ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dante e il diritto
Giustizia insieme prosegue il suo viaggio di conoscenza dedicato a "Dante e il diritto" e, ancora una volta con il Prof.Justin Steinberg, docente di letteratura italiana dell'Università di Chicago, autore del primo saggio dedicato a "Dante e l'eccezione, affronta oggi il tema, ricco di suggestioni anche per il giurista, dei miracoli "costituzionali".
2.I miracoli costituzionali di Dante (Monarchia 2.4 and Inferno 8-9)*
di Justin Steinberg
Estratto da Lettere Italiane
2016/3 ~ a. 68 Anno LXVIII • numero 3 • 2016
*Traduzione realizzata da Anna Carocci e Geri Ferrara
ABSTRACT
Political theorists have long invoked the miracle as an analogue to the sovereign’s right to operate outside the law in times of crisis. Just as God can intervene within the reigning order of creation by directly suspending the laws of nature, the Monarch can suspend the constitutional laws of the community he is charged to protect – a secular miracle. Dante, however, does not subscribe to this voluntarist view of the miracle. His own account is much more normative – almost “constitutional.” In the first part of this essay, I argue that Dante’s discussion of miracles in his treatise Monarchia is a direct response to the absolutist model of the miracle as it was promoted by canon lawyers. In the second section, I propose that the addresses to the reader in the Commedia should themselves be understood as a kind of narrative miracle.
I filosofi politici hanno a lungo equiparato il miracolo al diritto di operare al di là della legge che il sovrano si arroga in tempo di crisi. Così come Dio può intervenire entro l’ordine vigente della creazione sospendendo le leggi della natura, allo stesso modo il Monarca può sospendere le leggi costituzionali della comunità che ha l’incarico di proteggere: si tratta di un miracolo secolarizzato. Dante, però, non aderisce a questa visione volontaristica del miracolo; il suo resoconto è molto più normativo, quasi “costituzionale”. Nella prima parte di questo saggio sostengo che la trattazione dantesca dei miracoli nella Monarchia sia una risposta diretta a quel modello assolutista del miracolo che era promosso dai canonisti. Nella seconda sezione propongo che gli appelli al lettore nella Commedia vadano letti a loro volta come una sorta di miracolo della narrazione.
Per molto tempo, i teorici politici hanno invocato il miracolo come un equivalente del diritto del sovrano ad agire al di fuori della legge in tempi di crisi. Come Dio può intervenire nell’ordine vigente della creazione, sospendendo direttamente le leggi della natura, il Monarca può sospendere le leggi costituzionali della comunità che ha l’incarico di proteggere: un miracolo secolarizzato. È un concetto politico-teologico che, a dispetto della sua storia complessa e insidiosa, continua a influenzare le nostre idee sul rapporto tra le leggi di una nazione e coloro che sono incaricati di difenderle. Eppure, la rappresentazione del miracolo come un atto divino completamente estraneo alle leggi della creazione è solo una delle possibili versioni del funzionamento dei miracoli: nel tardo Medioevo era anzi ancora un punto di vista minoritario, sostenuto soprattutto dai partigiani dell’assolutismo papale.
Dante era profondamente consapevole di questo contesto politico: i suoi commenti dovrebbero perciò essere interpretati in forma dialettica, come strumento per controbilanciare il peso dei miracoli nella legittimazione dell’assolutismo papale. La sua analisi dei miracoli nella Monarchia, ad esempio, è una risposta al lavoro di scavo e selezione cui i giuristi canonici sottoponevano gli scritti teologici per giustificare i “miracoli” delle dispense papali anche in casi estremi, quando queste dispense ribaltavano l’ordine prestabilito della Chiesa, lo status ecclesiae, sospendendo temporaneamente la legge naturale e/o divina. Dante non si allinea con questa visione volontaristica del miracolo: le sue considerazioni sono molto più normative – quasi "costituzionali".
Per due volte, nella teorizzazione sui miracoli che mette a punto durante la sua analisi della storia romana nel capitolo IV del libro II della Monarchia, Dante cita la Summa Contra Gentiles di Tommaso d'Aquino. Questi riferimenti mostrano che è in accordo con la categorizzazione dei diversi gradi di miracoli fatta dall’Aquinate: riprendendo la classificazione del Dottore Angelico, Dante propone un’interpretazione dei miracoli non come qualcosa che si eleva al di sopra o contro la natura ma come qualcosa al di là della natura stessa, e in seguito contrappone questa concezione più normativa e ordinata del miracolo alla concezione assolutista dei giuristi canonici.
In queste pagine, analizzerò il modo in cui Dante costruisce e mette alla prova la sua concezione normativa attraverso una lettura ravvicinata della sua analisi dei miracoli nella Monarchia; in conclusione, esaminerò in breve come la concezione dantesca dei miracoli abbia un’influenza anche sulla sua poetica. Analizzando la scena della discesa dell’angelo davanti alle porte dell’Inferno in Inferno VIII-IX, mi interrogherò su cosa può significare, in termini narrativi, quando l’artista sovrano interviene direttamente, miracolosamente, nella sua stessa creazione.
Nel II libro della Monarchia, dopo aver affermato che il genere umano ha bisogno di un impero universale per prosperare, Dante si chiede se l’impero romano fosse stato scelto come incarnazione di questo principio. Per sostenere questa affermazione, deve dimostrare che l’impero romano si è affermato in modo legale e non semplicemente con la violenza. Partendo dalla premessa che qualsiasi cosa Dio voglia nella sua provvidenza è giusta, cerca di mettere in evidenza i vari segni della provvidenza divina che si sono rivelati nella storia della fondazione dell’impero romano. I segni più significativi del destino di Roma sono i miracoli compiuti da Dio in suo favore, in quanto diretta espressione del piano divino. La giustificazione teologica che Dante fornisce all’imperialismo e alla colonizzazione di Roma è stata a lungo motivo di disagio per gli studiosi moderni, ai cui occhi la tesi dei miracoli divini, insieme a quella secondo cui le vittorie militari romane erano l’equivalente di un duello giudiziario, sembra estremamente debole, addirittura puerile. Senza contare che la descrizione dantesca del destino civilizzatore di Roma può sembrare troppo vicina alla propaganda sciovinista di poteri imperiali più recenti. Eppure, c’è una profonda differenza tra il giustificare una violenza fondatrice e in più appartenente a un passato lontano e il giustificare una violenza contemporanea perpetrata da una nazione imperialista. Nella sua storia teologica, Dante cerca effettivamente di arginare quelle istituzioni politiche in via di affermazione che avrebbero costituito le basi per lo stato moderno, ovvero la Chiesa da poco centralizzata e la monarchia francese, «che usurpano i pubblici poteri nella mendace convinzione che il popolo romano abbia fatto lo stesso» (II.i.6). Di fronte a queste nuove rivendicazioni di potere sovrano e giurisdizione territorializzata, Dante controbatte con i principi universali di un diritto comune e condiviso. In quest’ottica, i duelli giudiziari – legati alla giustizia comunitaria, ai rituali di vecchia data e al valore fattuale di ciò che Peter Brown ha descritto come un «miracolo quotidiano» – contrastano nettamente con gli statuti emanati dall'alto di uno stato razionalizzato. Nella sua visione giuridica, Dante privilegia le norme universali rispetto alle semplici leggi positive. Anche quando il sovrano divino sospende miracolosamente le leggi della natura (leges), i principi costituzionali della provvidenza (iura) continuano a regnare. Dante sottolinea questa concezione normativa o "costituzionale" nella sua definizione dei miracoli all'inizio del quarto capitolo:
Illud quoque quod ad sui perfectionem miraculorum suffragio iuvatur, est a Deo volitum; et per consequents de iure fit. Et quod ista sit vera patet quia, sicut dicit Thomas in tertio suo contra Gentiles, miraculum est quod preter ordinem in rebus comuniter institutum divinitus fit. (II.iv.1)
(Anche ciò che si giova dell’intervento dei miracoli per raggiungere la propria perfezione è voluto da Dio; e di conseguenza avviene di diritto. E che ciò sia vero è palese, perché, come dice Tommaso nel terzo libro della sua Summa Contra Gentiles, miracolo è ciò che avviene per intervento divino fuori dall’ordine normale delle cose.)
«Fuori dell'ordine normale delle cose» («preter ordinem in rebus comuniter institutum»): con questa espressione, Dante mostra di aderire a una concezione del miracolo "ordinata" piuttosto che "assoluta", lucidamente articolata da Tommaso d’Aquino nella sua Summa Contra Gentiles.
Essendo uno dei pochi scritti teorici contemporanei cui Dante fa esplicito riferimento, la trattazione dei miracoli di Tommaso d'Aquino merita di essere esaminata nel dettaglio. Per l'Aquinate, i miracoli non sospendono le inesorabili leggi della natura, ma occupano piuttosto uno spazio parallelo, al di fuori (praeter) del normale corso della natura («consuetus cursus Naturae»). L'ordine naturale consiste in ciò che accade "di solito" (solet) e "nella maggior parte dei casi" (frequenter) – e non, come si penserà durante l’Illuminismo, in un insieme di inesorabili leggi fisiche. Alla luce di questa prospettiva basata sulla regola piuttosto che sulla legge, Tommaso ammette che, senza mai violare la divina provvidenza, in alcune rare occasioni la natura può commettere un errore, e, ad esempio, generare un uomo con sei dita. E, se nel creato si possono verificare prodigi di questo tipo per cause secondarie, di certo Dio può agire in modo diretto, al di fuori del normale corso della natura, per compiere un miracolo. Nell’agire al di fuori del normale ordine della natura Dio manifesta il suo potere, dimostrando che la natura intera è soggetta alla sua volontà. E tuttavia sorge spontanea la domanda: essendo onnipotente, Dio può agire anche al di fuori della sua stessa provvidenza? Tommaso d’Aquino risponde riecheggiando l’opinione più diffusa: può, se consideriamo il suo potere “assoluto” in senso astratto; ma, essendo immutabile, è impossibile che Dio desideri qualcosa che in precedenza aveva rifiutato, o impari qualcosa di nuovo, o lo realizzi in un modo diverso. Dio non cambierà mai opinione sulla Creazione; di conseguenza, l’ordine stabilito della natura e della grazia è al sicuro da qualsiasi futura modifica divina. Simile all’imparziale monarca di Dante, che può essere al di sopra della legge per quanto riguarda i suoi mezzi ma non i suoi fini, il sovrano divino dell’Aquinate è limitato dalla sua stessa giustizia. Fin qui l’interpretazione dei miracoli di Dante e di Tommaso d’Aquino è stata messa a confronto con quella moderna; ma non si vuole suggerire che le opinioni medievali sui miracoli fossero omogenee o indifferenziate. Per quanto Tommaso sia un buon rappresentante della visione maggioritaria, all’epoca di Dante circolavano opinioni diverse, che insistevano su una prospettiva più “volontaristica” del rapporto di Dio con la sua creazione. Ad esempio, secondo il teologo Duns Scoto potenza assoluta e potenza ordinata non costituiscono due prospettive dell’onnipotenza divina bensì due diverse forme di azione divina. Il Dio-sovrano può agire in base al suo potere ordinato (de iure) oppure in base al suo potere assoluto (de facto), cioè miracolosamente. Anche quando agisce contro l’ordine da lui creato, Dio non agisce mai fuor di misura perché ogni suo desiderio è legge. Dante doveva essere particolarmente sensibile al modo in cui giuristi canonici come Giovanni d’Andrea o come l’Ostiense piegavano a scopi politi questa interpretazione assolutista dell’azione divina. L’Ostiense, ad esempio, ignorando la precedente e consolidata dottrina, sosteneva che il papa, nella pienezza dei suoi poteri, poteva sciogliere anche i fondamentali voti monastici di povertà e castità. Purché fosse per il bene superiore della Chiesa, in particolari circostanze poteva modificare la natura dello stato monastico «non attraverso il suo potere ordinato ma attraverso il suo potere assoluto».
Nella Monarchia, Dante rifiuta gli abusi di questo tipo di miracoli papali, insistendo sul fatto che ci sono dei limiti anche all’azione divina: Dio non può volere ciò che non vuole (III.ii.4); non può cambiare il passato e disfare cose già fatte (III.vi.7); non può assolvere qualcuno che non si è ancora pentito (III.viii.7). E, se Dio non è libero dalle leggi dell’universo cui lui stesso ha dato ordine, è ovvio che il suo vicario sulla terra debba essere ancora più vincolato, come Guido da Montefeltro apprende dal demonio-avvocato alla fine del XXVII canto dell’Inferno.
Esaminiamo invece i miracoli della storia di Roma che Dante riprende da storici e poeti pagani (soprattutto Lucano e Virgilio) e inserisce nella Monarchia: 1) il santo scudo o “ancile” che cade dal cielo durante il sacrificio di Numa Pompilio; 2) le strida dell’oca sulla cima del Campidoglio, che avvertono le guardie dell’attacco dei Galli; 3) l’improvvisa grandinata che trattiene Annibale e infine gli impedisce di conquistare Roma nella Seconda Guerra Punica; 4) Clelia, tenuta in ostaggio, che rompe le catene e rientra a Roma attraversando il Tevere durante l’assedio di Porsenna. Tutti e quattro questi avvenimenti sono connessi con un’interpretazione preternaturale del miracolo, e, come dimostrerò nelle prossime pagine, sostengono una visione “ordinata” piuttosto che “assolutista” della creazione divina.
Com’è noto, per molta dell’analisi del destino provvidenziale di Roma della Monarchia Dante sfrutta e rielabora un ragionamento molto simile messo a punto nel Convivio (IV,5). In questo passo Dante divide i prodigi romani voluti dal cielo in due categorie, entrambe riconducibili alla promessa che Dio fa a Mosè nell’Esodo di salvare gli israeliti «con mano potente e braccio teso». Nella prima categoria Dante colloca gli “strumenti” attraverso cui possiamo percepire la potenza del braccio teso di Dio («più volte parve esse braccia di Dio essere presenti», IV.v.17): sono modelli di virtù romana, che comprendono Fabrizio, Curio, Mucio, Bruto, Torquato, i Dieci, i Drusi, Regolo, Cincinnato, Camillo e Catone. Nella seconda categoria elenca le azioni in cui possiamo vedere il diretto intervento di Dio nella storia per mezzo delle «mani propie»: la prima battaglia tra Albani e Romani, l’avvertimento dell’oca durante l’attacco dei Galli, la vittoria di Scipione contro Annibale e la difesa della libertà compiuta dal nuovo cittadino Cicerone contro Catilina. Nel II libro della Monarchia, Dante seleziona con cura molti di questi esempi e li riorganizza e ridispone in tre sezioni: la sezione dei miracoli (II.iv), la sezione del governo virtuoso dei Romani (II.v) e la sezione dei duelli o combattimenti giudiziari (II.ix). Il riuso dello stesso materiale nei due lavori è talmente notevole che, se lo si confronta caso per caso, ci permette uno sguardo ravvicinato al laboratorio poetico di Dante.
Nella sezione sui miracoli della Monarchia, infatti, Dante apporta una serie di mirate e significative modifiche al materiale del Convivio. In primo luogo, due dei miracoli sono nuovi: lo scudo che cade dal cielo – trasportato dai forti venti libici, secondo l’invocata autorità di Lucano – e l’attraversamento del Tevere da parte di Clelia. Il terzo miracolo è ripreso dal Convivio: la vittoria romana contro Annibale; ma, mentre nel primo lavoro questa vittoria è dipesa dal «benedetto Scipione», che ha agito come strumento di Dio, nella Monarchia Dante la attribuisce a una miracolosa grandinata. La storia dell’avvertimento dell’oca è l’esempio più vicino al testo del Convivio, ma, anche in questo caso, Dante aggiunge un dettaglio importante, che contraddice addirittura la sua fonte pagana: se secondo Livio l’oca era allevata in Campidoglio, in quanto sacra a Giunone, nella Monarchia non era mai stata vista prima.
Attraverso questo sottile gioco di rielaborazioni dei materiali preesistenti, Dante eleva la sua analisi dei miracoli romani dal piano soggettivo e fenomenologico (sono ciò che causa meraviglia) a quello obiettivo e ontologico (sono causati dalla diretta azione divina senza la mediazione di agenti secondari). Conferendo ai suoi miracoli romani una cornice filosofia e teorica di cui erano privi nel Convivio, Dante fa il suo ingresso nel dibattito politico-teologico.
Anche con queste modifiche, però, i prodigi romani rimangono sostanzialmente “normativi” –preternaturali piuttosto che soprannaturali, rientrano nel livello più basso della gerarchia dei miracoli che Tommaso d’Aquino descrive nel Contra Gentiles (III.101). Per l’Aquinate esistono tre gradi di miracoli. I miracoli di primo grado (soprannaturali) sono gli eventi in cui Dio compie qualcosa che la natura non avrebbe mai potuto compiere – come il sole che inverte il suo corso o si ferma, o le acque del mare che si aprono. I miracoli di secondo grado (contro natura) sono quelli in cui Dio compie qualcosa possibile per la natura, ma con ordine inverso: la vita dopo la morte; la vista dopo la cecità; il camminare dopo la paralisi. Infine, i miracoli del terzo e più basso grado (preternaturali) sono quelli in cui Dio compie qualcosa normalmente compiuto dalla natura, ma senza impiegare i «principi della natura»: una pioggia improvvisa da un cielo senza nubi, una febbre che guarisce senza cure.
