banković[14] e riassunte nella sentenza Jaloud[15]: se vi sia controllo effettivo di un’area al di fuori del territorio statale (“effective control of an area”) o se gli organi statali esercitino funzioni esecutive o giudiziarie sulla medesima area, inteso come controllo fisico sulle persone da parte di agenti dello Stato (“State agent authority”)[16]. La Corte, in due decisioni controverse e molto criticate dalla dottrina, aveva stabilito che le violazioni lamentate dai ricorrenti nel Kosovo occupato dalle forze NATO non potessero essere imputabili alle forze armate dei singoli Stati partecipanti al KFOR (istituito anch’esso, come l’ISAF, attraverso il Capitolo VII della Carta ONU), ma unicamente alle Nazioni Unite: se l’organizzazione internazionale cui lo Stato appartiene assicura un livello di tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente a quello convenzionale, deve presumersi che non si sia verificata una violazione, salvo il caso di evidente mancanza di tutela[17]. Solo nel caso dell’intervento statunitense e britannico nel territorio iracheno le decisioni della Corte avevano riconosciuto la giurisdizione ratione personae e loci della Corte, in quanto le Nazioni Unite non avevano assunto alcun controllo sull’autorità provvisoria creata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito[18] e, infatti, il Governo tedesco nelle proprie difese precisava le diverse caratteristiche dell’azione militare in Iraq.
L’esame della sussistenza della giurisdizione della Corte nel caso Hanan, tuttavia, si gioca tutto su un piano diverso. La recente sentenza della Grande Camera, infatti, evita di affrontare (e, forse, di chiarire definitivamente) l’imputabilità ai singoli Stati di violazioni convenzionali avvenute in operazioni di peace enforcement, perché il ricorrente sottopone alla Corte unicamente la possibile violazione degli obblighi procedurali di inchiesta, e non lamenta la violazione materiale dell’art. 2 CEDU in relazione al raid ordinato dal Comando tedesco.
Questo consente alla Corte di prendere come riferimento la recente sentenza Güzelyurtlu[19], riguardante l’uccisione di tre cittadini ciprioti e conclusa con il riconoscimento della violazione dell’art. 2 sotto il profilo procedurale nei confronti della Turchia, per non avere adempiuto agli obblighi di cooperazione nell’indagine promossa dallo Stato cipriota. Il principio, espresso nel paragrafo 188 della sentenza Güzelyurtlu, è che se gli inquirenti o gli organi giudiziari di uno Stato attivano un’indagine penale in relazione ad un decesso verificatosi al di fuori della giurisdizione territoriale dello Stato stesso (ad esempio, sulla base del principio di giurisdizione universale o del principio di personalità attiva o passiva), per ciò stesso si crea una connessione giurisdizionale ai fini dell’applicabilità dell’art. 1 della Convenzione europea tra lo Stato e le vittime indirette della violazione, che potrebbero adire la Corte. Se lo Stato non attivasse l’indagine o il procedimento penale, la Corte dovrebbe comunque verificare la possibilità di rinvenire la predetta connessione giurisdizionale per verificare la sussistenza di obblighi procedurali derivanti dall’art. 2 sulla base di caratteristiche particolari del caso concreto, che potrebbero derogare al principio per cui l’onere procedurale di investigazione sarebbe in capo esclusivamente allo Stato nel cui territorio si verifica il decesso. Dette circostanze particolari sarebbero indagabili anche in caso di fatti avvenuti al di fuori dello spazio giuridico territoriale della Convenzione. Il riferimento giurisprudenziale è al principio espresso già nella giurisprudenza Banković e poi precisato nella sentenza Markovic[20], in cui la Corte aveva ritenuto che, a partire dal momento in cui un soggetto introduce un’azione civile davanti al giudice di uno Stato (sebbene per fatti avvenuti al di fuori dell’ambito di applicazione territoriale della Convenzione, com’era il territorio serbo al momento dei fatti) esista indiscutibilmente un "nesso giurisdizionale" ai fini dell’articolo 1. In realtà, il riferimento consente di evidenziare la significativa evoluzione della giurisprudenza europea rispetto ad una decisione molto criticata, emessa a seguito di un provvedimento interno italiano altrettanto discutibile. Infatti, giudicando sulla possibile violazione del diritto ad accedere a un tribunale, nella Markovic la Corte aveva escluso la violazione dell’art. 6 rispetto ad un regolamento di giurisdizione delle Sezioni Unite della Cassazione, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso dei familiari delle vittime del raid alla sede della Radiotelevisione serba, sul presupposto che le modalità di conduzione del conflitto armato non fossero giudizialmente sindacabili, in quanto atto politico che non consentiva la configurazione di alcun interesse protetto[21]. E, tuttavia, la Corte escludeva che la decisione delle Sezioni Unite potesse evidenziare la sussistenza di una forma di immunità, in quanto si era limitata ad uniformarsi alla giurisprudenza interna costante sulla insindacabilità degli atti di guerra. Si rinvia, in particolare, alla appassionata dissenting opinion del giudice Zagrebelsky alla sentenza.
Nel caso Güzelyurtlu, la Corte aveva rinvenuto la connessione giurisdizionale con lo Stato turco (sebbene i decessi si fossero verificati in territorio cipriota) per tre caratteristiche della fattispecie concreta: le autorità di Cipro Nord avevano aperto una propria indagine sui fatti; la parte settentrionale di Cipro era sotto il controllo effettivo dello Stato turco; i sospettati dei delitti erano nel territorio di Cipro Nord, la cosa era nota alle Autorità turche (che non avevano prestato alcuna collaborazione) e questo aveva impedito allo Stato cipriota di adempiere agli obblighi convenzionali di indagine effettiva.
Pur premettendo di confermare i principi di Güzelyurtlu, la sentenza Hanan, in realtà, ne limita significativamente l’efficacia[22], tuttavia con una valutazione che potrebbe rivelarsi portatrice di importanti conseguenze nelle future azioni di peace enforcing extraterritoriali.
La Corte precisa che il campo applicativo della Convenzione risulterebbe esteso in modo eccessivo, se si ipotizzasse la creazione della connessione giurisdizionale per il solo fatto che uno Stato membro abbia attivato un’indagine su un decesso avvenuto al di fuori del proprio territorio. L’affermazione della Corte raccoglie le osservazioni del Governo tedesco e degli Stati terzi intervenuti (in particolare, i Governi francese e britannico) che, evidenziando il rischio che in futuro gli Stati evitino di indagare su morti avvenute in occasione di operazioni militari extraterritoriali, temevano ovviamente un revirement della giurisprudenza Behrami e una conseguente applicazione universale della Convenzione.
Escluso quindi l’automatismo della creazione del nesso giurisdizionale, la Corte esamina le caratteristiche del caso concreto:
-L’obbligo di investigazione in capo alla Germania sul raid aereo derivava dal diritto internazionale umanitario consuetudinario, perché i fatti avrebbero potuto essere qualificati come crimini di guerra commessi da appartenenti alle forze armate tedesche;
-Le autorità afghane non avevano giuridicamente il potere di iniziare un’indagine nei confronti del colonnello K. e del sergente di stato maggiore W., in quanto, in linea con la prassi delle missioni militari sotto l’egida ONU, ai sensi dell’art. 1 par. 3 costitutivo della ISAF, gli Stati che avevano fornito le truppe mantenevano una competenza esclusiva in relazione a qualunque infrazione penale o disciplinare eventualmente commessa dai propri militari in territorio afghano;
-Le autorità tedesche avevano comunque, anche secondo il diritto interno, un obbligo di investigare; detto obbligo sarebbe venuto meno solo se un’inchiesta fosse stata iniziata da un tribunale internazionale, o da un tribunale afghano, o della nazione di cui le vittime fossero, eventualmente, cittadini. Non essendosi verificata nessuna delle tre ipotesi, la Germania manteneva la giurisdizione esclusiva sulla responsabilità penale dei membri delle proprie forze armate.
Le circostanze specifiche del caso concreto idonee a creare la connessione giurisdizionale, quindi, erano la giurisdizione esclusiva tedesca e gli obblighi di indagine derivanti dal diritto interno e dal diritto internazionale: ne conseguiva l’applicabilità dell’art. 1 della Convenzione e l’insorgenza degli obblighi procedurali di indagine dell’art. 2, sia in relazione all’operato dei militari tedeschi che avevano svolto le indagini in Afghanistan, sia in relazione all’operato di inquirenti e giudicanti in Germania[23].
4.Gli obblighi procedurali di inchiesta
La decisione sul merito risulta sicuramente di minor interesse, se si esclude l’ampio resoconto dello “stato dell’arte” in materia di obblighi di inchiesta, che la sentenza ripercorre nei paragrafi 200-210, in relazione ai requisiti dell’indagine.
Per il resto, la Corte premette che tra le regole del diritto internazionale umanitario (di cui il Governo tedesco sollecitava l’applicazione per individuare gli obblighi positivi a carico dello Stato, pur non avendo fatto uso della deroga dell’art. 15 della CEDU) e quelle derivanti dalla Convenzione non vi sia alcun conflitto.
La valutazione dell’adeguatezza dell’inchiesta in Germania pare in linea con i parametri giurisprudenziali della Corte, sia per la celerità, sia per il fatto che il procuratore generale avesse comunque potuto accedere a molta documentazione riservata; inoltre l’audizione del ricorrente difficilmente avrebbe fornito elementi utili all’indagine, in un procedimento concluso per mancanza di elemento soggettivo del reato negli indagati. Le attività di indagine svolte sul suolo afghano, invece, pur tra tutte le obiettive difficoltà (la squadra del PRT di Kunduz era stata bersaglio di colpi di arma da fuoco, nonostante fosse scortata da un centinaio di membri dell’esercito afghano) presentavano numerosi problemi secondo i parametri convenzionali, segnalati dal ricorrente: non era stato inviato un drone sul luogo del raid, prima che vi accedessero le squadre di inchiesta; gli accertamenti erano stati svolti dallo stesso PRT di Kunduz, comandato dal colonnello K.; lo stesso colonnello aveva partecipato alle attività di indagine, sia sul luogo dei fatti sia partecipando alle deposizioni. Le circostanze del caso concreto, in particolare il fatto che i decessi siano avvenuti in una fase di ostilità attive, hanno pesantemente condizionato l’inchiesta, ma hanno anche portato la Corte ad utilizzare parametri particolarmente benevoli nei confronti dello Stato convenuto, tanto da portare la Corte ad escludere all’unanimità la violazione dell’art. 2 sotto il profilo procedurale.
5.Conclusioni
L’utilizzo del criterio della “connessione giurisdizionale” da parte della Corte, per giungere alla applicabilità della Convenzione oltre i parametri dell’effective control of an area e dello State agent authority, comincia a definirsi. Se, nonostante le premesse, l’esistenza di un’indagine o di un procedimento penale non è sufficiente per portare all’estensione della Convenzione oltre l’ambito territoriale ordinario, la sentenza Hanan offre uno spunto significativo. Infatti, nelle operazioni di peace enforcing sono giocoforza presenti le due caratteristiche specifiche che hanno portato all’applicazione della Convenzione nella predetta fattispecie: la giurisdizione esclusiva dello Stato di appartenenza delle truppe sui reati commessi dai propri militari e gli obblighi di indagine imposti dal diritto internazionale. La Corte, insomma, ha finito per individuare due caratteristiche generali che consentono l’applicazione dell’art. 1 e quindi delle garanzie convenzionali alle azioni militari extraterritoriali degli Stati membri del Consiglio d’Europa, estendendo in realtà gli obblighi procedurali extraterritoriali a carico degli Stati. Quali saranno i parametri valutativi, in particolare in caso di obblighi procedurali privi del supporto della possibilità di contestare la violazione sostanziale[24], sarà altro problema.
[*]Avvocato.
[1] La breve sintesi che segue è un riassunto dei paragrafi 9-70 della sentenza Hanan. La vicenda ebbe notevoli ripercussioni anche politiche, con le dimissioni del Capo di stato maggiore dell’esercito tedesco e dell’allora Ministro della difesa.
[2] Formalmente “Agreement on Provisional Arrangements in Afghanistan Pending the Re-Establishment of Permanent Government Institutions”; nell’allegato 1 – riportato al par. 71 della sentenza Hanan – è inserita la richiesta di formazione dell’ISAF (“International Security Assistance Force”).
[3] Risoluzione 1510 (2003) del 13 ottobre 2003; al momento dei fatti oggetto del ricorso, la Risoluzione 1833 (2008) del 22 settembre 2008 aveva prorogato per dodici mesi l’attività dell’ISAF.
[4] Una commissione di inchiesta creata dalla Presidenza della Repubblica afghana indicava nel proprio rapporto finale che l’operazione avrebbe causato 99 morti (69 insorti e 30 civili), oltre a numerosi feriti; il rapporto della Croce Rossa Internazionale a cui la sentenza Hanan fa riferimento risulta essere confidenziale e destinato solo all’ISAF, come pure i rapporti delle forze armate, classificati “NATO‑/ISAF‑Confidential”; secondo la UNAMA (United Nations Assistance Mission In Afghanistan) in conseguenza del raid ci sarebbero stati 109 morti e 33 feriti; nell’Annual Report on Protection of Civilians in Armed Conflict 2009, pubblicato nel 2010, si fa riferimento all’uccisione di almeno 74 civili, tra i quali un consistente numero di bambini; infine, un’indagine svolta dal Parlamento tedesco terminata con un rapporto dell’ottobre 2011 ipotizzava un numero di morti compreso tra 14 e 142 (tra 14 e 113 civili) e un numero di feriti compreso tra 10 e 33 (tra 9 e 12 civili). Il Governo tedesco ha versato un risarcimento di 5000 dollari statunitensi a persona ai familiari di 91 morti e 11 feriti.
[5] Hanan, cit., par. 40.
[6] Adottato nel 2002, il Völkerstrafgesetzbuch modificava il diritto penale tedesco adeguandolo alle disposizioni del diritto penale internazionale, in particolare allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, al fine di permettere di indagare e perseguire condotte rilevanti secondo lo Statuto della Corte.
[7] È conseguentemente mancato, nella sentenza Hanan, l’esame della spinosa problematica relativa alla apposizione del segreto di Stato in relazione agli obblighi di cui all’art. 34 della Convenzione (si veda, ad esempio, Janowiec e altri c. Russia, [GC], 21.10.2013, parr. 202-206; tra le pronunce più recenti Yam c. Regno Unito, 16.1.2020, par. 56 e, in relazione anche agli obblighi derivanti dall’art. 38 CEDU, Georgia c. Russia (II), [GC], 21.1.2021, parr. 341-346).
[8] Si riporta, in estrema sintesi, anche l’esito dell’azione risarcitoria civile introdotta dal ricorrente e da un altro familiare di persona deceduta nel raid (i riferimenti sono in Hanan, cit., par. 70). Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale regionale di Bonn e della Corte d’appello di Colonia, la Corte federale di giustizia respingeva il ricorso dei ricorrenti. La Corte non affrontava la questione della eventuale responsabilità tedesca per operazioni militari extraterritoriali sotto il comando operativo della NATO. Invece, escludeva che i ricorrenti potessero chiedere risarcimenti sulla base del diritto internazionale umanitario invocando l’applicazione diretta del diritto internazionale, riservato agli Stati, e precisava che secondo il diritto tedesco la responsabilità dello Stato non può essere ipotizzata per i danni causati a cittadini stranieri dalle forze armate tedesche impiegate in un conflitto armato all'estero, ribadendo, comunque, che nella fattispecie nessun soldato tedesco o nessuna autorità tedesca era venuto meno agli obblighi connessi alle proprie funzioni, e in particolare che il colonnello K. non aveva commesso alcuna violazione delle norme del diritto internazionale umanitario.
