ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia Insieme. 5) Giuseppe Cricenti
Intervista di Roberto Conti a Giuseppe Cricenti
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato - sentenza n. 242/2019 e ord. n. 207/2018 -. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
Mi preme una premessa. Se si parla di eutanasia, e se il referendum mira a renderla lecita, allora serve chiarire di cosa si tratta: per una ormai più che decennale riflessione, l’eutanasia si distingue sia dall’omicidio del consenziente che dal suicidio assistito.
Se fosse stato chiaro questo assunto, ormai recepito da buona parte della filosofia bioetica, probabilmente anche la decisione della Corte Costituzionale sarebbe stata diversa.
In bioetica, come in filosofia morale, è eutanasia l’interruzione- attiva o passiva che sia- di una cura vitale, e dunque è una situazione che presuppone un paziente affetto da una malattia mortale, o irreversibile, che è tenuto in vita – o potrebbe esserlo- da una qualche terapia medica, e che chiede che la malattia faccia il suo corso, ossia che rifiuta una cura che potrebbe prolungare la sua esistenza o renderla temporaneamente migliore.
Il fatto che l’intervento medico si attui su un essere già nato, serve poi a distinguere l’eutanasia dall’aborto.
Questa è la definizione di eutanasia che a partire dalla riflessione di Beauchamp e Davidson, nel 1979, è pressoché diffusa in bioetica, e che in gran parte è stata trascurata dalla Corte Costituzionale nel 2019.
Giova riassumerla sinteticamente.
Secondo questa definizione la morte di un essere umano, A, è un caso di eutanasia se e solamente se: (i) la morte di A è provocata da un altro essere umano, B, ma nel senso che quest’ultimo può essere sia la causa della morte di A che un elemento causalmente pertinente dell’evento morte (che ciò avvenga dunque per azione od omissione non rileva); (ii) B dispone di sufficienti elementi per credere che A soffre in modo intenso o è in uno stato di coma irreversibile, e questa credenza si fonda su una o più leggi causali attestate; (iii) la ragione maggiore per cui B vuole la morte di A è nel far cessare le sue sofferenze; (iv) tre le procedure che consentono la morte di A, A e B scelgono quelle che producono le minori sofferenze ad A, e comunque sofferenze minori di quelle che con la morte si vorrebbero far evitare; (v) A non è un organismo fetale.
Si tratta di cinque condizioni, individualmente necessarie ed insieme sufficienti a definire l’eutanasia.
Intanto (i) deve trattarsi di morte provocata da un terzo, condizione che serve a distinguere l’eutanasia dal suicidio; deve essere voluta per porre fine alle sofferenze di una malattia mortale irreversibile (ii e iii), e dunque, come abbiamo visto non può parlarsi di eutanasia rispetto ad un soggetto sano, né può questa condizione servire a distinguere tra azioni ed omissioni, ipotizzando che solo in quest’ultimo caso la morte sopravviene per decorso naturale della malattia, e salva la restrizione del concetto alle sole sofferenze dovute a malattie mortali o terminali, o particolarmente gravi, e si spiega perché (iv) la sofferenza provocata dalla procedura di eutanasia prescelta non deve produrre sofferenze maggiori di quelle che si vogliono evitare. L’ultima clausola (v) consente di distinguere l’eutanasia dall’aborto; le prime quattro da qualsiasi forma di omicidio o suicidio assistito.
È una concettualizzazione, questa, in base alla quale è possibile identificare la condotta di eutanasia come autonoma, e distinguerla da altre condotte caratterizzate dall’evento morte, provocato da un terzo (omicidio, suicidio assistito, aborto ed altro).
Ricordo infatti che la Corte ha ritenuto non punibile il suicidio assistito quando è praticato verso un paziente affetto da malattia terminale e che chiede di porre fine alle proprie sofferenze: non già un qualsiasi aiuto a porre fine alla propria esistenza.
Ciò che la Corte non si è spinta a dire è che, a tal fine, non conta la distinzione tra eutanasia attiva e passiva, e si è cosi limitata a considerare il caso di eutanasia passiva come una ipotesi, lecita o non punibile , di suicidio assistito, facendo rientrare invece quello di eutanasia attiva nella ipotesi di omicidio del consenziente, dunque punibile.
Da qui il referendum, ed il suo oggetto.
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art. 579 c.p. e non sull’art. 580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
L’intervento della Corte Costituzionale pone una chiara delimitazione: l’assistenza fornita dal medico- o chi per lui- è lecita se è rivolta ad un malato affetto da patologia irreversibile, tenuto in vita da un intervento sanitario salvifico.
Questa delimitazione ha qualcosa di ovvio, che viene sottovalutato: il paziente, affetto da una qualche malattia, su cui ancora non è intervenuta alcun trattamento medico, è oggi, come lo era in passato, libero di rifiutare quell’intervento. Nessuno può dubitare che anche prima della decisione della Corte Costituzionale, se avessero detto ad un paziente “o ti fai amputare un arto o muori”, costui avrebbe ben potuto rifiutare l’intervento e nessuno avrebbe potuto costringerlo, e ciò senza ipotizzare reati a carico del medico che avesse rispettato tale volontà.
Il problema si è dunque sempre posto per i casi in cui il rifiuto interviene a trattamento medico iniziato, che sono quelli che pongono problemi di liceità dell’intervento medico; l’eutanasia è nient’altro che questo: l’interruzione di una cura salvifica o di mantenimento su un paziente irreversibilmente malato.
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto che solo quella che impropriamente si chiama eutanasia passiva rientra tra i casi di suicidio assistito, precisando che si tratta di una ipotesi non punibile, per le ragioni che sappiamo.
Invece, come meglio vedremo, ha ritenuto che l’eutanasia cosiddetta attiva è un caso di omicidio del consenziente, con la conseguenza paradossale che, depenalizzata l’eutanasia passiva, quella attiva è da considerarsi punibile proprio in ragione dell’articolo 579 c.p.
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpita dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione?
V’è da fare una premessa ulteriore. Dalla decisione della Corte Costituzionale, che in questo ha tenuto conto di un confuso parere del Comitato di Bioetica, sembra derivare che l’eutanasia, in senso stretto, è quella passiva, ossia mera interruzione della cura; mentre quella che, in una certa tradizione di pensiero si identifica come eutanasia attiva, rientrerebbe nell’omicidio del consenziente e non sarebbe quindi lecita.
Non ho qui lo spazio per spiegare perché questa sia una distinzione irrilevante: come se vi fosse qualcosa di diverso tra la condotta del medico che procura la morte ad un paziente con una iniezione, anziché interrompendo il trattamento che lo mantiene in vita.
Non ci sono mai stati argomenti irresistibili a presidio di quella distinzione (rimando chi volesse approfondire a CRICENTI, Il sé e l’altro. Bioetica del diritto civile, Pisa, 2013, p. 89 e ss.).
Tuttavia, una tale distinzione dalla decisione della Corte emerge, ed autorizza a pensare che solo l’eutanasia passiva è lecita, ossia è un caso di suicidio assistito non punibile, mentre quella attiva rientra tra le ipotesi di omicidio del consenziente.
Ed infatti, la Corte precisa che la legge vigente- il riferimento è alla 219 del 2017- consente al paziente di rifiutare una cura ma non consente al medico una condotta attiva che causi la morte del malato e neanche una condotta con cui il medico metta a disposizione del paziente mezzi utili a procurarsela da sé.
Il Comitato di Bioetica aveva esemplificato questa conclusione dicendo che un conto è che il caso del medico che consegna un farmaco letale al paziente e costui lo assume da sé, altro quello in cui che glielo somministra direttamente (p. 9 del parere).
Senza bisogno di interrogare gli esperti -di logica, oltre che di bioetica e diritto- ognuno intende la speciosità e la irrilevanza di tale distinzione.
Ma se proprio si cercano risposte dotte a quella strana idea del Comitato di Bioetica, stanno nelle critiche che i neokantiani rivolgono alla teoria dell’azione come fatto materiale propria di J.S. MILL (ad esempio O. O’NEILL, Autonomy and Trust in Bioethics, Cambridge, 2002).
Tuttavia, è un dato di fatto che, allo stato dell’arte, l’eutanasia attiva non rientra tra i casi leciti e rischia di ricadere nella fattispecie dell’omicidio del consenziente, a seguire la tesi della Corte Costituzionale.
Da questo punto di vista il referendum correttamente è indirizzato verso l’articolo 579 c.p., ma rischia di produrre effetti maggiori di quelli semplicemente limitati alla depenalizzazione della eutanasia attiva.
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
Le carenze del referendum, come si è detto, discendono dalla situazione sopra evidenziata: se si ha di mira di correggere gli esiti della pronuncia della Corte e dunque includere nella depenalizzazione anche l’eutanasia attiva- che, si ripete, secondo la decisione della Corte non sarebbe lecita e costituirebbe omicidio del consenziente- allora occorre specificarlo.
Invece, il quesito mira più genericamente a depenalizzare casi di intervento di terzi sulla vita altrui che non sono definibili né come eutanasia attiva né passiva, ossia non sono per niente casi di eutanasia, la quale, si ripete al di là della modalità con cui è praticata- attiva o passiva- presuppone pur sempre l’intervento del medico o di un terzo in generale sulla vita di un paziente irreversibilmente sofferente se non terminale.
Allora il quesito solleva dubbi, se mira ad ampliare i casi di eutanasia, ossia se si vuole dare di questa pratica una definizione più ampia: per me si tratta di casi che esulano dal concetto di eutanasia, e che dovrebbero avere un trattamento diverso: altro è il paziente irreversibilmente malato, che non intende più soffrire e che chiede che la malattia faccia il suo corso; altro chi vuol porre fine alla sua vita per depressione o altro.
È chiaro che l’esito del referendum, essendo quello di confinare i casi di omicidio del consenziente, alle ipotesi in cui il soggetto passivo è minore, o incapace, o soggetto a violenza, rende leciti tutti gli altri, dunque anche l’ “omicidio” del depresso, che però, piaccia o no, non è eutanasia.
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n. 242/2019?
Come ho detto, il quesito è imposto dagli esiti di quella sentenza, ma va oltre. Comporterà la depenalizzazione non solo dell’eutanasia in senso stretto, ma anche di aiuti a morire verso soggetti che non sono malati di un morbo mortale o che non soffrono in modo inaccettabile: penso, ad esempio, all’ “eutanasia” dei depressi.
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
Gli esiti del referendum, cosi posto, saranno di ampliare come si è detto la liceità dell’intervento medico – e non solo medico- sulla vita altrui, meglio, sulla interruzione della vita altrui. E mi pare evidente che se non si precisa che da depenalizzare è solo l’eutanasia come l’abbiano definita prima, si renderanno lecite una serie di condotte che invece sarebbe meglio vietare.
Io penso che nessuna società può ancora permettersi una medicalizzazione del suicidio: se un depresso, o una persona che comunque ha ragioni per voler morire, che non sono costituite da una malattia mortale, può accedere ad una “prestazione medica” per realizzare questo desiderio, non abbiamo legalizzato l’eutanasia, ma medicalizzato il suicidio.
Ciascuno può pensare che non vi sarebbe niente di male, ma dovrà ammettere che lungi dal costituire, questo passo, un progresso dell’autonomia del paziente – e resta evidente che ne beneficeranno anche i non pazienti- è al contrario un regresso: torna il ruolo della medicina come accertamento della “verità del fatto patologico” e quello che è un gesto privato – il suicidio- viene affidato nuovamente al medico.
Non mi scandalizzerei se vi fosse dunque un intervento correttivo del Parlamento, a precisare gli ambiti della legalizzazione della eutanasia nei termini che abbiamo visto.
Del resto, sono tra coloro che pensano che certe questioni non vanno affidate solo ai giudici e che un legge di bioetica, sul modello francese, ossia revisionabile ogni dato numero di anni, è la forma migliore per affrontare questi problemi.
I confini tra elusione ed evasione fiscale nella recente giurisprudenza penale di legittimità*
di Vito Di Nicola
Sommario: 1. Lo stato della giurisprudenza penale di legittimità anteriormente alle riforme del 2015: a) la sentenza Ledda; b) la sentenza Dolce e Gabbana; c) la sentenza Bova; d) la sentenza Dolce e Gabbana-bis. - 2. Il decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128: disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23 e il decreto legislativo n. 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23. - 3. Lo stato della giurisprudenza di legittimità dopo le riforme del 2015: a) la sentenza Mocali; b) la sentenza Anghileri; c) la sentenza Ferrari; d) la sentenza Giannotte: cenni sui nuovi lineamenti del reato di dichiarazione infedele; e) la sentenza Marcolini; f) riflessioni conclusive.
1. Lo stato della giurisprudenza penale di legittimità prima delle riforme del 2015: a) la sentenza Ledda; b) la sentenza Dolce e Gabbana; c) la sentenza Bova; d) la sentenza Dolce e Gabbana-bis
I rapporti, nel diritto penale tributario, tra abuso del diritto, elusione ed evasione fiscale sono stati incerti e tormentati per ragioni sostanzialmente di “sistema”.
In disparte le questioni, tuttora non pienamente risolte, circa la precisa definizione degli ambiti di operatività delle rispettive fattispecie, il principio di legalità, in materia penale, impone al giudice di sussumere, all’esito della necessaria attività interpretativa, il fatto storico nell’ambito di una norma incriminatrice soltanto se l’opera di sussunzione sia compiuta nel rispetto di tutti i corollari che riempiono di contenuto il principio di legalità (tassatività, determinatezza, divieto di analogia in malam partem e loro relativi sotto corollari).
La giurisprudenza di legittimità, anche prima della riforma del 2015, ha enunciato alcuni principi che, validi in relazione alla disciplina ratione temporis vigente, costituiscono, a mio avviso, la premessa per l’interpretazione del nuovo assetto normativo delineato a seguito dell’emanazione dei decreti legislativi n. 128 e n. 158 del 2015.
Nel tentativo di tracciare i confini tra elusione (abuso del diritto) ed evasione fiscale, ho pensato utile recuperare gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità prima della riforma del 2015, analizzare, currenti calamo, i decreti legislativi n. 128 e n. 158 del 2015 e, infine, passare in rassegna lo stato attuale della giurisprudenza penale di legittimità.
Prima della riforma del 2015, le sentenze più significative in materia sono: a) la sentenza Ledda; b) la sentenza Dolce e Gabbana; c) la sentenza Bova; d) la sentenza Dolce e Gabbana-bis.
a) La sentenza Ledda
Nel caso di specie, si trattava di una complessa operazione realizzata attraverso un insieme di condotte e di atti negoziali che, sebbene tutti di per sé leciti, apparivano finalizzati ad evadere l’IVA e l’IRPEF, attraverso una vicenda riconducibile all’abuso del diritto in ambito tributario. In sostanza, il Ledda, agendo come persona fisica, aveva, secondo l’addebito, dissimulato una attività di impresa, omettendo di dichiarare gli ingenti proventi ricevuti per l’opera da lui svolta al fine di eludere l’applicazione delle dette imposte.
L’indagato, al quale era stato contestato il reato di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, obiettò che era stata contestata una condotta asseritamente elusiva e quindi certamente non di evasione fiscale, con la conseguenza che la condotta, non essendo sussumibile nella fattispecie incriminatrice astratta, non poteva ritenersi penalmente rilevante, in quanto, per aversi il reato di dichiarazione infedele, occorreva un minimo di attitudine all’inganno nei confronti del fisco.
L’elusione fiscale, quindi, non aveva rilevanza penale per mancanza di tale attitudine.
La particolarità di questo caso sta nel fatto che si segnalava la contraddizione esistente tra la atipicità degli istituti dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale e la necessaria tipicità dell’illecito penale nonché la liceità del fenomeno abusivo.
La Corte ritenne che il reato di cui all’art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 fosse configurabile anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dall’art. 37-bis (ora abrogato) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, avesse comportato una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare[1], sul rilievo che la fattispecie - non richiedendo, diversamente da altre ipotesi di reato, una dichiarazione fraudolenta (mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ovvero mediante altri artifici) - fosse integrata dalla sola dichiarazione infedele, ossia dal fatto che, anche senza l’uso di mezzi fraudolenti, fossero indicati nella dichiarazione stessa “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”, al completo però di tutte le altre condizioni previste dalla norma incriminatrice, in relazione all’ammontare dell’imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione.
In altri termini - siccome era stato ritenuto che era stata presentata una dichiarazione infedele, perché in essa erano stati esposti elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo - la circostanza che potesse trattarsi di una condotta elusiva, rientrante fra quelle previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis,[2] non contraddiceva tale conclusione, in quanto, nel caso in esame, la condotta, pur essendosi risolta in atti e negozi non opponibili alla amministrazione, aveva comunque comportato una dichiarazione infedele, perché nella stessa gli elementi attivi non erano stati esposti nel loro ammontare effettivo[3] e si erano realizzate tutte le altre condizioni richieste dalla norma incriminatrice per la sua integrazione.
b) La sentenza Dolce e Gabbana[4] e lo stato dell’arte nella giurisprudenza penale di legittimità sino al 2011
In sintonia con il precedente arresto, ma con maggiore approfondimento delle questioni, la Corte di cassazione affermò il principio in forza del quale i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge[5]
Non si ritenne, quindi, che le condotte elusive potessero, in quanto tali, configurare una delle fattispecie tipiche del diritto penale tributario ma si ritenne che potessero assumere rilevanza penale solo quelle che fossero corrispondenti ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge, non potendosi affermare, nel campo penale, l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescindesse da specifiche norme antielusive presenti nell’ordinamento tributario. Ne consegue che una condotta sarebbe risultata penalmente rilevante se fosse stata qualificata come elusiva in applicazione di una specifica norma antielusiva prevista dell’ordinamento e non in forza di un generale principio che vietasse di ricorrere a manovre di elusione fiscale.