Nella Monarchia, Dante modifica gli eventi mitici della storia di Roma in modo da farli rientrare nel terzo grado dei miracoli teorizzato da Tommaso d’Aquino. In ciascuno dei casi mette in primo piano un singolo fenomeno – uno scudo trasportato da un vento potente, un’oca che appare dal nulla, un’improvvisa grandinata, un’eccezionale prova di forza da parte di una donna – che potrebbe accadere in modo naturale ma che, in questi esempi, si verifica al di fuori del normale corso delle cause secondarie. Un caso particolarmente evidente è la Guerra Punica: Dante sposta l’attenzione dalla virtù di Scipione all’improvvisa grandinata perché Tommaso usa la pioggia inaspettata come esempio dei miracoli di terzo grado.
La grandinata provvidenziale è in linea con gli scopi di Dante anche perché ricorda la micidiale grandine che Dio scatena contro l’Egitto, la settima delle dieci piaghe dell’Esodo. Dante getta le premesse per questa associazione quando, in apertura del capitolo, nomina esplicitamente la terza piaga (le zanzare) come esempio del diretto intervento divino nel creato. Ancora una volta, egli usa la piaga come un segno dell’intervento della “mano” di Dio nel testo della storia: «Digitus Dei est hic» (Monarchia II.iv.2; Esodo 8.19). L’entità miracolosa di questo fenomeno potenzialmente naturale, continua a spiegare Dante, è dimostrata quando i maghi del faraone, che possono ricorrere solo ai «principi di natura» (naturalibis principiis), non riescono a ripeterlo. Il dettaglio dei principi di natura non è presente nel racconto dell’Esodo, ma deriva invece dalla trattazione di Tommaso d’Aquino dei miracoli di terzo grado, che si verificano «absque principiis naturae operantibus», come quando piove «sine operatione principiorum naturae». Per mezzo di questa sottile interpolazione della narrazione dell’Esodo, Dante tenta di fondere i prodigi della Roma antica e i miracoli di terzo grado di Tommaso con i presagi del Vecchio Testamento.
Per riassumere: nel II libro della Monarchia, Dante ricorre ai miracoli preternaturali per legittimare la violenza fondativa che istituisce il diritto e l’impero di Roma; nel III libro, tuttavia, rifiuta l’uso dei miracoli soprannaturali come giustificazione di un’azione illimitata del sovrano pontefice. Mentre l’Ostiense sostiene che, come talvolta Dio agisce in modo assoluto all’interno dell’universo, violandone le leggi ordinarie, il papa possiede il potere assoluto di sciogliere un monaco dai suoi voti, Dante ricorda ai canonisti che, come il papa «non potrebbe […] far sì che la terra andasse verso l’alto, né che il fuoco si rivolgesse verso il basso in virtù dell’ufficio affidatogli» (III.vii.5), così non può togliere una moglie a un marito ancora vivo e legarla a un altro o assolvere qualcuno che non si sia prima pentito.
Questo contrasto tra l'Antico Testamento, i miracoli preternaturali di terzo grado e i miracoli cristologici e soprannaturali di primo e secondo grado aiuta anche a spiegare l'ultima difficile frase del quarto capitolo. Dante conclude così la sua analisi della miracolosa provvidenza di Roma:
Sic Illum prorsus operari decebet qui cuncta sub ordinis pulcritudine ab ecterno providit, ut qui visibilis erat miracula pro invisibilibus ostensurus, idem invisibilis pro visibilibus illa ostenderet. (II.iv.11)
(Così conveniva che operasse colui che dall’eternità tutto provvide nella bellezza del suo ordine, affinché chi si sarebbe fatto visibile per dare prove miracolose delle cose invisibili, anche da invisibile le mostrasse come visibili.)
Questo passo ha a lungo irritato i commentatori, che ne hanno attribuito l’oscurità alla smodata passione di Dante per i parallelismi. Ma, se lo si legge alla luce del contesto della politica dei miracoli, mi sembra che il senso sia chiaro: da una parte, i miracoli preternaturali che Dio ha operato prima del suo avvento si dovrebbero considerare segni provvidenziali del diritto di Roma all’impero; dall’altra, i miracoli soprannaturali compiuti da Dio incarnato non dovrebbero assolutamente giustificare pratiche di governo secolarizzato sulla terra, come l’eccezionale pienezza di poteri del papa, ma costituiscono invece un’anticipazione figurale di un governo puramente celeste.
Inoltre, l’insistenza di Dante, in questo passo conclusivo, sul fatto che tutti i miracoli (preternaturali, contro natura e soprannaturali) da ultimo rientrano nella giurisdizione di un piano provvidenziale stabilito ab ecterno è più significativa di quanto si sia compreso finora. Dante apre il capitolo con l’analisi di fenomeni che, nelle parole di Tommaso d’Aquino, sono «fuori dell’ordine normale delle cose» («praeter ordinem»), e lo chiude riinserendo questi fenomeni «nella bellezza del suo ordine» («sub ordinis pulcritudine»): in questo modo, afferma con chiarezza che i miracoli appartengono a un universo ordinato, e costituiscono la manifestazione divina di un’azione straordinaria piuttosto che assolutista. Il punto di vista di Dante è, ovviamente, teologicamente ortodosso: abbiamo già visto, ad esempio, come Tommaso sostenga a sua volta che i miracoli rientrano nella sfera della provvidenza. Ma la descrizione dantesca dell’“armonia” o della “bellezza” del piano provvidenziale aggiunge una suggestiva dimensione estetica alla sua posizione teologica. Sembra quasi che Dante ammiri il modo perfetto in cui questi eventi si inseriscono in una trama concepita a livello globale.
In effetti, una delle essenziali premesse del libro II, esposta nel secondo capitolo, è che Dio è un artista e il mondo la sua opera d’arte. Usando i cieli come suo strumento, Dio imprime nella materia del mondo sublunare l’impronta della sua mente divina. Per comprendere il concetto dell’artista, possiamo rileggerlo a partire dalla sua opera d’arte: dall’impronta della cera possiamo risalire al sigillo. In questo modo possiamo identificare la volontà di Dio nella storia, ciò che dichiara lecito e giusto, attraverso dei segni (per signa), proprio come la volontà umana si rivela attraverso i segni linguistici. L’immagine di Dio artigiano ha una lunga storia ed era una delle metafore predilette dalla Scolastica. Per Dante, però, l’arte divina riguarda non solo il progettare nello spazio, ma anche lo svilupparsi nel tempo: per lui è cruciale che, oltre ad essere un artigiano, Dio sia anche un narratore. L’inclinazione di Dante a raffigurare Dio come un artista è naturalmente molto nota. Ma cosa succederebbe se considerassimo l’analogia con la stessa sua serietà invertendone i termini? Se Dio è come un artista, come fa l’artista ad essere come Dio? O, in rapporto più diretto alla nostra analisi, che tipo di “miracoli” compie l’artista nella propria opera d’arte? Nella trattazione dei miracoli di Tommaso d’Aquino, una delle metafore più suggestive è quella del divino arista che rivede il proprio lavoro dopo averlo completato: «Tutta la natura è come un manufatto dell'arte divina. Ora, non è contro la natura del manufatto che l'artefice faccia dei ritocchi alla sua opera, anche dopo avergli dato la sua prima forma. Dunque neppure è contro natura che Dio compia nelle cose naturali qualcosa di diverso dal corso ordinario della natura». Al posto di quest’immagine di revisionismo petrarchista, in cui l’artista sovrano ritorna al suo artefatto ormai già esistente per limarlo e perfezionarlo, come potrebbe apparire il miracolo “interno” e “ordinato” di Dante? Cosa cambia se Dio viene considerato non un artigiano ma un narratore?
Nel mio libro Dante e i confini del diritto, sostengo che la discesa del messaggero celeste nel IX canto dell’Inferno per mettere fine allo scontro tra Dante e i diavoli alle porte di Dite dovrebbe essere vista come un miracolo regolato o “costituzionalizzato”. Avviene al di fuori delle normali convenzioni del viaggio, ma è comunque legata a una più alta norma provvidenziale. Di solito, infatti, l’invocazione della volontà e del potere di Dio da parte di Virgilio è sufficiente a far sì che i guardiani infernali rispettino il passaggio dei viaggiatori; in questo singolo caso, invece, Dio interviene direttamente, al di fuori del normale ordine delle cause secondarie. Restando nella struttura legalistica della Monarchia, Viriglio agisce come vicarius di Dio, con limitati poteri discrezionali, mentre il messo celeste è il suo nuncius, colui che manifesta direttamente la sua volontà nella sua straordinaria funzione di speciale emissario ad hoc.
Tanto la regola quanto l’eccezione – la formula di Virginio e l’intervento dell’angelo – rientrano però in un superiore ordine costituzionale, «sub ordinis pulcritudine». I diavoli non possono ribellarsi contro quanto è stato decretato, «Che giova ne le fata dar di cozzo» (IX, 97). La violazione della sovranità di Dite, il superamento delle leggi municipali, l’inefficace scritta morta di «Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate» sono giustificate sulla base di un più alto principio di ius commune, perché i diavoli sono sempre già colpevoli per via della loro primordiale violazione del Paradiso: sono «cacciati del ciel, gente dispetta» (IX, 91). In questo senso, tutta la drammatica scena della discesa agli Inferi può essere vista come una prova (Inf., VIII, 122) piuttosto che come un puro atto di forza: come un duello giudiziario, un iudicium piuttosto che un litigium, che, risolvendosi «sanz’alcuna guerra» (IX, 106), serve a dimostrare la presenza di un ordine percepibile ed interpretabile dietro eventi apparentemente casuali.
La re-inscrizione del meraviglioso all’interno dell’ordinario è realizzata anche attraverso la struttura drammatica della discesa dell’angelo. In primo luogo, la mancanza senza precedenti di uno scioglimento narrativo tra VIII e IX canto dà all’episodio un’aura di suspense; anche la digressione di Virgilio che copre gli occhi di Dante per proteggerlo dallo spettro di Medusa contribuisce all’atmosfera soprannaturale, quasi si stesse preparando una teofania. Ma, quando infine l’angelo arriva, sembra più che altro irritato, perché è stato costretto a mettere da parte il suo prediletto compito di gioire nella visione di Dio per occuparsi dell’opposizione dei diavoli. Non appena li ha allontanati senza sforzo, ritorna immediatamente da dove è venuto, senza neppure guardare Dante o Virgilio, come se la sua mente fosse occupata da cose più importanti: «fé sembiante / d’omo cui altra cura stringa e morda» (Inf., IX, 101-102). In questo anti-climax, Dante presenta il miracolo politico-teologico come l’operato non di un sovrano assolutista che agisce in una legale terra di nessuno, ma di un funzionario burocratico annoiato dal proprio lavoro. Eppure in questi canti Dante non si limita a descrivere un miracolo: ne realizza anche uno. Sia nel Convivio che nella Monarchia abbiamo visto esempi del divino artigiano che mette improvvisamente da parte i suoi strumenti e influenza direttamente la sua creazione con le «mani propie». Da molto tempo, i critici hanno notato che la Commedia funziona come un microcosmo, che riproduce strutturalmente l’armonia dell’arte divina. Eppure, in quest’universo così modellato, dov’è lo spazio del miracolo? In altre parole, cosa significherebbe per l’artista umano intervenire direttamente sulla sua creazione, senza affidarsi a cause secondarie? A mio parere, mentre i protagonisti aspettano di attraversare le porte di Dite, fa la sua prima comparsa un miracolo artistico di questo tipo, la cui prodigiosità è stata nascosta, come dice Agostino, da una familiarità quotidiana. Mi riferisco ovviamente agli appelli al lettore in Inferno VIII, 93-96, e IX, 61-63. Per lo più Dante poeta parla attraverso i suoi personaggi, gli strumenti della sua arte, proprio come Dio parlava per mezzo dei pagani virtuosi o perfino, come ci viene detto nella Monarchia (II.11.6), per mezzo degli ignari Erode e Caifa; eppure, in questi appelli al lettore, il poeta si fa immediatamente riconoscere. Nonostante questi interventi siano al di fuori del normale corso della narrazione, rimangono all’interno dei confini del lavoro progettato nel suo complesso. In un miracolo extradiegetico, l’autore – come Dio per mezzo del suo angelo – discende sulla sua creazione, e si manifesta, e ci ricorda la mano che modella l’opera: «’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 2). Protendendosi al di fuori della cornice mimetica, Dante sostanzia miracolosamente la reale presenza della sua voce: Pensa, lettor.
Il sistema dei reati tributari e le riforme di cui al d.l. n. 124 del 2019 e al d.lgs. n. 75 del 2020*
di Stefano Tocci
La risposta penale all’illecito tributario, soprattutto quella in senso detentivo, non è da sempre esistente nel sistema giuridico italiano. Immediatamente dopo l’Unità d’Italia infatti, la normativa in materia di imposte dirette prevedeva soltanto sanzioni di carattere pecuniario, dal contenuto punitivo e risarcitorio, denominate pene pecuniarie e soprattasse.
La prospettiva di una sanzione detentiva cominciò a balenare con la L.n. 2834/1928, ma con l’effettivo riordino della materia punitiva tributaria, che si realizzò con la L.n. 4/1929 ed il correlato R.D. 1608/1931, la sanzione detentiva non aveva ancora preso pienamente piede.
La L.n. 4 del 1929 ebbe una fondamentale importanza per la edificazione del sistema penale tributario, articolato in senso coerente, e concepito come un diritto speciale, prevedendosi ampie e significative deroghe alle norme generali della materia penale. Detta legge infatti esprimeva due principi molto caratterizzanti:
- il principio di “ultrattività”, basato sul tempus regit actum, per cui le norme penali tributarie continuavano ad essere applicate per i fatti consumati durante la loro vigenza anche se in seguito abrogate o modificate in melius; l’art. 20 della L.n. 4/1929 prevedeva infatti espressamente che le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione; evidente la piena deroga al generale principio consacrato nell’art. 2 c.p. del Codice Zanardelli e ribadito, sempre all’art. 2, dal Codice Rocco.
- la “pregiudiziale tributaria”, ossia la sospensione dell’azione penale, in materia di imposta dirette, fino al completo accertamento da parte della giustizia tributaria dell’imposta evasa e delle consequenziali sopratasse. Praticamente al giudice penale era consegnato l’esito dell’accertamento fiscale già completo nella sua dimensione erariale, pronto per la sua valutazione in termini penalistici.
L’efficacia deterrente del sistema sanzionatorio risultava ancora insufficiente a causa delle modeste entità delle pene. Bisogna attendere il D.P.R. n. 645/1958, testo unico in materia di imposte dirette, per vedere comparire la sanzione detentiva nello scenario del sistema penale tributario, ma l’effetto di prevenzione generale è ancora minimo.
Il primo importante impatto della sanzione penale come risposta all’illecito tributario può farsi quindi risalire alla riforma tributaria dei primi anni ’70, e precisamente all’introduzione dell’art. 50 D.P.R. n. 633/1972, in materia di IVA, ed all’art. 56 D.P.R. n. 600/1973 in materia di imposte dirette, che comminavano per alcune fattispecie, oltre ad una forte pena pecuniaria, la sanzione della pena detentiva. Tale normativa si caratterizzava dell’introduzione delle soglie di punibilità per alcune delle molteplici fattispecie ivi contemplate, e ciò evidentemente rispondeva all’esigenza, avvertita dal Legislatore, di non “criminalizzare” gli illeciti nella loro essenza, comunque sempre suscettibili di sanzione amministrativa fiscale, ma solo nella loro entità, al di là di un ammontare in ragione del quale il danno erariale appariva meritevole di una risposta penale. Tale meccanismo punitivo, in astratto ben più incisivo di quanto precedentemente previsto nell’ordinamento, comunque trovava un notevole ostacolo, nel suo funzionamento, nella persistente vigenza della pregiudiziale tributaria, sempre presente nel rallentare il processo penale, ancora visto in prospettiva consequenziale rispetto all’accertamento tributario definitivo.
La riforma organica del diritto penale tributario il nostro ordinamento la vede finalmente con il D.L n. 429/1982 converto nella L.n. 516/1982, la cd. Legge “Manette agli evasori”, che costituisce un articolato specifico dotato di una propria struttura autonomamente definita. Le peculiarità del nuovo sistema incriminatorio sono costituite da:
- l’abbandono della pregiudiziale tributaria, e conseguentemente la creazione di un doppio binario, non del tutto perfetto, tra giustizia tributaria e giustizia penale;
- l’adozione di una tecnica di formulazione normativa estremamente casistica, diretta a prevedere e colpire non tanto l’evento danno per l’erario quanto condotte prodromiche all’illecito tributario vero e proprio, con un conseguente arretramento della tutela penale a fattispecie non ancora costituenti un fatto di evasione bensì sintomatiche di un pericolo in tal senso.