[9] Nel corso della procedura, sono state presentate osservazioni da parte dei Governi britannico, danese, francese, norvegese e svedese, da parte del Human Rights Centre dell’Università di Essex, dell’Istituto di studi internazionali dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, di Open Society Justice Initiative e di Rights Watch (UK). I Governi britannico e francese e Rights Watch (UK) hanno anche partecipato all’udienza in Grande Camera.
[10] Le questioni di ricevibilità hanno riguardato anche la regola dell’esaurimento dei ricorsi interni; in assenza di novità particolari rispetto alla giurisprudenza della Corte, si rinvia alla lettura dei parr. 148-152 della sentenza Hanan.
[11] Si sceglie, per ragioni pratiche, l’uso del termine “giurisdizione”, ricordando però che la Corte europea utilizza nozioni autonome non necessariamente sovrapponibili a quelle nazionali. Per una sintesi, Zagrebelsky, Chenal, Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino, 2019, pag. 124 e ss.
[12] “Capitolo VII - Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di Aggressione”. In particolare, gli artt. 45 e 46 dispongono: “Articolo 45 – Allo scopo di dare alle Nazioni Unite la possibilità di prendere misure militari urgenti, i Membri terranno ad immediata disposizione contingenti di forze aeree nazionali per l'esecuzione combinata di un'azione coercitiva internazionale. La forza ed il grado di preparazione di questi contingenti, ed i piani per la loro azione combinata, sono determinati, entro i limiti stabiliti nell'accordo o negli accordi speciali previsti dall'articolo 43, dal Consiglio di Sicurezza coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore. Articolo 46 - I piani per l'impiego delle forze armate sono stabiliti dal Consiglio di Sicurezza coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore” (traduzione dal sito del Ministero della difesa; per il testo completo, https://www.un.org/en/sections/un-charter/chapter-vii/index.html)
[13] Si veda infra, nota 16.
[14] Banković e altri c. Belgio e altri (dec.), [GC], 12.12.2001, parr. 55-81.
[15] Jaloud c. Paesi Bassi, 2.11.2014, parr. 139-153.
[16] Per un riassunto con le pronunce fondamentali, Sudre, Les Grands arrêts de la Cour européenne des droits de l'homme, Presse Universitaires de France, 2019, pp. 869-873; ampio approfondimento in Besson, The Extraterritoriality of the European Convention on Human Rights: Why Human Rights Depend on Jurisdiction and What Jurisdiction Amounts to, Leiden Journal of International Law, 2012, 25, pp. 857–884.
[17] Behrami e Behrami c. Francia e Saramati c. Francia, Germania e Norvegia, (dec.) [GC], 2.5.2007. Per un commento alle predette decisioni, Sari, Jurisdiction and International Responsibility in Peace Support Operations: The Behrami and Saramati Cases, Human Rights Law Review, 2008, p. 159-162; Klein, Responsabilité pour les faits commis dans le cadre d’opérations de paix et étendue du pouvoir de contrôle de la Cour européenne des droits de l’homme: quelques considérations critiques sur l’arrêt Behrami et Saramati, Annuaire français de droit international, vol. 53, 2007, pp. 43-64.
[18] Al-Jedda c. Regno Unito, [GC], 7.7.2011; Al-Skeini c. Regno Unito, [GC], 7.7.2011; Viganò, Tutela dei diritti fondamentali e operazioni militari all’estero: le sentenze Al-Skeini e Al-Jedda della Corte europea dei diritti umani, Rivista telematica AIC, 4/2011; Milanovic, Al-Skeini and Al-Jedda in Strasbourg, The European Journal of International Law Vol. 23 no. 1, pp.121-139 e dello stesso Autore The Applicability of the ECHR in Contested Territories, International and Comparative Law Quarterly 67, 2018 pp 779-800.
[19] Güzelyurtlu e altri c. Cipro e Turchia, [GC], 29.1.2019.
[20] Markovic e altri c. Italia, [GC], 14.12.2006, ci si riferisce al par. 54 della sentenza.
[21] Per un ampio commento, Conti, La radice umanitaria dei diritti fondamentali e le scelte politiche come limite “valicabile” dal giudice nazionale. La lezione, ancora attuale, della vicenda legata al bombardamento NATO sulla Radiotelevisione serba dell’aprile 1999, in Europa Umana – scritti in onore di Paulo Pinto de Albuquerque, a cura di Galliani e Santoro, Pacini Giuridica, 2021, pp. 215-236, e la bibliografia ivi, in particolare Balsamo, Le corti europee e la responsabilità degli stati per i danni da operazioni belliche: inter armas silent leges? in Cass. Pen. 5, 2007, 2186.
[22] Tra i primi a commentare, per ora brevemente, la sentenza, Milanovic, Extraterritorial Investigations in Hanan v. Germany; Extraterritorial Assassinations in New Interstate Claim Filed by Ukraine against Russia, EJIL: Talk! Blog of the European Journal of International Law, https://www.ejiltalk.org/extraterritorial-investigations-in-hanan-v-germany-extraterritorial-assassinations-in-new-interstate-claim-filed-by-ukraine-against-russia/ che rileva infatti la contraddizione nel riferimento alla giurisprudenza Güzelyurtlu.
[23] Si veda la successiva nota 23, in relazione al contenuto dell’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Grozev, Ranzoni ed Eicke.
[24] La questione della “scissione” tra la violazione sostanziale e quella procedurale dell’art. 2 è chiaramente evidenziata nella opinione parzialmente dissenziente dei giudici Grozev, Ranzoni ed Eicke, che avevano votato per l’irricevibilità del ricorso per carenza di sussistenza del nesso giurisdizionale. Secondo la dissenting, la maggioranza avrebbe esteso la possibilità di separare l’obbligo procedurale di indagare oltre il punto di rottura, trattandosi di fattispecie completamente diversa rispetto ai precedenti McCann e altri c. Regno Unito (27.9.1995, par. 161) e Šilih c. Slovenia ([GC], 9.4.2009, par. 154), e comunque non riferibile agli obblighi di cooperazione come Güzelyurtlu. La Corte creerebbe di fatto un obbligo “senza limiti” di investigare su fatti avvenuti al di fuori dello spazio giuridico della Convenzione, sebbene sia esplicitamente stabilito che detti fatti non possano far sorgere alcuna obbligazione materiale in capo allo Stato, e questo avverrebbe anche in assenza dei presupposti di effective control e State agent authority, come nel caso concreto, in cui mancava il controllo effettivo sull’area di Kunduz da parte delle forze armate tedesche e la Germania non esercitava alcun controllo o potere sui figli del ricorrente (al contrario del caso Jaloud, cit.). I giudici, inoltre, evidenziano che le supposte “caratteristiche specifiche” del caso concreto che hanno consentito di stabilire la sussistenza del nesso giurisdizionale sarebbero in realtà comuni alla grande maggioranza degli Stati, e quindi non suscettibili di creare il predetto nesso per l’applicazione dell’art. 1.
Recenti sviluppi in tema di intervento e di opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo (nota a CGARS, 13 gennaio 2021, n. 27) di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Premessa: il caso di specie. – 2. La controversa ammissibilità dell’intervento nel giudizio amministrativo. – 3. La legittimazione ad agire dei controinteressati e l’esperibilità dell’opposizione di terzo. – 4. La soluzione fornita dal CGARS sul rapporto tra opposizione di terzo ed intervento nel giudizio di appello: l’orientamento in materia di ammissibilità dell’opposizione di terzo è consolidato.
1. Premessa: il caso di specie.
La sentenza che si annota nel merito è stata chiamata a pronunziarsi sull’utilizzo e sulla gestione delle concessioni demaniali.
Difatti, la Società ricorrente in primo grado era stata autorizzata con provvedimento dell’11 ottobre 2012 al subingresso nella concessione demaniale avente a oggetto un’area di mq. 100 in località Torre Conca del Comune di Pollina da adibire a servizi per la balneazione, concessione rinnovata il 27 marzo 2015 ed infine prorogata ope legis al 31 dicembre 2020.
Successivamente, la stessa società con istanza del 26 novembre 2014 aveva chiesto, ai sensi dell’art. 24 del regolamento di esecuzione del codice della navigazione, di essere autorizzata ad adeguare la concessione alle norme igienico - sanitarie e al decreto dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente del 4 luglio 2011, e, soprattutto, ad ampliare l’area concessa di mq 2.552,23 (successivamente ridotti a mq 1.997,00) per la sistemazione di sedie a sdraio e ombrelloni.
L’Assessorato regionale, previo preavviso di rigetto del 25 maggio 2017, con provvedimento del 18 luglio 2017 aveva però rigettato tale istanza.
La ricorrente impugnava il provvedimento regionale dinnanzi al T.A.R. Palermo dolendosi di una carenza d’istruttoria e di motivazione, nonché di una violazione delle garanzie procedimentali.
A sostegno della posizione dell’Amministrazione regionale si costituiva in giudizio il Comune di Pollina attraverso un intervento ad opponendum.
La stessa ricorrente con successivo atto di motivi aggiunti impugnava anche il provvedimento dell’Assessorato regionale, che sulla base della nota del Comune di Pollina n. 9659 del 15 febbraio 2018 l’aveva dichiarata decaduta dalla concessione demaniale n. 399/2012 ai sensi delle clausole nn. 15 e 17 della concessione n. 388/2006 e dell'art. 47 lett. a), b) e f) del codice della navigazione, con la motivazione che il titolo non era mai stato attivato, e comunque non erano mai state rilasciate le autorizzazioni necessarie per la gestione dello stabilimento balneare.
Con un secondo atto di motivi aggiunti, notificato il 12 ottobre 2018, la società ricorrente impugnava, infine, il decreto n. 538 del 14 agosto 2018 col quale l’Assessorato aveva rilasciato al medesimo Comune di Pollina, ai sensi dell’art. 36 del regolamento di esecuzione del codice della navigazione, la concessione demaniale marittima per una superficie complessiva di 3.000 mq. (dei quali mq. 1.725,00 di area scoperta e mq. 1.275,00 di area coperta con opere di facile rimozione) sulla spiaggia a ovest di capo Raisi Gerbi del Comune.
Il T.A.R. Palermo, con sentenza n. 903 dell’8 maggio 2020, accoglieva il ricorso e i motivi aggiunti e annullava gli atti impugnati sulla base delle seguenti motivazioni: la decadenza della ricorrente dalla concessione demaniale era stata arbitrariamente disposta in violazione delle garanzie procedimentali e senza adeguata istruttoria; il rigetto dell’istanza di ampliamento proposta dalla stessa società era viziato da carenza istruttoria e di motivazione: tale istanza andava intesa quale domanda nuova e autonoma, sulla quale l’Assessorato regionale avrebbe dovuto determinarsi; il Comune avrebbe potuto ottenere l’assegnazione della concessione demaniale solo per destinare l’area in questione ad altri usi pubblici e non già per disporne a favore di privati terzi, nel qual caso avrebbe dovuto indire un’apposita procedura comparativa.
La sentenza è stata appellata dinnanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia dall’Amministrazione regionale e dal Comune di Pollina e nella stessa direzione è stato spiegato anche un’opposizione di terzo mediante intervento ad adiuvandum da parte della Società partner del Comune nell’iniziativa di utilizzo sull’area demaniale sulla base di un accordo di partenariato tra loro concluso il 22 febbraio 2019.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, con ordinanza 17-22 giugno 2020, ha accolto per quanto di ragione l’istanza cautelare proposta dal Comune di Pollina e dalla Società proponente l’opposizione di terzo, per l’effetto sospendendo interinalmente l’efficacia della sentenza appellata nella parte in cui aveva annullato il titolo concessorio rilasciato al primo, motivando in questi termini: “rilevato che la complessità della controversia, che vede l’articolata sentenza in epigrafe sottoposta a contestazione da parte di tre soggetti distinti, rende chiaro come la sede naturale di trattazione dei suoi molteplici aspetti problematici –sostanziali e processuali, questi secondi soprattutto di legittimazione ad appellare- sia quella del giudizio di merito, la cui udienza pubblica conviene pertanto sin d’ora fissare…;
considerato, con riferimento all’assetto interinale della materia del contendere, che la ricorrente vittoriosa in prime cure non dispone, almeno allo stato, di un titolo amministrativo idoneo a permetterle un accesso al godimento dell’area demaniale in contesa, dovendo/potendo l’Amministrazione regionale ancora rideterminarsi sui temi oggetto del primitivo ricorso e del primo atto di motivi aggiunti, e per l’ulteriore ragione che alla stregua della sentenza di prime cure occorrerebbe, in sostanza, svolgere una procedura di valutazione comparativa tra gli aspiranti in lite;
osservato, per contro, che le ragioni a base delle domande cautelari proposte dal Comune appellante nonché dalla società proponente l’opposizione di terzo (n.d.a.), le quali appaiono sorrette da una sufficiente prospettazione di periculum in mora e fumus boni iuris (anche grazie alle convergenti censure rivolte alla sentenza in epigrafe dall’Amministrazione regionale), sono invece suscettibili di una misura cautelare autoesecutiva, la quale pertanto può essere accordata nei limiti necessari a permettere, nelle more del giudizio, la prosecuzione delle attività di godimento dell’area sulla base del titolo a suo tempo rilasciato dalla Regione al Comune”.
L’organo di appello della giustizia amministrativa siciliana, pertanto, ha ritenuto di accogliere l’istanza cautelare presentata dal Comune di Pollina, anzitutto in quanto le questioni, sia di rito che di merito, meritavano un adeguato approfondimento in sede di merito, ma specialmente poiché, con riferimento alla valutazione del periculum in moraeffettuata sulla base di una comparazione degli interessi pubblici e privati in gioco[1], ha ritenuto prevalente l’interesse dell’Amministrazione regionale a rideterminarsi in materia e ad esercitare il correlativo potere, nonché l’interesse del Comune a mantenere il godimento dell’area demaniale sulla base del titolo all’epoca rilasciato dalla Regione.
In sede di discussione del merito, e quindi con la sentenza che si annota, è stato confermato invece l’annullamento della declaratoria di decadenza della concessione pronunciata dall’Amministrazione regionale in quanto assunta in violazione delle garanzie procedimentali e senza adeguata istruttoria.
La pronunzia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, che in fatto è stata chiamata a pronunziarsi in materia di utilizzo delle concessioni demaniali[2], è meritevole però in questa sede di attenzione anzitutto quanto alle questioni di rito, specialmente per quanto concerne l’esperibilità dell’intervento e dell’opposizione di terzo nel processo amministrativo e conseguentemente l’individuazione dei terzi controinteressati dal giudizio.
2. La controversa ammissibilità dell’intervento nel giudizio amministrativo.
Come anticipato, la sentenza che si annota obbliga a compiere alcune riflessioni sulla posizione dei terzi nel processo amministrativo, ed in particolare sulla possibilità di esperire l’intervento in giudizio o di utilizzare lo strumento dell’opposizione di terzo.
In linea generale, l’intervento in giudizio è l’ingresso di un terzo in un processo pendente e può soggiacere a diverse classificazioni teoriche.
La ragione pratica dell’istituto consiste nell’interdipendenza delle posizioni giuridiche e dei rapporti giuridici; sebbene i terzi non possano essere pregiudicati formalmente dalla sentenza pronunciata tra altri, i rapporti giuridici di cui sono titolari possono sostanzialmente subire delle conseguenze indirette dalla sentenza altrui, determinando ciò la possibilità di un loro interesse all’esito di un processo di cui non sono parti[3].
Anzitutto, l’intervento può essere qualificato come volontario o coatto[4] a seconda che l’ingresso del terzo in giudizio avvenga sulla base di una sua propria autonoma scelta o per scelta di una delle parti già costituite, qualora si ritenga la causa comune al terzo oppure si voglia essere garantiti dallo stesso, o ancora per ordine del giudice laddove sia necessario integrare il contraddittorio oppure qualora il giudice ritenga la causa comune al terzo e, dunque, opportuno lo svolgimento del simultaneus processus anche nei confronti di quest'ultimo[5].