La giurisprudenza di legittimità si schierò, dunque, a favore di una limitata rilevanza penale delle operazioni elusive, delineando nel contempo i confini tra elusione fiscale e ambito di applicazione dei delitti tributari di evasione, con particolare riferimento a quelli di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione.
Nel caso di specie, dove la condotta attribuita agli imputati costituiva, secondo l’impostazione accusatoria, un fenomeno noto come “esterovestizione”, la giurisprudenza di legittimità osservò come, nell’ordinamento italiano, la prima norma antielusiva rintracciabile in proposito fosse quella della L. 29 dicembre 1990, n. 408, art. 10, che autorizzava l’Amministrazione finanziaria a disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante alcune operazioni, tassativamente indicate, poste in essere “senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta”. A tale disposizione fece seguito l’art. 37-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, intitolato “disposizioni antielusive”. Tale disposizione eliminava il riferimento ad operazioni poste in essere “fraudolentemente”, ma continuava ad elencare tassativamente le operazioni alle quali era collegato il disconoscimento dei vantaggi fiscali, elenco che il legislatore nel tempo ampliava ogni volta che dalla prassi fossero emersi nuovi e non previsti meccanismi elusivi. Invece, le Sezioni Unite Civili (con le sentenze gemelle n. 30055, 20056 e n. 30057 del 23/12/2008) avevano individuato un generale principio antielusivo, affermando che “l’esistenza nel sistema tributario di specifiche norme antielusive non contrasta con l’individuazione di un generale principio antielusione, ma è piuttosto mero sintomo dell’esistenza di una regola generale”. Tale principio “preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e di progressività dell’imposizione (art.53 Cost., comma 2), e non contrasta con il principio della riserva di legge (art. 23 Cost.), non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione”[6].
La successiva giurisprudenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione precisò che “il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda”[7].
La sentenza Dolce e Gabbana osservò poi come la giurisprudenza della Corte di cassazione si ponesse in linea con quella Europea, essendo il divieto di abuso del diritto un principio generale del diritto dell’Unione[8] per cui era stato affermato che “l’applicazione delle norme di tale diritto non può essere estesa sino a comprendere pratiche abusive, ossia operazioni effettuate non nell’ambito di normali transazioni commerciali, ma unicamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti da detto diritto”, in particolare, quando lo scopo delle operazioni controverse fosse essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale[9].
Sul punto, va ricordato come fu la Corte di Lussemburgo, con la sentenza Halifax del 2006, ad imprimere una svolta della propria giurisprudenza antielusiva. In tale pronuncia fu ribadito che la «certezza del diritto si impone con rigore particolare quando si tratta di una normativa idonea a comportare oneri finanziari» (punto 72) anche nei casi in cui il contribuente «ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale» (punto 73), sicché la Corte europea affermò, per la prima volta in modo espresso, il «divieto di abuso del diritto (comunitario)» come principio generale enucleabile dalla Direttiva IVA (c.d. sesta direttiva), precisando, peraltro, che «perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale» (capo 2 del dispositivo).
Sulla questione della rilevanza penale dell’elusione in materia fiscale, si osservò come la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione non si fosse espressa compiutamente. A fronte di un risalente e apodittico orientamento secondo il quale “la violazione delle norme antielusive, in linea di principio, non comporta conseguenze di ordine penale[10]”, vi erano richiami alla giurisprudenza della Corte di giustizia Europea[11], secondo cui “la scelta della sede di una società di uno Stato membro - soltanto per usufruire di una normativa più favorevole - non costituisce esercizio abusivo del diritto di stabilimento di cui agli art. 43 e ss. del Trattato CE[12]”.
Ricordando che, in questa materia, in senso favorevole alla configurabilità di un illecito penale si era espressa la sentenza Ledda, si sottolineò pure come il sistema tributario prevedesse istanze di interpello preventivo,[13] oltre al meccanismo di cui all’abrogato art. 16 del d.lgs. n. 74 del 2000, affermandosi perciò il principio che non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali potesse assumere rilevanza penale, ma solo quella corrispondente ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge. In tal caso, infatti, ciò che si richiede al contribuente è di tenere conto, nel momento in cui redige la dichiarazione, del complessivo sistema normativo tributario, che assume carattere precettivo nelle specifiche disposizioni antielusive.
In altri termini, si ritenne che, nel campo penale, non potesse affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescindesse da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, dovendosi invece affermare la rilevanza penale di condotte rientranti in una specifica disposizione fiscale antielusiva.
Si osservò infatti che, ad avvalorare la tesi della rilevanza penale dei comportamenti elusivi specificamente previsti dalla normativa di settore, era poi la stessa linea di politica criminale adottata dal legislatore, tant’è che, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, sia le Sezioni Unite della Corte di cassazione[14] che la Corte Costituzionale[15] avevano sottolineato che il legislatore, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, aveva inteso abbandonare il modello del c.d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina di cui al D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella L.7 agosto 1982, n. 516 - modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente “preparatoria” dell’evasione d’imposta - a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia portò a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che “realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni a monte della dichiarazione stessa[16]”.
Pertanto, si osservò che se le fattispecie criminose sono incentrate sul momento della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal regime fiscale è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici può ben coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile.
In chiusura, la sentenza chiarì che l’affermazione della rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale, nei sensi precisati nella motivazione, non contrasta con il principio di legalità[17].
Ovviamente, precisò la sentenza, rimangono intatti i criteri che presiedono alla indipendenza valutativa del giudice in ordine alla ricostruzione in fatto della fattispecie criminosa.
c) La sentenza Bova
La vicenda era relativa alla cessione dei diritti di utilizzazione economica dell’immagine di un attore ad una società appositamente costituita, nella quale le quote erano ripartite dall’indagato con la sorella, il ruolo di procuratrice era svolto dalla moglie e le funzioni di amministratore unico erano esercitate da un’altra sorella, con il fine di ottenere la riduzione della base imponibile mediante trasformazione dei guadagni costituenti poste attive in costi deducibili come poste passive[18].
In applicazione dei principi fissati dalla sentenza Dolce e Gabbana, la Corte di cassazione ribadì che il reato di dichiarazione infedele dei redditi può essere integrato anche dai comportamenti elusivi posti in essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione[19].
d) La sentenza Dolce Gabbana-bis
La Corte di cassazione, nell’esaminare la vicenda già trattata nel 2011[20] depurata di una serie di imputazioni venute meno nel corso del giudizio, stimò errata la conclusione cui erano pervenuti i giudici di merito circa la ritenuta “esterovestizione” della società costituita dagli imputati in Lussemburgo, conclusione ingiustificata perché assunta senza considerare la concorrente ed incontestata sussistenza delle robuste ragioni extrafiscali ispiratrici della riorganizzazione del gruppo “Dolce & Gabbana”, ragioni che avevano scardinato la coerenza intrinseca del ragionamento giudiziale, tanto da far ritenere l’insussistenza del reato di omessa dichiarazione dei redditi.
Densa di principi di diritto, la sentenza, resa “a cavallo” tra nuova e previgente disciplina, merita di essere soprattutto segnalata per aver teorizzato la distinzione tra dolo di elusione e dolo di evasione, affermando che, in materia di reati tributari, il “dolo di elusione” consiste nella generica volontà consapevole di avvalersi degli strumenti negoziali previsti dagli artt. 37 e 37-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per ottenere vantaggi fiscali non dovuti, con la conseguenza che esso non si identifica con il dolo specifico di evasione che, in quanto integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine (perseguito) e del mezzo (utilizzato), esprime un disvalore ulteriore idoneo a selezionare gli illeciti penalmente rilevanti da quelli che tali non sono[21].
2. Il decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128: disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23 e il decreto legislativo n. 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23.
Il decreto legislativo n. 128 del 2015[22] novella la legge 27/07/2000 n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), inserendo un nuovo art. 10-bis con il quale modella la “disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale” (art. 1 comma1 d.lgs. 128/2015), e perciò codifica normativamente il principio dell’«abuso del diritto o elusione fiscale», introducendo nell’ordinamento una “clausola generale antielusiva”, sul modello di ordinamenti stranieri, in particolare della UE[23] .
Già dalla rubrica della norma il messaggio è chiaro: abuso del diritto (tributario) ed elusione fiscale costituiscono, ex positivo iure, concetti equivalenti.
Nel “tipizzare” perciò un medesimo concetto, definito in precedenza solo in via dottrinale e giurisprudenziale, il decreto legislativo specifica gli elementi al cospetto dei quali può ritenersi configurabile l’elusione fiscale ossia l’abuso del diritto.
Il quale si ha in presenza di “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”, con la conseguenza che “tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni” (comma 1).
Due gli elementi normativi della fattispecie, cioè il rinvio alle operazioni prive di sostanza economica e ai vantaggi fiscali indebiti, sicché il secondo comma li tipizza entrambi per cui “si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato; b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (comma 2).
Segue poi la tipizzazione di un elemento negativo di fattispecie e perciò si chiarisce che “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente” (comma 3).
Il comma 4 tipicizza il lecito risparmio di imposta, stabilendosi che “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.
Dal quinto all’undicesimo comma la norma si occupa di delineare gli aspetti procedurali.
Il dodicesimo comma, per quanto qui interessa, è centrale.
Dopo aver configurato in positivo il concetto di elusione fiscale, la disposizione (comma 12) precisa che “in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”.
Letto in controluce, significa che l’abuso del diritto non può essere configurato qualora siano violate specifiche disposizioni tributarie con la conseguenza che i vantaggi fiscali[24] devono essere disconosciuti sicché, in questi casi, non essendo più configurabile l’abuso del diritto e, per l’effetto, neppure l’elusione fiscale, visto che i due concetti sono equiparati, viene invece in gioco l’evasione fiscale penalmente rilevante, a condizione che il fatto sia sussumibile in una specifica fattispecie incriminatrice; diversamente si avrà evasione fiscale penalmente irrilevante ma soggetta a sanzioni extrapenali.
L’abuso del diritto tributario viene perciò configurato, in conformità all’elaborazione civilistica, in un comportamento del contribuente che, utilizzando mezzi leciti, mira ad ottenere un risultato indebito, contrastante con le finalità delle norme fiscali o con i principi del diritto tributario. I mezzi leciti sono le operazioni giuridiche che l’ordinamento consente per “produrre effetti diversi dai soli vantaggi fiscali”, l’abuso consiste nel far ricorso a essi privandoli della loro “sostanza economica”, “senza valide ragioni extrafiscali”, e quindi strumentalizzandoli al solo fine di ottenere un beneficio fiscale[25].
Per quanto attiene alle conseguenze in termini sanzionatori, in chiusura, si prevede che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie” (comma 13).
Riassumendo, laddove l’abuso del diritto non sia configurabile, la violazione di specifiche disposizioni tributarie può dare luogo a fatti punibili, se del caso anche penalmente, evenienza che va sempre esclusa in presenza di un comportamento elusivo[26] nei confronti del quale l’ordinamento reagisce applicando le sanzioni amministrative, previo disconoscimento dei relativi vantaggi[27] e conseguente determinazione dei tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni[28].
Le specifiche norme tributarie che il comma 12 fa divieto di ledere sono certamente riconducibili alle “norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzione, detrazioni, crediti di imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario” (art. 1, comma 3, d.lgs. 128 del 2015) e, tra esse, rientrano anche le norme penali che puniscono comportamenti di evasione quando, beninteso, la specifica disposizione tributaria violata, si pone alla stregua di un elemento normativo di fattispecie[29], integrando, in presenza di tutte le altre condizioni richieste per la punibilità del fatto, la norma penale incriminatrice[30].
L’abuso del diritto, al quale viene equiparata l’“elusione fiscale”, viene dunque dotato di un proprio statuto, che sottrae le condotte abusive dall’area del penalmente rilevante, derivando da ciò la conclusione che “la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale[31] rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare, l'evasione e la frode: queste fattispecie vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre”[32].
Detto in altri termini: non è abuso del diritto, ma legittima facoltà del contribuente, il conseguimento di un lecito risparmio di imposta e non è abuso del diritto, ma configura una condotta di evasione fiscale, l’illecito risparmio di imposta conseguito attraverso la violazione di specifiche disposizione tributarie.
In buona sostanza, l’“elusione fiscale”, che si colloca nel mezzo tra il lecito risparmio di imposta e il risparmio di imposta illecito, può essere definita come «un comportamento che realizza un “risparmio fiscale” che è conforme alla lettera, ma non alla ratio delle norme tributarie»; quindi si differenzia dall’“evasione fiscale”, perché «non è violazione, ma aggiramento di un precetto fiscale».[33]
Detto questo, è chiaro come la nuova disciplina dell’abuso del diritto vada letta, nell’ottica del penalista, unitamente al quasi coevo intervento del legislatore che, con il successivo decreto legislativo n. 158 del 24/09/2015, ha proceduto alla “revisione del sistema sanzionatorio”.
Gli interventi più significativi, per il tema che interessa i rapporti tra elusione ed evasione fiscale, riguardano la definizione di “imposta evasa” (art. 1 lett. f d.lgs. 74 del 2000), laddove si precisa che non si considera tale “quella teorica e non effettivamente collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”; l’introduzione di nuove norme definitorie (come l’art. 1 lettera g-bis), laddove si specifica che per “operazioni simulate oggettivamente e soggettivamente” si intendono “le operazioni apparenti diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti”, e (come l’art. 1 lettera g-ter), laddove si fornisce la definizione dei “mezzi fraudolenti” costituiti dalle “condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà”.
Queste due ultime definizioni sono funzionali a interpretare le modifiche apportate al reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’art. 3 del d.lgs. 74 del 2000, fattispecie che si riteneva potesse abbracciare anche le condotte elusive tradottesi in inganno per il fisco in considerazione del fatto che, nel nuovo reato di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” la condotta punibile richiede il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero l’avvalersi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento o a indurre in errore l'Amministrazione finanziaria[34].
Vanno poi segnalate le modifiche apportate all’art. 4, con la sostituzione della locuzione “elementi passivi fittizi” con quella di “elementi passivi inesistenti” e con l’inserimento di un nuovo comma 1-bis, sulla base del quale, ai fini dell’integrazione del fatto di reato, “non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivo o passivi oggettivamente esistente, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai 'ni 'scali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali”.
3. Lo stato della giurisprudenza di legittimità dopo le riforme del 2015: a) la sentenza Mocali; b) la sentenza Anghileri; c) la sentenza Ferrari; d) la sentenza Giannotte: cenni sui nuovi lineamenti del reato di dichiarazione infedele; e) la sentenza Marcolini; f) riflessioni conclusive.
Diversi sono stati gli interventi della Corte di cassazione a seguito delle riforme del 2015.
Sono state scelte solo alcune sentenze[35] selezionate tra quelle massimate e/o tra quelle sulle quali si sono registrati i contributi, sempre preziosi, della dottrina.
a) La sentenza Mocali
Nel caso di specie, all’imputato era stato contestato il reato di cui all’art. 4, d. lgs. n. 74 del 2000 (delitto di dichiarazione infedele), per aver, nella qualità di legale rappresentante di una società immobiliare, nell’anno 2006, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicato nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di imposta 2005, elementi passivi fittizi pari ad € 8.315.319,31 stipulando con altra società di Praga un contratto denominato “Stock lending agreement”, sottoscritto al solo scopo di evadere le imposte sui redditi, elementi passivi fittizi che determinavano un risparmio di imposta pari a € 2.802.646, con conseguente superamento delle soglie previste dal predetto reato. Per tale ipotesi di reato il ricorrente venne condannato in primo e in secondo grado.
Nel caso in esame, l’operazione negoziale era stata ritenuta penalmente rilevante, in quanto i giudici di merito, pur ammettendo in astratto la liceità della stessa da considerarsi «non fraudolenta, ma al più elusiva», avevano ritenuto che non se ne potesse negare la natura fittizia, per le modalità con cui l’impianto negoziale era stato costruito, ed in particolare muovendo «a ritroso» ossia dalla misura del risparmio fiscale da perseguire: ciò, da un lato, con la stipula di un contratto di «prestito titoli» che non aveva implicato neppure il loro materiale trasferimento e, dall’altro, con una clausola di natura aleatoria che, nella specie, non aveva alcun profilo di alea, ma offriva ai contraenti «la certezza del programmato risultato».
Veniva, pertanto, evidenziato che si trattava di elementi passivi qualificabili come fittizi, seppur non inesistenti in rerum natura, in quanto creati artificialmente al solo scopo di essere esposti nella dichiarazione annuale dei redditi, senza che gli stessi facessero riferimento ad un’effettiva operatività.
Nella medesima direzione veniva, inoltre, considerata irrilevante la natura non simulata (in senso civilistico) dei contratti dal momento che, questi ultimi, erano voluti dalle parti ed eventualmente nulli per difetto di causa (l’alea).