Quest’ultima caratteristica costituirà il limite della riforma del 1982, apparendo l’apparato sanzionatorio predisposto soprattutto a tutela dell’accertamento fiscale e non come risposta al danno erariale effettivamente verificatosi, con tutti i consequenziali problemi di conformità costituzionale ai principi di offensività e determinatezza che connaturano il nostro ordinamento penale.
Il Legislatore proverà a rimediare con la L.n. 154 del 1991, diretta a risolvere aspetti interpretativi nel frattempo insorti, ma il tentativo risulterà abbastanza timido, soprattutto alla luce del necessario coordinamento con la riforma del sistema sanzionatorio amministrativo tributario, introdotto col D. Lgs. N. 472/1997, per cui si decise di promuovere l’ennesima riforma organica della materia attraverso la delega al Governo di cui alla L.n. 205/1999, art. 9, che poneva in sostanza i seguenti obiettivi:
- previsione di una ristretta rosa di reati di natura esclusivamente delittuosa, di entità sanzionatoria significativa;
- carattere di effettiva offensività delle fattispecie penali con riferimento ai concreti interessi erariali da tutelare;
- elemento psicologico del reato caratterizzato dal dolo specifico, di evadere l’imposta o di conseguire un indebito rimborso;
- ricorso alla previsione di soglie di punibilità, in modo da rendere effettiva la risposta punitiva dello Stato rispetto ad un concreto danno erariale, ad eccezion fatta per il reato di falsità in fatturazione o distruzione di documentazione contabile, trattandosi di fattispecie di per sé lesive degli interessi fiscali.
La svolta, concretizzatasi quindi col D. Lgs. N. 74/2000, in attuazione della suddetta legge delega, consiste nell’orientare la tutela penale a fatti dotati di reale significatività economica, con la rinuncia alla criminalizzazione di violazioni formali o di proiezioni meramente sintomatiche di un danno erariale, per concentrare l’azione del diritto penale tributario al perseguimento di fatti realmente dotati di offensività per gli interessi fiscali dello Stato. Tale linea prospettiva veniva ribadita nella delega di riforma fiscale di cui alla L.n. 80/2003, il cui art. 2 lett. m) prescriveva il principio che la legge penale tributaria dovesse essere riservata ai soli casi di frode e di effettivo e rilevante danno per l’erario.
Ma il sistema penale tributario continuerà a non trovare pace, diventando sempre più, col passare del tempo, uno strumento malleabile destinato a piegarsi alle emotività legislative, adoperato sovente, nella sua finalità di contrasto al fenomeno dell’evasione fiscale, diversamente interpretato a seconda del momento politico, a perseguire, più negli intenti che nella realtà, anche gli effetti economici e finanziari di una organica riforma fiscale ancora lungi da all’essere attuata o, rectius, concepita.
Con il d.L. n. 138/2011, convertito nella L.n. 148/2011, abbiamo il primo sensibile ritocco all’articolato del D. Lgs. n. 74/2000, ma praticamente solo con riferimento agli aspetti sanzionatori, ed invero:
- sono abolite alcune circostanze attenuanti specifiche;
- sono ridotte le soglie di punibilità;
- sono aumentati di 1/3 i termini di prescrizione per quasi tutte le norme incriminatrici;
- la sospensione condizionale della pena non potrà più essere applicata in ragione di una evasione superiore al 30% del volume d’affari del contribuente e, congiuntamente, a tre milioni di euro;
- l’accesso al rito alternativo del patteggiamento è consentito solo nel caso di estinzione del debito tributario.
È evidente che la modifica attiene solo agli aspetti più crudamente repressivi del sistema penale tributario, chiamato a mostrare i muscoli in un momento di grave crisi economica.
Ulteriori interventi, sull’ordinamento qui studiato, si registrano nell’anno 2015, e precisamente segue prima il D. lgs. N. 128/2015, che riveste enorme importanza in materia di abuso del diritto ed elusione fiscale: l’art. 37 bis D.P.R. n. 600/1973, che contemplava le principali operazioni ritenute elusive inopponibili all’amministrazione finanziaria, viene infatti abrogato e con il comma 13 dell’art. 10 bis L.n. 212/2000 si introduce l’irrilevanza penale delle condotte abusive in materia fiscale.
Fa quindi seguito il D. Lgs n. 158/2015 che, sia pur in linea, almeno astrattamente, con la direttrice del D. Lgs. N. 74/2000, interviene sulla disciplina penale tributaristica in modo più articolato: rafforza la sanzione penale per fattispecie più pregnanti per gli interessi erariali con contestuale attenuazione del rigore sanzionatorio per fattispecie con minore disvalore; alcune fattispecie non sono più penalmente rilevanti ma nuove incriminazioni vengono introdotte; il pagamento del debito erariale diventa causa di non punibilità per alcune fattispecie e circostanza diminuente della pena per altre.
Di rilievo appare poi l’introduzione dello strumento della confisca (art. 10 che ha novellato il D Lgs. N. 74/2000 inserendo l’art. 12 bis) nel caso di condanna o applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal D. Lgs. N. 74/2000. Trattasi di confisca obbligatoria dei beni che costituiscono profitto o il prezzo di detti reati, salvo che non appartengano a persona diversa dal reo, ed eseguibile anche “per equivalente” in caso di impossibilità, ossia: quando non è possibile rivalersi direttamente sul profitto o prezzo del delitto, saranno confiscabili beni per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Detta misura non opera per la parte di debito erariale che il contribuente condannato s’impegna a corrispondere al fisco.
L’evoluzione del sistema però non si è fermata qui, essendo il Legislatore intervenuto anche più recentemente con il d.L. 124/2019 e quindi il D. Lgs. 74/2020, i cui effetti saranno appresso esaminati.
Prima di osservare le più recenti modifiche al sistema normativo, mi sembra opportuno delineare in estrema sintesi come lo stesso risultava strutturato fino all’ultima modifica qui menzionata, ossia al 2015.
Il D. Lgs. N. 74/2000 costituisce sempre l’ossatura portante del sistema penale tributario, sebbene, come visto, abbia conosciuto ripetuti interventi abrogativi, modificativi ed integrativi. Il primo titolo, riempito dall’art. 1, ha una mera elencazione di definizioni, ossia di esplicazione del significato dei termini che si incontrano nel successivo articolato, con l’evidente funzione di restringere l’ambito degli interventi interpretativi sul tema. Quindi segue la delineazione dei vari reati, distinguibili in:
- delitti dichiarativi, ossia la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2); la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, cioè compiuta mediate operazioni oggettivamente o soggettivamente simulate ovvero altri documenti falsi, diversi da quelli di cui all’articolo precedente, o altri mezzi fraudolenti idonei ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria (art. 3). Per entrambe le norme appena citate il reato sussiste allorquando i documenti falsi (fatture o altro) siano registrati nelle scritture contabili, e solo per le ipotesi di cui all’art. 3 è prevista una soglia di punibilità. Ugualmente è prevista una soglia di punibilità per i reati di dichiarazione infedele (art. 4), quando cioè, al di fuori delle ipotesi precedentemente dette, in una delle dichiarazioni annuali sono indicati elementi attivi in misura inferiore a quella reale ovvero elementi passivi inesistenti, nonché per l’omessa presentazione della dichiarazione (art. 5). L’art. 6 esclude espressamente la configurabilità del tentativo per detti reati.
- delitti documentali, quali l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8). Il Legislatore, al comma 2, ha prescritto non solo che l’emissione di più fatture o documenti falsi nell’ambito dello stesso periodo d’imposta si considera un unico reato, escludendosi pertanto l’applicazione della disciplina della continuazione, ma anche, all’art. 9, che l’emittente e l’utilizzatore delle fatture o documenti falsi non concorrono nei rispettivi reati previsti dagli artt. 8 e 2 citati. L’art. 10 invece sanziona l’occultamento o la distruzione di documenti contabili.
Sia i delitti dichiarativi che quelli documentali sono delineati come reati a dolo specifico, ossia l’elemento psicologico del reato deve essere teleologicamente orientato all’evasione dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto.
- i delitti in materia del pagamento delle imposte, ossia l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10 bis), reato proprio del sostituto d’imposta, l’omesso versamento dell’I.V.A. (art. 10 ter), il delitto di indebita compensazione (art. 10 quater) e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11), tutte norme incriminatrici che per la loro configurazione prevedono il superamento di definite soglie di punibilità.
Su tale contesto ha nuovamente operato il Legislatore con il d.L. 124/2019, convertito nella L.n. 157/2019, effettuando, rispetto alle innovazioni del 2015, una notevole deviazione, se non una vera e propria inversione di marcia, nel senso di un maggior inasprimento degli aspetti punitivi, nell’intento di mostrare, nuovamente, i muscoli nella repressione del fenomeno dell’evasione fiscale. Infatti stavolta il Legislatore ha operato seguendo tre direttrici: 1) l’intervento sul trattamento sanzionatorio dei reati tributari di cui al d.lgs. 74/2000; 2) l’introduzione della confisca allargata; 3) la previsione della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001 per gli illeciti penali tributari.
In primo luogo va ravvisata una evidente anomalia, se non una vera e propria violazione costituzionale, nella tecnica legislativa adottata: l’efficacia delle modifiche in materia penale previste dal decreto-legge è stata normativamente posticipata al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione (art. 39, comma 3, d.l. 124/2019). Evidente la contraddizione tra l’adozione dello strumento della decretazione d’urgenza e la funzione ad essa attribuita dalla Costituzione, ed il differimento dell’efficacia delle norme. Lasciando ai costituzionalisti l’analisi della problematica, per quel che riguarda questa sede possiamo osservare:
- quanto al primo profilo, l’inasprimento della politica sanzionatoria si è realizzata con l’elevazione delle cornici edittali di pena per molti dei reati contemplati, con ricadute per alcuni di essi anche sui termini di prescrizione; ovvero abbassando le soglie di punibilità ivi previste, così estendendosi l’area di rilevanza penale dell’illecito fiscale. Questi effetti, tuttavia, sono stati smorzati dalle modifiche apportate dalla legge di conversione, che infatti ha ammorbidito l’effetto innovativo della riforma. Da una parte l’innalzamento delle pene per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, pur confermato, è stato ridimensionato; d’altro canto, il prospettato abbassamento delle soglie di punibilità, mantenuto all’art. 4, non è stato invece confermato rispetto ai reati di omesso versamento ex art. 10-bis e 10-ter, i cui limiti configurativi rimangono pertanto invariati. Inoltre, le suindicate novità, volte ad irrigidire il sistema penale tributario, sono state controbilanciate da un ampliamento dell’ambito applicativo della causa di non punibilità dell’art. 13, comma 2, che viene estesa anche ai reati di cui agli artt. 2 e 3.
Il decreto-legge viene altresì modificato, in sede di conversione, nella parte in cui prevedeva l’abrogazione della disposizione di cui al comma 1-ter dell’art. 4, in forza della quale si escludeva la punibilità delle “valutazioni” che, singolarmente considerate, differissero in misura inferiore al 10% da quelle corrette, precisando altresì che gli importi compresi in tale percentuale non fossero computati ai fini del superamento delle soglie di punibilità. La legge di conversione ha mantenuto in vigore il comma 1-ter, prevedendo però che le valutazioni non debbano essere “singolarmente” considerate, bensì “complessivamente” considerate.
Trova conferma, senza modificazione rispetto al decreto-legge, l’inasprimento sanzionatorio per il reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 8), ove la previgente pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni viene elevata a quella della reclusione da 4 a 8 anni; viene però inserita in un nuovo comma 2-bis una soglia di punibilità, statuendosi che la pena rimane invece quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni «se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore a euro centomila».
La legge di conversione introduce poi un’ulteriore novità, non contemplata dal decreto-legge: la causa di non punibilità del pagamento del debito tributario di cui all’art. 13, comma 2, originariamente prevista per i soli reati di omessa o infedele dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5, può trovare applicazione anche per i reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3.
- Novità di enorme rilievo è costituita dall’introduzione nel sistema penale tributario dell’istituto della “confisca allargata”. Come detto l’art. 10 comma 1 del D. Lgs. N. 158/2015 aveva già introdotto la cd. “confisca tributaria” con l’art. 12 bis sia nella forma della “confisca diretta”, quando l’ablazione investe beni che costituiscono il profitto, il prodotto o il prezzo del reato o qualunque vantaggio patrimoniale direttamente derivante dal reato, anche se consistente in un risparmio di spesa (in tal senso Cass. SS.UU. n. 10561/2013), sia della “confisca per equivalente” ossia altri beni di valore equivalente al profitto.
L’art. 39 d.L. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla L.n. 157/2019 ha ulteriormente introdotto l’art. 12 ter rubricato “casi particolari di confisca”. Tale norma prevede che nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti di seguito indicati, si applica l'articolo 240 bis del codice penale quando:
a) l'ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 2;
b) l'imposta evasa è superiore a euro 100.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 3;
c) l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 8;
d) l'ammontare delle imposte, delle sanzioni e degli interessi è superiore a euro 100.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 1;
e) l'ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 2.
Trattasi di una previsione speciale della cd. “confisca allargata” o “per sproporzione” di cui all’art. 240 bis c.p., introdotta nell’ordinamento penalistico dal D. Lgs. n. 21/2018, in cui è confluito il primo comma dell’art. 12 sexies d.L. n. 306/1992 convertito nella L.n. 356/1992, in materia di lotta alla criminalità mafiosa, la cui ratio era colpire una disponibilità economica di valore sproporzionato al reddito del perseguito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. Questa confisca ex art. 240 bis c.p., dunque, consiste in una forma di ablazione fondata essenzialmente sulla sproporzione patrimoniale, che consente la formulazione di una presunzione iuris tantum di origine illecita dei beni, secondo un meccanismo di accertamento non dissimile da quello proprio della confisca di prevenzione di cui al c.d. codice antimafia: come si è espressa la Corte Costituzionale con sentenza n. 33/2018 si presume “che il patrimonio stesso derivi da attività criminose che non è stato possibile accertare”, cioè, in altri termini, che “il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone”. Da ciò consegue che la confisca “per sproporzione” non richiede l’accertamento del nesso di pertinenzialità tra la res ed il delitto per cui è stata pronunciata sentenza di condanna o applicazione pena. L’art. 12 ter non contiene la previsione di inoperatività della confisca “per la parte che il contribuente s’impegna a versare all’erario” sancita nell’art. 12 bis comma 2.
Le fattispecie penali tributarie suscettibili di provocare l’applicazione della “confisca allargata” sono connotate da condotte fraudolenti, rimanendo fuori dalla sua sfera di operativa i reati documentali e puramente dichiarativi.
La giurisprudenza, anche costituzionale, è costante nell’attribuire alla confisca allargata una natura ibrida perché sospesa tra funzione special-preventiva e vero e proprio intento punitivo. La giurisprudenza convenzionale è invece orientata a ritenere la “confisca allargata” come mera misura preventiva, volta ad impedire l’uso illecito di beni di cui non è provata l’origine lecita da parte di soggetti pericolosi (così CEDU, Sentenza Bocellari e Rizza contro Italia, 13 novembre 2007 -ricorso n. 399/02).
La “confisca allargata” di cui all’art. 12 ter quindi si aggiunge alla “confisca per equivalente” di cui all’art. 12 bis investendo solo le condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.L. n. 124/2019: ciò è espressamente previsto dal Legislatore all’art. 1 comma 1 bis del detto decreto Legge, in deroga all’art. 200 c.p. che invece prevede per le misure di sicurezza la vigenza del principio tempus regit actum.
Va segnalato infine, per quanto attiene alla materia della confisca tributaria, che l’art. 12 ter fa richiamo all’art. 240 bis c.p. che è a sua volta richiamato dall’art. 578 bis c.p.p., a norma del quale il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato.
-Altra importante novità introdotta dall’art. 39 comma 2 d.L. 124/2019 convertito nella L.n. 157/2019 è costituita dall’inserimento di alcuni reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente ex D.Lgs. 231/2001. L’orizzonte prospettato nel decreto-legge appariva ristretto al solo reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, ma la legge di conversione l’estende anche agli artt. 3, 8, 10 e 11 d.lgs. 74/2000.
Più in particolare, viene aggiunto nel D. Lgs. n 231/2001 un nuovo art. 25-quinquiesdecies, rubricato “Reati tributari”, che prevede in capo all’ente responsabile:
a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall’art. 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall’art. 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall’art. 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
Come è noto la sanzione pecuniaria prevista dal D. Lgs. 231/2001 è quantificata con il sistema delle “quote” (unità di misura così espressamente definita dal legislatore). La determinazione del quantum è rimessa, nel rispetto della cornice edittale normativamente fissata, alla discrezionalità del giudice il quale procede attraverso due distinte fasi valutative: 1) nella prima fase, individua il numero delle quote da applicare che può variare da un minimo di 100 ad un massimo di 1.000. In tale fase i parametri di riferimento sui quali il giudicante fonda la propria discrezionale determinazione sono la gravità del fatto, il grado di responsabilità dell’ente (considerando, ad esempio, se risultano essere stati adottati o meno modelli organizzativi, codici etici, sistemi disciplinari, nonché il loro eventuale grado di efficacia), la sussistenza di eventuali condotte riparatorie nei confronti dei soggetti danneggiati;
2) nella seconda fase, determina il valore di ogni singola quota che può variare da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1.549 euro. In tale fase, per assumere le proprie determinazioni, il giudice valuta le condizioni economiche e patrimoniali della società così da assicurare l’efficacia della sanzione. L’importo finale della sanzione sarà, dunque, il prodotto della moltiplicazione tra l’importo della singola quota e il numero di quote da applicare, per un ammontare complessivo che potrà, pertanto, variare da un minimo di 25.800 euro ad un massimo di 1.549.000 euro.