L'intervento volontario, a sua volta, può essere classificato in tre ulteriori categorie: occorre, difatti, distinguere tra intervento principale, intervento litisconsortile ed intervento adesivo dipendente.
Si parla di intervento principale (anche detto ad excludendum) allorquando l'interventore fa valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo[6], di intervento litisconsortile o adesivo autonomo allorquando il terzo interventore deduce in giudizio un rapporto connesso per l'oggetto o per il titolo nei confronti di alcune soltanto delle parti in causa[7], mentre l'intervento adesivo dipendente si ha quando il terzo, avendo un proprio interesse, interviene per sostenere le ragioni di una delle parti[8], al fine di ottenere una sentenza favorevole alla parte adiuvata[9].
Se il codice di procedura civile disciplina compiutamente le diverse tipologie di intervento[10], più complessa è la situazione nel processo amministrativo.
Diverse sono le problematiche sollevate nei confronti dell'ammissibilità dell'intervento nel processo amministrativo, causate, in primo luogo, dalla mancanza, sino al codice del 2010, di un'organica disciplina dettata dal legislatore, circostanza che ha posto il problema dell'applicabilità per analogia della disciplina prevista dal codice di rito civile[11].
La risposta formatasi era nel senso di escludere una generalizzata trasposizione delle norme processualcivilistiche nel processo amministrativo[12], atteso che queste sono state concepite e dettate con riferimento ad un modello di processo da citazione mentre il processo amministrativo è un tipico esempio di processo da ricorso, che si instaura dunque con un atto che si dirige subito al giudice, contenendo l'editio actionis ma non la vocatio in jus[13].
Ed infatti, sino al codice del 2010 la disciplina dell’intervento era contenuta in sole due disposizioni, ovvero nell’art. 22, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e nell’art. 37, r.d. 17 agosto 1907, n. 624, regolamento per la procedura dinnanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato[14].
Entrambe le disposizioni si limitavano a stabilire la possibilità di intervenire in giudizio per coloro che avessero un interesse nella contestazione[15] ed a disciplinare le modalità di notifica e del successivo deposito dell’atto di intervento[16].
Sulla base di questa sintetica quanto laconica disciplina, l’orientamento tradizionale, che, come anticipato, esclude una generalizzata applicabilità delle norme dettate per il processo civile, afferma che il processo amministrativo non dovrebbe conoscere l’intervento principale[17] e quindi la proposizione di una domanda autonoma da parte del terzo, avente ad oggetto una situazione soggettiva propria, diversa rispetto a quella già dedotte dalle altre parti e con esse incompatibili[18], in quanto è difficile individuare in questo tipo di giudizio soggetti che abbiano un interesse eterogeneo ed opposto rispetto a quello del ricorrente ed a quello della parte resistente[19].
Questa conclusione ha trovato conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, in specie nei propri arresti antecedenti al codice del 2010[20].
In particolare, i giudici amministrativi hanno ribadito che il terzo interventore, non potendo essere titolare di un interesse diretto nella controversia, non può assumere una posizione autonoma ma solo aderire alla posizione di una delle due parti principali, escludendo, pertanto, la possibilità di esperire un intervento principale o anche solo litisconsortile[21].
Esperibilità dell'intervento principale o litisconsortile che, secondo un autorevole orientamento formatosi in dottrina, risulterebbe esclusa anche perché, trattandosi di interventi finalizzati alla tutela diretta di interessi dei terzi, sarebbe incompatibile con la regola della perentorietà dei termini per agire nel giudizio amministrativo[22].
Non sembra potersi condividere tale conclusione, non soltanto perché, a seguito della emanazione del codice, la totale preclusione all'intervento principale ed a quello litisconsortile sembra essere venuta meno, pur continuando a rimanere perentori i termini per l'esercizio dell'azione nel giudizio amministrativo, ma anche in virtù del fatto che, se è vero che nel processo civile non vi sono termini di decadenza ma solo di prescrizione per l'esercizio dei propri diritti, bisogna altresì tenere in considerazione che l'intervento volontario e quello litisconsortile non sono consentiti ad libitum ma soltanto sino a quando le parti originarie hanno la facoltà di svolgere attività assertoria, costituendo l'atto di intervento esperito in un momento successivo, e cioè sino al momento della precisazione delle conclusioni, un intervento tardivo, possibile solo in forma adesiva[23].
Il codice di procedura civile ed il codice del processo amministrativo, rispettivamente agli articoli 268 e 28, prevedono pertanto che il terzo potrà intervenire solamente accettando lo stato ed il grado in cui il giudizio si trova senza poter compiere alcun atto difensivo rispetto al quale sia già maturato un termine preclusivo nei confronti delle altre parti: la conseguenza è che nel processo civile il terzo non potrà intervenire oltre l’udienza di trattazione o nel termine eventualmente fissato dal giudice a’ sensi del sesto comma dell’art. 183, cod. proc. civ., ovvero sino a quando alle parti originarie è consentita attività assertoria, dovendosi tenere in considerazione la possibilità di emendatio[24]ma non di mutatio libelli[25], con la conseguenza che l’intervento successivo, ammesso dall’art. 268, comma 1, cod. proc. civ. sino alla precisazione delle conclusioni, deve considerarsi, secondo l’orientamento prevalente, tardivo e limitato ai casi dell’intervento adesivo dipendente o del colegittimato all’azione[26].
Nel processo amministrativo, in modo analogo e ragionando in via astratta, l’intervento principale e litisconsortile non saranno più possibili decorso il termine di decadenza, al fine di evitare che l’intervento divenga lo strumento processuale cui ricorrere allorquando si è decaduti dall’azione di annullamento, potendo così dar luogo ad un possibile abuso del processo[27], dato l'utilizzo di uno strumento processuale per finalità ad esso estranee.
La conseguenza è che, se l'interventore formula al giudice amministrativo la propria domanda entro il termine di decadenza per la proposizione dell'azione, non vi dovrebbero essere ostacoli, riferibili ai termini processuali, che impediscano di ammettere ogni forma di intervento volontario.
Occorre, tuttavia, tenere in considerazione le peculiarità del processo amministrativo; ed infatti, come anticipato, nel giudizio di impugnazione è difficile ipotizzare l'esistenza di soggetti che assumano una posizione contrapposta ad entrambe le parti del giudizio attraverso la proposizione di un atto di intervento principale[28].
D'altronde, diversi sono i connotati dell'azione proponibile in tale tipologia di giudizio rispetto a quelli propri dell'azione nel processo civile.
L'azione nel processo amministrativo, nella sua tradizionale configurazione impugnatoria, ha carattere unilaterale, nel senso che il giudice è tenuto ad accertare soltanto la fondatezza delle censure dedotte dal ricorrente in relazione al provvedimento impugnato, contrariamente al processo civile ove l'azione è bilaterale, concorrendo ad essa il convenuto, che, se pure si limita esclusivamente a concludere per il rigetto della citazione o del ricorso dell'attore, sostanzialmente propone al giudice una domanda di accertamento del rapporto dedotto in giudizio[29].
Pertanto, seguendo la ricostruzione tradizionale, l'estraneità, rispetto al processo amministrativo d'impugnazione, della figura dell'intervento volontario nelle sue varie forme e con l'ampiezza nota al processo civile, deve farsi risalire ai concetti dell'immutabilità delle posizioni soggettive, per cui chi ha titolo per proporre ricorso non può in alternativa entrare nel giudizio come interventore[30], e della disponibilità di un solo mezzo di difesa, a seconda della posizione nella quale si trova l'interesse che si vuole tutelare rispetto al provvedimento impugnato[31].
Se vi è difficoltà, data la natura peculiare del giudizio amministrativo, specialmente nel suo modello originario e tradizionale di giudizio di impugnazione, ad ammettere l’intervento di un terzo portatore di un interesse incompatibile sia con quello del ricorrente sia con quello dell’Amministrazione resistente, pacifica è sempre stata l’ammissibilità dell’intervento adesivo dipendente nel giudizio amministrativo.
L’intervento adesivo dipendente, che si ha allorquando il terzo entra nel processo sostenendo le ragioni di una delle parti, si articola, come noto, in intervento ad adiuvandum allorché l’interventore aderisca alla posizione ed alle domande proposte dal ricorrente[32] ed in intervento ad opponendum quando l’interventore aderisce alla posizione della parte resistente o del controinteressato[33], opponendosi, in tal modo, alle domande avanzate dal ricorrente[34].
L’orientamento della giurisprudenza amministrativa è oramai consolidato nel ritenere ammissibile questa tipologia di intervento nel giudizio amministrativo.
Come è stato chiarito, due debbono essere le condizioni esistenti affinché l’intervento adesivo dipendente possa essere ritenuto ammissibile: la prima, di ordine negativo, si traduce nella necessaria alterità dell'interesse vantato dall'interventore rispetto a quello che legittimerebbe la proposizione del ricorso in via principale; la seconda, invece, a carattere positivo, esige che l'interventore sia in grado di ricevere un vantaggio, anche in via mediata e indiretta, dall'accoglimento del ricorso principale[35], ovviamente qualora sia proposto un intervento ad adiuvandum.
Di conseguenza, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, risulta inammissibile l'intervento ad adiuvandum spiegato nel processo amministrativo da chi sia ex se legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, considerato che in tale ipotesi l'interveniente non fa valere un mero interesse di fatto, bensì un interesse personale all'impugnazione di provvedimenti immediatamente lesivi, che può farsi valere solo mediante proposizione di un ricorso principale nei prescritti termini decadenziali[36].
È invece ammesso l'intervento adesivo dipendente, volto cioè a tutelare un interesse collegato a quello fatto valere dal ricorrente principale, con la conseguenza che la posizione dell'interessato è meramente accessoria e subordinata rispetto a quella della corrispondente parte[37] principale.
Difatti, la posizione che legittima a spiegare intervento ad adiuvandum nel giudizio amministrativo consiste nella titolarità di un interesse non direttamente leso dal provvedimento da altri impugnato: ad esempio, non è stato ritenuto ammissibile l'intervento adesivo dell'amministrazione controllata nel giudizio per l'annullamento di un atto negativo di controllo, e cioè di un atto repressivo dell'esercizio di un potere, del quale è attributaria[38] mentre è, al contrario, ammesso l'intervento del successore a titolo particolare nel rapporto controverso[39].
Ciò perché, sempre secondo il Consiglio di Stato, l'intervento nel processo amministrativo, sia nella previgente disciplina sia secondo il disposto di cui all'art. 28 co. 2, c.p.a., non determina un litisconsorzio autonomo, bensì adesivo dipendente, a sostegno delle ragioni di una delle parti, consentito a condizione che il soggetto, se legittimato, non sia decaduto dal diritto di impugnare il provvedimento amministrativo[40].
Nel processo amministrativo, insomma, l'intervento adesivo può essere svolto da soggetti che, non essendo stati parti nel rapporto sostanziale dedotto in giudizio, hanno comunque un interesse da far valere in giudizio, a condizione che la situazione giuridica fatta valere risulti dipendente o secondaria rispetto all'interesse fatto valere in via principale[41].
Ne consegue, sulla scorta dell’anticipato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che è inammissibile l'intervento di chi sia comunque legittimato a proporre direttamente ricorso in via principale avverso il medesimo atto impugnato da terzi nel procedimento in cui ritiene di intervenire, eludendosi altrimenti il rispetto dei termini decadenziali individuati dalla legge[42].
La circostanza che l'intervento adesivo dipendente, nelle forme dell’intervento ad adiuvandum o ad opponendum, possa essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale comporta, così come ribadito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel corso del 2020, che non è sufficiente a consentire l'intervento la sola circostanza che l'interventore sia parte di un diverso giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella oggetto del giudizio nel quale intende intervenire.
Peraltro, laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l'intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, scisse dall'oggetto specifico del giudizio cui l'intervento si riferisce[43].
Risulterebbe pertanto sistematicamente incongruo ammettere l'intervento volontario in ipotesi che si risolvessero nel demandare ad un giudice diverso da quello naturale (art. 25, co. 1, Cost.)[44] il compito di verificare in concreto l'effettività dell'interesse all'intervento (e, con essa, la concreta rilevanza della questione ai fini della definizione del giudizio a quo), in assenza di un adeguato quadro conoscitivo di carattere processuale, ove si pensi alla necessaria verifica che il giudice ad quem sarebbe chiamato a svolgere, ai fini del richiamato giudizio di rilevanza, circa l'effettiva sussistenza in capo all'interveniente dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del giudizio a quo[45].
Questo ovviamente per quanto concerne la giurisdizione di legittimità ove si pone il problema del rispetto dei termini decadenziali per l’impugnazione dei provvedimenti.
Diversa parrebbe la situazione relativamente alle controversie che rientrano nella giurisdizione esclusiva[46].
Difatti, si dovrebbe ritenere che nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva che vertono sulla tutela dei diritti soggettivi siano utilizzabili tutte le forme di intervento disciplinate dal codice di procedura civile, non potendosi pervenire a soluzione diversa se si vuole che il processo amministrativo, seguendo altresì i dettami del diritto e della giurisprudenza europea, sia effettiva attuazione della funzione giurisdizionale, cioè renda giustizia[47].
Ed invero, la configurazione della nuova giurisdizione amministrativa esclusiva in termini di “giurisdizione piena” non consente una limitazione delle facoltà processuali delle parti, ove esse non siano espressamente escluse dalle norme processuali amministrative o, comunque, rispetto ad esso incompatibili[48].
Così, in queste ipotesi, dovrebbe ritenersi ammissibile l'intervento non solo adesivo ma anche principale: ogni soggetto che si pretenda interessato può intervenire in giudizio rispettando le forme e i termini propri dell'atto di intervento, salva la successiva verifica all'udienza cautelare o pubblica dell'ammissibilità e della fondatezza dell'intervento stesso[49].
Se si configura il giudizio amministrativo non più necessariamente come un giudizio su un atto[50] ma come un giudizio su un rapporto[51] e sulle sottese situazioni giuridiche, che possono essere anche di diritto soggettivo, è evidente che in questi casi, avvicinando sempre di più il processo amministrativo a quello civile, quanto a facoltà e poteri processuali, non si può non consentire la possibilità di intervenire in giudizio secondo tutte le modalità di intervento volontario previste dal codice di procedura civile[52].
3. La legittimazione ad agire dei controinteressati e l’esperibilità dell’opposizione di terzo.
Gli istituti dell’intervento in giudizio e dell’opposizione di terzo sono tra di loro strettamente interconnessi e non possono essere trattati disgiuntamente.
Quanto appena descritto in tema di intervento è perciò una necessaria precondizione per comprendere al meglio la portata dell’istituto dell’opposizione di terzo.
Occorre, anzitutto, dare conto del fatto che l’opposizione di terzo non è sempre stata prevista tra i mezzi impugnatori della sentenza del giudice amministrativo[53].
La Corte costituzionale, difatti, con la sentenza di tipo addittivo n. 177 del 1995, aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 28 della Legge n. 1034 del 1971 nella parte in cui non prevedeva l'opposizione di terzo[54] tra i rimedi impugnatori nei confronti delle sentenze del giudice amministrativo, strumento necessario al terzo toccato dal giudicato al fine di far valere le sue ragioni dotandolo di un apposito mezzo di impugnazione equivalente a quello che, in altri processi, consente di soddisfare le medesime esigenze, atteso che l'azione amministrativa, direttamente o di riflesso, coinvolge per sua natura una pluralità di soggetti che non sempre sono ritenuti parte necessaria nelle controversie oggetto del giudizio[55].
L’interconnessione con l’intervento in giudizio è palese laddove si consideri che, se al terzo deve essere consentito l'utilizzo di questo strumento impugnatorio[56], parimenti si deve ribadire possibile, quantomeno relativamente alle ipotesi di giurisdizione esclusiva vertenti su diritti soggettivi[57], esperire tutte le tipologie di intervento volontario previste nel nostro ordinamento[58], tenendo in considerazione che l'intervento volontario costituisce, come noto, una sorta di opposizione di terzo "anticipata"[59], nel senso che permette di introdursi in quel giudizio rispetto al quale si ha un particolare interesse e che si concluderà con una sentenza rispetto alla quale si potrebbe attivare il rimedio dell'opposizione del terzo[60].