La Corte di cassazione precisava, in questo suo primo intervento, come il ragionamento seguito dai giudici di merito fosse in astratto condivisibile alla luce della normativa vigente all’epoca della decisione, ma dovesse essere rivisitato a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale, prevista dall’art. 10-bis del c.d. «Statuto dei diritti del contribuente», introdotto dal d. lgs. n. 128 del 2015.
Il nuovo testo legislativo (d. lgs. n. 128 del 2015) - prefiggendosi lo scopo di selezionare, da un lato, le condotte che possono integrare il c.d. «abuso del diritto» e, dall’altro, di abrogare espressamente l’art. 37-bis del d.P.R. 600/1973 - aveva disciplinato l’intero sistema attraverso l’introduzione di una nuova norma (l’art. 10-bis della l. 212 della 2000), con la conseguenza che il divieto di «abuso del diritto» è pacificamente operante per tutti i tipi di imposte[36].
Sulla base di queste premesse e con la sottolineatura che si era unificata la nozione di abuso del diritto e quella di elusione fiscale, con la conseguenza che, nell’articolato normativo, i due termini sono equipollenti e utilizzati indifferentemente, la Corte stabiliva che non fosse più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto l'art. 10-bis, comma 13, della legge 27 luglio 2000, n. 212, esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti[37].
Nel ribadire poi che l’istituto dell’abuso del diritto, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, la Corte ha chiarito come il predetto principio avesse applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa, di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi[38].
b) La sentenza Anghileri[39]
In questo caso, l’imputato era stato condannato per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’art. 3 d.lgs. 74 del 2000 per avere, quale amministratore di una società a responsabilità limitata indicato nella dichiarazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, per euro 12.745.486 ai fini della imposta sui redditi e per euro 66.000.000 ai fini dell’I.V.A.
La condotta, che aveva consentito di omettere l’indicazione di componenti attivi di reddito, era stata ravvisata nella operazione di scissione proporzionale posta in essere dalla società Iupiter amministrata dall’imputato, attraverso la quale vennero costituite due nuove società, la S.r.l. Ariosto e la S.r.l. Augusta Taurinorum, alle quali vennero conferiti, rispettivamente, tutti gli immobili confluiti nel fondo patrimoniale Ariosto e altro immobile sito in Torino; in seguito, la Augusta Taurinorum cedette l’immobile di Torino per il prezzo di euro 66.000.000 oltre i.v.a. ad un gruppo di società di leasing, che lo concessero in locazione alla S.r.l. Golden RE; successivamente la Augusta Taurinorum venne ceduta ad una società di diritto statunitense, la Tresor Resort LCC, risultata non operativa, estinguendosi e venendo quindi cancellata dal registro delle imprese.
L’elusione fiscale, conseguente alla operazione, sarebbe consistita nel mancato pagamento dell’i.v.a. dovuta sulla cessione dell’immobile e nella sottrazione alla imposizione sui redditi della plusvalenza realizzata attraverso la vendita dell’immobile stesso ad un prezzo superiore di oltre euro 12.000.000,00 al valore dello stesso iscritto in bilancio.
In questo caso, la Corte ha rilevato che l’art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000 è stato novellato dal d.lgs. n. 158 del 2015 che ha introdotto, dopo la lettera g), la lettera g-bis), secondo cui per “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti, modificando pertanto l’ambito di rilevanza della fattispecie sanzionatoria di cui all’art. 3 d.lgs. 74 del 2000, che punisce le dichiarazioni fraudolente compiute mediante operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria.
Secondo la ratio decidendi, attraverso la limitazione della rilevanza penale alle sole operazioni poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto od in parte, o riferite a soggetti fittiziamente interposti, il legislatore ha escluso la rilevanza penale delle operazioni meramente elusive, nelle quali, come nella specie, sia stato adottato uno schermo negoziale articolato (quale quello descritto) allo scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale, in relazione, però, ad una operazione economica realmente verificatasi e che aveva dato luogo a flussi finanziari effettivi ed al trasferimento di diritti.
Nella specie, sia pure attraverso le operazioni di scissione proporzionale, costituzione di nuove società, cessione a queste ultime di quote e conferimenti alle stesse di beni, vendita da parte di tali soggetti di detti beni a terzi e successiva estinzione della nuova società utilizzata per il compimento della operazione, il risultato complessivo del trasferimento della proprietà dell’immobile appartenente in origine alla S.r.l. Iupiter era stato, effettivamente, conseguito, procurandone l’acquisto a favore del gruppo di società di leasing che lo concessero in locazione alla Golden Re, sicché le operazioni poste in essere non potevano essere considerate simulate secondo la nuova definizione che ne aveva dato il citato comma g-bis) dell'art. 1 d.lgs. 74 del 2000, essendo state realizzate in tutto e non da soggetti fittiziamente interposti, in quanto la Augusta Taurinorum, dopo la sua costituzione, acquistò effettivamente la proprietà dell’immobile e lo alienò a terzi, percependo il relativo prezzo, con la conseguenza che non poteva considerarsi soggetto solo fittiziamente interposto, avendo in concreto acquistato la proprietà dell’immobile e percepito il corrispettivo della sua alienazione.
Ciò comportava, secondo la sentenza, l’irrilevanza penale dei fatti contestati all’imputato, in quanto consistenti in una operazione meramente elusiva, anziché non realizzata in tutto od in parte, come tale attualmente priva, a seguito della entrata in vigore della disposizione anzidetta, di rilevanza penale.
c) La sentenza Ferrari[40]
Nel caso di specie all’imputato era stato contestato il reato di dichiarazione infedele previsto dall'articolo 4 del decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, perché, in qualità di legale rappresentante della società “Luigi Ferrari S.r.l.”, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicando indebitamente nella dichiarazione dei redditi presentata per l’anno di imposta 2008 una plusvalenza in regime di esenzione parziale (con esenzione pari al 95% della plusvalenza, ex articolo 87 del DPR 917 del 1986) anziché una plusvalenza (ordinariamente) tassabile e quindi determinante nella formazione del reddito IRES, in relazione alla plusvalenza (pari a 2.336.272 euro) conseguita dalla società con l’alienazione dell'intera partecipazione societaria detenuta nella Agricola Ferrari S.r.l. (in particolare veniva ceduto in data 14/10/2008 il 100% delle quote della Agricola Ferrari S.r.l. al prezzo di 3.685.876,50 euro a fronte di un valore contabile della partecipazione pari a 1.349.605,17 euro, con una plusvalenza quindi pari a 2.336.271,33 euro), ometteva di dichiarare elementi attivi pari a 2.219.458 euro pari appunto al 95% della plusvalenza conseguita, con imposta IRES evasa pari a euro 610.351,00 euro, essendo in realtà intento delle parti non già quello di cedere la partecipazione societaria, bensì gli immobili agricoli (fabbricati e terreni agricoli) facenti parte del complesso aziendale agricolo denominato “Scottine” di proprietà della controllante Luigi Ferrari e dovendosi pertanto sottoporre tale cessione a tassazione ordinaria.
In particolare, secondo l’accusa, attraverso una strumentale operazione di scissione societaria, erano stati conferiti i fabbricati e i terreni agricoli (con annessi diritti alle erogazioni comunitarie sull’agricoltura e l’allevamento) all’Agricola Ferrari S.r.l., ottenendo poi, attraverso la cessione della relativa partecipazione, un consistente risparmio di imposta attuato grazie all’adesione al regime di cui all’art. 87 d.P.R. n. 917 del 1986 ma tale partecipazione non era meritevole della esenzione prevista dall’art. 87 TUIR in quanto non sussisteva il necessario requisito previsto dalla lett. d) del citato articolo (requisito della commercialità)[41].
La società scissa, ossia l’Agricola Ferrari S.r.l., era stata utilizzata come mero “contenitore” destinato a far circolare i beni, già oggetto di una precedente trattativa conclusa con í promittenti acquirenti, attraverso la successiva cessione delle quote societarie, facendo rientrare la plusvalenza realizzata a seguito della cessione delle suddette quote societarie nella disciplina della esenzione parziale (95%) ai fini Ires ex art. 87 TUIR (cd. partecipation exemption o PEX).
La Corte di merito aveva, con accertamento di fatto, escluso potersi ravvisare unicamente una generica volontà consapevole di avvalersi degli strumenti negoziali previsti (all’epoca) dagli artt. 37 e 37-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per ottenere vantaggi fiscali non dovuti (“dolo di elusione”), pervenendo alla conclusione che fosse integrato il dolo specifico di evasione, ovvero la deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo, essendo stata l’esenzione fiscale ottenuta mediante negozi collegati tra loro niente affatto finalizzati ad una effettiva cessione di partecipazione societaria in un'azienda agricola attiva (ma che attiva non era trattandosi di un mero contenitori di beni) e che avrebbe dovuto continuare ad operare (ma che non avrebbe affatto operato una volta conseguita la cessione dei beni)[42].
La Corte di cassazione ha dunque concluso, in consapevole applicazione dei principi espressi dalla sentenza Mocali, che si era in presenza, nel caso in esame, di comportamenti simulatori[43] preordinati alla immutatio veri del contenuto della dichiarazione reddituale di cui all'articolo 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis I. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, avendo applicazione solo residuale, non può venire in considerazione quando i fatti integrino gli elementi costitutivi del delitto di dichiarazione infedele per la comprovata esistenza di una falsità ideologica che interessa, nella parte che connota il fatto evasivo, il contenuto della dichiarazione, inficiandone la veridicità per avere come obiettivo principale l’occultamento totale o parziale della base imponibile[44] realizzato, nel caso di specie, attraverso la violazione di una specifica disposizione tributaria, ossia l’art. 87, lettera d), Tuir.
d) La sentenza Giannotte: cenni sui nuovi lineamenti del reato di dichiarazione infedele
Dopo la sentenza Mocali e prima della sentenza Ferrari, la Corte aveva esaminato alcune ricadute che la riforma di cui al d.lgs. n. 158 del 2015 aveva prodotto sull’assetto normativo del d.lgs. n. 74 del 2000.
Chiamata a decidere su un ricorso avverso un’ordinanza del giudice dell’esecuzione di rigetto della richiesta di revoca, proposta ai sensi dell’art. 673 c.p.p., per intervenuta parziale abolitio criminis del delitto di cui all’art. 4 D. Lgs. 74/ 2000, nella parte riferibile alla violazione dei principi di inerenza e corrispondenza dei costi e dei ricavi e di corretta determinazione dell’esercizio di competenza), la Corte osservò come la novella del 2015 avesse “ridisegnato” – con le modifiche apportate al comma 1 e con l’introduzione dei commi 1-bis e 1-ter della norma de qua – i confini dell’area di illiceità penale[45] in quanto dalla tipicità del fatto di reato era stata eccettuata (“...non si tiene conto”) la divergenza tra gli importi indicati in dichiarazione e quelli effettivamente percepiti (elementi attivi per un importo inferiore a quello effettivo), quando la discrasia fosse frutto della violazione della regola cronologica relativa all’esercizio di competenza o della non inerenza ma l’elemento attivo, seppur impropriamente collocato nel tempo, fosse reale e ontologicamente esistente.
In altri termini, con la riforma del 2015, che ha – tra l’altro – abrogato il (vecchio) art. 7 d. cit. e ha introdotto il (nuovo) comma 1-bis all’interno dell’art. 4 del medesimo decreto, il fatto tipico non risulta più integrato se, pur sussistendo tutti gli altri requisiti previsti dalla fattispecie, la condotta sia consistita nella non corretta classificazione di elementi attivi oggettivamente esistenti (per quelli passivi, invece, è sufficiente – in virtù della modifica del comma 1 dell’art. 4 – la loro esistenza per escludere la tipicità), effettuata in violazione dei criteri di competenza (in tal caso, peraltro, non è più richiesta la loro derivazione da metodi costanti di impostazione contabile), inerenza e indeducibilità.
Tali modifiche hanno, appunto, determinato una parziale abolitio criminis della norma incriminatrice, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2, comma 2 c.p.
Sulla base di ciò, la Corte aveva ricordato come il reato di infedele dichiarazione fosse stato peraltro ritenuto configurabile anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dall'art. 37-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all'amministrazione finanziaria, avesse comportato una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare[46], osservando come il previgente quadro normativo fosse stato modificato con la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, essendo stata espressamente esclusa, in primo luogo, la rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, sanzionato soltanto in sede amministrativa e perciò sottolineando l’importanza del comma 13 dell’art. 10-bis alla luce del quale “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma la applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.
Nel richiamare poi i principi della sentenza Mocali, si dava anche conto del nuovo modello legale del reato di infedele dichiarazione, rimarcando come in dottrina fosse stato opportunamente osservato, in linea con quanto esposto nella Relazione illustrativa al d.lgs. n. 158 del 2015, che le significative modifiche apportate fossero il frutto di una scelta legislativa volta a ridisegnare il sistema sanzionatorio tributario in termini di minore rigore e di maggiori certezze per il contribuente, circoscrivendo l’area di intervento penale ai soli fatti connotati da un particolare disvalore in maniera da scongiurare la creazione di “aree di rischio penale” per il contribuente correlate ad aspetti valutativi e comunque non connotati da frode anche al fine di evitare che una tale area di rischio si potesse tradurre in un disincentivo ad investimenti imprenditoriali in Italia.
In questo nuovo quadro era stato ritenuto che la condotta punibile del reato di infedele dichiarazione dovesse risolversi, a seguito della riforma, in falsità ideologiche[47] prive di qualsiasi connotato fraudolento, materializzandosi il fatto tipico: (1) nell’annotazione, in dichiarazione, di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale (in sostanza, l’omessa annotazione di ricavi), (2) nell’indebita riduzione dell’imponibile tramite l’indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (e non più fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti ad esistenza in rerum natura e (3) nelle sottofatturazioni, ovvero all’indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale, in maniera da consentire all’emittente il conseguimento di ricavi non dichiarati, atteso che il delitto di infedele dichiarazione aveva ed ha natura residuale rispetto ai delitti di cui agli articoli 2 e 3 d.lgs. n. 74 del 2000[48] ed ora il comma 3 dell’articolo 3 (reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) chiarisce che “ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali”. In tal modo, il legislatore ha escluso la natura fraudolenta delle sottofatturazioni, ricomprese nel raggio della condotta punibile di cui al delitto ex articolo 4.
Il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di infedele dichiarazione dei redditi (articolo 4 d.lgs. n. 74 del 2000), deve perciò ritenersi integrato dalla presenza di elementi positivi della condotta punibile, ossia dalla indicazione nella dichiarazione di ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo, anche con il ricorso alla tecnica della sottofatturazione, o dalla indicazione di costi inesistenti (non più fittizi), con conseguente superamento della soglia di punibilità, e (in aggiunta) dalla contemporanea mancanza di elementi negativi della condotta delittuosa, in quanto rientranti anche essi (sia pure in negativo) nella dimensione della tipicità (nel senso cioè che i ricavi omessi non devono essere stati anticipati o posticipati rispetto all'esercizio di competenza, risolvendosi in ciò, anche alla stregua di elementi negativi del fatto di reato, l'intera condotta punibile)[49].
Non a caso il reato di dichiarazione infedele è punito meno gravemente dei reati ex articoli 2 e 3 d.lgs. n. 74 del 2000 per la mancanza di mezzi fraudolenti di supporto alla condotta, che è pertanto stimata come meno insidiosa, per l'assenza di azioni fraudolente idonee a mettere in pericolo l'accertamento. Si tratta perciò di una condotta di tipo commissivo che si risolve, nella sostanza, in un falso ideologico, nel senso di attestazione in dichiarazione di fatti non corrispondenti al vero con specifico riferimento alla componente attiva e/o passiva del reddito, falsità/infedeltà che si consuma nella sola dichiarazione, la quale è dunque priva di quei connotati di particolari insidiosità che caratterizzano la fattispecie di reato della dichiarazione fraudolenta.
Tirando le fila si disse che, abrogato l’articolo 7 d.lgs. n. 74 del 2000 ed introdotto il comma 1-bis nell’articolo 4 dello stesso decreto, il fatto tipico non è integrato se, al cospetto di tutti gli altri elementi (dolo specifico di evasione e superamento delle soglie di punibilità), la condotta sia stata realizzata in violazione dei criteri di competenza, inerenza ed indeducibilità, tali da escludere, ormai per presunzione legislativa, ogni capacità decettiva della condotta dell’agente, ritenendosi l’erario in grado, nelle ipotesi indicate nel comma 1-bis dell'articolo 4, di recuperare l’imposta, applicando le sole sanzioni amministrative, cosicché la immutatio veri perde di significato ai fini del disvalore penale del fatto e, quindi, ai fini della lesività della condotta.
e)La sentenza Marcolini
Recentemente la Corte ha scrutinato[50] un altro caso nel quale si rimproverava all’indagato (si era in tema di sequestro preventivo) il reato ex art. 4 d.lgs. 74/2000) per l’indebita fruizione del regime fiscale cd. PEX (partecipation exemption).
L’indagato, nella sua qualità di legale rappresentante della società Fin. Techonology Capital Partners spa, al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto ometteva di annotare nelle dichiarazioni Ires 2014 e Ires 2015 dallo stesso sottoscritte elementi attivi di reddito, tramite indebite variazioni in diminuzioni con riferimento a plusvalenze asseritamente maturate in regime fiscale PEX.