Se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo. In tutti questi casi, si applicano le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, lettera c (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e (divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Il mancato inserimento dei reati tributari nel novero di quelli previsti dal D. Lgs. n. 231/2001 era una distonia già evidenziata dalla Suprema Corte con la sentenza “Gubert”, SS.UU. n. 10561/2014, ma tale “irrazionalità”, segnalava il supremo consesso, “non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale, secondo la quale il secondo comma dell’art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”. L’estensione della responsabilità amministrativa degli enti agli illeciti penali tributari era quindi divenuta non più eludibile. Nella Relazione illustrativa all’art. 39 cit. si afferma chiaramente che “Con l’introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i più gravi reati tributari commessi nel loro interesse o a vantaggio delle medesime, si inizia a colmare un vuoto di tutela degli interessi erariali che, pur giustificato da ampi settori della dottrina con la necessità di evitare duplicazioni sanzionatorie, non può più ritenersi giustificabile sia alla luce della più recente normativa eurounitaria, sia in ragione delle distorsioni e delle incertezze che tale lacuna aveva contribuito a generare nella pratica giurisprudenziale”. Evidente quindi il richiamo alla Direttiva (UE) 2017/1371 “relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale” (cd. “direttiva PIF” cioè Protezione Interessi Finanziari), che ha imposto agli Stati membri l’adozione delle misure necessarie perché le persone giuridiche non siano esenti da responsabilità in ordine ai reati che ledono gli interessi finanziari dell’unione Europea, laddove questi siano commessi a loro vantaggio da soggetti apicali dell’ente (cioè che assumono funzioni di rappresentanza, decisionali o di controllo) ovvero da sottoposti, con omissione dei necessari controlli da parte dei primi, secondo i criteri di imputazione della responsabilità indicati nell’art. 6 D. Lgs. n. 231/2001). Notevoli le conseguenze che scaturiscono dall’inserimento delle fattispecie penali fiscali nell’art. 25 quinquiesdecies suddetto: innanzitutto non vi sono più incertezze interpretative sul riconoscimento della responsabilità dell’ente giuridico in ordine a reati tributari che siano fine di un reato associativo ai sensi dell’art. 416 c.p., ovvero siano reati presupposto di delitti di riciclaggio ed autoriciclaggio ai sensi degli artt. 648 bis e 648 ter c.p. Diventa quindi applicabile la confisca “diretta” o “per equivalente” prevista dall’art. 19 D. Lgs. n. 231/2001 anche con riferimento al prezzo o profitto del reato tributario, nonché, ovviamente, il sequestro preventivo ad essa funzionale.
Va segnalato il problema, già chiaro alla dottrina, che l’estensione della responsabilità da reato tributario alle persone giuridiche possa condurre ad una duplicazione di incriminazione con conseguente violazione del principio del ne bis in idem. Lasciando l’approfondimento della tematica a chi mi seguirà, segnalo che il Legislatore dovrà necessariamente prevedere un meccanismo di coordinamento tra le sanzioni pecuniarie tributarie di cui al D. Lgs. n. 472/1997 e le sanzioni di cui al D. lgs. n. 231/2001, da effettuarsi alla luce della giurisprudenza costituzionale, secondo cui non ricorre violazione del principio ne bis in idem quando “le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato; quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; e quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito” (Corte Cost. Sent. N. 222 del 24/10/2019).
Se la citata Direttiva PIF n. 2017/1371 è stata una importante sollecitazione alla formulazione dell’art. 25 quinquiesdecies D. Lgs. n. 231/2001, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti giuridici da reato tributario, l’attuazione della stessa direttiva, col D. Lgs. n. 75/2020, ha comportato una ulteriore, limitata ma importante, riforma nel sistema penale tributario del nostro Paese.
Per conformarsi alle disposizioni innovative contenute nella direttiva (UE) 2017/1371 il Legislatore è intervenuto rivoluzionando la disciplina del delitto tentato contenuta nell’art.6 D. Lgs. n.74/2000. La disciplina precedente, infatti, come detto, escludeva che fossero punibili a titolo di “tentativo” le fattispecie delittuose di cui agli artt.2 “Dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti”, 3 “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” e 4 “Dichiarazione infedele”. La “ratio” della norma contenuta nel D. Lgs. 74/2000 era quella di evitare che l’aspirazione del Legislatore delegante di cui alla legge n.205/1999 di bandire il modello del cd. “reato prodromico”, ossia la criminalizzazione di condotte che ancora non comportassero un danno concreto all’erario, risultasse vanificato, in concreto, dall’applicazione dell’art.56 c.p. Conformemente si era espressa anche la Corte Costituzionale, che ha ritenuto che la scelta “di escludere la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4, mira, oltre che a stimolare, nell’interesse dell’Erario, la resipiscenza del contribuente nel corso del periodo d’imposta, ad evitare che violazioni preparatorie già autonomamente represse nel vecchio sistema, possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione”
Con l’art.2 del decreto legislativo n.75/2020 il legislatore ha ora, all’opposto, aggiunto un ulteriore comma al suindicato art.6, prevedendo a tal fine che “… salvo che il fatto integri il reato previsto dall’articolo 8, la disposizione di cui al comma 1 non si applica quando gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro”. Per i “delitti in materia di dichiarazione” di cui agli artt. 2, 3 e 4 decreto legislativo n.74/2000, è quindi ora prevista la punibilità a titolo di “tentativo” (precedentemente espressamente esclusa dall’art. 6, cui è ora aggiunto il nuovo comma 1-bis), ma solo in presenza di determinate condizioni, ossia:
1. l’evasione d’imposta deve avere ad oggetto specificatamente l’imposta sul valore aggiunto;
2. l’imposta di cui è preordinata l’evasione deve avere un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro;
3. la condotta che integra il “tentativo”, riferito alle fattispecie delittuose interessate dalla nuova disposizione normativa (ex artt.2, 3 e 4 d.lgs. n.74/2000), deve realizzarsi anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea; ovvero può interessare anche più Stati membri dell’U.E.;
4. Il “tentativo” oggetto di contestazione non deve integrare la fattispecie delittuosa prevista dall’articolo 8 D. Lgs .n.74/2000 “Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”: trattasi di una vera e propria clausola di riserva. Resta comunque impregiudicato il principio della non punibilità in materia di “Concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” di cui all’art.9 lett. a) D. Lgs. n.74/2000.
Altra novità di rilievo contenuta nel decreto legislativo n.75/2020 riguarda l’estensione del catalogo dei reati presupposto alla responsabilità da reato degli enti. Invero, con l’art.5 del D. Lgs. n.75/2020 il legislatore è intervenuto, nuovamente, sul D. Lgs. n.231/2001, ampliando significativamente il catalogo dei reati presupposto non compresi nella recente citata riforma contenuta nel d.L. n.124/2019, convertito con modificazioni nella L.n. 157/2019.
Difatti l’art.5, lett.c) del D. Lgs. n.75/2020 rubricato “Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231” ha inserito all’articolo 25-quinquiesdecies il comma 1-bis che include ora tra i reati presupposto anche le fattispecie delittuose previste dagli artt.4 “Dichiarazione infedele”, 5 “Omessa dichiarazione” e 10-quater “Indebita compensazione” del D. Lgs. n.74/2000, a condizione però che tali delitti siano commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, e l’imposta evasa deve essere non inferiore a dieci milioni di euro. La ratio di entrambi gli interventi sul sistema penale tributario appaiono quindi incentrarsi sulla necessità, ravvisata dalla Direttiva PIF, di perseguire, anche a livello di tentativo nonché da parte di persone giuridiche, fatti di particolare rilevanza per l’entità del danno erariale in materia di IVA che possa derivare su scala transfrontaliera, per le sue ripercussioni sugli interessi finanziari dell’U.E.
Tale piccola ma incisiva modifica è destinata invero ad avere particolare importanza in prospettiva futura, allorquando sarà pienamente operativo il cd. Pubblico Ministero Europeo. Con Regolamento CE, 12/10/2017 n° 1939, l’U.E. ha infatti istituito la Procura Europea, per volontà di alcuni Stati membri, con lo scopo di far fronte a quelle frodi internazionali ai danni dell’Unione Europea aventi carattere transfrontaliero e rispetto alle quali le procure nazionali non hanno poteri di indagine sufficientemente rapidi e penetranti. La Procura Europea, nata mediante l’utilizzo della procedura di cooperazione rafforzata promossa da sedici Stati membri (oggi estesa a ventidue Stati) - in quanto la proposta della Commissione di instituirla per l’intera Unione, non è stata approvata all’unanimità dal Consiglio - opera a tutela degli interessi finanziari dell’U.E. in relazione a reati rilevanti ai sensi della direttiva 2017/1371, e precisamente investe:
- le condotte fraudolente ai danni del bilancio dell’Unione, comprese le operazioni finanziarie quali l'assunzione e l'erogazione di prestiti;
- i reati gravi contro il sistema comune dell’IVA, (es. frodi carosello, frodi commesse nell’ambito di operazioni criminali etc..), compiuti in due o più stati membri ed il cui danno complessivo sia almeno pari a 10 milioni di Euro;
- le condotte di appropriazione indebita di funzionari pubblici, di corruzione attiva e passiva;
- le condotte di riciclaggio.
Evidente appare pertanto la correlazione tra le modifiche introdotte dal D. Lgs n. 75/2020 in materia penale tributaria e lo spettro di competenza del Pubblico Ministero Europeo. Tale figura, che per certi versi sembrava costituire una mera prospettiva avveniristica, è ormai realtà alla luce del D. lgs. n. 9/2021, che stabilisce le norme necessarie ad adattare l’ordinamento giuridico nazionale alle previsioni del regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio, del 12 ottobre 2017, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea («EPPO»).
Il sistema penale tributario appare quindi destinato a nuove rivisitazioni che, con particolare riferimento alle imposte indirette, amplieranno la dimensione territoriale delle relative applicazioni, risultando non più adeguata una visione esclusivamente nazionalistica degli interessi finanziari protetti.
*Relazione svolta in occasione del seminario “Riforme del diritto penale tributario, prospettive sistematiche ed esperienze applicative”, tenutosi attraverso l’aula virtuale Teams presso la Corte di cassazione il 10 marzo 2021.
Interdittiva antimafia e giudicato penale (nota a Consiglio di Stato sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sulla certezza del diritto e sul giudicato tra sistemi diversi - 3. Sull’accertamento nel giudizio amministrativo operato dal giudice penale - 3.1. Rilevanza nel giudizio penale della qualificazione giuridica operata dal giudice amministrativo - 4. Focus. Rapporto tra interdittiva antimafia e giudicato penale - 4.1. Il rapporto tra decisioni di giudici diversi osservato da un'altra prospettiva: sent. Corte di Appello di Bari del 18 febbraio 2021 n. 4 - 5. Riflessioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La giurisprudenza scioglie progressivamente, in un equilibrio ragionevole e funzionale, il fitto groviglio relato ai provvedimenti interdittivi.
In tale filone, va segnalata la pronuncia dei Giudici di Palazzo Spada, sez. III, del 4 febbraio 2021, n. 1049, in cui si rileva il rapporto di autonomia intercorrente tra giudizi diversi [1]. La questione presenta diversi profili problematici che cercheremo di dipanare.
Come ricorda autorevole dottrina “nel sistema attuale, gli accertamenti di giudici “diversi” non sono più regolati dal principio di necessaria pregiudizialità del processo penale, ma da un principio generale di coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali che rappresenta la regola del rapporto in un sistema ispirato non più al principio di unicità ma di autonomia delle giurisdizioni, con le conseguenti implicazioni in tema di reciproco condizionamento degli accertamenti operati da giudici diversi” [2].
Nel caso de quo, l’odierna società appellante chiedeva alla Prefettura di revocare l’interdittiva antimafia [3] allegando, quale fatto legittimante, il provvedimento del giudice della prevenzione penale, con il quale l’impresa non era stata ammessa al controllo giudiziario ex art. 34-bis del Codice Antimafia “ritenendo non sussistenti i presupposti tentativi di infiltrazione mafiosa dell’azienda” [4].
La Prefettura rigettava l’istanza, che veniva successivamente impugnata dinnanzi al T.A.R. Campania, sede Napoli, che ne ordinava il riesame. All’esito di tale procedura, l’odierna appellante gravava con motivi aggiunti il nuovo provvedimento ed il giudice di prime cure dichiarava improcedibile il ricorso introduttivo e rigettava i motivi aggiunti.
Dunque, il T.A.R. Campania, dichiarava improcedibile il ricorso introduttivo contro il provvedimento della Prefettura di Caserta con il quale era stata rigettata l'istanza di revoca e/o revisione del provvedimento interdittivo; altresì rigettava il ricorso per motivi aggiunti proposto contro il provvedimento reso in sede di riesame, confermando la sussistenza dei presupposti del provvedimento interdittivo a carico della società.
Pertanto, l’impresa impugnava la sentenza del T.A.R, deducendo anzitutto che la pronuncia del Tribunale della prevenzione avrebbe “attitudine di giudicato e per tale ragione non possono essere messi in discussione in forza dell’art. 654 c.p.p. i fatti in esso accertati in esito ad un giudizio caratterizzato da pieno contraddittorio con l’UTG di Caserta e forza probatoria tipica del giudizio penale” [5].
Il Consiglio di Stato ritenendo infondato il ricorso, pronunciandosi definitivamente sulla sentenza gravata, rigetta l’appello.
2. Sulla certezza del diritto e sul giudicato tra sistemi diversi
Al fine di assicurare e garantire la certezza del diritto e la stabilità di rapporti giuridici è di fondamentale importanza evitare il verificarsi del contrasto fra giudicati nonché impedire che sentenze di giudici diversi valutino elementi in fatto o in diritto in modo logicamente inconciliabile [6].
La questione relativa a contrasti verificatesi all’interno dello stesso sistema è agevolmente risolta mediante il ricorso al giudicato, mentre più complessa e articolata appare la questione attinente al contrasto tra sentenze di organi giudicanti diversi. Se assurge a principio che la cosa giudicata copra esclusivamente la conclusione e non anche la premessa maggiore e quella minore, l’ipotesi di contrasto fra giudicati formatisi nei diversi sistemi non si concretizza poiché le misure giurisdizionali sono tipiche di ciascun ordinamento e dunque non è ipotizzabile che il giudice amministrativo possa irrogare misure penali e viceversa.
Nel rapporto fra sistemi diversi, il problema relato alla necessità di coerenza e di uniformità degli accertamenti rileva esclusivamente sulla motivazione e non anche sul dispositivo.
Per di più non sussistono i presupposti processuali affinché l’istituto del giudicato possa essere applicato. Intanto per la difficoltà connessa all’identificazione delle parti. Con riferimento alla Pubblica Amministrazione, essa è parte necessaria del processo amministrativo e, del resto, il Pubblico Ministero è parte necessaria nel processo penale ed è eccezionale il caso che esso intervenga nel processo amministrativo. Per cui si osserva che “il problema di coerenza e uniformità degli accertamenti investe la soluzione di questioni pregiudiziali comuni e, diversamente dal recente passato, l’Ordinamento sembra orientato ad impiegare la tecnica della cognizione incidentale in luogo di quelle della sospensione per pregiudizialità” [7].
Inoltre consolidata giurisprudenza ritiene che dal nuovo codice di procedura penale si possa intuire che l’ordinamento non è più improntato sul principio di unicità della giurisdizione, bensì su “quello dell’autonomia di ciascun giudizio e della piena cognizione da parte di ciascun giudice delle questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione” [8].
3. Sull’accertamento nel giudizio amministrativo operato dal giudice penale
Viene spontaneo domandarsi se in virtù del principio di autonomia in luogo del principio di unicità si debba consentire che giudici diversi possano ricostruire verità diverse solo perché appartenenti ad ordini diversi. Se così fosse verrebbe meno il principio generale posto a garanzia della non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali.
È bene intanto evidenziare che, nonostante non si ricorra più al principio di unicità, il concetto di giudicato in senso proprio viene utilizzato per regolare il rapporto tra gli accertamenti delle diverse giurisdizioni. Prendendo le mosse dagli artt. 651 e ss c.p.p., dedicati alla disciplina dell’efficacia di giudicato dell’accertamento operato dal giudice penale nel giudizio civile o amministrativo, si giunge alla normativa di cui all’art 654 c.p.p., che disciplina l’efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione nei giudizi civili o amministrativi: la sentenza ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo quando in questo si controverte circa un diritto o un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale e che gli stessi siano stati ritenuti rilevanti alla determinazione della decisione penale e purché la legge civile non preveda limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.