Tutto ciò evita, rispettando i principi della pienezza del contradditorio e dell’effettività della tutela giurisdizionale del singolo processo, di ricorrere ad uno strumento di eliminazione del giudicato formatosi, valorizzando la regola aurea della certezza dei rapporti giuridici così come definiti dalla sentenza che conclude il giudizio[61].
Come anticipato, però, il percorso che ha portato all’inclusione dell’opposizione di terzo tra i mezzi impugnatori nel processo amministrativo è stato lungo e tormentato[62], non solo per la mancata previsione da parte del legislatore ma anche per l’atteggiamento, che si potrebbe definire non creativo, della giurisprudenza amministrativa.
La IV Sezione del Consiglio di Stato, sin dal 1892, ha ritenuto di negare accesso ad istanze in forma di opposizione di terzo in quanto estranee al procedimento contenzioso amministrativo[63]. La spiegazione può essere rinvenuta, oltreché nel silenzio normativo, anche nella tradizionale configurazione impugnatoria del giudizio amministrativo, che pareva escludere la possibilità di consentire un tal mezzo impugnatorio ai terzi, in quanto, se il provvedimento oggetto del giudizio di annullamento ha un’efficacia erga omnes, la stessa efficacia deve essere necessariamente riconosciuta alla sentenza che conclude il giudizio[64].
Il problema principale che emerse in un processo che si stava configurando come un processo di parti riguardava la posizione dei controinteressati pretermessi dal giudizio di primo grado, rispetto ai quali autorevole parte della dottrina evidenziò la necessità di ammettere l’esperibilità dell’opposizione di terzo come necessaria garanzia del contraddittorio in favore di soggetti che altrimenti non avrebbero altro modo di tutelare le proprie posizioni soggettive[65].
Per quanto si ritenesse che la giurisprudenza amministrativa non potesse colmare la lacuna normativa o meglio non potesse estendere in via analogica la disciplina prevista per il processo civile[66], emergeva con forza il problema della tutela dei terzi, ed in particolare dei controinteressati[67], e della necessaria attuazione della garanzia del contraddittorio, con la conseguenza che specialmente il Consiglio di Stato cercò di estendere la legittimazione dell’intervento in appello in senso ampiamente esteso a “qualunque interessato che non sia anche parte necessaria del processo”, in considerazione del fatto che il giudizio, tra altre parti pendente, “possa pregiudicare in linea di fatto la posizione soggettiva” del terzo escluso dal giudizio[68].
Risolutivo è stato l’intervento, probabilmente tardivo, della Corte costituzionale con la sentenza n. 177 del 1995.
La Corte, come noto, ha ritenuto la mancanza nella disciplina del processo amministrativo dell’opposizione di terzo ordinaria[69] avverso le sentenze del Consiglio di Stato in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Ciò semplicemente sulla base della ratio dell’istituto.
L'esigenza del rimedio è, in base agli orientamenti prevalenti, desunta dalla constatazione della possibilità che - nonostante la regola generale, dettata dall'art. 2909 cod. civ., dell' inefficacia della sentenza nei confronti di soggetti diversi dalle parti del processo a conclusione del quale essa sia stata pronunciata - si presentino casi in cui, per effetto della cosa giudicata, venga a determinarsi una obbiettiva incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa[70].
L’opposizione di terzo ordinaria trae perciò ispirazione da tale evenienza e consente a coloro che non sono stati coinvolti nel processo di far valere le loro ragioni, infrangendo lo schermo del giudicato per rimuovere il pregiudizio che da esso possa loro derivare. Ciò sia nel caso che la situazione vantata dall'opponente ed incompatibile con quella affermata dal giudicato venga considerata dal diritto sostanziale prevalente rispetto a quest'ultima, sia nel caso che la sentenza cui ci si oppone risulti pronunciata senza il rispetto di regole processuali[71].
Evenienze del genere si manifestano certamente anche nel processo amministrativo. Anzi, a causa dell'intreccio dei rapporti naturalmente implicati dall'attività amministrativa e dai relativi procedimenti oggetto di sindacato giurisdizionale, è probabile che detta evenienza possa manifestarsi più frequentemente proprio in questo processo e non soltanto nei casi in cui un controinteressato, parte necessaria, sia stato pretermesso e non abbia potuto far valere le sue ragioni.
Non di rado, difatti, l'azione amministrativa, direttamente o di riflesso, coinvolge per sua natura una pluralità di soggetti che non sempre sono ritenuti parte necessaria nelle controversie oggetto del giudizio.
Data la peculiare natura del processo amministrativo che, come attualmente configurato, si svolge normalmente tra i soggetti interessati dall'atto impugnato, è possibile che la sentenza che lo conclude possa poi dar luogo, per la sua attuazione, ad altri procedimenti interferenti su rapporti facenti capo a soggetti che non dovevano o, in alcuni casi, addirittura non potevano partecipare al processo e dunque diversi dai destinatari in senso formale della sentenza medesima.
L’introduzione così perentoria operata dalla Corte costituzionale ha trovato finalmente la sua definitiva consacrazione legislativa con il Codice del processo amministrativo del 2010.
L’art. 108 del Codice, riprendendo in modo pressoché analogo il dettato dell’art. 404 cod. proc. civ., al primo comma delinea l’opposizione di terzo ordinaria stabilendo che un terzo può fare opposizione contro una sentenza del tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi.
Una volta che l’istituto ha trovato espresso riconoscimento nel sistema positivo del processo amministrativo, è divenuto necessario individuare quali sono i soggetti che vi possono ricorrere, e qui la giurisprudenza ha dovuto evidentemente chiarire quali sono i terzi che possono vedere pregiudicata la propria posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo da una sentenza pronunziata tra altre parti processuali.
Come chiarito anzitutto dal Consiglio di Stato[72], la legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti della decisione del giudice amministrativo resa tra altri soggetti deve essere riconosciuta: a) ai controinteressati pretermessi, perché è mancata la notifica nei loro confronti; b) ai controinteressati sopravvenuti; c) ai controinteressati non facilmente identificabili; d) in generale, ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione[73], con esclusione, di conseguenza, dei titolari di un diritto dipendente, ovvero di soggetti interessati di riflesso, non sussistendo per questi, per definizione, il requisito dell´autonomia della loro posizione soggettiva[74].
La legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti di sentenza del giudice amministrativo resa inter alios deve essere, dunque, riconosciuta ai controinteressati pretermessi, nonché a quelli occulti (perché non facilmente identificabili) o sopravvenuti, non intervenuti nel processo, allorquando tale assenza non sia dipesa da una loro decisione, ma sia conseguenza di un'omissione dovuta alla controparte, alla mancata attivazione dei poteri di integrazione del contraddittorio del giudice o a vizi del procedimento amministrativo a monte, per mancanza di una corretta individuazione o di una espressa evocazione nella formalità degli atti.
Tali soggetti, pur non avendo partecipato al relativo giudizio, sono nondimeno titolari di un interesse qualificato al mantenimento dell'atto impugnato: interesse che, di conseguenza, risulta travolto direttamente dall'annullamento dell'atto stesso; sicché l'attuazione del comando contenuto nella sentenza sarebbe ontologicamente incompatibile rispetto ad una coesistenza, sul piano sostanziale, dei due ordini di interessi propri del ricorrente e dell'opponente[75].
Pertanto, nell'attuale formulazione dell'art. 108, co. 1 del Codice, dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 195/2011[76], la legittimazione a proporre opposizione si incentra su due elementi essenziali, uno che si potrebbe definire di carattere negativo e l’altro positivo: la mancata partecipazione al giudizio conclusosi con la sentenza opposta ed il pregiudizio che reca la sentenza ad una posizione giuridica di diritto soggettivo o di interesse legittimo di cui l'opponente risulti titolare.
Solamente attraverso l'opposizione di terzo, quindi, può sanarsi la contraddizione tra "cosa giudicata" in senso sostanziale (ex art. 2909 cod. civ.), che tuttavia, come è noto, definisce e limita l'efficacia dell'accertamento contenuto in sentenza alle parti del giudizio, e posizione di colui che tale qualifica di parte non ha potuto incolpevolmente acquisire, risolvendosi così quella incompatibilità fra la situazione giuridica definita dalla sentenza e quella di cui sia titolare un soggetto terzo rispetto ai destinatari della stessa, già rilevata dalla Corte costituzionale con la nota sentenza additiva del 1995.
Deve, invece, escludersi la legittimazione ad agire in opposizione di terzo avverso la sentenza lesiva per il titolare della posizione principale di coloro che, rimasti estranei al giudizio, siano titolari di un interesse di mero fatto, non giuridicamente rilevante, alla rimozione del provvedimento impugnato, interesse che avrebbe tutt'al più legittimato un intervento ad adiuvandum in primo grado, ai sensi dell'art. 28, co. 2, cod. proc amm.[77]
E quindi, la legittimazione ad impugnare la sentenza con l'opposizione di terzo ordinaria (ex art. 108, comma 1, cod. proc. amm.) presuppone in capo all'opponente la titolarità di un diritto, o di un interesse legittimo, pregiudicato dalla situazione giuridica risultante dalla sentenza pronunciata tra altre parti, con la precisazione che l'incompatibilità della sua posizione con la statuizione giurisdizionale deve essere riferita non solo a colui il quale aspirava al medesimo bene conseguito dal ricorrente vittorioso, ma, in senso più lato, anche a colui che intenda difendere un bene della vita inciso negativamente, nella sua integrità o nel suo valore, dalla sentenza opposta[78].
Il problema principale nel valutare l’ammissibilità dell’opposizione di terzo concerne, pertanto, la figura del terzo nel processo amministrativo, ed in particolare del controinteressato, e la sua legittimazione ad intervenire, o meglio a resistere rispetto ad una sentenza ed a un giudicato che si può formare anche nei suoi confronti senza che questo abbia potuto svolgere attività difensiva a tutela dei propri interessi nel giudizio.
La questione non è di facile risoluzione, specialmente quanto all’individuazione dei terzi, e così il Consiglio di Stato ha cercato di chiarire il quadro con un’importante pronunzia del 2019.
Le leggi sul processo amministrativo hanno sempre contemplato, accanto ai controinteressati, che sono parti necessarie, una categoria indefinita di terzi che sono legittimati a intervenire, ma il modello risulta tutt'altro che conclusivo, se non altro perché considera più le forme di ingresso nel processo, che i contenuti e le prerogative di ciascuna partecipazione.
Per i controinteressati in senso stretto, la questione si pone, sotto il profilo processuale, nei termini di attuazione del principio del contraddittorio, il quale (in particolare, art. 2 cod. proc. amm. anche in relazione all'art. 24 Cost. e all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, richiamati dall'art. 1 cod. proc. amm.), si declina operativamente (artt. 27 e 41 del Codice) nel senso della sua necessaria "integralità", garantita dalla notifica del ricorso all'Amministrazione resistente e, ove esistenti, a tutti i "controinteressati", che costituiscono le parti necessarie, cioè le "parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata" (al riguardo, l’art. 28, co. 1, le legittima, in caso di omessa notifica, all'intervento "senza pregiudizio del diritto di difesa", cioè senza la soggezione allo stato e grado del giudizio e senza il condizionamento alla sussistenza di uno specifico interesse ed all'accertamento del mancato verificarsi di decadenze, cui il successivo comma subordina l'intervento di altri terzi che non siano contraddittori necessari).
Propriamente controinteressati sono, del resto, le "persone alle quali l'atto o provvedimento direttamente si riferisce" di cui già faceva (esatta) parola l'art. 36, co. 2, T.U sul Consiglio di Stato: titolari di un interesse qualificato opposto a quello del ricorrente, la cui posizione processuale (era ed) è qualificabile in termini di vero e proprio litisconsorzio necessario.
Peraltro, è noto che la nozione rilevante di controinteressato necessario fa leva sulla ricorrenza di un duplice requisito: 1) sostanziale, rappresentato dalla titolarità di una posizione qualificata di vantaggio, attribuita specificamente a quel soggetto dal provvedimento impugnato (in tal senso l'atto è "riferibile" ad essa); 2) formale, rappresentato dall'identificazione nominativa del soggetto nell'atto impugnato.
Oltretutto, la verifica dei requisiti per la posizione di controinteressato viene effettuata con riguardo al momento di introduzione del giudizio (come è logico, trattandosi di posizione di controinteresse rispetto all'atto impugnato). Pertanto, l'acquisto di una posizione qualificata di vantaggio successivamente alla presentazione del ricorso (come spesso si verifica nel caso di emanazione di provvedimenti consequenziali a quello impugnato) non comporta alcuna necessità di integrare il contraddittorio. Per tal via, non sono litisconsorti necessari i controinteressati successivi.
Queste considerazioni dimostrano l’eccezionalità della figura dei controinteressati in senso solo sostanziale (o controinteressati "occulti") e dei controinteressati successivi: essi sono parimenti titolari di una situazione soggettiva qualificata (opposta, con riferimento all'atto impugnato, a quella del ricorrente) e sono, perciò, assoggettati agli effetti della sentenza (quanto meno, della sentenza di annullamento), pur non essendo contraddittori necessari.
Occorre osservare - avuto riguardo alla distinzione tra effetto di annullamento[79] ed efficacia (soggettiva) del giudicato - che tali soggetti subiscono le conseguenze demolitorie della sentenza inter alios, ma non sono soggetti al relativo giudicato[80], che è condizione - necessaria prima che sufficiente - a legittimarli alla opposizione di terzo.
Più complessa è la situazione che si verifica allorché la posizione di vantaggio sia determinata da un atto impugnato che abbia consistenza normativa o portata generale: in questi casi (in sintomatica differenza di quel che è dato riscontrare nei provvedimenti c.d. plurimi), l'annullamento ha caratteristica efficacia ultra partes.
Nondimeno, a differenza dei controinteressati in senso proprio, l'attribuzione di una posizione di vantaggio è, per definizione, priva del carattere di "specificità": onde, pur essendo possibile l'intervento in giudizio, appare arduo immaginare una generalizzata legittimazione all'opposizione di terzo (verisimilmente preclusa proprio dal rilievo che si tratta di soggetti direttamente incisi dal giudicato, rispetto al quale non sono perciò propriamente terzi).
Sotto ulteriore profilo, titolare di una posizione qualificata d'interessi, opposta a quella del ricorrente, non è solo chi abbia "conseguito un vantaggio specifico" per effetto dell'atto impugnato, ma è anche chi per effetto dello stesso atto abbia "evitato un pregiudizio specifico". Si pensi al caso del proprietario rispetto all'impugnazione, da parte del vicino, di un diniego (o di un annullamento) di un permesso di costruire[81]; ovvero al concorrente, rispetto alla impugnazione di un provvedimento di esclusione[82].
La giurisprudenza afferma tradizionalmente che questi soggetti non sono controinteressati, rilevando che il provvedimento impugnato (negli esempi proposti: il diniego o l'annullamento del permesso di costruire, l'esclusione da una procedura concorsuale o ad evidenza pubblica) non assegna ad essi alcuno specifico vantaggio. Di conseguenza, anche se questi terzi sono espressamente "nominati" nell'atto, non assumono mai la veste di contraddittori necessari, pur potendo intervenire in giudizio.
Dovrebbe anche, coerentemente, escludersi per costoro la possibilità di proporre opposizione di terzo: sennonché la questione, secondo il Consiglio di Stato[83], parrebbe richiedere un complessivo ripensamento, che esula del tutto dai limiti delle considerazioni che si vanno svolgendo, alla luce della possibilità che, in conseguenza del progressivo trasformarsi del giudizio sull'atto in giudizio sul rapporto, si acceda già in sede cognitoria (e non solo nella tradizionale prospettiva conformativa) all'accertamento, in presenza di attività vincolata, della fondatezza della pretesa[84].