L’accesso a tale beneficio è subordinato dall’art. 87 TUIR alla sussistenza di specifici requisiti oggettivi e soggettivi e, con accertamento di fatto, era risultato che non poteva, nella specie, essere realizzato, per la mancanza della “commercialità” della società partecipata, (requisito previsto dall’art. 87, comma 1, lett. d), del TUIR per l’applicazione della partecipation exemption, regime invocato invece dalla difesa per negare l’esistenza in dichiarazione di elementi attivi di ammontare inferiore a quello effettivo.
Richiamati i principi di cui alle sentenze Mocali e Ferrari, la Corte ha ritenuto la sussistenza del fumus del reato di infedele dichiarazione.
f) Riflessioni conclusive
Sono stati sintetizzati gli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità anteriormente alle modifiche legislative del 2015 sul tema della possibile rilevanza penale delle condotte elusive-abusive.
La dottrina[51] ha segnalato come l’interesse per la questione sia emerso a seguito del riconoscimento, dopo lungo e articolato percorso, da parte della giurisprudenza tributaria[52] di un generale principio di divieto di abuso del diritto, affermato recependo e adattando al diritto interno gli orientamenti della Corte di giustizia UE[53].
Si è visto che, dalla giurisprudenza interna, il principio era stato applicato come derivazione dell’art. 53 Cost., e a prescindere dalla coesistenza della norma antielusiva speciale di cui all’art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973 che disciplinava il procedimento per la contestazione del carattere elusivo di talune operazioni.
Secondo le Sezioni Unite, «non può non ritenersi insito nell’ordinamento, quale diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale». Pur confermando infatti l’esistenza di un principio generale antielusivo, quale espressione del divieto di «abuso del diritto», le Sezioni Unite ne individuarono – in termini parzialmente, ma significativamente innovativi − un diverso fondamento, a seconda che si riferisse a tributi «non armonizzati» o «armonizzati», per i primi individuandolo nella stessa Costituzione e, in particolare, nei «principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano» ossia quello di «capacità contributiva» e quello di «progressività» di cui all’art. 53, comma 1 e 2, Cost.; per i secondi anche nel diritto comunitario[54].
Sennonché il principio del divieto di abuso del diritto, come elaborato in sede tributaria, di diretta derivazione costituzionale, poneva un problema di ‘forzatura’ della riserva di legge ex art. 23 Cost., poiché comportava l’attribuzione di un’efficacia diretta ad una norma, l’art. 53 Cost., priva di efficacia precettiva autonoma, e richiedeva che il legislatore ordinario selezionasse perciò gli indici della capacità contributiva.
Nondimeno proprio il principio di diritto in precedenza richiamato portò la Corte di cassazione ad affermare che «un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali», così risolvendo la questione della riserva di legge ex art. 23 Cost.
Si è pure visto che - quanto ai rapporti tra abuso del diritto, elusione ed evasione fiscale - il dibattito penalistico fu alimentato dalla sentenza Dolce e Gabbana del 2011, con la quale, espressamente, la Corte si fece carico di affrontare la questione chiarendo che «nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive (…), mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva». In altri termini, il discrimine della rilevanza penale di una determinata operazione sarebbe stato dato dalla possibilità di applicare alla fattispecie concreta una specifica norma a carattere antielusivo, tra le quali si collocava principalmente, per espresso richiamo della stessa Cassazione, l’art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973, con la conseguenza che la violazione del principio del divieto di abuso del diritto non avrebbe consentito di affermare la rilevanza penale delle operazioni, perché ciò si sarebbe risolto in una violazione del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost.[55]
In buona sostanza si tratta, mutatis mutandis, di un’anticipazione della strategia disegnata dal legislatore del 2015 con l’introduzione del principio alla luce del quale l’abuso del diritto non è configurabile al cospetto della violazione di una specifica disposizione tributaria.
Al principio espresso dalla sentenza Dolce e Gabbana, prestarono convinta adesione le pronunce successive nelle quali non tardò a manifestarsi la tendenza per l’esercizio di un sindacato pleno iure sulla legittimità penale delle ragioni economiche delle operazioni compiute dal contribuente, sindacato però privo di vincoli di tassatività, essendo priva di tassatività la fattispecie originale antielusiva[56]. In altre pronunce, tuttavia, la Corte, pur non discostandosi formalmente dalla interpretazione precedente, si espresse in termini che confermarono le criticità evidenziate in riferimento al canone di tassatività delle fattispecie penali[57].
Ed è istruttivo considerare che il richiamo ad evitare ogni automatismo nella configurazione di un reato tributario, in relazione a condotte qualificabili come elusive, sia stato ribadito, con forza, dalla sentenza Dolce e Gabbana-bis[58].
Con tale pronuncia, seppure chiarendo come il caso specifico esulasse da una condotta elusiva, la Corte ha teorizzato, con una ricca motivazione e come in precedenza già ricordato, la differenza esistente tra dolo di evasione, richiesto per integrare i delitti fiscali ex d.lgs. n. 74 del 2000, e volontà elusiva di ottenere un vantaggio fiscale indebito, procedendo, in questa materia, ad un’affermazione di straordinaria importanza dommatica e cioè che «le disposizioni antielusive in materia tributaria (…) in quanto norme che concorrono a definire gli elementi normativi della fattispecie ed, in particolare, della condotta materiale, si traducono, sul versante penale, nella generica consapevolezza e volontarietà di tali elementi costitutivi del reato e dunque della condotta[59]».
A questo punto appare d’obbligo sottolineare come al dibattito interno, alimentato dagli arresti della giurisprudenza e dalle attente osservazioni della dottrina, si sia aggiunta la raccomandazione della Commissione europea del 6/12/2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva, che, al § 4, nel prevedere che “per contrastare le pratiche di pianificazione fiscale aggressiva che non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme nazionali specifiche intese a combattere l’elusione fiscale, gli Stati membri dovrebbero adottare una norma generale antiabuso adattata alle situazioni nazionali, alle situazioni transfrontaliere limitate all'Unione e alle situazioni che coinvolgono paesi terzi”, esortava gli Stati Membri ad includere la seguente clausola nella legislazione nazionale: «Una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro “sostanza economica”».
È su queste basi che, con la legge n. 23 del 2014, il Governo è stato delegato ad attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive - coordinandole con i principi contenuti nella surrichiamata “Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012” - al fine precipuo di disciplinare il principio generale di divieto dell’abuso del diritto. Il legislatore delegato, come abbiamo visto, ha completato l’opera, con il decreto legislativo n. 128 del 2015, configurando l’abuso del diritto in presenza di una o più operazioni prive di sostanza economica, compiute nel rispetto formale delle norme fiscali per conseguire la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito, che costituisce l’effetto essenziale dell’operazione.
Non è allora casuale che la dottrina abbia prevalentemente ritenuto che la legislazione interna, in conseguenza degli interventi del 2015 sulla disciplina dell’abuso del diritto, fosse in linea con la clausola anti-abuso prevista dalla direttiva ATAD[60], tanto sul fondamentale rilievo che l’attuale formulazione dell’articolo 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente risulterebbe conforme al testo dell’art. 6 della predetta direttiva[61].
Sulla base di tutto ciò, è possibile affermare che siano stati definitivamente tracciati i confini tra l’elusione e l’evasione fiscale?
Il sindacato del giudice penale, a seguito dell’attuale assetto normativo, può essere esercitato in maniera da selezionare le condotte elusive da quelle evasive sulla base di parametri allineati alla precisa osservanza del principio della legalità penale e dei suoi corollari?
La giurisprudenza di legittimità - che si è sempre misurata con questi interrogativi anche prima delle riforme del 2015 affermando principi che, a più riprese criticati, hanno indubbiamente contribuito a definire l’assetto normativo attuale - ha interpretato, a mio avviso, la riforma sulla base di tre direttrici che la riforma stessa sembra avere tracciato: la prima è ancorata al principio della libertà di scelta del contribuente tra le varie opzioni legittime (scelta tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale), in maniera da poter conseguire un lecito risparmio di imposta, con la conseguenza che una tale condotta è fiscalmente e penalmente irrilevante; la seconda è nel senso che - in presenza di condotte elusive (cioè di abuso del diritto), ossia in presenza di una o più operazioni prive di sostanza economica compiute nel rispetto formale delle norme fiscali con le quali il contribuente consegue un vantaggio fiscale indebito, che costituisce la ratio essendi dell’operazione - l’abuso del diritto tributario deve essere vietato dall’ordinamento anche attraverso la predisposizione di clausole antiabuso, ma non è penalmente rilevante, per la impossibilità di ancorare la condotta a precise e precostituite note di tipicità del fatto, con la conseguenza che l’ordinamento può solo disconoscerne i vantaggi, applicando, a condizione esatte, esclusivamente le sanzioni amministrative tributarie; la terza è nel senso che, in presenza della violazione di specifiche disposizioni tributarie, tra le quali vanno ricomprese anche quelle penali tributarie[62], l’abuso del diritto non è mai configurabile, essendo ravvisabile invece una condotta evasiva penalmente rilevante, se il fatto di reato, tipizzato anche mediante il rinvio a elementi normativi della fattispecie, sia stato integrato in tutti i suoi elementi, e residuando, diversamente, una condotta di evasione fiscale penalmente irrilevante.
Esulano pertanto dal novero delle fattispecie elusive per confluire in quelle di evasione tutte quelle condotte e quelle situazioni realizzate in contrasto con specifiche disposizioni di legge e, perciò, non solo (ovviamente) quelle dirette all’occultamento della ricchezza ma anche quelle dirette alle deduzioni di spese inesistenti, nonché di alterazione dei fatti economici che, in contrasto con specifiche disposizioni tributarie, fondano la loro ratio essendi sulla dissimulazione, sulla stipula di negozi indiretti, sull’interposizione e residenza fittizie, sull’esterovestizione.
E siccome l’abuso del diritto in campo fiscale va tenuto nettamente distinto dalla simulazione e dalla frode, non potrà mai aversi condotta elusiva, ma vera e propria evasione, in presenza di comportamenti che si risolvono in vere e proprie manipolazioni della realtà, costituendo l’abuso, invece, tutt’al più una manipolazione degli strumenti giuridici che vengono effettivamente utilizzati dal contribuente — e non, dunque, simulati — tradendone, però, la funzione per cui sono stati previsti dall’ordinamento[63].
Ma quali sono gli elementi normativi della fattispecie (ossia le specifiche disposizioni tributarie) che, in relazione a una ipotizzabile condotta di abuso del diritto (recte, elusiva), le leggi penali tributarie richiamano, se violate, per la configurazione, a condizioni esatte, di un reato fiscale?
Per quanto si è appena accennato, esse non possono che essere le disposizioni richiamate dal terzo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015 ossia “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario” e che ora sono elencate nell’art. 11, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente[64] che disciplina il cosiddetto “interpello disapplicativo” ossia la possibilità di disapplicare le norme antielusive (che limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse) qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non si verificano.
A tale approdo la giurisprudenza di legittimità è pervenuta assegnando, attraverso l’interpretazione del comma 12 dell’art. 10-bis, natura residuale all’abuso del diritto/elusione fiscale, configurabile solo nei casi in cui non siano violate specifiche disposizioni tributarie[65].
A mio avviso, nel compiere tale operazione ermeneutica, non si svaluta la portata del tredicesimo comma del richiamato art. 10-bis che, da un lato, si pone come norma di interpretazione autentica, laddove afferma che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”, non potendo perciò i comportamenti abusivi/elusivi integrare fatti penalmente rilevanti e, dall’altro, si pone come elemento negativo dei fatti di reato previsti dalle leggi penali tributarie, ossia come causa di esclusione della tipicità del fatto[66].
*Schema della relazione tenuta all’ Incontro di studio – formazione organizzato da remoto dalla SSM - P21045 14 – 16 giugno 2021: i reati tributari tra giurisprudenza interna e sovranazionale: frodi, omissioni ed elusioni.
[1] Sez. 3, n. 26723 del 18/03/2011, Ledda, Rv. 250958 - 01.
[2] Il quale recitava che “Sono inopponibili all'amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.
[3] Questa pronuncia non fu favorevolmente accolta dalla dottrina la quale osservò come il principio affermato dalla Corte di cassazione - secondo il quale, ai fini della configurazione del delitto di dichiarazione infedele, è indifferente che la condotta del contribuente sia stata di franca evasione o di elusione - non fosse convincente, sul rilievo che l’elusione fiscale e l’abuso, non consistendo in violazioni di norme specifiche, possono portare soltanto al disconoscimento in sede tributaria delle operazioni sottostanti, e non invece all’applicazione di sanzioni (penali e non) a carico del contribuente. Cfr. A. Marcheselli: Numerosi e concreti ostacoli si contrappongono alla punibilità di elusione fiscale e abuso del diritto, in Rivista di giurisprudenza tributaria, anno 2011, fasc. 10, pag. 852 ss. Vedi, pure, P. Corso: Abuso del diritto in materia penale verso il tramonto del principio di legalità? Corriere tributario, anno 2011, fasc. 36, pag. 2937 ss.
[4] Gli imputati, tra i quali due celebri stilisti, avevano costituito una società lussemburghese alla quale avevano venduto la titolarità dei marchi dell'azienda di moda di loro proprietà; un'altra società lussemburghese, a sua volta di proprietà di società italiane controllate dai due stilisti e dagli altri imputati, membri della famiglia di uno dei due, controllava interamente la società acquirente dei marchi e da questa aveva ottenuto la licenza di sfruttamento in via esclusiva dei marchi stessi contro il pagamento di royalties. In questo modo le royalties, vero cuore della ricchezza del gruppo, non erano più percepite dagli stilisti personalmente, ma dalla società lussemburghese che, secondo il diritto fiscale di quel paese, aveva stipulato un accordo di negoziazione grazie al quale l'imposta sui redditi era stabilita nella percentuale fissa del 4%, evidentemente assai più favorevole di quella applicata ai redditi percepiti in Italia, dove la tassazione era peraltro avvenuta in relazione ai proventi della vendita del marchio regolarmente dichiarati. La complessa operazione aveva avuto l'effetto di modificare l'assetto del controllo delle società proprietarie dei marchi; nella prospettazione accusatoria, tuttavia, essa sarebbe stata realizzata per sfruttare la fiscalità più favorevole del Lussemburgo attraverso la costituzione di società con sedi estere sono fittizie, perché ancora gestite integralmente dalla società italiana, così che la cessione dei marchi sarebbe stata non effettiva ma solo simulata. Gli imputati, in forza di tale ricostruzione, furono chiamati a rispondere dei reati di truffa ai danni dello Stato e di infedele dichiarazione dei redditi, fondandosi le imputazioni sulla mancata dichiarazione in Italia dei redditi derivanti dallo sfruttamento commerciale dei marchi, redditi dichiarati invece dalla società lussemburghese costituita, in tesi d’accusa, solo formalmente ma priva di autonomia.
[5] Sez. 2, n. 7739 del 22/11/2011, dep, 2012, Dolce e Gabbana, Rv. 252019 - 01.
[6] V. massima RV. 605850. Ovviamente, i suddetti principi, validi per il governo dell’ordinamento tributario, non sono esportabili tout court nella materia penale dominata dal principio di legalità, che richiede di ancorare la responsabilità personale alla violazione di precetti determinati, tassativi e precisi.
[7] Cass. Civ., Sez. 5, n. 1372 del 21/01/2011, Rv. 616371.
[8] La sentenza Dolce e Gabbana ha anche ricordato che, in generale, l’abuso del diritto trova un espresso riconoscimento nell'art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, che in seguito all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2 dicembre 2009) ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati. L'art. 54 citato riproduce il contenuto dell'art. 17 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo.
[9] Così, Corte di Giustizia UE 10 novembre 2011, causa C- 126/10, Foggia; nonché: 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros; 21 febbraio 2006, causa C-255/02 Halifax; 5 luglio 2007, causa C-321/05, Kofoed; 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part Service.
[10] Sez. 5, n. 23730 del 18/05/2006, Romanazzi, non massimata sul punto.
[11] sentenza 9/03/1999, C-212/97, Centros.
[12] Sez. 3, n. 14486 del 26/11/2008, dep. 2009, Rusca, Rv. 244071.
[13] Meccanismo previsto dall’ art. 11 L. 27 luglio 2000, n. 212 e succ. mod.
[14] Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano.
[15] Corte cost., sentenza n. 49 del 2002.
[16] Corte cost., n. 49 del 2002, cit.
[17] Va segnalata in proposito la sentenza n. 33187 del 2013 la quale ha evidenziato che i comportamenti elusivi possono avere rilevanza penale, ma devono contrastare con specifiche disposizioni per salvaguardare il principio di legalità. Per non violare i principi di determinatezza e tassatività è necessario cioè che l'interpretazione sia tassativa e letterale, e, in tale contesto, specifiche norme antielusive sono rinvenibili nell'articolo 37, comma 3 (interposizione fittizia) e nell'articolo 37-bis del D.P.R. n. 600/73. Ne deriva che la condotta, per assumere rilevanza penale, deve integrare uno dei comportamenti antielusivi previsti dalle predette disposizioni tributarie, con la conseguenza che i reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione possono essere integrati anche da comportamenti elusivi posti in essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi dall'utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l'operazione, a condizione che sia individuata la norma anti elusiva, specificamente prevista dalla legge, violata (Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, Rv. 256430 - 01).