Rileva così l’accertamento recato nella parte motiva della sentenza. In particolare ci si riferisce ai soli presupposti di fatto non comprendendo anche il giudizio di diritto e la conseguente qualificazione giuridica dei fatti valutati. Pertanto, si palesa comprensibile, in tale prospettiva, l’orientamento del giudice amministrativo teso a riconoscere efficacia di giudicato all’accertamento operato dal giudice penale e ad escludere l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza in presenza di giudicato penale [9].
3.1. Rilevanza nel giudizio penale della qualificazione giuridica operata dal giudice amministrativo
Nel rapporto tra giudizio penale e giudizio amministrativo non si può riconoscere al giudicato l’efficacia propria di tale istituto. A predominare è il principio di coerenza e di non contraddittorietà dei diversi accertamenti giurisdizionali, che si estrinseca nella forma del giudicato.
Il processo amministrativo è ancora strutturato (salvo per determinate ipotesi) per lo più sulla scorta di un giudizio tipico di legittimità, prevedendo un’istruttoria soltanto eventuale. Dunque, non vi è un penetrante accertamento dei fatti, bensì una esclusiva verifica della logicità della ricostruzione operata dall’Amministrazione in sede di procedimento amministrativo.
Pertanto, è ampiamente comprensibile che la sentenza amministrativa non possa avere “efficacia di giudicato” nel giudizio penale. È ictu oculi poi la rilevanza di tale principio, inteso come coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali, seppur non contenuto in una norma scritta.
In conclusione, la giurisprudenza riconosce alle sentenze amministrative, e dunque agli accertamenti in esse contenute, valore equivalente ad ogni materiale utile sul piano probatorio, escludendo l’autorità di giudicato e precisando che gli effetti costitutivi, modificativi o estintivi di situazioni giuridiche che siano della legge ricollegati agli accennati accertamenti siano fatti salvi [10].
4. Focus. Rapporto tra interdittiva antimafia e giudicato penale
Dalle considerazioni, fin qui svolte, sembra chiaro che tra il giudizio relativo al provvedimento interdittivo ed il giudicato formatosi in sede penale vi sia un rapporto di autonomia [6]. La valutazione del giudice penale circa l’assenza di elementi che possano dimostrare un contatto attuale dell’impresa con realtà illecite attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione fondata sul principio del “più probabile che non” [11] su cui invece trova fondamento il provvedimento prefettizio.
La giurisprudenza è chiara nel ritenere che la valutazione del giudice della prevenzione penale si fonda su parametri non sovrapponibili alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione, che costituisce invece presupposto del provvedimento prefettizio [12].
Prendendo in considerazione la misura del controllo giudiziario pare evidente che nel complesso disegno legislativo esso rappresenta un post factum rispetto all’emissione di un provvedimento interdittivo. Invero sindacare la legittimità del provvedimento prefettizio alla luce delle risultanze della successiva delibazione di ammissibilità al controllo giudiziario, finalizzato proprio ad un’amministrazione dell’impresa immune da eventuali infiltrazioni criminali, appare doppiamente viziata, per lo meno contorta poiché inevitabilmente sono differenti gli elementi considerati nelle due sedi; per di più è differente la prospettiva d’indagine, id est l’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata [13].
Per tali ragioni non si può ritenere vincolante la pronuncia del giudice della prevenzione ovvero riconoscerle efficacia di giudicato relativamente al rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata. Vero è che la Prefettura e il giudice della prevenzione penale incentrano le rispettive valutazioni sulle medesime circostanze di fatto, giungendo però a conclusioni discordanti circa il pericolo di infiltrazione, che, inevitabilmente, conseguono alla differente impostazione dei due sistemi preventivi [14].
Le due autorità (amministrative e giudiziarie) motivano le proprie decisioni avendo parametri di giudizio differenti. Difatti, seppur per il giudice della prevenzione penale i fatti non sono tali da poter ammettere la società al controllo preventivo, gli stessi elementi risultano sufficienti per l’emissione del provvedimento interdittivo in base al criterio del “più probabile che non”.
Ora, in relazione al rapporto intercorrente tra la valutazione del rischio d’infiltrazione e l’accertamento della responsabilità penale è ormai noto l’orientamento giurisprudenziale per cui ciò che connota la regola probatoria del "più probabile che non" non è un diverso procedimento logico, bensì la forza dimostrativa dell'inferenza logica [15].
Ciò detto, va rilevato che dalla natura stessa dell’informazione antimafia [16] deriva che essa risulti fondata su elementi fattuali più sfumati rispetto a quelli che si pretendono in sede giudiziaria, poiché solo sintomatici e indiziari [17].
È da segnalare che, nel caso de quo, l’impresa non ha dedotto che dal provvedimento del giudice penale risultasse un fatto sopravvenuto [18] tale da implicare una revisione del giudizio prognostico originario; bensì ha fatto discendere automaticamente da tale provvedimento l’illegittimità dell’interdittiva. Invero, il provvedimento penale trova esclusivo fondamento nel mancato raggiungimento della soglia rilevante in tale sede, che, medio tempore, rileva per l’autorità amministrativa.
In definitiva, sembra chiara la diversità strutturale e funzionale della valutazione dei fatti compiuta in sede di accertamento della responsabilità penale dei soggetti rispetto al valore inferenziale attribuito ai medesimi fatti nel giudizio prognostico concernente il pericolo d’infiltrazione criminosa.
Infine è da segnalare che gli elementi rilevanti per l’emissione del provvedimento prefettizio non vengono valutati atomisticamente bensì secondo il criterio interferenziale suggerito dal principio del “quae singula non prosunt, collecta iuvant”, al fine di valutare la possibile permeabilità della società a tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata [19].
4.1. Il rapporto tra decisioni di giudici diversi osservato da un'altra prospettiva: sent. Corte di Appello di Bari del 18 febbraio 2021 n. 4
Per chiarire il rapporto intercorrente tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario, e dunque tra decisioni di giudici diversi, pare utile prendere le mosse da una prospettiva differente sollevata con la sentenza della Corte di Appello di Bari del 18 febbraio 2021 n. 4.
Il controllo giudiziario ex art. 34-bis del Codice Antimafia è applicato, su richiesta del P.M. o della stessa impresa che sia soggetta a interdittiva oggetto di impugnazione non ancora definitiva, allorquando l’agevolazione delle attività mafiose appare occasionale [20].
In sede di prevenzione penale, il giudizio ex art 34-bis consegue ad una valutazione diagnostica, tesa a verificare che l’agevolazione sostenuta dal prefetto sia stata occasionale; e una valutazione prognostica poi, intesa a verificare se l’impresa sia nelle condizioni di rientrare in un’economia sana [21]. Difatti, come sostenuto da ormai pacifica dottrina e giurisprudenza, il controllo giudiziario è una vera e propria messa alla prova dell’azienda al fine del suo recupero e, medio tempore, della sua sottrazione da una economia a carattere mafioso.
Nel caso de quo il giudice di prime cure ha ritenuto di esaurire il suo compito nel qualificare il rapporto dell’impresa con la criminalità organizzata come agevolazione occasionale sulla scorta degli elementi su cui si basa il provvedimento interdittivo e quindi in modo solo diagnostico. Al contrario, il giudizio sulla sussistenza o meno di tale agevolazione, essendo il proprium della procedura di controllo e il solo riservato alla cognizione del giudice penale anzicché amministrativo, e dunque, non può costituire il mero corollario del giudizio di assoggettamento poiché, oltre che per il momento diagnostico, esso si caratterizza per quello prognostico, mediante il quale possono valutarsi elementi non sindacabili dal G.A. in quanto estranei alla cognizione del prefetto [22].
Il giudice in sede di controllo giudiziario deve dare per scontata l’agevolazione e non contestarla, occupandosi e soffermandosi invece sul profilo dell’occasionalità. Il giudice amministrativo valuta la legittimità del provvedimento interdittivo mentre il giudice della prevenzione verifica l’evoluzione del rapporto sostanziale tra impresa e tessuto sociale [23].
Pertanto, il sindacato sugli elementi sfavorevoli all’impresa, posti a fondamento dell’interdittiva, possono essere rilevati esclusivamente davanti al giudice amministrativo; al contempo, al tribunale ordinario si può chiedere di affermare non già che quegli elementi non sussistano ovvero che essi siano irrilevanti, bensì che siano compatibili, attraverso la duplice visuale diagnostica e prognostica, con il giudizio di agevolazione occasionale [24].
Sul punto la Suprema corte a S.U. ha affermato che “con riferimento ai presupposti per disporre la misura del controllo giudiziario, il tribunale competente per le misure di prevenzione, oltre a verificare l’occasionalità dell’agevolazione dei soggetti pericolosi, deve svolgere una prognosi circa le concrete possibilità che la singola realtà aziendale abbia di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi di controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato può compiere nel guidare l’impresa infiltrata” [25].
Nel caso in commento, dunque, nessuna possibilità di riconduzione ad un’economia sana è stata allegata dall’impresa intesa come un allontanamento da contesti malati. In ragione di ciò, la Corte non può formulare alcuna prognosi essendosi la ditta limitata a contestare i collegamenti rilevati dal Prefetto, senza addurre ulteriori elementi; pertanto, dalla mancata presentazione di un programma che possa prospettare la neutralizzazione delle forme ed attività agevolative già riscontrabile in primo grado, e dunque, mancando i requisiti necessari ai fini del vaglio della richiesta, la Corte dichiara inammissibile l’istanza di applicazione del controllo giudiziario proposta dall’impresa disponendo l’immediata cessazione.
5. Riflessioni conclusive
A chiusa delle considerazioni sin qui svolte, chiarita autonomia e separazione intercorrente tra interdittiva antimafia e giudicato penale, osservata tanto dall’angolo visuale del giudice amministrativo che dal giudice della prevenzione, è necessario rilevare che a fronte del deficit di tassatività della fattispecie incriminatrice, ed in particolare nell’ipotesi in cui trattasi di prognosi fondata su elementi non tipizzati ma “a condotta libera” e dunque “lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa”, è stato delineato dalla giurisprudenza un “nucleo consolidato di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale” [26].
I giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che “il rischio di infiltrazione criminale è stato desunto dalle frequentazioni del socio, con persone gravitanti nell’orbita della criminalità organizzata di tipo camorristico, dai suoi precedenti penali e dai legami familiari cementati da cointeressenze societarie con soggetti sui quali pure gravano indizi di collegamento”.
Dunque, le frequentazioni del socio non possono considerarsi un unicum, trattandosi di plurime situazioni che si spiegano in un lungo arco temporale, comprovando una continuità di relazioni che diviene più solida proprio perché perdurano nel tempo. Per di più se si considera che tali rapporti vengono giustificati da esigenze lavorative, lungi dall’alleggerire il significato indiziante delle stesse, che diventano maggiormente pregnanti in quanto connesse proprio all’attività di impresa che, invece, la legislazione antimafia intende preservare da influenze criminali.
Il condizionamento dell’impresa è reso vieppiù evidente considerando che il socio ha precedenti penali per rapina, violazioni urbanistiche, furto e violazione della legge sulle armi, che ben possono fondare, unitamente agli altri indizi, la prognosi delineata dall’Autorità prefettizia [27].
Il quadro tracciato dunque sorregge una soglia certamente superiore al criterio del “più probabile che non” per cui la valutazione del rischio di infiltrazione dell’attività d’impresa si appalesa evidente in sede amministrativa. Invero nella cognizione piena, il giudice penale non ha ritenuto gli elementi di prova raccolti, “elementi certi” per affermare la responsabilità, tuttavia, ciò non comporta sic et simpliciter, la conseguente non rilevanza dell’attività ai fini del provvedimento prefettizio che si fonda non su una piena dimostrazione bensì sul più ampio principio probabilistico che risulta nel caso in commento pienamente soddisfatto dato il complesso quadro indiziario.
Come evidenziato da autorevole dottrina, dunque, “il doveroso condizionamento che può avolersi qualora uno stesso fatto venga conosciuto da più giudici appartenenti ad ordini diversi non è spiegabile in termini di efficacia propria e diretta del giudicato, bensì per l’osservanza del suddetto principio di coerenza e non contraddittorietà” [28].
In conclusione osserva di recente la dottrina “una volta chiarito che il principio da osservare è quello che impone di assicurare la coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali, ciò ha ricadute che, per loro importanza, non possono essere trascurate. Prima tra tutte quella che l’abbandono del principio di unicità e l’affermazione di un principio di autonomia non possono giungere fino al punto di consentire che giudici diversi possano ricostruire “verità” diverse solo perché appartenenti ad ordini diversi o per via del fatto che il rapporto non può essere regolato attraverso l’efficacia del giudicato propriamente inteso” [29].
Ebbene questa impostazione deve essere condivisa. Nella materia che ci occupa, lo si ripete, esiste senza dubbio una sorta di sistema a ‘vasi comunicanti’. L’accertamento penale in un certo senso e con dei limiti condiziona la valutazione amministrativa.
Tuttavia tale sistema deve presentare dei limiti. Il ‘livello’ del giudicato può e deve restare impregiudicato in questo sistema dei vasi comunicanti. Qui si parla di controllo giudiziario da parte del giudice della prevenzione penale. Ed allora il ‘limite’ deve essere ancora più stingente: l’autonomia dei giudizi e dei relativi giudicati resta, ancora di più, un valore da mantenere e preservare.
[1] F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio amministrativo e nel giudizio penale: problemi ed interferenze, in Pubblica amministrazione diritto penale e criminalità organizzata (Atti del convegno), Milano, 2008, pag. 93 ss
[2] F. Francario, Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, Milano, 2015, pag 99 e ss
[3] E. Giardino, Le interdittive antimafia tra finalità perseguite e garanzie affievolite, in Archivio giuridico, anno CLII, fasc. 4, 2020, pp. 1099-1040
[4] Si suggerisce Trib. Trieste, 20 novembre 2020, Pres. Rel. Picciotto
[5] F. Francario, Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata, cit. pag. 109 ss
[6] F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio amministrativo, cit. pag. 96 ss
[7] Ibidem.
[8] Cass. Civ. sez. III, 10 agosto 2004 n. 15477; id., sez. II, 25 marzo 2005 n. 6478
[9] F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio amministrativo, cit.
[10] ibidem. pag. 103; e in giurisprudenza Cass. Pen. Sez. V, n.3950 1 dicembre 1990
[11] F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico”, il diritto dell’economia, 2019
[12] Cfr. in tal senso Cass. Penale sentenza Sez. 6, del 9 maggio 2019, n. 26342
[13] F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm, 6, 2018; v. M. NOCCELLI, I più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul complesso sistema antimafia, in Foro Amm, (Il) 2017
[14] V. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019
[15] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Giustiziainsieme, 2020
[16] M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittive antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giurisprudenza Italiana, 2019
[17] Cfr. Corte costituzionale sentenza 57/2020
[18] v. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 338/2021
[19] Ad esempio, un’operazione di self-cleaning. Sul punto C. Filicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945); ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 759/2019” così da ultimo le sentenze n. 4837/2020 e n. 4951/2020
[20] in dottrina M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, Sistema penale, fascicolo III, 2020
[21] v. Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 26 settembre – 19 novembre 2019, n. 46898
[22] R. RUPERTI, Sul contraddittorio procedimentale in materia di informazioni antimafia, in Giur. it., 2020
[23] Si consenta il rinvio a R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), Giustizia insieme, 2021
[24] LONGO, La ‘massima anticipazione di tutela’. Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, Federalismi, n. 19/2019
[25] Cass. S.U. 46898/19: “la peculiarità dell’accertamento del giudice, sia con riferimento alla amministrazione giudiziaria che al controllo giudiziario, ed a maggior ragione in relazione al controllo volontario, sta però nel fatto che il fuoco della attenzione e quindi del risultato di analisi deve essere posto non solo su tale prerequisito, quanto piuttosto, valorizzando le caratteristiche strutturali del presupposto verificato, sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano”, si che non è sufficiente accertare lo “ stato di condizionamento e di infiltrazione e quindi lo stato attuale di pericolosità oggettiva in cui versi la realtà aziendale a causa delle relazioni esterne patologiche”, dovendosi piuttosto” comprendere e prevedere la potenzialità che quella realtà ha di affrancarsene seguendo l’iter che la misura alternativa comporta”
[26] Consiglio di Stato 3 maggio 2016, n. 1743
[27] cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651
[28] F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio amministrativo, cit.
[29] F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866), in Giustiziainsieme, 2020
Assegno divorzile e nuova famiglia di fatto: la questione alle Sezioni Unite. Estinzione automatica o valorizzazione del criterio compensativo dei sacrifici e delle scelte operate in costanza del rapporto matrimoniale? La necessità di trovare una terza via*
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. La rimessione alle Sezioni Unite e l'individuazione del contrasto - 2. L'orientamento giurisprudenziale in ordine all'estinzione automatica dell'assegno divorzile in caso di instaurazione di una nuova famiglia di fatto - 3. Il problema della rilevanza del rapporto matrimoniale pregresso - 4. La necessità di trovare una terza via - 5. Considerazioni finali sulla natura dell'assegno divorzile.