Parimenti opinabile è, in questa prospettiva, il superamento, per espressa e non poco problematica opzione positiva, della tradizionale opinione circa l'assenza di controinteressati nel giudizio avverso il silenzio dell'Amministrazione[85]: anche qui, se la possibilità di legittimare posizioni di controinteresse necessario emerge dalla scelta legislativa (verosimilmente giustificata proprio dalla apertura del giudizio sul silenzio all'accertamento della fondatezza sostanziale della pretesa), resta dubbio in quale misura possa strutturarsi la legittimazione a proporre opposizione di terzo avverso la sentenza che si limiti ad accertare l'obbligo di provvedere.
In ogni caso, ancora diversa è la posizione dei terzi titolari di un interesse semplicemente "dipendente" da quello di una delle parti necessarie del processo, che per vario rispetto possono essere equiparati (anche ai fini della legittimazione all'intervento) ai titolari di un interesse di mero fatto.
Costoro, per un verso non possono vantare una posizione soggettiva autonoma (stante la postulata relazione di dipendenza) e, per altro verso, non sono mai e per definizione, rispetto al giudicato inter alios, in posizione di incompatibilità giuridica, ma - semmai - di mera (e non rilevante) incompatibilità pratica (che, se vale ad abilitarli all'intervento adesivo dipendente ad adiuvandum, ne esclude la legittimazione all'opposizione impugnatoria).
I rilievi che precedono giustificano, pur nella obiettiva problematicità di qualche profilo, le conclusioni cui è giusta la giurisprudenza, alla cui stregua deve ritenersi che la legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti di una sentenza del giudice amministrativo resa inter alios vada, in definitiva, riconosciuta solo ai controinteressati pretermessi, nonché a quelli occulti (perché non facilmente identificabili) e a quelli sopravvenuti, non intervenuti nel processo, allorquando tale assenza non sia dipesa da una loro decisione, ma sia conseguenza di un'omissione dovuta alla controparte, alla mancata attivazione dei poteri di integrazione del contraddittorio del giudice o a vizi del procedimento amministrativo a monte, per mancanza di una corretta individuazione o di una espressa evocazione nella formalità degli atti.
Tali soggetti, pur non avendo partecipato al relativo giudizio, sono nondimeno portatori di un interesse (giuridicamente) qualificato al mantenimento dell'atto impugnato: interesse che, di conseguenza, risulta travolto (direttamente ed immediatamente) dall'annullamento dell'atto stesso; sicché l'attuazione del comando contenuto nella sentenza sarebbe ontologicamente incompatibile rispetto ad una coesistenza, sul piano sostanziale, dei due ordini di interessi propri del ricorrente e dell'opponente[86].
Si deve, per l’opposto ordine di ragioni, escludere la legittimazione attiva all'opposizione di terzo ordinaria di coloro la cui situazione giuridica sia (semplicemente) collegata da un rapporto di dipendenza o di derivazione con quella di altri soggetti parti in causa; allo stesso modo deve essere esclusa la legittimazione ad agire dei soggetti interessati solo di riflesso: rispetto a tali categorie difetta, infatti, il requisito dell'autonomia della posizione soggettiva stessa.
Pertanto, a differenza della parte necessaria pretermessa, il titolare della posizione secondaria, accessoria e riflessa, pur potendo intervenire nel giudizio, non è legittimato ad impugnare con opposizione di terzo ordinaria la sentenza lesiva per il titolare della posizione principale[87].
4. La soluzione fornita dal CGARS sul rapporto tra opposizione di terzo ed intervento nel giudizio di appello: l’orientamento in materia di ammissibilità dell’opposizione di terzo è consolidato.
Per pacifica giurisprudenza, l'opposizione di terzo è mezzo di impugnazione a contestuale natura rescindente e rescissoria[88], perché mira anche all'accertamento di una pretesa in conflitto con quella accertata giudizialmente[89].
Il problema principale, come si è ampiamente visto nel precedente paragrafo, attiene alla legittimazione alla proposizione del rimedio impugnatorio.
Nel caso di specie, la Società che ha proposto l’opposizione di terzo ha radicato la propria legittimazione su due elementi: di aver partecipato alla procedura indetta dall’Amministrazione comunale mediante avviso pubblico, nell’anno 2017, per acquisire la disponibilità di operatori interessati all’attivazione di un partenariato pubblico/privato per la gestione delle attività connesse a una concessione demaniale marittima nella località Capo Rais Gerbi (titolo che sarebbe stato poi rilasciato al Comune mediante un decreto regionale); e di avere stipulato con lo stesso Comune il relativo accordo di partenariato il successivo 22 febbraio 2019.
Il Consiglio di Giustizia ha ritenuto inammissibile l’opposizione di terzo.
Basandosi sulla consolidata giurisprudenza esaminata nel paragrafo precedente, il Consiglio di Giustizia ha ricordato che la proposizione dell'opposizione di terzo ordinaria contro una sentenza del giudice amministrativo, ancorché non passata in giudicato, è subordinata alla sussistenza di un pregiudizio, determinato dalla pronunzia impugnata, ai diritti o agli interessi legittimi del ricorrente.
Il rimedio ha, infatti, il fine di tutelare il litisconsorte necessario pretermesso, ovvero il titolare di una situazione soggettiva autonoma e incompatibile con quella accertata nella sentenza e rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della pronunzia opposta[90].
Perché possa essere proposta l’opposizione di terzo deve perciò sussistere un elemento fondamentale: la titolarità di una posizione soggettiva autonoma giuridicamente qualificata rispetto al thema decidendum, escludendo, per converso, la legittimazione di coloro che versino in una posizione collegata da un nesso di dipendenza o derivazione (o comunque meramente secondaria e accessoria) rispetto a quella di una delle parti in causa, o che siano interessati solo di riflesso.
Nel caso di specie, la posizione della Società che ha proposto opposizione di terzo si ricollega appunto solo in via derivata e riflessa, ossia solo per il tramite del concluso accordo di partenariato, alla concessione demaniale rilasciata dalla Regione, col decreto impugnato in sede giurisdizionale, all’Amministrazione comunale di Pollina.
Il provvedimento concessorio, di per sé, non attribuisce infatti all’opponente alcun diretto vantaggio giuridico.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, però, si spinge oltre, non limitandosi a dichiarare la semplice inammissibilità dell’opposizione di terzo spiegata; ed infatti, in coerenza con il principio di conservazione degli atti processuali, ha ritenuto che l’intervento della Società opponente benché spiegato sotto forma di opposizione di terzo, possa comunque essere riguardato sub specie di comune intervento adesivo dipendente ad adiuvandum dell’appello comunale, in applicazione della regola generale della possibilità d’intervento nel giudizio d’impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (art. 97 c.p.a.).
La conclusione cui giunge l’organo d’appello della giustizia amministrativa siciliana è condivisibile.
Dato che l'opposizione di terzo ordinaria può essere proposta non già da tutti coloro che rivestono la qualità di terzi rispetto al giudizio nel quale è stata emessa la sentenza ed abbiano comunque un interesse, sia pure di fatto, ad insorgere contro la pronunzia, ma soltanto da chi, oltre ad essere terzo, vanta in relazione al bene che ha formato oggetto della controversia un proprio diritto autonomo e nel contempo incompatibile con il rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza[91], circostanza che nel caso di specie non era ravvisabile, la legittimazione ad introdursi in giudizio della Società che ha proposto l’opposizione di terzo giudicata inammissibile può essere qualificata più correttamente come legittimazione ad intervenire in appello poiché, ai sensi dell'art. 97, cod. proc. amm., l'intervento adesivo non autonomo può essere proposto per la prima volta anche nel processo amministrativo di appello da parte di chiunque abbia interesse alla contestazione, altresì ove titolare di un interesse di mero fatto[92].
Questo è proprio il caso di specie ove non vi è un contrasto tra i rapporti giuridici accertati in sede giurisdizionale e quelli di soggetti terzi, potendo questi vantare solo interessi in via derivata e riflessa dall’utilizzo della concessione demaniale da parte del Comune di Pollina, con la conseguenza che al limite possono intervenire in appello ex art. 97 del Codice[93] ma non certo proporre opposizione di terzo ordinaria.
[1] Si permetta il rinvio, per un approfondimento della questione, a M. Ricciardo Calderaro, La comparazione degli interessi nel giudizio cautelare amministrativo. Un nuovo modo di valutare i presupposti processuali, in Federalismi, n. 27/2020, 223 ss.; in generale si rinvia a M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 2010, 1130 ss.; in materia cautelare si deve dare conto della recente tendenza ad impugnare i decreti cautelari monocratici, malgrado il chiaro disposto in senso contrario del Codice del processo amministrativo: sul punto cfr. M.A Sandulli, Giurisprudenza creativa e digitalizzazione: una pericolosa interazione che accresce i rischi di incertezza sulle regole processuali, in Federalismi, 13 gennaio 2021; ma già prima del Codice cfr. C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, in Foro amm. CdS, 2009, 2615 ss.
[2] Sulle reiterate proroghe delle concessioni demaniali per uso turistico e sul relativo intervento della Commissione dell’Unione europea nei confronti dell’Italia cfr. P. Quinto, Proroga delle concessioni demaniali, in LexItalia, 9 dicembre 2020; la letteratura in materia è ampia, ex multis si rinvia a F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in Aa. Vv., Scritti in onore di Eugenio Picozza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, vol. I, 729 ss.; F. Armenante, La non disciplina delle concessioni demaniali: dall’abrogazione dell’innaturale diritto di insistenza alle plurime e asistematiche proroghe anticomunitarie, in Riv. giur. edil., 2020, 261 ss.; A. Lucarelli, L. Longhi, Le concessioni demaniali marittime e la democratizzazione della regola della concorrenza, in Giur. cost., 2018, 1250 ss.; M. Timo, Concessioni demaniali marittime: tra tutela della concorrenza e protezione della costa, in Giur. it., 2017, 2191 ss.; L. Di Giovanni, Le concessioni demaniali marittime e il divieto di proroga ex lege, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2016, 912 ss.; A. Monica, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2013, 437 ss.; M. D’Orsogna, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, in Urb. e app., 2011, 599 ss.
[3] Così E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, a cura di V. Colesanti, E. Merlin, E.F. Ricci, Milano, Giuffrè, 2007, 103; nello stesso senso L. Montesano, G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, Cedam, 2001, vol. I, 632, secondo cui "la ratio che accomuna le varie ipotesi di intervento, sia volontario che coatto, deve essere individuata nell'interdipendenza dei rapporti giuridici sostanziali, cioè nei collegamenti, di vario tipo e natura, che possono sussistere, sul terreno sostanziale, tra il rapporto che è oggetto dell'originario processo ed altri rapporti che coinvolgono o possono coinvolgere soggetti estranei al primo: coinvolgimento, però, che, per la natura stessa di tali collegamenti sostanziali, non richiede mai la necessaria partecipazione di altri soggetti (i quali sarebbero, in tal caso, litisconsorti necessari), ma che può determinare, sempre sul terreno sostanziale, conseguenze in senso lato pregiudizievoli (o potenzialmente tali) nei confronti di questi soggetti in relazione all'esito della lite, tali da giustificare la partecipazione degli stessi al processo inter alios".
[4] S. Costa, Intervento (dir. proc. civ.), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1972, vol. XXII, 466, evidenzia come l'intervento coatto, inteso in senso generale, comprende vari istituti che vanno dall'intervento coatto in senso stretto, alla laudatio o nominatio auctoris, ed alla litisdenuntiatio; "questi due ultimi istituti non hanno in realtà la funzione di servire per la chiamata in causa di un terzo, ma la litisdenuntiatio consiste nella denunzia al terzo che è sorta una determinata lite, mentre con la nominatio auctoris il possessore d'una cosa in nome altrui, convenuto in tale qualità, denuncia la lite al possessore mediato, onde esser estromesso".
[5] Secondo F. Locatelli, Commento all’art. 105, in L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella (diretto da), Commentario del codice di procedura civile, Torino, Utet, 2012, vol. II, 97 ss., “le ragioni che giustificano il superamento della bilateralità dello schema classico del processo e aprono la via all’ipotesi dell’intervento in causa, concernono le connessioni sostanziali sottostanti alle azioni esperite, che possono essere di diverso tipo, ma mai tali da rendere la partecipazione del terzo al processo necessaria (ossia non si è dinnanzi a quelle stesse ragioni che legittimano e giustificano il litisconsorzio facoltativo). L’interesse ad intervenire spontaneamente in causa si comprende, in particolare, solo alla luce delle possibili conseguenze indirette e pregiudizievoli che potrebbero scaturire per il terzo che decida di rimanere estraneo al processo”.
[6] Sul punto cfr. C. Punzi, Il processo civile, Sistema e problematiche, Torino, Giappichelli, 2008, vol. I, 315 ss., secondo cui, in tale tipologia di intervento, "le caratteristiche che deve avere il diritto del terzo, perché costui possa ottenere la tutela richiesta, sono tre: autonomia-incompatibilità-prevalenza".
[7] In tema cfr. A. Chizzini, Commento all'art. 105, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato, Milano, Ipsoa, 2010, 1186, a giudizio del quale, con questa tipologia di intervento, "si viene a instaurare a posteriori un litisconsorzio facoltativo dato che può mancare l'accordo per l'azione comune all'inizio del processo".
[8] Così, ex multis, S. Costa, op.cit., 462.
[9] A. Chizzini, L'intervento adesivo, Struttura e funzione, Padova, Cedam, 1992, vol. II, 901 ss., osserva come "l'affermazione di una dipendenza all'interno del processo rispetto alla volontà della parte principale deve essere un dato accolto solo alla luce della valutazione del diritto positivo - e con precisione, del diritto processuale - e non un mero corollario che si trae dalla stessa natura della situazione sostanziale che opera sul piano diverso della legittimazione. Peraltro (...) spesso non si supera l'immediato rilievo che l'intervenuto non è titolare del rapporto dedotto e in ragione di ciò si ritiene di potere risolvere persuasivamente ogni questione che attiene alla posizione dell'intervenuto nel processo. Il che appare, invece, del tutto insufficiente".
[10] Sulle tipologie e le modalità di intervento nel giudizio civile cfr. C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, Torino, Giappichelli, 2016, vol. I, 454 ss. e vol. II, 134 ss.; G. Tarzia, F. Danovi, Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano, Giuffrè, 2014, 166 ss.
[11] Con riferimento alla disciplina che era stata prevista per l’intervento nel giudizio dinnanzi al Consiglio di Stato cfr. U. Borsi, La giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 1941, 315, secondo cui “l’interveniente non può ampliare il tema della controversia sollevata col ricorso”; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1969, 830 ss.
[12] M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 434, osserva come “volgere lo sguardo direttamente al complesso gioco degli interessi coinvolti dall’azione amministrativa, al di là dello schermo formale del provvedimento amministrativo, avrebbe richiesto, infatti, un mutamento di prospettiva assai profondo cui dottrina e giurisprudenza non erano preparate, attese le incertezze dogmatiche sulla nozione di interesse legittimo e la costruzione del processo amministrativo secondo uno schema prettamente demolitorio. E ciò trova conferma nella circostanza che alcune delle più brillanti intuizioni sull’intervento (che rappresentano forse il miglior tentativo di trasferire alla realtà amministrativa le esperienze del processo civile) provengono da quella nostra dottrina che ha consegnato alla dogmatica giuridica una compiuta elaborazione del rapporto giuridico amministrativo quale oggetto del giudizio: con tutto ciò che a questa innovativa (al di là della sua accoglibilità sul piano concettuale) elaborazione consegue in tema di ricostruzione del contraddittorio, del giudicato e dell’estensione delle forme di intervento ammesse nel giudizio amministrativo”; sull’esclusione di una generalizzata applicabilità delle norme del codice di procedura civile all’intervento nel processo amministrativo cfr. M. Pazardjiklian, Riflessioni sulla legittimazione all’appello da parte dell’interveniente “ad opponendum”, in Dir. proc. amm., 1997, 853 ss.