Inoltre, la Sezione terza della Cassazione Penale, con la sentenza n.15186 del 2014, ha negato la rilevanza penale in sé dell’abuso del diritto in materia tributaria per l’esigenza, inderogabile, di una norma incriminatrice (Sez. 3, n. 15186 del 20/032014, Traverso, non mass.).
[18] In particolare, era stato stipulato un contratto (poi rinnovato negli anni successivi) tra l’attore Raoul Bova e la società “Sanmarco srl” (le cui quote erano ripartite per il 20% a Raoul Bova e per l'80% a Bova Tiziana, sorella del primo; l'altra sorella Bova Daniela era l'amministratore unico, mentre Giordano Chiara Maria Rachele, moglie dell'indagato, ne era la procuratrice), in forza del quale il Bova cedeva alla società i diritti di utilizzazione economica della propria immagine dietro compenso annuale di un minimo garantito di Euro 100.000; il Bova inoltre era tenuto a versare alla società una percentuale dei compensi da lui fatturati nella misura del 40%.
[19] Sez. 3, n. 19100 del 06/03/2013, Bova, Rv. 254992 - 01
[20] Con la sentenza n. del 2011 la Corte di cassazione annullò la sentenza di non luogo a procedere del Gup, cui seguirono i due gradi di giudizio definiti, in massima parte, con la sentenza Dolce e Gabbana-bis.
[21] Sez. 3, n. 43809 del 2015, Gabbana, Rv. 265120 - 01
[22] Si ricorda che il Governo era stato delegato ad attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione dei principi e criteri direttivi, fissati nella legge di delegazione e coordinandoli con quelli contenuti raccomandazione della Commissione europea n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012 “sulla pianificazione fiscale aggressiva”.
[23] E. Manzon, in La disciplina penale in materia d’imposte dirette e I.V.A., Torino, 4, cui si rinvia per un’ampia panoramica in tema di elusione fiscale ed abuso del diritto nell’evoluzione normativa, dottrinale e giurisprudenziale.
[24] Vantaggi fiscali da considerare perciò illeciti. Non è un caso che, nel comma 12, non si parla più di vantaggi fiscali indebiti: proprio perché si è fuori dall'ambito di operatività dell'abuso del diritto ovvero dell’elusione fiscale.
[25] M. Bosi, La rilevanza penale dell'abuso del diritto, in Diritto Penale Contemporaneo, 2016, 2, 61.
[26] Il quale però presuppone che non siano state violate specifiche disposizioni tributarie.
[27] Posto che le operazioni con le quali essi sono stati conseguiti non sono opponibili all’amministrazione finanziaria.
[28] Logica conseguenza del nuovo assetto è l’abrogazione dell’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, con la precisazione che le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono riferite all'articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, in quanto compatibili (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 128 del 2015).
[29] Nella teoria generale del reato è fondamentale la funzione che, nell’ambito della struttura del fatto tipico e, quindi, della puntuale descrizione del precetto penale, così da rispettare il principio di tassatività, è assicurata dall’elemento normativo della fattispecie.
Per quanto qui interessa, non essendo possibile, in questa sede, procedere ad un maggiore approfondimento della questione, si parte dal presupposto che il legislatore, nel descrivere con precisione il fatto tipico in maniera che il comportamento attivo od omissivo penalmente rilevante sia estremamente chiaro per i destinatari della norma penale, ricorre all’uso di termini giuridici (quali dati normativi o, per la norma penale che deve essere posta mediante la formulazione del precetto, ricorre a pre-dati normativi della realtà).
In questi casi, la formulazione legislativa del precetto utilizza un linguaggio normativo attraverso il quale la fonte di produzione ricorre ad una tecnica di redazione della fattispecie (norma) penale che, in modo preciso ma al tempo stesso conciso, tipicizza il fatto di reato attraverso il riferimento a “fonti” esterne, le quali hanno già una loro consistenza e definizione, anche suscettibili, a determinate condizioni, di variazioni nel tempo, con la conseguenza che il legislatore, per mantenere sintetiche le norme penali, altrimenti occorrendo una definizione per ogni espressione linguistica che compone il precetto, le richiama.
[30] Si ricorda che nello schema di decreto approvato il 24 dicembre 2014 era richiamata, in particolare, la violazione delle disposizioni sanzionabili ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000. Nel surrichiamato schema il dodicesimo comma era così formulato: “In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di altre disposizioni e, in particolare, di quelle sanzionabili ai sensi del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, e successive modificazioni”. Il fatto che, nella versione definitiva, sia residuato solo il riferimento alla violazione di altre disposizioni (tributarie), definite specifiche nella versione finale, e sia stato espunto invece il riferimento a “quelle sanzionabili ai sensi del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, e successive modificazioni”, non autorizza a ritenere che queste ultime abbiano perso di rilevanza, dovendosi piuttosto ritenere implicita, oltre che ovvia, la loro integrazione quando - al cospetto della violazione di specifiche disposizioni tributarie ed escluso, quindi, che si possa configurare un abuso del diritto - vengano realizzati tutti gli altri elementi che le norme penali ex d.lgs. n. 74 del 2000 richiedono per il perfezionamento di un reato tributario.
[31] Il comma 12 dell’articolo 10-bis stabilisce infatti l’applicazione residuale della disciplina dell’abuso del diritto perché in tanto l’istituto può essere invocato se ed in quanto non siano state violate, nel compimento della relativa operazione, specifiche disposizioni tributarie.
[32] In questo senso, letteralmente, si esprime la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo n. 128 del 2015.
[33] Così F. TESAURO, Compendio di diritto tributario, Utet, Torino, 2012, p. 133.
[34] M. Bosi, op. ult. cit.,
[35] Si segnalano, tra le altre, le seguenti pronunce: Sez. 3, n. 41756 del 20/03/2015, dep. 2016, Ciancio; Sez. 3, n. 8047 del 50/09/2017, dep. 2018, Rossi; Sez. 4, n. 10416 del 20/01/2018, Monti; Sez. 3, n. 9578 del 01/12/2017, dep. 2018, Frigerio; Sez. 3, n. 13107 del 30/10/2017, dep. 2018, Accardi; Sez. 3, n. 39678 del 24/04/2018, Nicastri (nella quale è stata esclusa la disciplina dell’abuso del diritto, in un caso ritenuto di esterovestizione, per violazione di specifiche disposizioni tributarie in ordine al domicilio fiscale delle società). Da segnalare anche Sez. 3, n. 35575 del 05/04/2016, Cimmino, Rv. 267678 - 01 secondo la quale l’istituto dell’abuso di diritto di cui all’art. 10-bis, legge 27 luglio 2000, n.212, che si applica anche ai diritti doganali, non è configurabile in presenza di condotte che integrino una diretta violazione delle norme in materia, con la conseguenza che queste ultime vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione, mentre, riguardo ai fatti elusivi riconducibili alla categoria dell'abuso, la suddetta disciplina realizza una sostanziale “abolitio criminis”, ed opera, pertanto, retroattivamente senza condizioni.
[36] Salvo le eccezioni che l’art. 1, comma 4, d.lgs. n. 128 del 2015 prevede per i diritti doganali.
[37] Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015, Mocali, Rv. 264949 - 01. In dottrina, v. S. Treglia, Il «nuovo» abuso del diritto o elusione fiscale ex art. 10 bis, l. 212 del 2000, c.d. statuto del contribuente, in Riv. trim. dir. pen. econ. 3/2015, 657 ss.;
[38] Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015, Mocali, Rv. 264950 - 01. Nel medesimo senso la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, pag. 10.
[39] Sez. 3, n. 48293del 20/04/2016, Anghileri,
[40] Sez. 3, n. 38016 del 21/04/2017, Ferrari, dalla quale sono stati estratti i seguenti principi di diritto: 1) In tema di violazioni finanziarie, ricorre il reato di dichiarazione infedele in presenza di comportamenti simulatori - nella specie negozi collegati tra loro apparentemente finalizzati a cessione di partecipazione societaria - preordinati alla “immutatio veri” del contenuto della dichiarazione ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 ed integranti una falsità ideologica che connota il fatto evasivo incidendo sulla veridicità della dichiarazione per occultare in tutto o in parte la base imponibile, sicché non si applica la disciplina dell’abuso del diritto ex art. 10-bis della l. n. 212 del 2000 che ha portata solo residuale (Rv. 270551 - 01); 2) In tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis l. n. 212 del 2000 - che, per effetto della modifica introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. n. 128 del 2015, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili - ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Rv. 270550 - 01).
[41] La lettera d) dell'articolo 87 Tuir richiede da parte della società partecipata l’esercizio di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’articolo 55. Senza possibilità di prova contraria si presume poi che questo requisito non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa.
er la mancanza del requisito ex art. 87, lettera d), Tuir, v. pag. 11 della sentenza n. 38016 del 2017.
[42] A ulteriore conferma della mancanza del requisito della commercialità, essendo la Agricola Ferrari un mero contenitore, non essendo detta società attiva quando fu costituita a seguito della scissione e neppure lo sarebbe stata dopo la cessione delle quote, v. pag. 12 della sentenza n. 38016 del 2017.
[43] Essendo indiscutibile, come risulta dal testo della sentenza n. 38016 del 2017, che le operazioni economiche fossero state effettivamente concluse, sebbene la plusvalenza che ne derivò fosse dichiarata esente al 95% in violazione di una specifica disposizione tributaria (ossia l’art. 87, lettera d), Tuir), la simulazione, di cui è cenno nella sentenza n. 38016 del 2017, non si identifica nella simulazione assoluta che avrebbe radicato, esatte tutte le altre condizioni, un’ipotesi di frode e alla quale si riferisce l’art. 1 lettera g-bis d.lgs. n. 74 del 2000 ma piuttosto si riferisce a una ipotesi di simulazione relativa o, al più, ad un’ipotesi di negozio indiretto. Infatti, delle due l'una: o le parti fecero ricorso alla simulazione relativa o eseguirono un procedimento indiretto per consentire che la Luigi Ferrari s.r.l., attraverso la costituzione dell’Agricola Ferrari, si spogliasse degli immobili per trasferirli al promittente acquirente. Per la distinzione tra simulazione relativa e negozio indiretto, v. Cass. Civ., Sez. 3, n. 8098 del 06/04/2006, Rv. 588734 - 01.
In ogni caso, giova ribadire che il tutto fu realizzato in violazione di una specifica disposizione tributaria (ossia l’art. 87, lettera d), Tuir).
[44] Critici nei confronti dell’epilogo cui è giunta la sentenza ma senza considerare, come sembra, che l’operazione fosse stata realizzata in violazione di una specifica disposizione tributaria (ossia l’art. 87 lettera d) Tuir), v., in dottrina, P. Aldrovandi, nota a commento della sentenza n. 38016 del 2017, in Rivista trimestrale di diritto penale e dell'economia, 2017 fasc. 3-4, pag. 725; P. Aldrovandi, Elusione fiscale e diritto penale nella giurisprudenza: eterogenesi dei fini del legislatore nel “diritto vivente” e la crisi del principio di legalità nel diritto penale postmoderno, in Indice penale, 2018, 173 ss. A. Viglione, L'applicazione residuale dell’abuso del diritto e l’involuzione della Cassazione in materia di elusione fiscale e reati tributari, in Cass. Pen, 2011, fasc. 12, pag. 4483. Si veda pure, A. Bell - G. Falsitta - A. Valsecchi: La linea di confine fra elusione fiscale e reati tributari, in DPU https://dirittopenaleuomo.org, 2019, 22 ss. che, pur evidenziando la violazione, nel caso di specie, della disposizione di cui all'articolo 87 lettera d) Tuir, osservano, in una prospettiva del tutto singolare che riguarderebbe la cd. PEX (partecipation exemption) nel suo complesso, come il caso di specie si segnali all’attenzione dell’interprete con riguardo al tema della qualificazione giuridica in campo penal-tributario di una illecita variazione in diminuzione, quale quella che sarebbe stata attuata dall'imputato (p. 25). Sennonché, accertata la violazione della specifica disposizione tributaria e perciò escluso l’abuso del diritto, la condotta del contribuente, rendendo non esente la plusvalenza, si risolve, inevitabilmente e soprattutto, nella indicazione, nella dichiarazione dei redditi, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, indipendentemente da ogni altra indicazione o dichiarazione, anche palese, da parte del contribuente stesso, quando essa si rilevi necessaria per il conseguimento del risultato dell'evasione fiscale, come nel caso di specie avevano accertato i giudici di merito.
[45] Anche (ma non solo) attraverso un’operazione definita dalla dottrina “sartoriale”.
[46] Sez. 3, n. 26723 del 18/03/2011, Ledda, Rv. 250958.
[47] L’infedeltà dichiarativa si risolve inevitabilmente nell’indicazione di fatti che, pur senza accenti di fraudolenza, si discostano dalla realtà, in quanto si attesta, nella dichiarazione, una situazione reddituale diversa da quella effettiva, al fine di alterare la base imponibile.
[48] Sez. 3, n. 28226 del 09/02/2016, Disparra, Rv. 267409.
[49] Sul reato di infedele dichiarazione e, in particolare, sui rapporti tra condotte elusive e reato di infedele dichiarazione, v. G. Andreazza, in La disciplina penale in materia d’imposte dirette e I.V.A., Torino, 156 ss.
[50] Sez. 3, n. 2001 del 7/04/2021, Marcolini.
[51] T. Giacometti: Elusione fiscale (diritto penale), Treccani, voce on line.
[52] Cass., Sez. U, 23/12/2008, numeri 30055, 30056, 30057.
[53] In particolare, a cominciare da C. Giust., 21/02/2006, C-255/02, Halifax.
[54] E. Manzon, op.cit. Sul fatto che la legge n. 23 del 2014, nel fissare i principi di delega, si sia preoccupata di sostituire, senza però contraddirlo, l’art. 37-bis commi 1 e 2 d.P.R. n. 600 del 1973 e, nel contempo, abbia tenuto ferma la trama di fondo delineata dalla giurisprudenza della Suprema Corte e fondata sulla “costituzionalizzazione” del principio antiabuso, v. F. Gallo, abuso del diritto (diritto tributario), in Annali X, in Enciclopedia del diritto, 2017, 12 della voce. Sempre F. Gallo, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione, in Rass. tribut., 2016, n. 4, 849, esamina gli effetti prodotti dell’intervenuta “costituzionalizzazione” del divieto di abuso del diritto a seguito delle richiamante sentenze gemelle delle Sezioni unite della Cassazione (n. 30055, 30056 e 30057 del 2008). Gallo sostiene che, attraverso la nuova disciplina legislativa, si sia inteso, da un lato, perseguire l’obiettivo di agevolare l’interprete (e, perciò, il giudice) nel delimitare i confini della clausola antiabuso e, dall’altro lato, di mantenere fermo l’effetto di spostare il criterio di valutazione dalla prescrittività legale della nuova disciplina al valore degli interessi, richiamando al riguardo uno scritto di Natalino Irti (La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 41). secondo il quale «tale effetto consiste nello spostamento dei criteri di decisione al di sopra della legge ordinaria, con la conseguente risalita dal diritto ai valori, cioè a criteri che si celano e si calano nella norma medesima». Pertanto, con specifico riferimento all’abuso del diritto in materia tributaria, «il valore del principio costituzionale sarebbe espresso dal divieto di alterare la regola costituzionale dell’equo riparto dei carichi pubblici attraverso un comportamento negoziale anomalo e fraudolento: la norma della legge ordinaria è quella del citato art. 10-bis». Continua Gallo: «il fatto positivo di questa ricostruzione è che, con l’art. 10-bis, il principio antiabuso, pur mantenendo la sua fonte costituzionale nell’art. 53 Cost., viene a riposare non più — come poteva avvenire prima dell’entrata in vigore della legge delega 11 marzo 2014, n. 23 — solo sull’incontrollabile soggettivismo della decisione, ma sulla oggettività di norme (seppur non sempre) facilmente calcolabili, da valutare ai sensi dell’art. 53 medesimo».
[55] Sottolinea T. Giacometti, op. cit., che proprio sul tema della sostanziale violazione del principio di legalità, nello specifico del principio di tassatività delle norme penali, si concentrarono le maggiori critiche nei riguardi dell’orientamento espresso nella sentenza Dolce e Gabbana. Infatti, secondo le osservazioni critiche formulate, il presupposto di applicazione delle norme antielusive, come l’art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973, non si discosterebbe dal presupposto che sarebbe a sostegno di un generale divieto di abuso del diritto, fondati entrambi sulla mancanza di ragioni economiche alla base dell’operazione, all’infuori del conseguimento di un vantaggio fiscale altrimenti indebito. La contestazione della disposizione antielusiva avrebbe come fondamento la comparazione tra le ratio economiche dell’operazione ‘elusiva’, da una parte, e dei principi e delle fattispecie ‘elusi’, dall’altra, consentendo di disconoscere i vantaggi fiscali della prima, per applicare invece le conseguenze tributarie più onerose derivanti dalla seconda. Tale modello di giudizio, fondato sulla valutazione e comparazione dei ‘principi’ alla base delle disposizioni tributarie e delle ratio economiche delle fattispecie concrete poste in essere, sarebbe in sostanza di tipo analogico e creativo, dunque non difforme da quello che richiama il generale divieto di abuso del diritto, e come tale non utilizzabile per fondare una responsabilità penale. In dottrina, cfr. A. Alessandri, L’elusione fiscale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1075; F. Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in Maisto, G., a cura di, Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 431; A. Perini, Reati tributari, in Dig. pen., Aggiornamento, VII, 2013, 506; T. Giacometti, La problematica distinzione fra evasione, elusione fiscale e abuso del diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 451.