1. La rimessione alle Sezioni Unite e l'individuazione del contrasto
Con ordinanza del 17 dicembre 2020, n. 28995, la prima Sezione della Corte di Cassazione rimette alle Sezioni unite la questione se, “instaurata la convivenza di fatto, definita all'esito di un accertamento pieno su stabilità e durata della nuova formazione sociale”, il diritto dell'ex-coniuge, sperequato nella posizione economica, si estingua automaticamente “o siano invece praticabili altre scelte interpretative che, guidate dalla obiettiva valorizzazione del contributo dato dall'avente diritto al patrimonio della famiglia e dell'altro coniuge, sostengano dell'assegno divorzile, negli effetti compensativi suoi propri, la perdurante affermazione, anche se del caso, per una modulazione da individuarsi, nel diverso contesto sociale di riferimento”[1]. Con queste parole la prima Sezione della Corte di Cassazione evidenzia il contrasto tra un orientamento ormai consolidato volto ad affermare l'estinzione automatica dell'assegno divorzile in caso di instaurazione da parte del richiedente di una convivenza[2] e il principio perequativo-compensativo, consacrato nella decisione a Sezioni unite del 2018 in tema di assegno divorzile[3], la cui rilevanza si porrebbe in contrasto con la soluzione dell'estinzione automatica[4]. Tale contrasto appare a chi scrive di una certa rilevanza, dato che l'estinzione automatica dell'assegno porterebbe nella sua dimensione salomonica a chiudere ogni discorso relativo alla funzione compensativa dei sacrifici e delle rinunce passate, che rimarrebbero inevitabilmente travolti e cancellati dalla soluzione definitiva dell'estinzione. Occorre in definitiva chiedersi, come emerge dalla fattispecie concreta da cui ha tratto origine l'ordinanza in commento, se la scelta di instaurare una nuova famiglia di fatto da parte del soggetto richiedente l'assegno, in presenza di una perdurante sperequazione economica anche a seguito dell'instaurazione della nuova famiglia, cancelli in maniera definitiva il passato rapporto matrimoniale e la solidarietà postconiugale o debba, al contrario, percorrersi una via che consenta un'ultrattività dell'assegno divorzile al fine di tener conto del rapporto matrimoniale pregresso. Come è intuibile, tale questione solleva questioni di carattere generale relative alla natura dell'assegno divorzile e della ricerca di un equilibrio tra il principio di autodeterminazione e quello di solidarietà post-coniugale[5]. In questa sede, e anche per l'economia dell'indagine tali questioni saranno solo accennate[6] per concentrarmi sulla questione principale. Vorrei concentrare la mia attenzione per tentare di spiegare perchè l'alternativa secca estinzione automatica-non estinzione automatica non sia percorribile, essendo necessario trovare in via interpretativa una terza via. Nel farlo cercherò di portare ad esempio l'esperienza di altri Paesi del contesto europeo che hanno affrontato e che cercano di risolvere la medesima questione.
2. L'orientamento giurisprudenziale in ordine all'estinzione automatica dell'assegno divorzile in caso di instaurazione di una nuova famiglia di fatto
La prima soluzione dell'estinzione automatica dell'assegno di divorzio in caso di instaurazione di una nuova famiglia di fatto è attualmente l'orientamento prevalente della giurisprudenza. Il progressivo riconoscimento della convivenza more uxorio quale comunità familiare ha portato la giurisprudenza ad equipararla al matrimonio ai fini dell'effetto estintivo dell'assegno divorzile, anche in mancanza del dato normativo. Come è noto, l'art. 5, comma 10 della legge sul divorzio prevede l'estinzione automatica dell'assegno divorzile solo nell'ipotesi in cui il soggetto richiedente passi a nuove nozze, ma nulla è previsto nel caso di instaurazione di una famiglia di fatto. Tale lacuna, addebitabile in origine all'irrilevanza della convivenza, è stata come detto superata attraverso un percorso graduale che ha progressivamente tenuto conto del diritto effettivo e della considerazione attuale della famiglia di fatto quale modello familiare che si affianca al modello familiare tradizionale fondato sul matrimonio. In una prima fase si è affermato che l'assegno entrerebbe in uno stato di quiescienza e quindi sarebbe sospeso[7]. Successivamente si è superata la tesi moderata della sospensione per affermare che l'instaurazione di una convivenza stabile e duratura determina definitivamente l'estinzione dell'assegno divorzile[8]. Questa seconda soluzione è attualmente quella prevalentemente preferita dalla giurisprudenza[9]. Le ragioni che hanno portato a considerare la convivenza stabile e duratura quale causa estintiva al pari delle nuove nozze è da rinvenirsi nel fondamento familiaristico che è stato riconosciuto alla convivenza more uxorio, al pari del matrimonio, pur nella distinzione dei due modelli sotto altri e diversi profili. Non c'è al riguardo nessun dubbio che la convivenza e, ormai da tempo, sia considerata una comunità familiare ai sensi degli artt. 2, 29 Cost e dell'art. 8 Cedu, all'interno della quale sorgono obblighi di contribuzione e di solidarietà. Nella legge n. 76 del 2016 i conviventi di fatto vengono definiti quali “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”. La creazione di una nuova famiglia assorbe ed estingue la precedente in quanto sostituisce agli obblighi di solidarietà della vecchia famiglia quelli della nuova e ciò non può che valere tanto per la famiglia fondata sul matrimonio che per la famiglia fondata sulla convivenza stabile e duratura[10]. Correttamente la giurisprudenza tende a sottolineare che solo la convivenza more uxorio stabile e duratura, tale da dar vita ad una nuova comunità familiare, possa assumere rilevanza al fine di estinguere l'assegno divorzile. La giurisprudenza esclude infatti che abbiano tale carattere estintivo le convivenze di altra natura, come la convivenza con i propri genitori o la convivenza con un parente o un amico[11]. La progressiva rilevanza della convivenza more uxorio quale modello alternativo di famiglia, spiega perchè in altri ordinamenti quale quello spagnolo, si è espressamente previsto a livello normativo che la convivenza affettiva al pari del matrimonio determina l'estinzione dell'assegno divorzile[12]. Nel nostro ordinamento, che ancora non ha provveduto alla equiparazione, anche se è stata prevista in una recente proposta di legge di riforma della legge sul divorzio[13], non la si potrebbe certamente negare in via interpretativa, pena la cancellazione di trent'anni di riflessioni e di evoluzioni in materia di famiglia di fatto. Nè sarebbe proponibile, quanto all'effetto estintivo dell'assegno divorzile, una differenziazione tra matrimonio e convivenza fondata sul differente regime in caso di scioglimento del vincolo[14]. L'estinzione dell'assegno divorzile trova fondamento nella estinzione dei precedenti obblighi di solidarietà che sono surrogati da quelli della nuova famiglia. Il differente regime in caso di scioglimento della nuova famiglia (di fatto), oltre a riguardare un'altra questione, quella della situazione successiva, non varrebbe in ogni caso a cancellare la matrice solidaristica della famiglia di fatto. Una soluzione che portasse ad escludere che la famiglia di fatto, a differenza del matrimonio, sia causa estintiva dell'assegno divorzile, oltre a porre un problema di discriminazione sistematica tra due modelli entrambi ritenuti familiari, potrebbe condurre ad abusi e a situazioni parassitarie ben più gravi di quello del mantenimento dello stesso tenore di vita, di cui da poco ci siamo liberati. E' infatti assai probabile che dopo lo scioglimento del matrimonio, molti sceglierebbero di non risposarsi al fine di continuare a godere del pregresso assegno divorzile, pur avendo creato una nuova famiglia con altri. Occorre poi rilevare che la possibilità di più divorzi, con la connessa instaurazione di più convivenze, porrebbe in termini assai problematici la sopravvivenza dell'assegno divorzile[15]. Credo quindi che le alternative siano solo due. O si ritiene che sia il matrimonio che la convivenza siano cause estintive dell'assegno divorzile o la si esclude per entrambi i modelli familiari, ma quest'ultima soluzione imporrebbe una modifica normativa e l'abrogazione dell'art. 5, comma 10 della legge sul divorzio. Quanto alla prima soluzione, l'unica al momento percorribile, credo che si tratti di scelta obbligata, se non si vuole cancellare con un colpo di spugna l'evoluzione dei modelli familiari. Questione diversa, già emersa in giurisprudenza anche di altri Paesi europei è quella in ordine alla prova della convivenza e al contenuto della stessa. A quest'ultimo riguardo, dovrebbe farsi riferimento sia alla convivenza registrata ai sensi della legge n. 76 del 2016, sia alla convivenza non registrata[16] che abbia comunque il carattere della stabilità e della durata. Altro problema è se debba includersi anche la convivenza stabile e duratura che non abbia tuttavia il carattere della comune residenza. Tale problema, sollevato anche di recente in giurisprudenza[17] è stato risolto positivamente dalla suprema Corte spagnola[18]. Per la verità anche la nostra giurisprudenza di legittimità si è orientata verso la soluzione positiva ammettendo che, ai fini dell'estinzione dell'assegno divorzile, debba includersi anche la convivenza con assidua frequentazione delle reciproche abitazioni se pure non connotata dalla coresidenzialità[19]. Credo che questa soluzione sia da salutare con favore in quanto la stabilità di una convivenza deve desumersi dalla presenza di un legame affettivo ufficiale e duraturo che dimostri un progetto di vita familiare, anche se per problemi organizzativi i conviventi non vivono sotto lo stesso tetto. La dimostrazione di questi essenziali caratteri della convivenza è lasciata al tema della prova e della discrezionalità del giudice[20]. Tale soluzione consentirebbe di evitare abusi da parte di coloro che, pur vivendo un rapporto affettivo di coppia, continuano a percepire l'assegno divorzile da parte dell'ex coniuge, adducendo di non essere conviventi solo perchè aventi diverse residenze. Deve invece respingersi la tesi minoritaria sostenuta dalla giurisprudenza di merito che considera rilevante, ai fini di escludere la sopravvivenza dell'assegno divorzile, la consapevolezza in capo al soggetto richiedente di instaurare una nuova convivenza quale libera, consapevole e responsabile scelta[21]. Non sembra infatti assumere rilevanza, ai fini dell'estinzione dell'assegno divorzile, la percezione cognitiva di chi instaura la convivenza ma il fatto oggettivo della creazione di una nuova famiglia di fatto, che presenti i caratteri della ufficialità e della durata.
3. Il problema della rilevanza del rapporto matrimoniale pregresso
La soluzione dell'estinzione automatica dell'assegno divorzile in caso di instaurazione di una nuova convivenza, se pure imposta dal diritto effettivo e dall'esigenza di non abbandonare la sistematica evoluzione dei modelli familiari, risulta tuttavia poco accettabile e poco conforme ad un assegno divorzile che, non solo nel nostro ordinamento, ma anche in altri ordinamenti europei ha assunto una natura compensativa, che si affianca e integra quella assistenziale[22]. Ferma restando la natura assistenziale, che è dimostrata dal presupposto indefettibile dello squilibrio economico, non può dimenticarsi che la Corte di Cassazione a Sezioni unite ha affermato a chiare lettere che all'assegno divorzile deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa …. in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto”[23]. In altri passaggi della decisione si afferma che “lo scioglimento del vincolo incide sullo status ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare”[24].Questa dimensione soggettiva dell'assegno che ha sostituito quella oggettiva del tenore di vita e che giustifica una nuova stagione della solidarietà post-coniugale, che necessariamente e inevitabilmente va valutata in concreto[25], nella specificità di ciascun rapporto coniugale, sarebbe infatti obliterata, “sgretolata”[26] ove si optasse per la soluzione dell'estinzione automatica per il solo fatto di aver instaurato una nuova famiglia, in quanto si cancellerebbe ab origine ogni indagine in ordine al vissuto di quella famiglia. D'altra parte la soluzione di negare in termini generali efficacia estintiva nel caso di instaurazione di una nuova famiglia di fatto, oltre che attuare una ingiustificata discriminazione rispetto all'instaurazione di un nuovo rapporto coniugale, determinerebbe una ultrattività dell'assegno divorzile anche per le ipotesi in cui non vi è alcunchè da compensare, in quanto non vi sono stati sacrifici o rinunce da compensare, come nel caso di matrimoni di breve durata. Inoltre, anche nelle ipotesi di matrimoni di lunga durata, una tale soluzione potrebbe portare ad inevitabili abusi, in quanto qualcuno cercherebbe di dimostrare a tutti i costi rinunce e sacrifici inesistenti solo al fine di godere della ultrattività dell'assegno divorzile, adducendo magari il deteriore reddito goduto con il nuovo convivente. È proprio da queste considerazioni che a mio parere non è possibile risolvere il contrasto se non scegliendo una terza via.
4. La necessità di trovare una terza via
Prima di tentare di percorrerla, può essere utile indicare quali soluzioni sono state prospettate negli altri Paesi europei. In Spagna, nonostante si preveda espressamente l'estinzione automatica in caso di instaurazione di una nuova convivenza, la dottrina[27] non ha mancato di rilevare la contraddizione di questa soluzione normativa rispetto alla natura compensatoria dell'assegno, indicando la necessità di modulare la durata dell'assegno. La durata eviterebbe di evitare l'abuso dell'ultrattività ad libitum, consentendo di raggiungere un buon compromesso tra estinzione automatica e criterio compensativo. Come è noto la legge italiana sul divorzio, a differenza di altri ordinamenti, quale ad esempio quello tedesco che prevede la temporaneità dell'assegno divorzile (§ 1578 BGB) non prevede l'assegno divorzile di durata. Nella citata proposta di legge Morani[28], oltre a prevedersi, come detto, l'estensione della causa estintiva all'ipotesi di instaurazione di una nuova convivenza stabile, si è prevista l'innovazione della durata dell'assegno. In attesa della riforma, si potrebbe tuttavia raggiungere lo stesso risultato attraverso la disposizione normativa sulla revisione dell'assegno di divorzio per fatti sopravvenuti[29]. La stessa Corte di Cassazione a Sezioni unite ha esplicitamente previsto che “la mancanza di temporaneità trova puntuale correttivo nel meccanismo legislativo della revisione delle condizioni della sentenza di divorzio per fatti sopravvenuti”. Sempre in attesa della riforma[30], si è suggerito di utilizzare il modello dell'assegno una tantum, che è specificamente previsto dalla legge[31]. Tale soluzione, se pure immediatamente percorribile sul piano normativo, richiede un accordo tra le parti che non sempre è da ritenersi scontato, soprattutto in ipotesi come queste ad elevata conflittualità emotiva. Altra soluzione prospettata dalla dottrina[32] è quella de jure condendo di aprire ai patti prematrimoniali. Confesso che tale soluzione non mi convince affatto. In primo luogo perchè richiederebbe un'apposita riforma e in secondo luogo perchè non credo che un patto prematrimoniale possa risolvere il problema della rilevanza del criterio compensativo, per il semplice fatto che al momento in cui è stato stipulato le parti non sanno ancora nulla sul futuro del loro rapporto matrimoniale e sui sacrifici e le rinunce che ciascuno farà in concreto nei confronti dell'altro[33]. L'insieme di queste soluzioni, pur nella loro diversità, in quanto alcune sono realizzabili in via interpretativa, altre lo sono solo de jure condendo, evidenziano l'impossibilità di optare per una soluzione tranchante che, in nome del criterio compensativo, affermi l'ultrattività dell'assegno divorzile in caso di instaurazione di una convivenza di fatto[34]. Come già accennato, tale soluzione si porrebbe in contrasto con l'evoluzione trentennale in materia di convivenza e determinerebbe un'ingiustificata discriminazione sistematica rispetto al modello matrimoniale.
5. Considerazioni finali sulla natura dell'assegno divorzile
Oltre a queste considerazioni, credo che una tale soluzione si porrebbe in decisivo contrasto con la funzione dell'assegno divorzile che è stata mirabilmente disegnata dalle Sezioni Unite nel 2018. Una soluzione che ammettesse la sopravvivenza dell'assegno divorzile al solo fine di “salvare” il criterio compensativo e abbandonare la funzione assistenziale[35], presuppone che in radice si abbandoni la funzione composita dell'assegno divorzile che è in equa misura assistenziale e perequativa e compensativa per assegnare funzione esclusiva e prevalente al criterio compensativo. Deve tuttavia rilevarsi che il criterio compensativo, se pure importante al fine di dare una lettura in concreto e soggettiva di ciascun rapporto matrimoniale, non svolge una funzione esclusiva e non può certamente applicarsi se non vi è alla base uno squilibrio economico, e quindi una funzione assistenziale che ne rappresenta il presupposto. Deve infatti rilevarsi che, anche se uno dei coniugi abbia fatto tanti sacrifici nei confronti dell'altro ma non vi sia uno squilibrio economico, non può discutersi della corresponsione di alcun assegno divorzile[36]. La pretesa di abbandonare la natura assistenziale[37] per affermare la natura prevalentemente compensativa dell'assegno di divorzio si porrebbe in definitiva contro l'orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni unite che nell'affermare la natura composita dell'assegno divorzile ha realizzato un perfetto equilibrio tra autodeterminazione e solidarietà. La scelta di abbandonare la via indicata dalle Sezioni Unite non sembra tuttavia facilmente percorribile, in ssenza di ragioni che giustifichino una diversa soluzione. Occorre infatti non farsi incantare dai dogmi e dalle parole. L'autodeterminazione, che sicuramente è un valore dell'ordinamento attuale, non può portare alla cancellazione della solidarietà, che è l'unica ragione che spiega perchè un coniuge più forte deve dare un assegno al coniuge più debole. Una riforma o un nuovo orientamento che prevedesse l'esclusività del criterio compensativo in nome dell'affermazione del principio di autodeterminazione porterebbe effetti devastanti in quanto sganciarebbe l'assegno divorzile dal suo presupposto indefettibile che è lo squilibrio economico, determinando abusi e ingiustizie, forse ancora più gravi di quelli che sono stati finora denunciati. Deve infine rilevarsi che nei casi di matrimoni di breve durata, in cui è del tutto assente una funzione compensativa, la sopravvivenza dell'assegno divorzile porterebbe inevitabilmente a negare il valore dell'autodeterminazione, che tanto oggi si declama, con l'effetto di riproporre una stantia e inevitabile visione paternalistica ed assistenziale che invece a parole si vuole abbandonare.