[13] Sul punto cfr. A. Police, Il ricorso di primo grado, la costituzione delle altre parti, l'intervento, il ricorso incidentale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, Cedam, 2014, vol. XLII, 407 ss.; per una ricostruzione tradizionale si rinvia a F. Sciarretta, Appunti di giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2007, 196 ss., a giudizio del quale l’unico intervento ammissibile nel processo amministrativo è quello volontario adesivo, rimanendo esclusi sia l’intervento principale che quello litisconsortile, “in quanto attraverso questi tipi di intervento potrebbe essere facilmente elusa la perentorietà del termine entro il quale deve essere proposto il ricorso”; sulla possibilità del solo intervento ad adiuvandum cfr. già G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1958, vol. II, 266.
[14] Secondo L.R. Perfetti, Commento all'art. 22, in A. Romano, R. Villata (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 2009, 779, le disposizioni in questione non escludono affatto l'intervento principale - "rivenendo l'enunciato normativo in esame dall'imitazione del codice di rito previgente, nel quale le forme di intervento diverse da quello adesivo erano pacificamente ammesse - né, per le ragioni che si sono già esposte, pare si debba raggiungere la conclusione che l'ammissione di forme di intervento diverse da quello adesivo comporti la necessaria deroga al termine decadenziale di impugnazione (che semmai varrà solo per quelle parti la cui domanda giudiziale sia intesa ad ottenere l'annullamento del provvedimento)". Contraria l’opinione di R. Ferrara, Commento all’art. 22, in A. Romano (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 2001, 831, secondo cui, sulla base delle disposizioni in commento, risultava ammissibile solo l’intervento volontario ed adesivo dipendente, in quanto rimesso alla volontà dell’interventore ed a favore di una delle parti principali del processo.
[15] M. Ramajoli, Riflessioni in tema di interveniente e controinteressato nel giudizio amministrativo, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2, in Dir. proc. amm., 1997, 118 ss., evidenzia come la configurazione che la legge di istituzione dei Tribunali Amministrazioni Regionali offriva all’istituto dell’intervento derivasse strettamente da quella del codice di procedura civile del 1865 ove, all’art. 201, si stabiliva che chiunque avesse interesse in una controversia tra altre persone poteva intervenirvi; sul punto cfr. in giurisprudenza Cons. Stato, Sez. V, 13 aprile 1989, n. 215, in Giur. it., 1989, III, 185 ss.; Cons. Stato, Sez. V, 15 giugno 1992, n. 558, in Dir. proc. amm., 1993, 491, con nota di E. Stoppini, Intervento ad opponendum e legittimazione all'appello nel processo amministrativo: brevi riflessioni, 495 ss., e in Giur. it., 1993, III, I, 800 ss.
[16] Per l'interpretazione che ravvisava nell'art. 22 della c.d. Legge T.A.R. gli estremi per configurare solamente l'intervento adesivo, ad adiuvandum ed ad opponendum, nel processo amministrativo cfr., S. Tassone, Intervento "ad opponendum" nel giudizio di primo grado e legittimazione all'appello, nota a Cons. St., Sez. V, 15 giugno 1992, n. 558, in Giur.it., 1993, III, 803 ss.
[17] Si può far risalire a V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in V.E. Orlando (a cura di), Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, Società editrice libraria, 1901, vol. III, 1016, la prima formulazione secondo cui l’unica forma di intervento ammissibile nel processo amministrativo è quella denominata dipendente.
[18] Così si esprimono G. Tarzia, F. Danovi, op. cit., 167.
[19] Sul punto cfr. P. Patrito, Lo svolgimento del giudizio e le decisioni emesse in camera di consiglio, in R. Caranta (diretto da), Il nuovo processo amministrativo, Bologna, Zanichelli, 2011, 449 ss.; V. Caianello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, Utet, 2003, 626, che esclude la compatibilità dell'intervento litisconsortile nel processo amministrativo da impugnazione; contra, C.E. Gallo, Giudizio amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1991, vol. VII, 244, secondo cui dovrebbe ritenersi in astratto possibile l’intervento principale in sede di giurisdizione esclusiva, “allorché vi possa essere una terza parte, a questo punto presumibilmente un’amministrazione, che voglia far valere in giudizio la titolarità a sé spettante dei diritti su un bene dedotto in giudizio”; M. Ramajoli, La connessione nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2002, 143, sostiene che anche nel processo amministrativo di legittimità dovrebbe trovare ingresso l'intervento principale nelle ipotesi di connessione necessaria per incompatibilità.
[20] Con rare eccezioni: ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 17 gennaio 1978, n. 13, in Cons. St., 1978, I, 24 ss., ha affermato la possibilità di ammettere tutte e tre le tipologie di intervento previste dall’art. 105, cod. proc. civ., ovvero l’intervento principale, litisconsortile e adesivo dipendente nel processo amministrativo; in dottrina cfr. l’orientamento favorevole all’ammissibilità dell’intervento principale nella giurisdizione esclusiva, già nel vigore della Legge T.A.R., di E. Picozza, Processo amministrativo (normativa), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1987, vol. XXXVI, 484.
[21] In questi termini Cons. Stato, Sez. VI, 18 agosto 2009, n. 4958, in Foro amm. CdS, 2009, 1885, che, partendo da tale presupposto, afferma che ai fini della legittimazione all'intervento volontario di soggetti diversi dalle parti originarie è sufficiente un qualsiasi interesse, anche di puro fatto o morale.
[22] Così N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, 158; contra, M. Nigro, L'intervento volontario nel processo amministrativo, in Jus, 1963, 372, che critica l'orientamento preclusivo dell'ammissibilità dell'intervento principale, fondato sull'ostacolo dell'elusione del termine per ricorrere, osservando che esso non può avere valore assoluto; ed infatti, tale ostacolo è privo di ragione d'essere, non solo allorquando il termine non è ancora scaduto, bensì anche nel caso di impugnativa di atti indivisibili, il cui annullamento opera nei confronti di tutti i destinatari, che restano soggetti al giudicato, con conseguente restrizione del contraddittorio alle dimensioni che non gli sono state naturali. Si consideri, inoltre, che è stata ammessa la possibilità di convertire l'atto di intervento in ricorso principale, qualora non siano scaduti i termini di decadenza, purché tale atto possegga, rispetto a quest'ultimo, i requisiti di sostanza e di forma, compresi quelli di natura fiscale, ed emerga la volontà di agire quale ricorrente: così Cons. Stato, Sez. V, 28 ottobre 1970, n. 713, in Foro amm., 1970, I, 2, 908; la conseguenza è che, attraverso la conversione, si dà ingresso ad un intervento di tipo principale: si esprimono in tali termini A. Caracciolo La Grotteria, Parti e contraddittorio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1993, 43 e A. Albini, L'intervento del legittimato a ricorrere e conversione in ricorso principale nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 1955, II, 288.
[23] Cass. civ., Sez. III, 5 ottobre 2018, n. 24529, in Ilprocessocivile.it, 3 dicembre 2018, con nota di G. Amodio, Intervento del terzo e preclusioni, ha ribadito che, allorquando il terzo decida di intervenire in un processo nel quale sia stata già esaurita la fase della deduzione istruttoria, piuttosto che agire a tutela del proprio diritto in un autonomo giudizio, egli non potrà che sottostare al sistema delle preclusioni ed al divieto di regressione delle fasi processuali, potendo solo partecipare al giudizio rebus sic stantibus.
[24] Cass. civ., Sez. II, 1° marzo 2016, n. 4051, in Giur.it., 2016, 2150 ss., con nota di C. Cariglia, La Corte di Cassazione conferma il nuovo orientamento in tema di ammissibilità della domanda nuova, precisa che la modificazione della domanda, consentita dall’art. 183 cod. proc. civ., può riguardare uno o entrambi gli elementi della domanda, il petitum e la causa petendi, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei termini processuali; questa possibilità è finalizzata a consentire che si concentrino, in unico processo e dinnanzi allo stesso giudice, delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, piuttosto che determinare la potenziale proliferazione dei processi; in senso conforme Cass. civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310, in Giur.it., 2015, 2101 ss., con nota di G. Palazzetti, Ammissibilità dei nova ex art. 183, 5° comma; in Foro it., 2015, I, 3193 ss., con nota di A. Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale; ivi, 2016, I, 255, con nota di C.M. Cea, Tra mutatio ed emendatio libelli: per una diversa interpretazione dell’art. 183, c.p.c.; in Corriere giur., 2015, 968 ss., con nota di C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno.
[25] Secondo Cass. civ., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 8394, in Guida dir., 2015, 32, 77, si deve parlare di mutatio libelli "quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere"; così anche Cass. civ., Sez. trib., 20 luglio 2012, n. 12621, in Giust. civ. Mass., 2012, 9, 1058. Sulla possibilità di emendatio e l'impossibilità di mutatio libelli cfr. già Cons. Stato, Sez. V, 6 novembre 1992, n. 1186, in Cons. St., 1992, I, 1580, secondo cui gli artt. 183 e 184 c.p.c. pongono il principio del divieto di modificare la domanda e di ampliare l'oggetto del giudizio: peraltro va ritenuto che una modifica consentita della domanda (emendatio libelli) si ha ogni qualvolta non si verifichi mutamento del fatto giuridico a fondamento della pretesa, non prospettandosi nuovi elementi di mutazione del fatto costitutivo del diritto né aggiungendosi o sostituendosi al diritto controverso, come specificato nella domanda introduttiva; viceversa per modificazione non ammessa della domanda (mutatio libelli), secondo il Consiglio di Stato, deve essere intesa sia quella che, mediante l'immutazione del fatto costitutivo, introduca nel processo un nuovo e diverso fatto giuridico, considerato quale presupposto oggettivo cui l'ordinamento fa conseguire determinati effetti giuridici in corrispondenza al mutare del thema decidendum originario, sia quella che rinnovi l'oggetto della domanda.
[26] Così C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, 2016, vol. II, 136 ss., secondo cui l’intervento tardivo pregiudica le possibilità di difesa del terzo interveniente, specie sotto il profilo delle iniziative istruttorie a lui precluse.
[27] E quindi, compiere un atto formalmente lecito, tendente però a perseguire finalità estranee al suo scopo: così F. Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 874 ss.; sul punto cfr. altresì, tra gli studi più recenti, P.M. Vipiana, L’abuso del processo amministrativo, in G. Visintini (a cura di), L’abuso del diritto, Napoli, Esi, 2016, 247, secondo cui la valenza certa dell’abuso del processo, quale argomentazione giuridica, è quella di costituire uno schema argomentativo “in cui collocare una serie di istituti che già trovano la loro disciplina in sede normativa. A tale livello l’abuso del processo assurge a mero minimo comun denominatore di tali istituti: una sorta di fil rouge fra essi oppure, in altri termini, una scatola in cui collocarli tutti. In tale ruolo l’abuso del processo è una figura inidonea a ledere: sicuramente non indispensabile, ma forse non inutile a creare, a fini sistematici e didattici, una base unitaria ad un numero di istituti eterogenei”; M. Fornaciari, Note critiche in tema di abuso del diritto e del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 593 ss.; M.G. Pulvirenti, Riflessioni sull’abuso del processo, in Dir. e proc. amm., 2016, 1091 ss.; A. Panzarola, Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2016, 23 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2016, 1 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1262 ss.; S. Baccarini, Abuso del processo e giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1203 ss., secondo cui “non si tratta di comportamenti vietati o comunque illeciti perché in diretta violazione delle norme processuali, ma di uso improprio di uno strumento processuale, in sé lecito, che produce effetti pregiudizievoli sul procedimento”; G. Verde, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss.; Id., Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, 1138; G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo: studio critico, Napoli, Esi, 2015; K. Peci, Difetto di giurisdizione e abuso del processo amministrativo, commento a Cons. Stato, Sez. III, 13 aprile 2015, n. 1855, in Giorn. dir. amm., 2015, 691 ss.; S. Chiarloni, Etica, formalismo processuale, abuso del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1281 ss.; quanto all'utilità dell'introduzione del concetto di abuso del processo nel giudizio amministrativo cfr. C.E. Gallo, L'abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1022, secondo cui "si tratta di una norma di chiusura, volta a reprimere un uso distorto dello strumento processuale, che, di conseguenza, è utile per il fatto di esserci, anche se ci si augura che non debba mai essere utilizzata, risultando bastante il suo significato educativo"; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Encicl. dir., Giuffrè, Milano, 2008, Annali, II, tomo I, 6, secondo cui, ai fini della costruzione di una definizione di abuso del processo amministrativo, occorre tenere conto della particolare posizione delle parti nel giudizio amministrativo; tale circostanza, secondo l’Autore, reca due conseguenze di non poco momento: “la prima è che gli schemi classici dell’abuso processualcivilistico non trovano sempre pedissequa applicazione nel processo amministrativo: basti pensare al regime della condanna alle spese di lite in caso di soccombenza, assai di rado utilizzata dal giudice amministrativo, sia in sede cautelare che di merito, in virtù di un’atavica quanto ingiustificata esigenza di salvaguardia del pubblico erario. La seconda è che la sostanziale disparità delle parti nel processo amministrativo è essa stessa causa, talora, d’abuso, sia delle parti (dell’amministrazione, ma anche del ricorrente), sia del giudice”; nonché cfr. già l’opinione di G. De Stefano, Note sull’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 1964, 582 ss.
[28] Si veda, per tutti, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2020, 192, che evidenzia come, invece, "se il termine per ricorrere è ancora aperto, nulla vieta che il secondo ricorrente, anziché avviare un giudizio autonomo, proponga una domanda di intervento litisconsortile, senza per questo derogare alla perentorietà dei termini per ricorrere. In ogni caso, l’intervento litisconsortile è possibile nel giudizio di accertamento, non essendovi ragione per impedire la presenza di più parti nello stesso giudizio".
[29] Così S. Santoro, Appunti sull'intervento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1986, 553, secondo cui, sulla base della disciplina dettata dal r.d. n. 624 del 1907 e dalla legge istitutiva dei T.A.R., "nel processo amministrativo, anche in quello d'accertamento (ma è un'anomalia dovuta al fatto che questo è ancora costruito sul modello di quello d'impugnazione), a differenza che nel processo civile, il giudice non può pronunciarsi sulla domanda senza che il ricorrente si sia costituito, e la rinuncia al ricorso non abbisogna di accettazione delle altre parti, alle quali essa deve soltanto essere notificata (art. 46 R.D. cit.)". Per quanto concerne la disciplina della rinunzia prevista dal codice del 2010, l’art. 84 dispone che questa vada notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza e se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono il processo si estingue: sul punto cfr. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 22 marzo 2016, n. 96, in www.giustizia-amministrativa.it e T.A.R. Lazio, Roma, III, 8 maggio 2015, n. 6576, in Foro amm., 2015, 1559, a giudizio del quale il documento con cui si dichiara di rinunciare al ricorso non può valere come rinuncia al ricorso stesso, ove non risulti notificato alle altre parti almeno 10 giorni prima dell'udienza così come prescritto dall'art. 84, co. 3, d.lgs. n. 104 del 2010, comprovando, in ogni caso, la carenza di interesse alla definizione del giudizio e giustificando la declaratoria di improcedibilità del gravame.