[56] V. Cass. pen. n. 19100 del 2013, cit.
[57] In questo senso, Sez. 5, n. 36859 del 16/01/2013, cd. sentenza Mytos, dove si legge: «è evidente che non esiste una norma da cui ricavare una equiparazione dell’elusione all’evasione (…) Il principio di legalità implica, del resto, che il giudice penale non possa limitarsi a prendere atto dell’esistenza di una specifica disposizione antielusiva, ma debba piuttosto ricavare dall’ordinamento previsioni sanzionatorie che vadano oltre il mero divieto per il contribuente di perseguire vantaggi fiscali indebiti: ciò perché all’abuso del diritto la disposizione antielusiva consente di contrapporre il disconoscimento delle conseguenze dei negozi adottati (la ricordata inopponibilità degli stessi all’Amministrazione finanziaria), non già sanzioni diverse ed ulteriori …». La giurisprudenza di legittimità, a questo proposito, ha anche affermato che «l’elusione nel settore penale confligge con i principi di legalità e di tipicità (… ) Rileva ai fini penali, pertanto, una condotta elusiva di imposizione fiscale esclusivamente se si aggancia ad una norma specifica, che non può essere, per così dire, di gestione ermeneutica, ovvero una norma “in bianco” da colmare interpretativamente secondo le fattispecie concrete (…), bensì una norma che precisamente individui, senza alcuno spazio identificativo rimesso all’interprete, la condotta criminosa che, sul piano amministrativo tributario, coincide anche con una condotta elusiva…» (così, Sez. 3, n. 15186 del 20/03/2014, Traverso, non mass.).
[58] Osservazione evidenziata anche dalla dottrina, cfr. T. Giacometti, Elusione fiscale (dir. pen.), op. cit.
[59] Sez. 3, n. 43809 del 24/10/2014, cit.
Quanto poi alla fondamentale importanza dell’elemento soggettivo tanto nell’accertamento dell’abuso del diritto quanto nella individuazione delle specificità del coefficiente psicologico richiesto per attribuire rilevanza penale alle condotte finalizzate al risparmio di imposta, cfr. C. Santoriello, Abuso del diritto e conseguenze penali, Torino, 2017, 384 ss.
[60] La Direttiva 2016/1164/UE (c.d. Direttiva ATAD – Anti Tax Avoidance Directive) disciplina le pratiche di elusione fiscale incidenti direttamente sul funzionamento del mercato interno. La direttiva ATAD è stata approvata il 12/07/2016 dal Consiglio dell’Unione europea, a seguito della proposta presentata dalla Commissione europea nell’ambito del c.d. “pacchetto antielusione” [COM (2016) 26]. Tale direttiva è stata successivamente modificata dalla direttiva 2017/952/UE (c.d. Direttiva ATAD 2) del 29/05/2017 avente ad oggetto le norme relative ai disallineamenti da ibridi. Per una panoramica sulla direttiva de qua, v. P. Boria: La clausola antiabuso prevista dalla direttiva ATAD: l’esperienza italiana, in https://ste.unibo.it/article/view/10598/11375.
[61] L’art. 6 della Direttiva fa obbligo a ciascun Stato membro di adottare una clausola generale antiabuso nell’ottica dell’armonizzazione degli ordinamenti nazionali in relazione al contrasto dei fenomeni elusivi a carattere transazionale in materia di imposte sul reddito delle società, secondo un modello da assumere come minimum standard all’interno dell’Unione europea. Secondo talune prime interpretazioni, ci sarebbe la volontà politica, da parte del legislatore dell’Unione, di reintrodurre in qualche modo, in un futuro non molto lontano, la rilevanza penalistica dell’“abuso del diritto”, muovendosi dall’angolo visuale della necessità di mantenere esistente in qualche modo e forma il rischio penale per i comportamenti riconducibili a tale istituto.
Critico sul punto, I. Caraccioli, abuso del diritto (diritto tributario penale), in Annali X, in Enciclopedia del diritto, 2017, 15 della voce, secondo il quale siffatta interpretazione apparirebbe forzata in quanto il testo della disposizione della direttiva insiste soltanto sulla necessità di mantenere salda la “genuinità” delle operazioni economico-finanziarie di cui si tratta: “il contribuente non deve forzare gli istituti giuridici fiscalmente rilevanti per ottenere scopi non riconducibili al significato ed all’essenza dei negozi che si vogliono effettivamente porre in essere, dando luogo alla creazione di istituti “ibridi”, complicati, artificiosi, indiretti con i quali non si intende perseguire alcuna finalità economica, ma solo un aggiramento, più o meno complesso, degli obblighi tributari”.
[62] Anche I. Caraccioli, abuso del diritto (diritto tributario penale), in Annali X, Enciclopedia del diritto, Milano, 2017, 4 della voce, ritiene che - a seguito dell’introduzione della lettera g-bis nell’articolo 1del decreto legislativo n. 74 del 2000 e in forza del nuovo comma 12 dell’articolo 10-bis - il fenomeno dell’abuso del diritto non si può più verificare tutte le volte in cui esistono estremi di reati tributari. E quindi il problema diventa quello di valutare se i nuovi richiamati reati previsti dagli articoli 3 e 4
del decreto legislativo n. 74 del 2000 (come modificato dal decreto legislativo n. 158 del 2015) possono nascere in relazione alle varie condotte qualificabili come antieconomiche.
La tesi che esclude la possibilità di invocare il concetto di abuso allorché la fattispecie concreta sia riportabile alla sede operativa di un diritto tributario è contrastata da P. Aldrovandi, Elusione fiscale e diritto penale nella giurisprudenza: eterogenesi dei fini del legislatore nel “diritto vivente” e la crisi del principio di legalità nel diritto penale postmoderno, in Indice penale, 2018, 171 ss.
[63] F. Gallo, op. ult. cit., 22 della voce.
[64] Le norme con le quali il d.lgs. n. 128 del 2015 ha novellato la legge n. 212 del 2000 (Statuto dei diritti del contribuente) hanno un particolare valore normativo, essendo inserite nello statuto dei diritti del contribuente, e cioè in un complesso di norme che, pur avendo natura di legge ordinaria, sono considerate, sia dal giudice delle leggi che da quello di legittimità, dotate di superiorità assiologica e di una particolare forza pregnante. Esse vanno, comunque, lette in stretto coordinamento tra di loro e interpretate in armonia con le altre contenute nel medesimo art. 10-bis: cfr. C. cost., 6 luglio 2004, n. 216, secondo cui le disposizioni della legge 27 luglio 2000, n. 212, in ragione della loro qualificazione in termini di principi generali dell’ordinamento, non rappresentano norme interposte, ma criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche antecedente, nonché, ex multis, Cass. civ., sez. un., 29 luglio 2013, n. 18184.
[65] Proprio nel carattere residuale dell’assunta nozione di abuso, F. Gallo, op. ult. cit., 21-22 della voce, coglie il tratto positivo delle nuove norme. Interpretando il comma 12 dell’art. 10-bis, l’istituto dell’abuso del diritto va, secondo Gallo, definito per esclusione nel senso che inizia dove, integrandosi le ipotesi di cui all’art. 10-bis, finisce il legittimo risparmio d’imposta e termina dove sono prospettabili specifiche fattispecie di evasione.
[66] F. Donelli, Irrilevanza penale dell'abuso del diritto tributario: entra in vigore l’art. 10-bis dello statuto del contribuente, in DPC, 2015.
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia Insieme. 4) Ida Angela Nicotra
Intervista di Roberto Conti a Ida Angela Nicotra
Le domande
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato- sentenza n.242/2019 e ord. n.207/2018-. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art.579 c.p. e non sull’art.580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpito dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione ?
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art.580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n.242/2019?
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
Le risposte di Ida Angela Nicotra
Una premessa necessaria
Il referendum proposto dai radicali chiede l’abrogazione dell’art. 579 del Codice penale, che prevede l’omicidio del consenziente. Il testo del quesito, pubblicato in G.U., Serie generale, 21 aprile 2021, n95 recita: Volete voi che sia abrogato l’art. 579del Codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1, limitatamente alle seguenti parola “la reclusione da sei a quindici anni”, comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “si applicano”?.
L’iniziativa referendaria si concentra su una fattispecie criminosa differente e più grave di quella contenuta nell’art. 580 dell’aiuto al suicidio. Tale ultima ipotesi di reato - com’è noto - è stata dichiarata dalla Corte costituzionale, in presenza di determinate e concomitanti condizioni, in contrasto con la Costituzione. In particolare, le condizioni di non punibilità, individuate con la sentenza n. 242 del 2019, per le condotte di aiuto al suicidio sussistono se il paziente “sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili”, sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale ed esprima un valido consenso rispetto al proposito di suicido. Sempre che tali condizioni e modalità di esecuzione – aggiunge la Corte - siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico competente. In tal modo, la decisione ha aperto un varco al riconoscimento della volontà coscientemente manifestata da quei soggetti, gravemente malati e sofferenti, che non intendono avvalersi di strumenti di sostegno esterno per essere mantenuti in vita.
In una prospettiva personalistica, lo spazio riservato al principio di autodeterminazione individuale deve rispondere ad effettività anche nelle fasi finali dell’esistenza con riferimento a persone che versino in una situazione di eccezionale malattia.
Anche la decisione meno recente della Corte di Cassazione sul caso di Eluana Englaro e successivamente la legge n. 219 del 2017 (recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) vanno nella direzione di valorizzare il consenso informato e il diritto del paziente di rifiutare le cure e l’accanimento terapeutico.
Invero, in un primo tempo, con l’ordinanza n.207 del 2018 la Corte nel rispetto dei ruoli e del principio di leale collaborazione aveva posticipato la decisione sul c.d. caso dj Fabo - Cappato, in modo da consentire alle Camere di approvare una disciplina organica in materia del fine vita. Proprio dal silenzio del Parlamento protratto per quasi un anno scaturisce la decisione di incostituzionalità parziale del reato di aiuto al suicidio.
Il ricorso al referendum sul delicatissimo tema dell’eutanasia attiva si interseca con il forte ritardo della decisione legislativa in merito a questioni avvertite come fondamentali da parte della pubblica opinione. L’apatia delle Camere, incapaci di colmare il vuoto di disciplina in ordine a determinati rapporti, risulta più evidente proprio su temi ritenuti delicati e particolarmente divisivi.
Non è inutile ricordare che l’istituto referendario ha rappresentato fin dall’origine, il meccanismo più idoneo di integrazione – correzione della democrazia rappresentativa. La consultazione popolare risponde, infatti, all’esigenza di garantire una partecipazione diretta dell’elettorato alle decisioni collettive, valorizzando la scelta immediata dei cittadini.
Il ricorso all’istituto referendario è tanto più frequente quanto le istituzioni politiche si ritraggono dal loro compito di fornire risposte alle aspettative e ai bisogni della collettività, come, sovente, avviene sul versante dei diritti civili.
Con l’aiuto della tecnologia sono state già raccolte più di 900mila firme per il referendum proposto dall’associazione “Luca Coscioni”. L’introduzione dello SPID apre orizzonti inediti per la democrazia. Il sistema digitale più snello e rapido elimina le barriere fisiche per la partecipazione popolare, rendendone l’accesso molto più facile e ampio. Il DL semplificazioni ha previsto la firma digitale per avanzare la richiesta di referendum. Con la firma da “remoto” non servono carta, penne per organizzare una campagna la cui pianificazione sarebbe stata oltremodo difficile in tempi di Covid.
L’effetto digitalizzazione sulla fase referendaria ha reso agevole il raggiungimento del quorum di 500 mila adesioni richiesto dalla Costituzione, addirittura consentendo di superare la soglia già nei primi giorni di presentazione del quesito. L’uso dello strumento informatico comporta un allargamento dello spazio di democrazia diretta, probabilmente molto al di là delle stesse intenzioni dei Costituenti. Per evitare di svalutare il ricorso a tale istituto vi sono diverse iniziative legislative che propongono di “filtrare” il quesito, con l’anticipazione del giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale già subito dopo la raccolta delle prime 100mila firme, di aumentare il numero di firme necessarie per promuovere la richiesta di referendum a 800 mila dalle attuali 500 mila e inoltre abbassare il quorum deliberativo, portandolo dalla metà più uno degli aventi diritto alla metà più uno dei votanti alle precedenti elezioni politiche, affinché si possa raggiungere più facilmente il quorum.
1. Uno dei profili di interesse intorno alla proposta referendaria sull’eutanasia riguarda la circostanza che il referendum verte su una specifica norma del Codice penale, differente da quella su cui la Corte è stata chiamata a decidere. In quanto l’omicidio del consenziente non coincide con il reato di aiuto al suicidio e si caratterizza per un maggiore disvalore sociale. Tale fattispecie criminosa prescinde dalle condizioni di salute, basandosi esclusivamente sull’espressione del consenso della vittima.
2. In realtà il quesito che riguarda la fattispecie dell’uccisione del consenziente potrebbe comportare l’esclusione dell’antigiuridicità dell’omicidio per effetto del consenso della persona che chiede di interrompere la propria vita. Si tratta di una norma incriminatoria distinta da quella oggetto del giudizio costituzionale che ha portato alla parziale illegittimità dell’art.580 c.p, in quella occasione la Corte ebbe modo di puntualizzare i criteri idonei a parametrare l’accertamento dei requisiti di liceità del suicidio assistito.
Anzi la C]orte si sofferma sulle previsioni costituzionali, segnatamente sugli artt. 2 e 13, dalle quali non può farsi derivare il diritto di rinunciare a vivere e dunque un vero e proprio diritto a morire. Sicché, a fortiori, non è possibile desumere una generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale.
Il giudice delle leggi aveva individuato taluni profili quali presupposti per decidere in merito alla compatibilità a Costituzione del reato di aiuto al suicido. In particolare, la Corte si sofferma sul rapporto tra tale fattispecie incriminatrice e i principi fondamentali contenuti nella Carta. Chiarisce la Corte come l’art. 2 Cost. sancisce il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni persona e non quello di riconoscere la possibilità di ottenere dall’ordinamento o da un terzo l’aiuto a morire. Del resto, tale orientamento risulta in linea con quanto previsto dalla Convenzione Edu. Invero, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’art.2 della Cedu deve essere interpretato nel senso che esso contempla il diritto alla vita e non il suo opposto. Nella sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito, ricordata nella decisione n.242, si esclude che la norma convenzionale riconosca un diritto a morire da realizzare con l’intervento della pubblica autorità o con l’assistenza di una terza persona. Anzi, l’orientamento della Corte Edu ritiene il divieto di aiuto al suicidio compatibile con la previsione contenuta nell’art. 8 della Convenzione, che prevede il rispetto “della vita privata e familiare”. Rimane affidata alla discrezionalità dei singoli Stati contemperare la liberalizzazione del suicidio assistito con la necessità di evitare rischi di abuso a danno delle persone più fragili e vulnerabili.
3. Dopo la raccolta delle firme e il controllo di regolarità affidato all’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione, l’ulteriore fase referendaria è, appunto, costituita dal giudizio di ammissibilità del referendum.
Entro il 10 febbraio 2022 la Corte dovrà rendere nota la decisione con la quale giudicherà sull’ammissibilità del quesito pro eutanasia legale. In quella sede la Corte costituzionale potrebbe valutare la ragionevolezza del quesito anche rispetto alla c.d. normativa di risulta. In effetti la disciplina che deriverebbe da un esito positivo del referendum comporterebbe la totale depenalizzazione dell’illecito dell’omicidio del consenziente più rilevante del reato di aiuto al suicidio per cui comunque si risponderebbe, qualora venisse commesso fuori dai criteri espressi dalla Corte. Ciò finirebbe per creare disparità di trattamento tra i due comportamenti di chi aiuta al suicidio e chi attivamente pone fine alla altrui vita.
La Corte in sede di ammissibilità potrebbe constatare l’illogicità derivante da una totale depenalizzazione del reato più grave rispetto all’ ipotesi meno grave di aiuto al suicidio che rimane una condotta criminosa. Ciò al fine di evitare il rischio che il rinnovato quadro ordinamentale potrebbe presentare in danno di persone vulnerabili. Un’evenienza da non sottovalutare per proteggere da possibili abusi gli anziani e i fragili.
Le pur buone intenzioni referendarie di colmare il vuoto lasciato dall’assenza di una legge che regolamenti il fine vita, potrebbero, nondimeno, risolversi in un pericolo per le persone più indifese. Potrebbe prevalere una concezione contraria al principio personalistico sulla base di una discutibilissima classificazione delle vite umane, lasciando alla discrezionalità del giudice la valutazione del caso concreto.