In definitiva e a conclusione di queste mie brevi riflessioni credo che la terza via da percorrere sia quella di lasciare al giudice un margine di discrezionalità per valutare i soli casi in cui l'impegno del coniuge richiedente l'assegno sia stato tale da avvantaggiare la situazione economica e professionale dell'ex-coniuge obbligato. Solo in questi casi e previo accertamento dello squilibrio economico, il giudice potrebbe ritenere che in via eccezionale l'assegno divorzile non si estingua per il tempo volto a compensare il vantaggio ricevuto dal soggetto obbligato, secondo la regola generale dell'ingiustificato arricchimento. D'altra parte è proprio la natura del criterio compensativo che impone una valutazione caso per caso e un rifiuto di ogni automatismo, ivi compreso quello della non estinzione, che determinerebbe inevitabilmente una rendita parassitaria nel caso di matrimoni di breve durata o anche di lunga durata, in cui non è provato alcun sacrificio nei confronti dell'altro.
*Dedico anche questo scritto all'incancellabile ricordo di mio Padre. Il presente scritto è la rielaborazione della relazione tenuta al Convegno tenutosi il giorno 28 aprile 2021, organizzato dalla Commissione Famiglia e Diritti della Persona e del Centro Studi “Sistema e famiglia”: “L'assegno divorzile e la 'nuova convivenza': dalla revoca automatica ad un principio di verifica caso per caso”.
[1] Così testualmente in motivazione l'ordinanza oggetto di questo commento.
[2] V. § 2 del testo
[3] Cass. S.U. 11 luglio 2018, n. 18287.
[4] V. § 3 del testo.
[5] Affronto questi problemi in maniera più approfondita in uno scritto in via di pubblicazione dedicato alla natura dell'assegno di divorzio.
[6] V. § 5 del testo.
[7] V. Cass. 1° agosto 2011, n. 17195. La soluzione della sospensione era già prospettata da D. ACHILLE, in nota a Cass. 22 gennaio 2010, n. 1096, in Fam pers e succ. 2010, 754.
[8] V. Cass. 3 aprile 2015, n. 6855, con nota di E. Al Mureden, Formazione di una nuova famiglia non matrimoniale ed estinzione definitiva dell'assegno divorzile, in Nuova giur civ comm. 2015, 683.
[9] V. a solo titolo esemplificativo V. Cass. 16 ottobre 2020, n. 22604; Cass. 28 febbraio 2020, n. 5606; Cass. 12 novembre 2019, n. 29317.
[10] V. C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1., 6° ed., Milano, 2017, 298. Tale pensiero è stato accolto dalla giurisprudenza di legittimità.
[11] In particolare v. Trib. Arezzo 20 luglio 2020, in cui si è riconosciuto che non sia elemento ostativo al riconoscimento dell'assegno divorzile la convivenza con i propri genitori dell'ex coniuge richiedente l'assegno. Allo stesso modo si è escluso che una convivenza con amici o con parenti sia tale da escludere la corresponsione dell'assegno divorzile: Cass. 12 novembre 2019, n. 29317, cit.
[12] v. l'art. 101 del codigo civil così come riformato a seguito della Ley n. 15 del 2015: “El derecho a la pensión se extingue por el cese de la causa que lo motivó, por contraer el acreedor nuevo matrimonio o por vivir maritalmente con otra persona”.
[13] V. proposta di legge Morani n. 506 presentata il 12 aprile 2018, Modifiche all'articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento di matrimonio o dell'unione civile: “L'assegno non è dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di una stabile convivenza del richiedente l'assegno. L'obbligo di corresponsione dell'assegno non sorge nuovamente a seguito di separazione o di scioglimento dell'unione civile o di cessazione dei rapporti di convivenza”.
[14] V. uno dei motivi del ricorso dell'ordinanza che qui si annota. Per una tale distinzione, v. C. RIMINI, Gli effetti della relazione affettiva stabile sulla titolarità dell'assegno divorzile: nuove prospettive sulla base della funzione compensativa dell'assegno, in Fam e dir. n. 3/2021, 270 e ss.
[15] Sulla problematica delle famiglie che si sovrappongono nel tempo, si rinvia per tutti alle riflessioni di M. SESTA, Mezzo secolo di riforme (1970-2020), in Fam e dir. n. 1/2021, 17 e ss e di E. Al MUREDEN, Le famiglie dopo il divorzio tra libertà, solidarietà e continuità dei legami affettivi, in Fam e dir. n. 1/2021, 23 e ss.
[16] Così mi ero espressa nel corso della mia Audizione alla Camera per la discussione del progetto Morani il 13 maggio 2019.
[17] V. al riguardo la recente ordinanza interlocutoria del 7 aprile 2021, n. 9273.
[18] Per questi riferimenti alla giurisprudenza spagnola, si rinvia per tutti a J. RAMON DE VERDA Y BEAMONTE, La compensación por desequilibrio económico en la separación y el divorcio: últimas tendencias jurisprudenciales, in Actualidad civil, n. 10, Octubre 2020.
[19] V. in particolare Cass. 16 ottobre 2020, n. 22604; Cass. 17 dicembre 2020, n. 28915, in cui la Corte ha ritenuto che andare spesso a pernottare a casa del compagno, detenere le chiavi dell'appartamento a lui intestato, ricoprire infine cariche nelle società da lui gestite, fossero tutti elementi sufficienti per ritenere che la donna avesse creato una nuova famiglia stabile e duratura; Trib. Aquila, 9 dicembre 2020.
[20] V. F. DANOVI, Assegno di mantenimento e di divorzio e nuova convivenza, tra onere della prova e discrezionalità giudiziale e adeguato supporto motivazionale, Nota di commento a Cass. 16 ottobre 2020, n. 22604 e a Cass. 17 dicembre 2020, n. 28995, in Corr giur. n. 1/2020, 21 e ss.
[21] V. al riguardo Trib Imperia, 25 gennaio 2021, in cui si è esclusa l'estinzione dell'assegno divorzile nel caso di instaurazione di una nuova convivenza da parte di una donna priva delle capacità cognitive.
[22] Tale natura si desume sia dall'analisi della legislazione spagnola che dall'analisi della legislazione francese, dove sono ripetuti e significativi i richiami alla esigenza che l'assegno divorzile valga a compensare i sacrifici e le scelte operate in costanza di matrimonio.
[23] Così testualmente in motivazione Cass. S.U. 11 luglio 2018, n. 18287, cit.
[24] Così testualmente in motivazione Cass. S.U. 11 luglio 2018, n. 18287, cit.
[25] Così testualmente C.M. BIANCA, Le Sezioni Unite sull'assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam e dir. 2018, 956: “La solidarietà postconiugale diviene in tal modo solidarietà postconiugale del caso concreto, ossia la solidarietà che risulta dalla effettività della vita del vincolo matrimoniale vissuta nel caso concreto”.
[26] Usa questo efficace termine F. DANOVI, Assegno di mantenimento e di divorzio e nuova convivenza, tra onere della prova e discrezionalità giudiziale e adeguato supporto motivazionale, cit., 21 e ss.
[27] V. J. RAMON DE VERDA Y BEAMONTE, La compensación por desequilibrio económico en la separación y el divorcio: últimas tendencias jurisprudenciales, in Actualidad civil, cit.
[28] V. Proposta di legge n. 506, cit.
[29] V. in dottrina, M. SESTA, L'assegno di divorzio nella prospettiva italiana e in quella tedesca, in Familia Gennaio-febbraio 2019.
[30] Sulle quattro stagioni del divorzio, v. il saggio di E. QUADRI, L'introduzione del divorzio: il dibattito, la legge e la sua conferma, i successivi interventi legislativi, in Fam e dir. n. 1/2021, 7 e ss.
[31] Ha suggerito questa soluzione l'Avv. Giorgio Vaccaro, nella relazione al Convegno: “L'assegno divorzile e la 'nuova convivenza': dalla revoca automatica ad un principio di verifica caso per caso”, citato alla nota 1 del testo.
[32] V. M. DOGLIOTTI, L'assegno di divorzio tra clausole generali ed interventi 'creativi' della giurisprudenza, in Fam e dir. 2021, 41 e ss.
[33] In termini generali rileva la necessità di coniugare il valore dell'autonomia privata con la tutela dei diritti indisponibili, E. Al MUREDEN, Le famiglie dopo il divorzio tra libertà, solidarietà e continuità dei legami affettivi, cit., 32-3.
[34] Così invece C. RIMINI, op ult cit.
[35] Così C. RIMINI, op ult cit,il quale al riguardo auspica un intervento del legislatore che affermi la natura esclusivamente compensativa della ridistribuzione della ricchezza tra i coniugi dopo il divorzio.
[36] Così testualemte C.M. BIANCA, Le Sezioni Unite sull'assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, cit., 957: “Se gli ex coniugi hanno redditi sostanzialmente equivalenti non può sussistere diritto all'assegno divorzile. Per quanto ampia e prevalente sia stata la collaborazione prestata da un coniuge nel corso del matrimonio, nessuna pretesa compensativa può essere avanzata nei confronti dell'altro coniuge che non abbia una superiore posizione reddituale”. Nei medesimi termini, v. A. MORACE PINELLI, I problemi irrisolti in materia di assegno divorzile dopo l'intervento delle Sezioni Unite, in Dir. Fam e pers. 2019, spec. 655 e s.
[37] Così testualmente C. RIMINI, op ult cit., 273: “Sembra dunque corretto affermare che il fatto che il coniuge debole abbia una relazione affettiva stabile (indipendentemente dalla circostanza che questa si sostanzi in una convivenza più o meno stabile) è rilevante solo nei casi (piuttosto rari).
Il giudice e lo storico
di Alessandro Gamberini
Sommario: 1. Paralleli e differenze epistemologiche - 1.2. Dalla cronaca agli avvenimenti remoti, il pendolo problematico dell’intervento giudiziario - 2. IL processo per la strage di Bologna del 1980. La sentenza a carico di Gilberto Cavallini: tra divergenti ricostruzioni storiche e un sillogismo inaccettabile nella formulazione della condanna.
1. Paralleli e differenze epistemologiche
Lungo il percorso ricostruttivo delle vicende umane l’argomentazione del giudice penale incrocia quella dello storico e si svolge allo stesso modo con un metodo di indagine che fa capo a documenti, testimonianze, prove logiche, fonti qualificate.
In un noto scritto risalente al 1939 Piero Calamandrei[1] indica un’affinità tra le regole probatorie e la metodologia storica e al contempo le barriere che delimitano l’attività giurisdizionale entro regole, che lo storico può ignorare.
L’accostamento non era nuovo rispetto al modo col quale si svolge la ricerca storica. Fino dal ‘700 il gesuita Henry Griffet aveva paragonato lo storico a un giudice che accerta i fatti valutando l’attendibilità delle varie testimonianze[2] e il tema è rimasto ben presente alla ricostruzione storica spesso fondata attraverso la consultazione anche di atti giudiziari[3].
Molte sono le affinità anche rispetto a come si svolge la ricerca della verità, ma il diritto e la storiografia hanno regole e fondamenti epistemologici che non sempre coincidono.
I due mestieri rimangono distinti perché la ricostruzione giudiziaria si proietta sulla necessità di assumere una decisione in sentenza sulla responsabilità di un imputato e si svolge cadenzata su canoni processuali che, nel nostro sistema, pur scontando il libero convincimento del giudice senza presunzioni legali, implicano un processo selettivo del materiale utilizzabile secondo il rispetto del contraddittorio. La ricerca della verità non si svolge “ad ogni costo”, perché la sentenza può essere ragionevolmente accettata da chi ne subisce le conseguenze e, più in generale, dalla società civile, perché frutto trasparente di un itinerario condiviso (che, tra l’altro garantisce anche che la verità appaia come il più probabile dei risultati).
L’attività giurisdizionale si misura normalmente rispetto a un passato prossimo, alle cronache delittuose sulle quali si inserisce l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, una storia minore che viene narrata dal giudice nella sentenza, riempiendo i vuoti che la frammentarietà del tessuto probatorio inevitabilmente propone.
La narrazione introduce il rischio dell’invenzione, spesso mascherata da valutazione unitaria degli indizi e presenta il rischio che sia influenzata da informazioni private, dall’utilizzo di massime d’esperienza non consolidate, frutto di intuizioni o di personali acquisizioni del giudice.
Un rischio che corre al pari di quello dello storico. Dovrebbero entrambi guardarsi in primo luogo dal trovare quello che cercano a priori, senza lasciarsi guidare decisivamente dai fatti e dalle prove: non esiste un fossato metodologico tra le due attività, tanto che la documentazione giudiziaria è considerata preziosa come detto anche per lo storico.
Ciò che muta drasticamente è la diversità di obbiettivi.
Il fatto viene ricostruito (e valorizzato) dal giudice allo scopo di accertare una responsabilità, incasellarlo in un precetto e irrogare una sanzione: un’attività conoscitiva che richiede certezza e si dispiega, subito dopo, in un’attività essenzialmente volitiva che trasforma in un comando, cristallizzato nel dispositivo, la sua scelta. Come nota Calamandrei, l’attività ermeneutica[4] si propone a quel punto come un’attività politica, nel senso più alto del termine.
In realtà può avvenire che proprio il comando[5] condizioni il processo cognitivo che accompagna anche l’ermeneutica del fatto, visto l’inevitabile intreccio che si crea con l’ermeneutica giuridica, e dunque che le pieghe del sillogismo giudiziario siano condizionate dalla suggestione del risultato al quale si vuole pervenire. La crisi che ha investito in questi anni il principio di legalità e la tipicità della fattispecie penale lo propone con maggiore frequenza, finendo per rendere più arduo il collegamento con una ricostruzione reale degli accadimenti.
1.2. Dalla cronaca agli avvenimenti remoti, il pendolo problematico dell’intervento giudiziario
Il tema assume un diverso significato quando il processo ricostruisce una responsabilità penale per avvenimenti delittuosi lontani nel tempo, che implicano la valutazione di contesti e di vicende politiche che si sono sviluppate nel corso di decenni.
In questi casi la diversità dei due approcci diviene più manifesta. La libertà di cui gode lo storico nel valutare e nel valorizzare alcune fonti, a dispetto di altre, si dispiega in un pluralismo degli esiti. Il suo itinerario non è segnato dalla necessità di una scelta (imparziale) di condanna o di assoluzione, ma può svilupparsi, mantenendo il dubbio, fino a che ulteriori elementi non coprano gli interrogativi emersi.
La necessità di verifica di una ricerca storica difficilmente corrisponde alla capacità dei giudici di soddisfarla, perché la res sulla quale è focalizzata la loro attenzione deve proiettarsi su un giudicato senza ritardo, vista la durata ragionevole del processo. La stessa riduzione della complessità dei dati, incanalati in un contraddittorio che ne limita l’esposizione, può imporre di tralasciare avvenimenti diversamente rilevanti. Anche il giudicato sembra poco compatibile con la ricerca storica, che si mantiene sempre aperta a verificare i suoi risultati di fronte a nuove emergenze.
Il Giudice, quando sia chiamato a decidere su fatti iscritti in un passato remoto, si trova in grave difficoltà di fronte a un’oralità mancante o comunque gravemente compromessa, a una documentazione in parte scomparsa, alla quale pur non può sottrarsi quando si tratta di delitti imprescrittibili.
Ha come supporto fonti giudiziarie iscritte in esiti ormai definitivi sulle quali può cercare di appoggiare il richiamo a massime di esperienza e al notorio, ma non può che recuperare, spesso decisivamente, la ricostruzione di uno scenario frutto di un’opzione oggetto di discussione storica, alla quale appendere la decisione, armonizzando i frammenti che ha acquisito nel processo. Lavora similmente allo storico – che altrettanto deve mantenere una prospettiva universalistica e oggettiva - alla ricerca della verità sulle tracce che gli avvenimenti hanno lasciato sul terreno.
Su un altro versante appare evidente come il contraddittorio non possa che essere ridotto e asfittico per la minorata difesa nella quale si trova l’imputato che subisce il logoramento o la cancellazione di eventuali apporti difensivi, in ben maggior misura, a distanza di molto tempo dai fatti che gli vengono addebitati.