[30] Secondo V. D'Audino, L'intervento adesivo nel procedimento giurisdizionale davanti al Consiglio di Stato, commento a Cons. Stato, Sez. IV, 12 dicembre 1925, n. 937, in Foro amm., 1926, I, I, 31 ss., si equivoca "tutte le volte in cui si sostiene che l'intervento non è ammissibile nei casi in cui l'interessato avrebbe dovuto presentare ricorso autonomo e principale per il motivo che con l'ammissione dell'intervento si riaprirebbero dei termini scaduti. Nessun termine viene ad essere riaperto se dell'annullamento del provvedimento si giova lui come si possono giovare gli altri che non hanno preso parte al giudizio. Siamo lieti che con la decisione annotata la Sezione in difformità delle precedenti pronuncie, pur senza particolare motivazione, abbia adottata la soluzione sin qui difesa ammettendo l'intervento di chi poteva ricorrere in via principale contro la decisione ministeriale che aveva rigettato la sua domanda e si è limitato ad intervenire per chiedere l'accoglimento del ricorso principale presentato da un suo collega impiegato, al quale era stata rigettata identica domanda per identico motivo".
[31] Sul punto cfr. A. Tigano, Intervento nel processo-II) Diritto processuale amministrativo, in Encicl. giur., Roma, 1988, vol. XIX, 3.
[32] L’intervento ad adiuvandum di per sé non è innovativo: il terzo, difatti, pur proponendo una domanda propria, si limita, con essa a chiedere l'accoglimento di una domanda altrui senza agire per la tutela di una propria situazione sostanziale e senza un ampliamento del thema decidendum. Egli si limita ad interloquire nella lite tra altri già pendente, prestando la propria adesione alla domanda o all'eccezione di una delle parti: sul punto cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., Sez. II, 14 dicembre 2015, n. 25135, in Ilprocessocivile.it, 8 settembre 2016, con nota di R. Nardone, Intervento adesivo del terzo introdotto con la sottoscrizione dell’atto di citazione.
[33] Con riferimento all’intervento ad opponendum, la giurisprudenza amministrativa ha ammesso, ad esempio, l’intervento in giudizio del funzionario tecnico di un’Amministrazione comunale: così T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 25 agosto 2017, n. 1423, in Giorn. dir. amm., 2018, 103 ss., con nota di F. Ielo, L’intervento adesivo dipendente nel processo amministrativo.
[34] Sul tema cfr. M. D’Orsogna, F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado, La fase introduttiva, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2013, 319 ss.
[35] Così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 2 ottobre 2012, n. 2450, in Foro amm. TAR, 2012, 3045.
[36] Cons. Stato, Sez. VI, 21 giugno 2012, n. 3647, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1445, in Foro amm. CdS, 2011, 902; Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2000, n. 3928, in Foro amm., 2000, 2617; da ultimo, in questo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2020, n. 4134, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Trento, Sez. I, 28 luglio 2020, n. 126, in Foro amm., 2020, 1497.
[37] Sul concetto di parte nel processo amministrativo cfr. F. Benvenuti, Parte nel processo (diritto amministrativo), in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1981, vol. XXXI, 962 ss., ora in Scritti giuridici, Vita e pensiero, Milano, 2006, vol. IV, 3625 ss.
[38] Cons. Stato, Sez. IV, 7 ottobre 1992, n. 855, in www.giustizia-amministrativa.it.
[39] Così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 7293, in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Così Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 853, in Foro amm., 2016, 302.
[41] T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 20 aprile 2016, n. 237, in Foro amm., 2016, 1060 (s.m.).
[42] In tal senso T.A.R. Lazio, Roma, 2 dicembre 2013, n. 10329, in Foro amm. TAR, 2013, 3726; secondo M. Corradino, S. Sticchi Damiani, Il processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2014, 260, “è confermato, anche nella vigenza del Codice, l’orientamento giurisprudenziale in base al quale non è ammissibile nel processo amministrativo l’intervento adesivo autonomo, ma solo l’intervento adesivo dipendente, essendo insegnamento costante della giurisprudenza quello secondo il quale il soggetto direttamente ed immediatamente leso da un provvedimento ha l’onere di impugnarlo tempestivamente, non essendo configurabile la c.d. figura del cointeressato del ricorrente, il quale non può neppure partecipare al giudizio in veste di interveniente adesivo dipendente”.
[43] Così Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10, in Foro amm., 2020, 722 ss.
[44] Per un approfondimento del principio enunciato dalla norma costituzionale si rinvia a M. D’Amico, G. Arconzo, Art. 25, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, Utet 2006, 526 ss.; M. Nobili, Art. 25 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli, 1981, 135 ss.; V. Andrioli, La precostituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 325 ss.; E.T. Liebman, Giudice naturale e costituzione del giudice, in Riv. dir. proc., 1964, 331 ss.
[45] In senso analogo già Cons. Stato, Ad. Plen., 4 novembre 2016, n. 23, in Foro amm., 2016, 2628.
[46] Contra, T.A.R. Liguria, Sez. I, 1° giugno 2012, n. 754, in Foro amm. TAR, 2012, 1888 (s.m.), che conclude per l’inammissibilità nel giudizio amministrativo dell’intervento principale; in realtà, se ben si legge la motivazione del giudice ligure, la conclusione è più sfumata e sembra ammettere la possibilità di esperire l’intervento principale quanto meno nei casi di giurisdizione esclusiva ove vengano in rilievo diritti soggettivi, posto che “il silenzio della norma (gli artt. 28 e 50, n.d.a.) non consente di ammettere un intervento principale nella giurisdizione generale di legittimità o in quella esclusiva quando si faccia questione di interessi legittimi. Invero l'intervento principale in questi casi si risolve nell'impugnativa dello stesso atto già oggetto di giudizio da parte di altro soggetto per ragioni diverse e quindi con motivi diversi. Tale evenienza non è ammissibile. Infatti, a prescindere dal rispetto dei termini di impugnativa (che potrebbero essere comunque rispettati), l'azione impugnatoria può essere esercitata solo mediante la proposizione di ricorso (principale o incidentale) e con gli accessivi motivi aggiunti e non mediante l'intervento. E ciò in quanto l'oggetto della causa, che risulta non solo dal provvedimento impugnato ma anche dai motivi dedotti, non può essere ampliato se non attraverso gli strumenti a ciò presposti. Ma se l'oggetto della causa (il petitum) non può essere ampliato se non dal ricorrente stesso o dal controinteressato mediante ricorso incidentale, è evidente che l'intervento (depurato della sua valenza impugnatoria) si risolve nella mera esplicitazione di ragioni in favore del ricorrente e quindi in sostanza in un intervento ad adiuvandum. Tale intervento, tuttavia, sarà ammissibile solo quando adduca ragioni a sostegno di una delle parti e non quando le contrasti entrambe”. Tra le righe della sentenza, pertanto, si scorge la possibilità di configurare un intervento principale quando il giudizio non si configuri nella sua tradizionale veste impugnatoria, e quindi principalmente nei casi di giurisdizione esclusiva cui siano sottese questioni di diritto soggettivo: non è difatti immaginabile che si attribuisca al giudice amministrativo la stessa cognizione del giudice civile e contestualmente non si offrano alle parti gli stessi strumenti processuali a tutela dei propri diritti.
[47] In linea generale, secondo I. Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, in G.D. Comporti (a cura di), La giustizia amministrativa come servizio (tra effettività ed efficienza), Firenze, Firenze University Press, 2016, 85, il concetto di effettività deve valorizzare il principio chiovendiano, “in virtù del quale il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello e proprio quello che il diritto sostanziale riconosce”; l’affermazione del principio è di G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1930, Vol. I, 101 ss.; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1923, ora in Principi di diritto processuale civile, Napoli, Editoriale Scientifica, 1965, 81, secondo cui "il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire". C.E. Gallo, Servizio e funzione nella giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 73 ss., nell’affermare che la giustizia amministrativa non può essere qualificata come servizio pubblico ma come funzione, ricorda che il sindacato prestato dal plesso giurisdizionale T.A.R. – Consiglio di Stato deve essere pieno e completo sull’attività dell’amministrazione: in questo senso occorre leggere l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo; in merito cfr. altresì le osservazioni di M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.
[48] S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, Jovene Editore, 2012, 74 ss.; così anche R. Giovagnoli, Il ricorso incidentale, in R. Giovagnoli, M. Fratini, Il ricorso incidentale e i motivi aggiunti, Milano, Giuffrè, 2008; sul punto cfr. I.M. Marino, Giurisdizione esclusiva e Costituzione, in V. Parisio, A. Perini (a cura di), Le nuove frontiere della giurisdizione esclusiva. Una riflessione a più voci, Milano, Giuffrè, 2002, 9 ss., ora in Scritti giuridici, a cura di A. Barone, Napoli, Esi, 2015, 996, secondo cui “una giurisdizione paritaria non può che essere quella dell’autorità giudiziaria ordinaria oppure una nuova giurisdizione amministrativa: quella esclusiva, che salvi il giudice amministrativo dall’essere travolto dall’evoluzione dell’ordinamento giuridico (sostanziale), che lo tiri fuori dalla giurisdizione sull’atto e lo affranchi dalla trappola delle situazioni giuridiche”; secondo A. Police, Il cumulo di domande nei “riti speciali” e l’oggetto del giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 1197 ss., “se le previsioni del legislatore recente in tema di giurisdizione esclusiva consentono di superare anche le più serie ed autorevoli obiezioni alla teorica che ravvisa l'oggetto del processo amministrativo nel rapporto nel quale si iscrivono le situazioni a cui afferiscono gli interessi in contrasto, se ne deve concludere che anche tale ricostruzione dell'oggetto del giudizio può essere validamente impiegata nel nostro sforzo ricostruttivo della nuova giurisdizione amministrativa e dei suoi caratteri. Si può dire forse di più, sembra quasi che il legislatore abbia conformato la giurisdizione piena del giudice amministrativo proprio per dare attualità e concretezza a quel modello processuale di giustizia amministrativa paritaria ed effettiva il cui avvento era da tempo auspicato in dottrina”; sul carattere paritario del processo amministrativo cfr. V. Domenichelli, Per un processo amministrativo paritario, in Dir. proc. amm., 1996, 415 ss.
[49] Concorde è l'opinione di E. Picozza, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, Giuffrè, 2016, 213 ss., secondo cui una spinta all'applicazione di tutti i tipi di intervento è venuta, da un lato, dalla disciplina sostanziale del procedimento amministrativo che, sulla scorta della posizione dottrinale di Giannini, ha disciplinato forma e sostanza del procedimento, prescrivendo i diritti dei soggetti interventori titolari di situazioni pubbliche, private, collettive e diffuse, e, dall'altro, dal diritto internazionale e comunitario, ma anche da quello costituzionale interno, che pretendono oramai che il rapporto tra Amministrazione e cittadini sia configurato come un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale, tendenzialmente paritario, almeno quanto a garanzie procedimentali e processuali; in senso conforme, inoltre, L. Coraggio, L’intervento nel codice del processo amministrativo, in Giurisd. amm., 2011, IV, 304, a giudizio del quale in sede di giurisdizione esclusiva ed in materia di diritti soggettivi dovrebbero ritenersi ammissibili tutti i tipi di intervento previsti dal codice di procedura civile; così anche L. Ieva, Soggetti e parti del processo amministrativo, in R. Giovagnoli, L. Ieva, G. Pesce (a cura di), Il processo amministrativo di primo grado, Milano, Giuffrè, 2005, 276.
[50] Proprio della natura del giudizio amministrativo di legittimità: così F. Satta, Giustizia amministrativa, Padova, Cedam, 1997, 118 ss., secondo cui "nell'interpretazione che per un secolo se ne è data, l'idea del processo amministrativo come giudizio su atti ha condotto al paradossale risultato di frantumare il giudizio sull'atto, che esprime la definitiva volontà dell'amministrazione, in una sorta di somma di giudizi sui singoli atti del procedimento, effettivamente impugnati"; è necessario però ricordare la posizione di R. Villata, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009, 897 ss., ora in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, 437 e Id., Nuove riflessioni sull’oggetto del processo amministrativo, in Aa. Vv., Studi in onore di Antonio Amorth, Milano, Giuffrè, 1982, vol. I, 707 ss., ora in Scritti di giustizia amministrativa, cit., 576 ss., che ritiene non configurabile il giudizio amministrativo come un giudizio su un rapporto, a differenza del processo civile, perché “le parti non sono in posizione di equiordinazione, avendo una di esse infatti il potere di disporre del bene; la norma non detta la disciplina per determinare la pertinenza del bene, ma regola le condizioni di esercizio del potere spettante alla parte in posizione di supremazia: al giudice, dunque, non spetta di assegnare il bene all’una o all’altra parte, ma di verificare che una di esse eserciti in modo corretto il potere, che l’ordinamento le riconosce, di disporre di quel bene”.
[51] Sul rapporto amministrativo si rinvia agli studi di G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffrè, 1980; Id., Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino, in Dir. amm., 2014, 585 ss.; M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2008.
[52] Concorde è la posizione di A. Bartolini, Art. 28-Intervento, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, 377 ss., secondo cui l’apertura del processo amministrativo alle varie tipologie di intervento volontario è sicuramente da accogliere con favore, poiché, “oltre ad essere in linea con le novità contenute nel c.p.a., rappresentano un adeguamento ai mutamenti di ordine sostanziale e processuale verificatisi negli ultimi anni. Difatti, la considerazione secondo cui non è logicamente pensabile che nel processo amministrativo vi sia una parte che vanti una situazione in contrasto sia con l’amministrazione resistente che con il privato ricorrente, risulta essere ancorata ad una visione dei rapporti sostanziali incentrata su uno schema bilatero e ad una concezione dell’oggetto del processo amministrativo di carattere pattizio”; concorde è anche l'opinione di V. Domenichelli, Le parti del processo, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Milano, Giuffrè, 2003, Tomo V, 4340, secondo cui nelle fattispecie di giurisdizione esclusiva, "ove possono essere portate alla cognizione del giudice controversie riguardanti il rapporto prescindendo dall'impugnazione di un atto, si possono ipotizzare anche l'intervento principale, litisconsortile e adesivo".
[53] Per un’approfondita ricostruzione dell’istituto nel processo amministrativo si rinvia a W. Troise Mangoni, L’opposizione di terzo nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2004.
[54] G. Della Pietra, Opposizione di terzo: lo stato dell'arte, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1093, definisce l'opposizione di terzo come il più fluido tra i mezzi di impugnazione; ed invero, "è un'impugnazione, certo, ma non è data alla parte, e di regola non presume un vizio della sentenza. Postula un pregiudizio, d'accordo, ma - giocoforza, per le ragioni appena dette - non la soccombenza. È offerta al terzo, genericamente, per cui nebuloso resta il novero degli effettivi legittimati. È straordinaria, come talora la revocazione, ma nella versione standard è svincolata da ogni termine. Ha effetto demolitivo, le più volte, ma può anche spingersi a soppiantare nel merito la sentenza impugnata. Ha capacità sostituiva, dunque, ma non è detto che non possa arrestarsi a una mera declaratoria d'inopponibilità della decisione al terzo".