4. Tuttavia, va detto che la valutazione sulla “teleologica rilevanza” della normativa che residua dal voto referendario potrebbe essere svolta da parte della Corte anche in un momento successivo alla eventuale vittoria del si. Infatti, il giudizio di ammissibilità della Corte può essere definito come un giudizio astratto e preventivo. Astratto, perché non interviene a dirimere i dubbi di costituzionalità derivanti dalla concreta applicazione della legge, e preventivo, perché le sentenze di inammissibilità sciolgono un dubbio di legittimità costituzionale, limitatamente, però, all’idoneità dell’oggetto del referendum ad essere sottoposto alla consultazione popolare. Così lasciando impregiudicate, eventuali questioni concernenti la costituzionalità degli effetti suscettibili di essere prodotti dallo stesso referendum con la normativa di risulta. Tale ultima alternativa sconterebbe il rischio di una censura sulla costituzionalità della norma in un momento successivo alla vittoria dei si che potrebbe innescare una non auspicabile contrapposizione tra il verdetto popolare e la decisione della Corte.
6. Ad ogni buon conto, non sembra possibile immaginare quali potranno essere gli sviluppi futuri se il referendum dovesse superare indenne il vaglio di ammissibilità, raggiungere il quorum strutturale, (ovvero che si rechino alle urne la metà più uno degli aventi diritto al voto) e il corpo elettorale dovesse eliminare la norma incriminatrice. Se, in altre parole, la vicenda referendaria possa produrre una spinta ulteriore sull’iter parlamentare che riguarda la disciplina sul suicidio assistito, al fine di formulare una normativa capace di introdurre puntuali scriminanti per la non punibilità dell’omicidio del consenziente.
5. Di certo la sentenza della Corte ha prodotto i suoi effetti sul dibattito parlamentare. Le intese tra partiti hanno portato alla formulazione di Testo unificato, recante norme sul “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”. (C.2 d’iniziativa popolare, C. 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli, C. 1888 Alessandro Pagano, C. 2982 Sportiello e C.3101 Trizzini). Tale proposta di legge - adottata come base dalle Commissioni parlamentari II e XII - nel disciplinare l’eutanasia si muove nel solco tracciato dalla pronuncia n. 242. Alla persona affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta viene attribuita la facoltà di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita, alle condizioni, nei limiti e con i presupposti previsti dalla presente legge e nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, dell’art.8 della Cedu e degli articoli 1,3,4,6 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’art.8 di tale articolato normativo prevede l’esclusione di punibilità. Nello specifico le disposizioni contenute negli artt. 580 e 593 non si applicano al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo la persona malata ad attivare, istruire e portare a termine di tale procedura, qualora essa sia sta eseguita nel rispetto delle disposizioni di cui alla presente legge.
Il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio
di Maria Teresa Covatta
E' notizia di questi giorni che i talebani al potere in Afghanistan hanno chiuso il Ministero degli Affari Femminili e lo hanno sostituito con quello per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio.
In realtà non si tratta di un una istituzione ex novo ma del ripristino di un dicastero che già esisteva durante il precedente regime talebano cessato nel 2001, ben noto per l'imposizione di rigide regole religiose, portato di un'altrettanto rigida interpretazione della sharia, che imponeva agli uomini di partecipare alle preghiere e di non tagliarsi la barba ma, ben più duramente, proibiva alle donne qualsiasi partecipazione alla vita pubblica, intesa come divieto, persino, di camminare per strada se non accompagnate da un maschio con stretti vincoli di parentela.
Come in passato la struttura del ministero si completa con la cosiddetta Polizia della Moralità, incaricata di assicurare l'assoluto rispetto della sharia e nota per garantirlo con l'uso della frusta, della carcerazione e della lapidazione.
Tracotanza o cecità ?
Il nome del ministero, che già di per sè, è tutto un programma, non stride con tutto quello che sta accadendo in Afghanistan e quindi, purtroppo, non desta particolare sorpresa .
La caccia alle donne, specialmente quelle istruite, per non parlare di quelle che esercitano professioni quali l'avvocatura e la magistratura o quelle che si occupano di tutela dei diritti umani e tutto quell'insieme di violazioni dei diritti immediatamente perpetrate fin dal primo momento della conquista del potere sono ormai noti a tutti
E' sorprendente, invece, che questa iniziativa, insieme a quella di riaprire le scuole, siano esse primarie, medie e superiori, solo per studenti maschi e solo con docenti maschi o quella di dare la caccia alle cicliste, nel mirino del regime perchè "evidentemente non più vergini", sia adottata in questo particolare momento storico-politico in cui l'Afghanistan è al centro del dibattito internazionale, nell'ambito del quale i talebani stanno cercando di rappresentare se stessi come profondamente diversi da quelli che persero il potere nel 2001.
Il contesto internazionale
Il 20 settembre ha avuto inizio la 76esima Assemblea Generale ONU e naturalmente, oltre ai temi già programmati quali clima e pandemia, la crisi afgana si è collocata al centro dell'agenda dei lavori. Oltre 100 capi di stato e di governo si stanno occupando del collasso afgano e dei gravi problemi che ha sollevato, dalla crisi umanitaria al crollo delle istituzioni di un Paese di grande importanza strategica, affrontando i timori dati dalla posizione geopolitica dell'Afghanistan e dal pericolo del riaffermarsi di forze estremiste radicali armate, su cui hanno dibattuto in particolare, il 22 settembre, i capi delle diplomazie dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
Nello stesso contesto si sono svolti anche incontri bilaterali che hanno posto il focus sul problema specifico delle donne afgane oltre che sul rispetto dei diritti umani in generale.
I talebani non hanno mancato di farsi sentire.
La loro richiesta è, evidentemente, il riconoscimento internazionale.
Chiedono la parola all'Assemblea Generale, sottolineando che l'Afghanistan e' membro dal 1946.
Chiedono la riapertura di tutte le ambasciate straniere,quale forma anticipata di riconoscimento internazionale
In una lettera inviata al Segretario Generale Guterres chiedono di far intervenire immediatamente il ministro degli affari esteri designato dal nuovo regime in luogo del rappresentante del governo Ghani, affermando che questi, secondo le regole del diritto internazionale, non può sedere in Assemblea poichè quel governo è ormai deposto e non può più essere riconosciuto dalla comunità internazionale.
La richiesta non potrà essere accolta poichè dovrà essere sottoposta al vaglio del Comitato ONU per la valutazione delle credenziali, che si riunirà a fine novembre, ma rappresenta plasticamente la volontà del regime talebano di acquisire una dignità internazionale rispetto alla quale sono tutt' altro che disinteressati.
La situazione afgana sarà al centro del G20 Straordinario sul quale la presidenza del Consiglio italiana sta lavorando da tempo, predisponendo un vertice dei leader G20 sul futuro dell'Afghanistan che sembra ormai in via di definizione e che sta subendo una forte accelerazione anche durante l'Assemblea Generale
Si è già svolto un G7 straordinario che ha riunito i ministri degli esteri dei Paesi membri e il 7 ottobre è convocato dalla commissaria per gli affari interni della Commissione UE Ylva Johansson un forum di alto livello, cui parteciperanno , oltre all'Alto Rappresentante Borrell e ai rappresentanti degli Stati membri anche i rappresentanti di USA, Canada, Regno Unito e di molte organizzazioni internazionali
Insomma l'attenzione della comunità internazionale sull'Afghanistan non è calata e anzi fornisce la misura di quali siano i timori di destabilizzazione dell'area, dell'affluenza incontrollata dei profughi e del pericolo del riaffermarsi del terrorismo
In tutti questi contesti la parola d'ordine è "badare ai fatti più che alle dichiarazioni" : e i fatti sono, attualmente, che sul terreno i mullah continuano a tradire le promesse di un approccio moderato e inclusivo , anche in termini di tutela dei diritti umani e delle donne in particolare, sostanzialmente non corrispondendo, nei fatti appunto, a nessuna delle richieste della comunità internazionale di cui hanno un bisogno assoluto, dato il contesto attuale del Paese
Il contesto nazionale
L'Afghanistan è un Paese a rischio fame. Non a caso si parla di emergenza nell'emergenza. La siccità minaccia sette milioni di afgani e se entro ottobre i contadini non potranno seminare si rischia il fallimento dei prossimi raccolti, prospettiva allarmante se si pensa che l'80% degli afgani vive di agricoltura .
La FAO ha fornito e fornisce assistenza che non è tuttavia sufficiente a garantire tutti e neppure la maggior parte di loro . Le analisi dicono che almeno il 30 % del bestiame è a rischio;
i 3,5 milioni di sfollati all'interno a causa dell'irruzione dei talebani ha aumentato a dismisura la pressione sulle città e diminuito drasticamente la comunità degli allevatori e degli agricoltori costretti ad abbandonare le loro attività e a spostarsi verso i centri urbani dove vivono in situazioni di povertà estrema e ad incalcolabile rischio di malattie
Il sistema sanitario è al collasso: mancano le forniture mediche, anche le più basiche, mancano le medicine e la benzina per le autoambulanze. La pandemia è fuori controllo
L'ONU ha stanziato 45 milioni di dollari in aiuti umanitari per far fronte all'emergenza , che saranno gestiti da OMS e da UNICEF. Stanziamenti umanitari provengono anche da altri Paesi ma rappresentano una goccia nel mare dei bisogni attuali della popolazione afgana
La nuova situazione politica pone problemi di diritto internazionale che potranno incidere anche sulla situazione economica del Paese, dal rischio della denuncia degli accordi stipulati dagli Stati occidentali con la Repubblica Islamica afgana, che prevedevano finanziamenti a lungo termine in favore del precedente governo al taglio dei fondi di sviluppo ( in poche parole le sovvenzioni fatte direttamente ai governi per l'attuazione di progetti di sviluppo) in favore di aiuti umanitari alle popolazioni (che non vengono gestiti dai governi).
Concludendo, sembrano esserci due certezze: il regime talebano ha assoluto bisogno della comunità internazionale, il regime talebano non sta facendo nulla per corrispondere alle richieste della comunità internazionale di cui ha bisogno.
Questa antitesi neppure si risolve con l'accusa, molto (e giustamente ) diffusa che i talebani mentono e che mentire all'evidenza sia uno stile consolidato. Perchè la menzogna, per quanto rozza, per essere "accettabile", in genere è si ammanta di un minimo di apparente verità che la renda, almeno apparentemente credibile.
La pericolosa certezza di essere nel giusto
Come si possano conciliare tra loro questi aspetti è difficile dire, forse anche per osservatori politici di grande spessore ed per esperti di geopolitica e degli equilibri internazionali
Da profana lettrice di stampa nazionale ed internazionale, mi ha colpito, però, una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera da Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani,che parrebbe suggerire una risposta che non fa ben sperare.
Afferma Mujahid che l'Afghanistan ha assoluto bisogno del mondo esterno. " Noi abbiamo bisogno del vostro aiuto . Ma voi dovete capire il nostro Paese e rispettare i nostri valori. . Per noi taliban la nostra tradizione è insuperabile, compresa la nostra concezione della donna"
Questa visione è stata velatamente criticata persino - è tutto dire- dal premier del Pakistan, Paese che com'è noto, non brilla per la tutela dei diritti delle donne posto che, tanto per dirne una, il Gender Equality Forum lo colloca al penultimo gradino della scala di valutazione sotto il profilo del rispetto della parità di genere.
Il premier pakistano, forse anche perchè (si potrebbe maliziosamente pensare) particolarmente interessato agli ingenti aiuti che gli stanno arrivando dall'Europa e dagli Stati membri per il sostegno ai profughi afgani , ha detto infatti che il divieto di far studiare le donne non ha nulla a che vedere con la religione islamica
Si potrebbe concludere, sempre da profani osservatori alla finestra, che se la certezza granitica di essere nel giusto e di agganciare le proprie convinzioni alla tradizione ed alla legge di dio è medioevale, agganciarla al rispetto di valori non condivisi e non condivisibili perchè estranei a valori universali è pericolosa e senza via di uscita.
Per questo anche il "semplice" mutamento del nome di un ministero è una terribile minaccia
La vis expansiva della sanatoria edilizia e il limite delle aree naturali protette (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152)
di Marco Brocca
Sommario: 1. La fisionomia della sanatoria edilizia. 2. Il sistema delle tutele parallele e il modello delle aree naturali protette. 3. La vicenda e la questione giuridica all’esame dei giudici. 4. La posizione del Consiglio di Stato e un ulteriore capitolo.
1. La fisionomia della sanatoria edilizia
È noto che la cd. sanatoria edilizia costituisca una manifestazione – tra le più eloquenti – del potere dell’amministrazione di regolarizzare ex post un’attività del privato che è contra ius, perché posta in essere senza il supporto del titolo abilitativo prescritto dall’ordinamento ovvero in difformità del titolo rilasciato per quella fattispecie. Si tratta di potere con forza sanante che differisce dalla sanatoria amministrativa propriamente detta, la quale è espressione del potere di autotutela attraverso cui l’amministrazione emenda i provvedimenti amministrativi viziati, con l’effetto di convalidarli e di conservarne l’efficacia. Si è in presenza di potestà differenti, ma accomunate dall’effetto sanante prodotto nei confronti di attività contra ius, di privati in un caso e dell’amministrazione nell’altro, che condividono un ulteriore profilo. La capacità sanante non è possibile in relazione a qualsivoglia vizio invalidante, in quanto possono essere emendati solo vizi formali e non sostanziali. Questa distinzione ha fornito tradizionalmente un’utile chiave di lettura per affrontare la questione dell’ammissibilità di siffatti poteri in assenza di esplicita copertura legislativa. Questione che ha portato la dottrina e la giurisprudenza ad ammettere in termini generali la sanatoria amministrativa e altri provvedimenti di secondo grado, come la convalida, perché emanazione dell’autotutela amministrativa, a sua volta ritenuta immanente al potere amministrativo e connaturata all’imperatività e all’inesauribilità del potere stesso, nonché in applicazione del principio di conservazione dei valori giuridici con i corollari dell’economicità dell’azione amministrativa e del divieto di aggravio procedimentale. Al contempo, l’applicabilità della sanatoria amministrativa e di altri provvedimenti ad esito conservativo è stata ristretta alla presenza di vizi formali e non sostanziali, in assenza di diversa statuizione normativa.
La medesima impostazione è stata seguita in relazione all’attività di privati posta in essere senza i necessari titoli abilitativi. Esemplare è l’ambito dell’attività edilizia: la questione dell’ammissibilità di un titolo edilizio postumo, sorta all’indomani della legge urbanistica fondamentale del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150), introduttiva dell’obbligo di licenza edilizia, e corroborata dalla cd. legge ponte del 1967 (legge 6 agosto 1967, n. 765) che ha esteso l’obbligo agli interventi da realizzare sull’intero territorio comunale, è stata affrontata proprio secondo il discrimen tra abusi formali e abusi sostanziali. In altre parole, non appariva ragionevole l’applicazione delle medesime sanzioni agli interventi realizzati senza il titolo abilitativo, ma conformi alla disciplina urbanistica e a quelli sprovvisti di autorizzazione e, in ogni caso, contrari alle previsioni urbanistiche. Si sosteneva, altresì, l’irrazionalità e l’antieconomicità di un’azione amministrativa, prima applicativa delle sanzioni (anzitutto quella demolitoria) e poi permissiva del medesimo intervento, perché conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda. Inoltre, si evidenziava che la ratio del potere di vigilanza edilizia non è tanto quella del controllo meramente formale e strumentale dell’attività costruttiva, quanto quella di assicurare la tutela dell’assetto del territorio e il suo ordinato sviluppo come configurato dagli strumenti urbanistici, di cui anzi l’intervento realizzato è attuativo se è accertata la sua conformità, sia pure ex post. Insomma, l’inversione dell’ordine ‘atto amministrativo di assenso-attività del privato’ non è da considerare inficiante e sanzionabile in termini assoluti e aprioristici, qualora l’amministrazione accerti, sebbene ex post, la conformità dell’intervento[1].
Questo ragionamento ha trovato formalizzazione normativa dapprima con la legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 13[2], poi con il d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico dell’edilizia), art. 36, che hanno configurato la sanatoria edilizia[3]in termini di istituto generale e permanente, tipizzandone al contempo i presupposti: tra questi rileva, come noto, la necessità per l’autore dell’abuso edilizio di dimostrare la conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento che a quello della presentazione della domanda di sanatoria (cd. doppia conformità)[4].
2. Il sistema delle tutele parallele e il modello delle aree naturali protette
L’approccio tradizionalmente seguito dal legislatore nella regolazione del territorio è quello di massimizzare i diversi interessi emergenti (uso del suolo, protezione della natura, gestione forestale, difesa dell’assetto idrogeologico, tutela del paesaggio, ecc.) con apposite normative, con l’effetto di creare un sistema multiplo di disciplina del territorio, che, se da un lato denota lo sforzo del legislatore di cogliere e curare molteplici esigenze connesse al territorio, dall’altro suscita un problema di sovrapposizione di regole che pretendono, ma nella pratica difettano di adeguate forme di coordinamento e integrazione. Gli effetti, come noto, sono moltiplicatori e quasi mai eliminatori, di frantumazione e dispersione delle competenze, di complicazioni e incertezze procedurali, di performance amministrative inefficienti, di dispersione dei controlli, di annacquamento delle responsabilità, di aggravi non sempre preventivabili per gli operatori privati, di conflittualità processuali[5].