Ancora più significativi i quesiti che si pongono rispetto al significato della pena irrogata a un imputato che il decorso del tempo può avere profondamente cambiato, svilendo così inesorabilmente ogni contenuto rieducativo della sanzione, comunque priva di ogni funzione di prevenzione di una pericolosità ormai inesistente.
In tali casi è ben visibile l’antinomia tra la necessità di giudicare il singolo, stante il fatto che il delitto non ammette per la sua gravità di essere prescritto, e l’azione corroditrice del tempo, che contrae la memoria viva degli avvenimenti e impedisce un accertamento fisiologico, secondo i canoni dell’oralità e dell’immediatezza che dovrebbero garantire il contraddittorio nel processo accusatorio.
D’altro canto, se si esamina con disincanto la morfologia anche del processo penale ordinario, impressa nella sua costituzione materiale, si scopre quanto la realtà fattuale si sia allontanata da tale modello normativo, per molte ragioni che sarebbe lungo in questa sede elencare.
Nei processi aventi per oggetto vicende remote difficilmente il giudice può limitarsi al mestiere che ha appreso e sperimentato nello svolgimento fisiologico della sua funzione rispetto ai delitti iscritti nella cronaca giudiziaria.
La verifica della responsabilità di un imputato per la condotta delittuosa può avvenire spesso solo con un’analisi del contesto storico nel quale la condotta si è svolta, perché ad esso rimandano anche i criteri di vaglio del materiale probatorio.
In tali casi balza in primo piano le necessità di consolidare attraverso lo strumento del processo penale una memoria dei delitti, delle modalità del loro svolgersi e dei loro protagonisti e del loro significato. La ricostruzione della verità dell’accaduto rappresenta del resto uno strumento che le vittime rivendicano costantemente per l’elaborazione del lutto, essenziale per ogni forma di riconciliazione e superamento della frattura che il delitto ha generato.
A ben guardare la stessa ragione del carattere imprescrittibile di alcuni delitti, che li colloca fuori dalla dimensione temporale della giustizia penale, è iscritta nella necessità di mantenere memoria di fatti che appaiono essere ferite di una identità collettiva, che non ammette oblio.
E dunque alla tutela della memoria viene ricondotta direttamente anche la funzione del giudice in un pendolo che oscilla necessariamente, dal lato opposto del suo moto, sulla ragione coessenziale dello svolgersi della stessa, l’accertamento della responsabilità dell’imputato.
In tali processi la pubblicità del dibattimento finisce per essere quello “spazio pubblico” nel quale si delinea un confronto tra politica e processo volto a incidere sul discorso complessivo che lega la responsabilità di un imputato alla storia del Paese[6].
Il pericolo al quale si espone il Giudice è rappresentato dalla ricostruzione di un passato che si adatti agli scopi e alle sollecitazioni che provengono dalle parti sociali e politiche, sostituendo il rigore ricostruttivo con una “mitologia storica”, per usare un termine sul quale Hobsbawm metteva in guardia gli stessi storici.[7]
D’altro lato storia e memoria possono rimanere anche su piani distinti, rimanendo la seconda ancorata a testimonianze che, anche nella loro singolarità e senza bisogno di essere sistematizzate da un filo conduttore, valgono a lasciare il ricordo del passato.
Il tema della ricostruzione della memoria è ben noto, istituzionalmente configurato, rispetto alla giurisdizione della Corte penale internazionale e dei Tribunali internazionali ad hoc per i maxidelitti attribuiti alla loro competenza – nella quale una valutazione di tal fatta appartiene alla fisiologia del sistema, che giudica sì un imputato, ma vuole ritagliare un quadro della memoria storica degli avvenimenti sottoposti al suo giudizio per prevenire i conflitti e esercitare un ruolo educativo[8].
Cronaca, storia e memoria interferiscono dunque sull’esercizio della funzione giurisdizionale e ne modellano le procedure e gli esiti.
2. IL processo per la strage di Bologna del 1980. La sentenza a carico di Gilberto Cavallini: tra divergenti ricostruzioni storiche e un sillogismo inaccettabile nella formulazione della condanna.
Le riflessioni svolte valgono a dare conto del significato del processo penale che si è celebrato nel 2019 a carico di Gilberto Cavallini (sentenza depositata nel gennaio del 2021) per la responsabilità della strage di Bologna del 1980.
Un delitto la cui gravità non ha bisogno di essere segnalata: si tratta, come ricorda la Corte di assise in sentenza, del più grave attentato terroristico che sia mai stato realizzato nel secondo dopoguerra in Europa, con effetti spaventosi per numero di vittime e di feriti e perduranti nel tempo sulla popolazione, per lo sgomento che ne derivò. Ciò che ha fatto di Bologna una città simbolo delle tante stragi che sono state perpetrate in Italia nella seconda metà del secolo scorso, anche grazie a varie forme di elaborazione del lutto e della memoria pubblica delle quali si è resa protagonista fin da subito la società civile, non rassegnata a subire versioni di comodo e riduzioniste dell’accaduto e dei suoi responsabili, come ha ricordato Annalisa Tota[9].
I condannati per questa strage con un esito definitivo erano stati, nella qualità di esecutori materiali, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, con sentenza risalente agli anni’80 (definitiva nel 1995) e Luigi Ciavardini nel 2007, con una pronuncia del Tribunale per i minorenni.
Nuove indagini, sviluppate anche su elementi emergenti dalle precedenti indagini, hanno portato a giudizio il nuovo imputato, che è stato ritenuto responsabile della strage e condannato.
Non è questa certo la sede per valutare questo esito, non avendo partecipato al lungo dibattimento e avendo solo letto la sentenza di oltre 2000 pagine che ne ha rappresentato l’epilogo. L’affermazione della responsabilità si fonda in primo e decisivo luogo sui numerosi elementi documentale e testimoniali che erano stati sinteticamente indicati dallo stesso Giudice delle indagini preliminari all’atto del rinvio a giudizio, ma viene iscritta in un quadro storico più ampio.
Lungo l’arco temporale del dibattimento è stato valutato il periodo che dalla fine degli anni ’60 e lungo il corso degli anni ’70 ha preceduto il delitto, contrassegnato da stragi e omicidi politici, di cui si dà conto in sentenza. Su tale periodo si svolgono varie considerazioni e valutazioni, che valgono a iscrivere il protagonismo dell’imputato rispetto alla strage nel contesto storico politico della destra eversiva e in particolare dei NAR, formazione nella quale militava unitamente a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.
La ricostruzione giudiziaria non poteva limitarsi al carattere puntiforme della responsabilità del singolo dovendo collocarla, anche per darne acconcia spiegazione, in un più vasto orizzonte, che ne raccogliesse il significato e la memoria.
Microstoria e macrostoria finiscono per integrarsi e sorreggersi reciprocamente, fermo restando la necessità che il giudice si inoltri nel mare aperto di avvenimenti così risalenti e complessi con prudenza e rigore, mantenendo l’esistenza del dubbio come criterio epistemologico della sua ricerca.
Senza peraltro incontrare il limite di precedenti giudicati che possono sempre venire (prudentemente) rivisitati, in presenza di elementi nuovi per dimostrare la responsabilità di altri.
La ricerca della verità giudiziaria non incontra questo ostacolo invalicabile, vista la disciplina del codice di rito (art. 238), ma richiede ovviamente che gli elementi sui quali si fonda siano nuovi e rilevanti per superare quanto accertato in forma definitiva, fermo restando che un conflitto aperto che incidesse direttamente o indirettamente sulle precedenti condanne imporrebbe una revisione delle sentenze incompatibili.
Salvo che si intenda che il giudicato attenga solamente al comando e non alla fase cognitiva che lo supporta, la preclusione opera anche rispetto alla valutazione delle medesime risultanze probatorie sulle quali si è formato il giudicato (Sez.Un.23.02.1996 n.2110) e, come dirò, la Corte di Assise di Bologna si è sporta su questo punto avventurosamente, giungendo a ripensare e ridefinire (rivalutando una testimonianza ritenuta in precedenza inattendibile) il ruolo di Mambro e Fioravanti nella partecipazione alla strage.
La strage del 1980 rimanda a una strategia della tensione che, fin da piazza Fontana, ha scosso il nostro Paese, in un susseguirsi di attentati e stragi volte a preparare la possibilità di una svolta autoritaria. Ne dà conto Chiara Zampieri nel testo che accompagna la mia riflessione, richiamando i molti riscontri che pongono in connessione gli attentati eseguiti da gruppi della destra eversiva. Considerazioni che a me paiono del tutto significative, vuoi che essi siano stati direttamente organizzati all’interno di apparati dello Stato, vuoi che siano stati coperti per utilizzarli strumentalmente, impedendone così lo svelamento degli autori (l’accesso al cd archivio Russomanno ha consentito in questi ultimi anni di trovare molti riscontri all’attività dell’Ufficio riservato del Ministero degli Interni, vero e proprio centro di una attività eversiva sviluppata almeno fino al 1980 in stretta relazione con i protagonisti della Loggia P2).
La sentenza muove da questa tensione ricostruttiva, ma vista l’ampiezza dello scenario di cui si occupa – che, tra l’altro, vuole ricomprendere anche fatti di cui si resero responsabili formazioni del terrorismo di sinistra (Moro), omicidi di cui non sono stati chiariti giudiziariamente mandanti e esecutori (Pecorelli) , omicidi con un’accertata matrice mafiosa (Mattarella) - non sempre opera col rigore necessario, oscillando tra la proposizione di elementi conosciuti e in parte rivisitati alla luce di nuove acquisizioni, con accostamenti meramente suggestivi.
La ricostruzione politica sorregge poi alcune soluzioni giuridiche non condivisibili.
Non convince in particolare l’avere trasformato la categoria della “strage di Stato”, coniata in sede politica fin dalle bombe di Piazza Fontana (e dette il titolo a una nota pubblicazione) per evidenziare non solo le eventuali complicità che organi dello Stato hanno fornito agli autori nella preparazione degli attentati, ma le successive coperture e i dimostrati depistaggi - in una categoria giuridica sostitutiva della “strage politica” prevista dall’art. 285 c.p., quando il fatto ha “lo scopo di attentare la sicurezza dello Stato”: una nozione quest’ultima che, come tale, prescinde totalmente da complicità statuali precedenti o successive.
Né vale a giustificare la singolare soluzione che, come vedremo, porta la Corte di Assise a condannare Cavallini solo per strage comune ex art.422 c.p., il richiamo del tutto inconferente a quella giurisprudenza che si è formata rispetto al delitto di associazione terroristica per escludere da tale ambito quelle formazioni che, per difetto di requisiti organizzativi, palesino un’assoluta inidoneità a perseguire gli scopi.
La strage evidenzia, per l’enormità delle sue conseguenze di cui la Corte ha dato conto di essere ben consapevole, la capacità offensiva e gli scopi di chi l’ha organizzata e realizzata e dunque nessun dubbio poteva essere svolto a riguardo.
In realtà la soluzione viene proposta in aperta polemica con la Procura della Repubblica di Bologna, alla quale si rimprovera in primo luogo di avere collocato nel capo di imputazione la locuzione “spontaneista” come elemento descrittivo dell’organizzazione politica Nar, di cui l’imputato faceva parte (con Mambro e Fioravanti): con ciò riducendo, peraltro con un’evidente forzatura, l’attentato a un fatto puramente occasionale, “deciso in osteria”.
Diversamente la locuzione, se ben intendo, valeva come connotato autoreferenziale (utile comunque anche evitare accertamenti giudiziari relativi all’organizzazione!) e per segnalare una strategia dell’attività politico terroristica del gruppo volta a esaltarne la capacità di disarticolare la vita civile e politica, nell’imprevedibilità dei suoi obbiettivi e nell’inafferrabilità dei suoi protagonisti. Una tesi che trova conforto e chiarimento anche in quanto scrive in sede di ricostruzione storica Chiara Zampieri. E’difficile comprendere come questo elemento descrittivo della strategia politica di Nar possa esser stato considerato un ostacolo a sviluppare con pienezza il libero convincimento, tanto più rispetto alla qualificazione giuridica della condotta.
Più significativa la polemica che si legge in sentenza rispetto alla scelta dell’accusa di escludere nel capo di imputazione il concorso di eventuali altri partecipi, rimasti ignoti.
Scelta di cui non condivido il significato e che ha trovato rapida smentita peraltro, dopo un’avocazione dell’inchiesta da parte della Procura generale a seguito della richiesta di archiviazione, col rinvio a giudizio per la strage di Bologna, di un altro imputato, Paolo Bellini - in complicità con Licio Gelli quale finanziatore, non più perseguibile dopo il suo decesso - accusato di essere tra gli esecutori materiali della strage nel dibattimento in corso oggi avanti ad altra Corte di Assise (assieme ad altri, accusati di depistaggio e false informazioni al Pubblico Ministero).
Come dire, quel capo di imputazione sembra rinchiudere in un recinto, di cui si sono accertati una volta per tutte i contorni, una vicenda nella quale la ricostruzione storica ammette diversamente ipotesi e dubbi fondati su un possibile ampliamento della gamma dei responsabili rispetto a quelli accertati. Suscita perplessità l’avere voluto in sede di ipotesi accusatoria, trasfusa nell’imputazione, mettere una sorta di sigillo finale sulla drammatica vicenda, delineata come conclusa nell’individuazione del suo ultimo autore materiale e nell’individuazione dei suoi moventi e delle sue complicità (non era avvenuto nei capi di imputazione dei precedenti processi).
Va peraltro rilevato che l’assenza di quella formula non ha certamente un significato giuridico preclusivo delle scelte del giudice nel formulare la decisione: non giustifica l’esito della sentenza pronunciata a carico di Gilberto Cavallini qualificando come strage comune, ai sensi dell’art. 422 c.p., il delitto di cui viene ritenuto responsabile, per salvaguardare, come si legge, la correlazione tra imputazione e sentenza.
Anche in questo caso il Giudice poteva comunque esercitare il proprio libero convincimento sull’esistenza della strage politica, senza creare alcuna divaricazione tra il capo di accusa e la sentenza, per le ragioni già esplicitate sul significato dell’art. 285 c.p.: l’istituto di cui all’art. 521 c.p., per esperienza anche giurisprudenziale consolidata, consente di ritenere che non valga a evidenziare uno scollamento con l’ipotesi d’accusa l’accertamento in sentenza di una correità ipotetica di ignoti, pur non evidenziata nell’imputazione, quando non si delinei una trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, che incida sul diritto di difesa.
Per concludere questa sintetica riflessione.
Una ricostruzione storica anche parzialmente in dissenso tra accusa e giudice non aveva ragione di tradursi in una ermeneutica giuridica divaricata rispetto alla qualificazione giuridica della condotta contestata all’imputato.
E dunque si conferma come l’epistemologia che sorregge le scelte del giudice debba essere diverso da quello dello storico. Quando anche, come è nel caso, l’analisi del passato e dei contesti rimanga essenziale per la ricostruzione completa e la memoria di quanto accaduto e possa delineare un dissenso tra i protagonisti del processo, ciò non vale a - non dovrebbe- incidere direttamente sul sillogismo giudiziale, momento terminale della scelta del giudice all’atto in cui pronuncia la condanna dell’imputato.
[1] P. Calamandrei, II giudice e lo storico, in Riv. di Proc. Civ., 1939, pag.8 e ss. Su questo parallelismo si vedano le interessanti osservazioni di F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv.It .dir. proc. pen., 2013 pag.608 con le quali contesta che la averità del giudice sia una verità minore puramente convenzionale rispetto a quella dello scienziato o dello storico. Da ultimo vale segnalare le iosservazioni di P.Borgna, Verità storica e verità processuale, in Questione giustizia, 2019
[2] Henry Griffet, Traitè de differentes sortes de preuves qui servent a etablir la veritè de l’histoire ( 1769). Traggo la citazione da C.Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli 2020, pag. 154.
[3] Carlo Ginzburg ha tratto alcune delle sue ricerche storiche – penso ai Benandanti -dalla consultazione degli archivi dell’inquisizione conservati a Venezia presso gli archivi del Tribunale ecclesiastico.
[4] Calamandrei cita Croce (Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’esistenza, Napoli 1926) che opera un parallelo tra questa attività del giudice a quella del critico d’arte, che attribuisce a una scuola piuttosto che a un'altra un quadro di autore ignoto, scegliendo quella che “gli piace affermare come verità”( pag.74)
[5] V. P. Ferrua, Metodo scientifico e processo penale, in Dir. pen e Proc. 2019, rileva come, anche in questa fase, il giudice svolga un’attività cognitiva.
[6] Sul punto valgono le osservazioni di Fronza E, Il negazionismo come reato, Giuffrè 2012, pag 84, che richiama questo concetto nell’accezione di Hannah Arendt.
[7] Le osservazioni di E. Hobsbawm sono riportate da C. Ginzburg, Il filo e le tracce , Feltrinelli 2020, pg. 154.
[8] Sul punto valgano le osservazioni di Garapon A., Crimini che non si possono né perdonare né punire. L’emergenza di una giustizia internazionale, il Mulino, Bologna 2005. Vedi anche Damaska Mirjan, L’incerta identità delle Corti penali Internazionali, Criminalia, 2006.
[9]A.L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, il Mulino, 2009, pag. 53 e ss.
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