[55] Corte cost., 17 maggio 1995, n. 177, in Foro it., 1996, I, 3318; in Giorn. dir. amm., 1995, 889, con nota di A. Baldanza, L’opposizione di terzo nel processo amministrativo; in Giur. it, 1995, I, 504 ss., con note di C. Cecchella, L’opposizione del terzo nella giustizia amministrativa, e di A. Police, L’opposizione di terzo nel processo amministrativo; in Giur. cost., 1995, 1429 ss., con nota di N. Seminara, L’istituto dell’opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo; in Giur. cost, 1995, 3769, con nota di D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo; in Dir. proc. amm., 1996, 294 ss., con nota di F. Lorenzotti, La Corte costituzionale introduce l'opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo; sull’apertura del giudizio amministrativo all’opposizione di terzo e, di conseguenza, alle varie tipologie di intervento previste nel nostro ordinamento cfr. M. Occhiena, Controinteressato, intervento ad opponendum e opposizione di terzo: il processo amministrativo tra declamazione e applicazione, commento a Cons. Stato, Sez. V, 22 febbraio 1993, n. 275, in Giur. it., 1993, 12 ss., che evidenzia come ciò sia derivato dal progressivo abbandono delle posizioni che delineavano il processo amministrativo come mero processo su un atto, nella sua tipica configurazione impugnatoria, dovendosi dare il giusto spazio ai rapporti ed alle situazioni di interesse sottese all’atto medesimo; sul punto già M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. Dir. Proc, 1966, 40 ss., affermava che oggetto dell'accertamento giudiziale è il rapporto amministrativo e non tanto l'atto impugnato, dal momento che l'azione davanti al giudice è esercizio di un potere strumentale compreso nell'interesse legittimo; sulla tutela dei terzi e sul ruolo dell’opposizione di terzo cfr. W. Troise Mangoni, Controinteressato e opposizione di terzo nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1998, 656 ss., commento a T.A.R. Veneto, Sez. I, 11 aprile 1996, n. 629: secondo l’Autore, un’eventuale prospettiva che qualificasse l’opposizione di terzo come strumento ordinario di tutela dei terzi non solo non garantirebbe in modo pieno il rispetto del principio del contraddittorio, “ma determinerebbe effetti decisamente non desiderabili sull’intero sistema della giustizia amministrativa”, in quanto la proposizione di tale strumento di impugnazione diverrebbe la regola (e non l’eccezione come nel processo civile), con effetti dirompenti sul fondamentale valore della certezza dei rapporti giuridici così come definiti da una sentenza definitiva; ne consegue che all’opposizione di terzo deve essere assegnata “una funzione di chiusura del sistema, che garantisca la tutela dei terzi ove non siano intervenuti gli strumenti ordinari relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio”.
[56] La presenza nell'ordinamento dell'opposizione di terzo comporta la necessità di ripensare la teoria dell'intervento nel processo: così F. Pugliese, L'opposizione di terzo. Riflessi sul processo e sulla funzione amministrativa, in Dir. e proc. amm., 2007, 539, che qualifica tale rimedio come "necessario (perché indefettibile), residuale (perché non su di esso si scaricano le ragioni di tutela delle parti, ma perché ad esso si perviene solo in funzione di chiusura dell'ordinamento processuale e perché a causa di esso si rilegge diversamente il processo), eventuale (perché evitabile con soluzioni satisfattorie alternative, in sede di esecuzione: e solo in questo senso facoltativo), ordinario (non potendosi considerare un rimedio extra ordinem, per la sua stessa natura e per il fatto che non può non essere - dotato com'è di asseitas".
[57] Per un’ampia trattazione della questione si permetta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, L’intervento nel processo amministrativo: antichi problemi e nuove prospettive dopo il Codice del 2010, in Dir. proc. amm., 2018, 336 ss.
[58] R. Dickmann, M. Iannaccone, Osservazioni sull’intervento nel processo amministrativo, in Riv. Corte conti, 1992, 6, 293 ss., concordano sull’ammissibilità di tutte le tipologie di intervento volontario in sede di giurisdizione esclusiva; “verrebbe infatti meno la pregiudiziale affermazione della regola della decadenza nei rigorosi termini cui essa è soggetta per la giurisdizione di annullamento, e in un certo senso verrebbe anche meno la severa considerazione delle parti del processo amministrativo come ruoli formalmente precostituiti dalla legge e come tali non modificabili (…) Questa osservazione sarebbe infatti dettata dall’esigenza di assicurare che la tutela giurisdizionale dei diritti davanti al giudice amministrativo sia dotata della medesima effettività, peraltro costituzionalmente garantita, che deriverebbe dall’applicazione degli strumenti processuali azionabili davanti al giudice civile”.
[59] Ed infatti, “incentivare l’intervento in giudizio dei soggetti che possano essere in qualche modo interessati serve a ridurre, per quanto possibile, il rischio di postume contestazioni del decisum attraverso la proposizione dell’opposizione di terzo”: così G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, Maggioli Editore, 2016, 152; sulla tutela dei terzi cfr. inoltre L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi, Torino, Giappichelli, 2005, 1 ss.; in giurisprudenza Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2015, n. 1778, in Foro amm., 2015, 1097 ss., ha affermato che l'intervento in appello può costituire, anche nel sistema del processo amministrativo, una sorta di opposizione di terzo anticipata.
[60] Così C. Mandrioli, A. Carratta, op. cit., vol. I, 458; con riferimento al processo amministrativo cfr. F. Lorenzotti, L'opposizione di terzo nel processo amministrativo davanti alla Corte Costituzionale, commento a Cons. Stato, Sez. VI, 29 aprile 1994, n. 615 (che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054 nella parte in cui non prevedeva l'applicabilità anche nel processo amministrativo dell'opposizione di terzo ex art. 404, co. 1, cod. proc. civ.), in Dir. proc. amm., 1995, 131 ss., che evidenzia come sia il principio del contradditorio di cui all'art. 24 Cost. sia il principio di economia processuale "esigono che l'oppositore di terzo abbia avuto in precedenza la possibilità di intervenire volontariamente o di essere chiamato nel processo".; aggiunge, peraltro, che "la pura e semplice importazione dell'opposizione ordinaria di terzo introdurrebbe una notevole contraddizione nel sistema, mancando un rapporto di identità tra la situazione di chi può limitare o travolgere gli effetti del giudicato con l'opposizione ordinaria e chi è ammesso ad intervenire o è chiamato ad integrare necessariamente il contradditorio nei precedenti gradi del processo".
[61] Concorde con quanto sostenuto nel testo è l'opinione di F.M. Tropiano, Le parti e i difensori, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, cit., 310, secondo cui nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo deve ritenersi ammissibile "qualsiasi tipo di intervento (autonomo, litisconsortile, adesivo dipendente), atteso che trattasi di un giudizio su un rapporto nel quale si tende ad ottenere l'accertamento dello stesso ovvero la condanna della P.A., anche in considerazione del fatto che non esistono termini decadenziali"; in tal senso, in giurisprudenza, cfr. anche T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 1253, in Foro amm. TAR, 2009, 325 ss., con nota di N. Bassi, Difetto assoluto di attribuzione e nullità degli accordi amministrativi: alla ricerca di un difficile equilibrio; secondo il T.A.R. di Milano, l'intervento litisconsortile deve essere ammesso nel processo amministrativo di giurisdizione esclusiva, in quanto "tale processo vertendo in tema di diritti soggettivi (tanto più nella fattispecie qui in esame dove la cognizione del giudice ha espressamente ad oggetto la formazione, la conclusione e l'esecuzione dell'accordo) si svolge infatti (...) secondo un modello del tutto analogo a quello proprio del processo civile e nel quale possono essere fatte valere azioni di accertamento, costitutive e di condanna, il che rende perfettamente applicabile l'art. 105 c.p.c. in tutte le sue specificazioni".
[62] Per una ricostruzione si rinvia a D. Corletto, Opposizione nel diritto processuale amministrativo, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1999, vol. XIV, 563 ss.
[63] Cons. Stato, IV Sez., 9 giugno 1892, n. 172, in GA, 1892, I, 313, ha ritenuto che l'opposizione di terzo sia “rimedio che la legge, ispirandosi più agli interessi pubblici che ai meri privati, non ha creduto di ammettere dinanzi la IV sezione”; nello stesso senso Cons. Stato, Sez. IV, 7 gennaio 1895, n. 12, in GA, 1895, I, 24.
[64] Cfr., per una ricostruzione, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2020, 367.
[65] Posizione autorevolmente sostenuta da E. Cannada Bartoli, In tema di controinteressato pretermesso, in Giur. it., 1990, III, 1, 186 ss.; cfr. inoltre Id., la voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss. Dig. It., Torino, Utet, Vol. XIII, 1966, 1083 ss.
[66] M. Nigro, Linee di una riforma necessaria e possibile del processo amministrativo, in Riv. Dir. Proc., 1978, 249 ss.
[67] Per una ricostruzione dell'evoluzione giurisprudenziale verso una nozione sostanziale di controinteressato si veda F. Pugliese, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli, Esi, 1989, 161 ss.; più di recente cfr. lo studio di P. Lombardi, Le parti del procedimento amministrativo: tra procedimento e processo, Torino, Giappichelli, 2018.
[68] Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 1981, n. 502, in Foro amm., 1981, 1982 ss., in cui si afferma che nel giudizio amministrativo “... manca la figura del terzo legittimato a proporre opposizione ai sensi dell'art. 404 c.p.c, sicchè qualunque «interessato», che non sia anche parte necessaria del processo, deve essere messo in grado di far valere le sue ragioni mediante intervento nel giudizio, tra altre parti pendente, che possa pregiudicare in linea di fatto la sua posizione soggettiva. Né vi è ragione, se l'intervento avviene allo stato della causa, e cioè senza pregiudizio del diritto di difesa delle altre parti, di escludere l'intervento medesimo in grado di appello”.
[69] Che si distingue da quella revocatoria di cui all’art. 404, co. 2, cod. proc. civ., secondo cui “gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando è l'effetto di dolo o collusione a loro danno”: sul punto cfr. G. Olivieri, Opposizione di terzo, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, Utet, 1995, vol. XIII, 116 ss. Sull’opposizione di terzo ordinaria si rimanda al tradizionale studio di A. Proto Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, Jovene, 1965.
[70] Esigenza già avvertita da E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, Giuffrè, 1935, 1 ss.
[71] In tema cfr. A. Travi, L'opposizione di terzo e la tutela del terzo nel processo amministrativo, in Foro it., 1997, III, 21 ss.
[72] Ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 16 maggio 2018, n. 2895, in www.giustizia-amministrativa.it.
[73] Così già evidenziava prima del Codice Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007, n. 2, in Foro amm. CdS, 2007, 464 e 834 ss., con note di A. Bertoldini, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, l’intervento in appello ex art. 344, c.p.c. e la legittimazione all’opposizione di terzo e di A.L. Tarasco, Il contraddittorio degli interessi dei consumatori nel giudizio amministrativo: profili problematici dell’impugnazione dei controinteressati sostanziali. L’Adunanza Plenaria, in questo caso, ha giudicato inammissibile l’opposizione di terzo avverso la sentenza del Tar che annulli una delibera dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, avanzata da un soggetto privato nella sua qualità di utente consumatore di gas, qualora l'opponente non abbia fornito alcun elemento particolare o titolo di differenziazione che lo legittimi ad una specifica contestazione in sede giudiziale della sentenza di primo grado, specie laddove questa abbia riguardato determinazioni dell'autorità in ordine alle attività svolte dalle imprese del settore, da cui il singolo utente possa trarne un eventuale vantaggio soltanto in via riflessa ed indiretta.
[74] Cons. Stato, Sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451, in Foro amm. CdS, 2013, 3012 ss.
[75] Cons. Stato, Sez. V, 27 novembre 2017, n. 5550, in www.giustizia-amministrativa.it.
[76] Che ha eliminato il problematico inciso “titolare di una posizione autonoma e incompatibile”.
[77] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2013, n. 2390, in Foro amm. CdS, 2013, 1330 ss.
[78] Cons. Stato, Sez. III, 16 dicembre 2013, n. 6014, in Foro amm. CdS, 2013, 3363 ss.
[79] In tema cfr. C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in Dir. proc. amm., 2012, 280 ss.
[80] Sul giudicato amministrativo la letteratura è ampia: tra gli studi monografici si segnalano, ex multis, S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, Giuffrè, 2016; C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, Cedam, 2005; P.M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo: profili ricognitivi ed individuazione della natura giuridica, Milano, Giuffrè, 1990; M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, Cedam, 1989. Cfr., inoltre, F. Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo e leggi interpretative, in Dir. proc. amm., 1995, 277 ss.
[81] Da ultimo si rinvia a Cons. Stato, Sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6318; Cons. Stato, Sez. II, 18 settembre 2020, n. 5472, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it, che hanno osservato che, “con riferimento poi ai provvedimenti in materia edilizia, è stata esclusa la sussistenza di controinteressati nel caso di impugnazione di un diniego di permesso di costruire, anche in sanatoria, atteso che la qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a che ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto ed immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica”.
[82] Ed infatti, secondo Cons. Stato, Sez. V, 21 agosto 2020, n. 5164, in www.giustizia-amministrativa.it, rispetto al provvedimento di esclusione di un concorrente da una procedura di gara, adottato prima che sia intervenuta l'aggiudicazione dell'appalto, non sussistono controinteressati ai quali il ricorso debba essere notificato a pena di inammissibilità, anche in ragione del fatto che l'unico interesse tutelabile degli operatori concorrenti è quello all'aggiudicazione dell'appalto sul quale l'eventuale riammissione di uno di essi non ha incidenza determinante.
[83] Cons. Stato, Sez. V, 23 agosto 2019, n. 5817, in www.giustizia-amministrativa.it.
[84] C.E. Gallo, Linee per una riforma non necessaria ma utile del processo amministrativo, in Il processo, 2020, 347 ss., osserva come “nella realtà la mancanza di un'azione di accertamento come azione autonoma non si avverte perché il giudice amministrativo è riuscito ad articolare in modo compiuto l'azione di condanna, anche quale azione di condanna pubblicistica, giungendo così sostanzialmente a coprire anche quello spazio che poteva essere coperto da un'azione di accertamento”.
[85] Per questo tipo di giudizio si rinvia a A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, in Dir. proc. amm., 2017, 450 ss.; M. Ramajoli, Forma e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, 709 ss.; E. Sticchi Damiani, Il giudizio del silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in Dir. proc. amm., 2010, 1 ss.; per la disciplina antecedente al Codice si rinvia a F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del suo nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002, 239 ss.; A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, III, 227 ss.
[86] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 16 dicembre 2013, n. 6014, cit.; Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2013, n. 2390
[87] Cfr. per questa posizione, già prima del Codice, Cons. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 230, in Foro amm. CdS, 2008, 162 ss.
[88] Si v. in dottrina, in termini generali, F.P. Luiso, Opposizione di terzo, in Encicl. giur., Roma, 1990, vol. XXI, 1 ss.; C.A. Nicoletti, Opposizione di terzo, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1980, vol. XXX, 481 ss.
[89] Da ultimo, Cons. giust. amm. Reg. Sicilia, sez. giurisd., 3 agosto 2020, n. 699, in Dir. & Giust., 5 agosto.
[90] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2010, n. 1833, in Foro amm. CdS, 2010, 580;
[91] Cons. Stato, Sez. VI, 30 luglio 2008, n. 3812, in Foro amm. CdS, 2008, 2153.
[92] Così Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6702, in Foro amm. CdS, 2011, 3708; ma già in questo senso Cons. Stato, Ad. Plen., 10 maggio 2011, n. 7, in www.giustizia-amministrativa.it, con riferimento alla legittimazione ad intervenire nel giudizio di appello di un’associazione iscritta nel registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, in quanto titolare di un interesse di fatto ad una pronuncia giurisdizionalmente favorevole alla categoria dei propri soci.
[93] Per un’esaustiva trattazione dell’intervento in grado di appello si rimanda a S. Perongini, Le impugnazioni in generale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, cit., 818 ss., che sottolinea come, in astratto, "nel processo amministrativo possono esperirsi tutte le forme di intervento volontario, indipendentemente dal fatto che si sia in presenza di casi appartenenti alla giurisdizione di legittimità, a quella di merito o a quella esclusiva. In concreto, tuttavia, le forme di intervento esperibili sono condizionate dalla sussistenza di connessione fra la posizione giuridica soggettiva posta a fondamento dell'intervento e quelle che appartengono già al processo"; cfr., inoltre, S. Oggianu, Intervento nel giudizio di impugnazione, in E. Picozza (a cura di), Codice del processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2010, 165 ss.; nonché N. Paolantonio, Commento all’art. 97, in G. Leone, L. Maruotti, C. Saltelli (a cura di), Codice del processo amministrativo, Padova, Cedam, 2010, 705 ss.; in giurisprudenza si cfr. l’interessante orientamento di Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2019, n. 5985, in Foro amm., 2019, 1244, secondo cui l'intervento ad opponendum nel secondo grado di giudizio, rispetto all'appello dell'amministrazione o del controinteressato, è esattamente speculare ad un non consentito intervento ad adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma.
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