Alla logica delle tutele parallele risponde anche la disciplina sui parchi, la cui normativa di riferimento a livello statale è rappresentata dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394. Si tratta di legge-quadro sulle aree naturali protette che ha sancito un deciso cambio di rotta nella protezione della natura: l’opzione non è più quella di promuovere la realizzazione di “sacrari” ambientali, destinati a una musealistica ed elitaria contemplazione, quali erano i primi parchi nazionali (istituiti negli anni ‘20 e ‘30)[6], bensì quella di istituire aree in cui la finalità della «conservazione di specie animali o vegetali» si concilia con l’«applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale» (art. 1, comma 3, lett. a-d).
In altre parole, il parco è concepito quale locus di confluenza e integrazione di vari interessi, ovvero, come ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale, come «centro di imputazione di una serie di valori non meramente naturalistici, ma anche culturali, educativi e ricreativi, in una corretta e moderna concezione dell’ambiente»[7].
Sul fondamento che l’elemento antropico concorra alla formazione del patrimonio naturale e del suo carattere dinamico anziché esserne un elemento di disequilibrio, la legge non assoggetta il territorio protetto a un indistinto sistema di tutela statico-conservativa, ma ne articola il regime secondo un criterio di gradualità e differenziazione che fa corrispondere alla diversa qualificazione delle zone – «riserve integrali», «riserve generali orientate», «aree di protezione», «aree di promozione economica e sociale», «aree contigue» – differenti regimi (art. 12). Come è stato detto, la sfida proposta dalla legge è ambiziosa, quella di rendere i parchi “preziosi laboratori in grado di coniugare la conservazione rigorosa delle risorse naturali con lo sviluppo delle popolazioni locali”[8].
L’ottica di un “uso multiplo” delle aree protette ispira l’impianto complessivo della normativa ed è rinvenibile espressamente in disposizioni, quali l’art. 7 sulle misure di incentivazione per gli enti locali (restauro dei centri storici, opere di risanamento dell’acqua, dell’aria e del suolo, attività sportive compatibili, ecc.), gli artt. 11-12-25 sul regolamento e sul piano del parco, quali strumenti preposti alla disciplina dell’«esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco» e l’art. 14 di promozione di «iniziative atte a favorire lo sviluppo economico e sociale delle collettività eventualmente residenti all’interno del parco e nei territori adiacenti».
La massimizzazione dell’interesse naturalistico si traduce in un regime di tutela speciale sul piano organizzativo e funzionale. Dal primo punto di vista basti pensare all’istituzione di un’apposita struttura amministrativa, l’ente parco, quale organo gestore dell’area protetta, titolare di poteri di regolazione, gestione e controllo delle attività potenzialmente in grado di incidere sul territorio. La sua una composizione è di tipo “misto”[9], espressiva di più interessi e competenze, quelle propriamente tecnico-scientifiche e quelle di portata più generale, di provenienza statale e locale, canalizzate attraverso le tradizionali rappresentanze politiche e amministrative, nonché per il tramite delle associazioni ambientaliste.
Sul piano funzionale rilevano peculiari strumenti di tipo regolamentare (il regolamento del parco, art. 11), programmatorio/pianificatorio (il piano del parco, art. 12; il piano pluriennale economico e sociale, art. 14) e autorizzatorio (il nulla osta, art. 13).
La presenza anche in questo settore ambientale del regime autorizzatorio e la sua estensione su ambiti di attività vasti e variegati riflette bene un profilo essenziale della configurazione giuridica dell’ambiente. Quello che muove dalla considerazione per cui gli interventi pregiudizievoli, se non impediti, comportano effetti spesso irreversibili: ne consegue la centralità di principi come quelli di prevenzione e precauzione e l’essenzialità di controlli preventivi dell’amministrazione secondo un parametro, quello ambientale, rafforzato e prioritario.
Il regime autorizzatorio compare nella gran parte della legislazione settoriale e il dato che emerge è la sommatoria dei diversi controlli amministrativi, che evocano competenze e procedimenti distinti. Questo è particolarmente evidente per le aree naturali protette. Salvo ulteriori e peculiari situazioni, un intervento modificativo in area protetta impone la previa acquisizione di tre distinti titoli abilitativi: il titolo edilizio (ai sensi del d.P.R. 380/2001), l’autorizzazione paesaggistica (in quanto il parco è bene paesaggistico secondo il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio) e il citato nulla osta dell’ente parco.
La compresenza di questi regimi abilitativi suscita non poche difficoltà applicative, legate soprattutto alla natura delle relazioni tra i diversi atti di assenso (se di autonomia, presupposizione, unificazione, fungibilità, ecc.). La questione affrontata dai giudici amministrativi nella vicenda in esame riguarda proprio il collegamento tra il titolo edilizio comunale e il nulla osta di competenza dell’ente parco.
3. La vicenda e la questione giuridica all’esame dei giudici
A seguito di accertato abuso edilizio e di ingiunzione di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi i ricorrenti, autori dell’abuso, hanno presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 380/2001. L’area interessata dagli interventi abusivi rientra in un parco nazionale (Parco nazionale del Vesuvio) e, per questo, l’amministrazione comunale, competente per l’accertamento di conformità, ha richiesto i pareri di accertamento della compatibilità paesaggistica alla soprintendenza che rispondeva positivamente, e all’ente parco, per l’accertamento della conformità naturalistico-ambientale, che invece si esprimeva dapprima con un’ordinanza di sospensione dei lavori in corso e di ingiunzione di demolizione delle opere abusive e poi con un parere negativo.
Le determinazioni dell’ente parco sono state impugnate per molteplici profili, ma la questione giuridica principale – e preliminare – riguarda l’ammissibilità della sanatoria edilizia in aree naturali protette. Infatti, nell’ambito delle aree perimetrate a parco, l’art. 36 d.P.R. 380/2001, che, come visto, disciplina l’accertamento di conformità (prodromico al rilascio del permesso edilizio in sanatoria), va coordinato con l’art. 13 legge 394/1991 secondo cui il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere è subordinato al preventivo nulla osta dell’ente parco che ne verifica la conformità con la tutela dell’area naturale protetta (comma 1).
La questione è se il nulla osta previsto dal citato art. 13, con la necessaria “previetà” del suo rilascio, vada interpretato nel senso di ritenerlo riferito soltanto agli interventi ancora da realizzare ovvero anche rispetto a opere già realizzate. Detto altrimenti, la lettura combinata delle due disposizioni evoca due possibili ‘scenari’: 1) all’interno di un’area protetta un’opera abusivamente realizzata è sanabile secondo la procedura dell’art. 36 testo unico dell’edilizia anche qualora non sia stato previamente acquisito il nulla osta dell’ente parco di cui all’art. 13 legge 394/1991, per il cui rilascio può innestarsi un sub-procedimento nell’ambito del procedimento edilizio; 2) l’opera abusiva non è sanabile neanche se sussistono i presupposti dell’art. 36 citato qualora l’intervento, prima della sua realizzazione, non sia stato supportato dal nulla osta dell’ente parco.
Secondo la prima tesi il nulla osta dell’ente parco può essere acquisito anche successivamente alla realizzazione dell’opera nell’ambito del procedimento di sanatoria edilizia; per la seconda tesi l’acquisizione previa alla realizzazione dell’opera del nulla osta dell’ente parco è condicio iuris per l’accertamento di conformità edilizia, con l’effetto che l’applicabilità di quest’ultimo istituto si sterilizza in assenza, appunto, del rilascio del titolo abilitativo dell’ente parco prima della realizzazione dell’intervento edilizio.
Alla prima tesi ha aderito il giudice di primo grado (Tar Campania, Napoli, sez. III, 16 aprile 2019, n. 2160), alla seconda il Consiglio di Stato con la sentenza qui annotata.
Il Tar opta per la prima interpretazione richiamando “ragioni di ordine sistematico e funzionale”: in particolare, i giudici osservano che “con l’espressione ‘previa’ riferita al rilascio del nulla osta adoperata nel citato art. 13 si è inteso evidenziare il carattere necessariamente strumentale e funzionale assolto dal nulla osta (pur nella sua testuale ‘immediata’ impugnabilità) nell’ambito di un più ampio procedimento teso al rilascio di concessioni o autorizzazioni evidentemente al fine di condizionarne il contenuto”, nella consapevolezza che l’ente parco deve esprimere la propria valutazione in modo autonomo e esclusivo, in quanto attributario di un interesse distinto da quello proprio delle altre amministrazioni coinvolte nella vicenda amministrativa (comune e soprintendenza). Concludono i giudici che “per assolvere ad una tale funzione, il nulla osta deve avere carattere necessariamente preventivo (non rispetto alla realizzazione dell’opera abusiva, ma) in funzione del rilascio del permesso in sanatoria, altrimenti non comprendendosi come sarebbe in grado di influenzare un provvedimento (l’accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 380/2001) che, per definizione, deve essere emesso soltanto in sanatoria”.
Più articolato è l’iter argomentativo seguito dal Consiglio di Stato per affermare la natura esclusivamente preventiva del nulla osta di cui all’art. 13 della legge sulle aree protette, con il corollario dell’inapplicabilità della sanatoria edilizia con riferimento a interventi realizzati nell’ambito di aree protette qualora non supportati, sin dall’inizio, dal nulla osta dell’ente parco.
4. La posizione del Consiglio di Stato e un ulteriore capitolo
Il ragionamento del Consiglio di Stato muove da una considerazione, ritenuta insuperabile e dirimente: la “differenziazione di ambiti” che connota la disciplina dei parchi, rispetto alla quale quella che può essere considerata la disciplina generale (la normativa urbanistico-edilizia) deve confrontarsi e, ove inevitabile, arrestarsi.
Richiamando giurisprudenza dell’Adunanza plenaria[10] e della Corte costituzionale[11], ricorda il Consiglio di Stato che il legislatore italiano con la legge-quadro sulle aree protette ha voluto introdurre per determinare aree uno “speciale regime di tutela e di gestione”, riconoscendo i parchi “come aree di protezione integrale della natura nelle quali vale il principio della c.d. ecologia profonda che implica la conservazione integrale della natura e limitati interventi di antropizzazione”. L’approccio differenziato si traduce in una serie di “strumenti essenziali e indefettibili della cura dell’interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco”, che sono atti sia generali (regolamento del parco) e pianificatori (piano del parco) e valgono a disciplinare ex ante “in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a «la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale»”; sia di natura provvedimentale, il nulla osta dell’ente parco, che “si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un’area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento”.
Ricorda il Consiglio di Stato inoltre che la specialità della materia si manifesta parimenti sul piano organizzativo, con la previsione di un ente di scopo, l’ente parco, titolare, tra l’altro, di un generale potere di controllo a presidio dell’interesse naturalistico e ambientale di cui è attributario.
Un ulteriore passaggio compiono i giudici attraverso il richiamo della rilevanza costituzionale dell’interesse naturalistico massimizzato dalla legge-quadro, in quanto sussumibile in quello ambientale, che – come ricordano i giudici – assurge al rango di “valore costituzionalmente rilevante”. Questa qualificazione induce i giudici a due approdi: da un lato, la primarietà dell’interesse naturalistico-ambientale che comporta l’autonomia, nonché l’irriducibilità e l’infungibilità, del regime speciale dei parchi rispetto alla disciplina generale urbanistico-edilizia, cui consegue il corollario per cui il nulla osta dell’ente parco costituisce atto non solo autonomo e preliminare rispetto al titolo edilizio, ma anche sempre preventivo rispetto agli interventi e alle opere edilizie. In altre parole, il nulla osta dell’ente parco non mutua caratteri e attitudini di altri titoli abilitativi, come la possibile acquisizione postuma, né si adatta ad altri regimi amministrativi, come quello di accertamento di conformità ex art. 36 testo unico dell’edilizia. Conclude il Consiglio di Stato che “si ritiene corretta l’interpretazione rigorosa dell’art. 13 della legge sulle aree protette, che ammette solo nulla osta preventivi”, con l’effetto che “non rileva in alcun modo l’istituto dell’accertamento di conformità che rimane di applicazione generale”, ma non nell’ambito dei parchi rispetto ai quali sussistono “ragioni di tutela così ampie [che] non ammettono sanatorie su opere realizzate senza titolo”.
Il richiamo del piano costituzionale vale ai giudici anche per esprimersi su una questione correlata, benchè non invocata dai ricorrenti. Il modello sancito dalla legge quadro potrebbe essere derogato a livello regionale, nel senso che potrebbero sussistere disposizioni regionali che ammettono l’acquisizione del nulla osta dell’ente parco anche in via postuma: osservano i giudici che simili disposizioni permissive “sarebbero comunque da sottoporre a vaglio costituzionale, perché la tutela dell’ambiente spetta allo Stato”. L’inciso evoca evidentemente la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui la disciplina dei parchi deve intendersi espressione dell’esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s, Cost., con la specificazione che la legislazione regionale può soltanto determinare livelli di maggior tutela, in virtù della natura primaria e trasversale dell’interesse ambientale[12].
A fondamento delle conclusioni i giudici richiamano due ulteriori argomentazioni. La prima muove dalla considerazione fattuale e dalla correlata finalità di “evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia)”.
La seconda richiama la disciplina paesaggistica (applicabile anche per le aree protette, che come visto costituiscono beni paesaggistici vincolati ex lege). Nella normativa di riferimento, il d.lgs. 42/2004, è espressamente sancito il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria (art. 146, comma 4), ma la statuizione si completa con la previsione, del tutto eccezionale e limitata alle fattispecie tipizzate, per cui l’autorizzazione paesaggistica postuma è ammessa per specifici interventi di lieve entità (cd. abusi minori, art. 167, comma 4)[13]. Ebbene, osserva il Consiglio di Stato che “nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell’ambito dei parchi”.
Come si vede, la considerazione della specialità della materia dei parchi e della primarietà dell’interesse naturalistico-ambientale sotteso ispira e fonda l’intero percorso argomentativo e le conclusioni del Consiglio di Stato.
La chiave di lettura adoperata dai giudici evoca indirettamente una delle questioni, classiche e perenni, del trattamento giuridico dell’interesse ambientale: la tensione tra la necessità di un regime differenziato, che implica la resistenza rispetto all’applicazione di istituti generali, come quelli di semplificazione o ad efficacia sanante, ovvero la permeabilità e idoneità (se non utilità) a recepire i medesimi istituti generali. Una tensione, che come noto, caratterizza la genesi e l’evoluzione di tutta la legislazione ambientale, ma anche e prima, della legge generale sui procedimenti amministrativi: si tratta di una ‘storia’ che ha conosciuto alterne vicende con un dato normativo che oscilla tra i due poli con accentuazione ora di una opzione ora dell’altra secondo disegni non sempre razionali. Peraltro, la direzione che sta prevalendo è nel senso di un’attenuazione della differenziazione dei regimi e questo dato è emerso dapprima nella legislazione speciale (si pensi all’accontamento del parere soprintendizio nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004 ovvero all’applicazione del silenzio assenso in alcune procedure relative alla gestione dei rifiuti, come quelle di cui agli artt. 214 e 221 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, testo unico dell’ambiente, nonché al rilascio del nulla osta dell’ente parco, esaminato nel presente commento) poi in quella generale (si pensi al silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni, anche quelle esponenziali di interessi sensibili, secondo il nuovo art. 17-bis legge 7 agosto 1990, n. 241).
L’approccio seguito dal Consiglio di Stato che enfatizza la specialità della materia può essere utile per comprendere l’evoluzione di un altro istituto a efficacia sanante, il condono edilizio, anch’esso al centro di traiettorie divergenti – peraltro più delicate e controverse perché innervate da preliminari questioni sulla ‘tollerabilità’ dell’istituto – quando si discute del suo accostamento con gli interessi sensibili.
Il condono edilizio, come noto, vale per legittimare interventi abusivi non sanabili e risponde a una logica, come chiarito dalla Corte costituzionale, “contingente e del tutto eccezionale”, è istituto ammissibile solo “negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” e il suo fondamento giustificativo va individuato nella “necessità di ‘chiudere un passato illegale’ in attesa di poter infine giungere ad una repressione efficace dell’abusivismo edilizio, pur se non sono state estranee a simili legislazioni anche ‘ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria’ ”[14]. Un istituto, dunque, da considerare come extra ordinem e destinato a operare una tantum nell’ottica di un definitivo superamento di situazioni di abuso. L’istituto è stato introdotto con la legge 28 febbraio 1985, n. 47, poi confermato con la legge 23 dicembre 1994, n. 724, quindi ribadito con il decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326.
La legislazione sul terzo condono ha previsto condizioni di applicabilità dell’istituto più restrittive, proprio con riferimento alle aree vincolate. Infatti, la prima legislazione sul condono (quella del 1985, ribadita nel 1994) ammette che «le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione» «[s]ono suscettibili di sanatoria» (art. 32, comma 2, legge 47/1985) in presenza di determinate condizioni, indicate nel comma 2 del medesimo art. 32 e che per esse «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria [...] è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso» (comma 1). Inoltre, l’art. 33 della legge 47/1985 stabilisce che «non sono suscettibili di sanatoria» le opere che siano in contrasto con vincoli posti «a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici», «qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse». Quindi, secondo la prima legislazione il condono è possibile anche per interventi abusivi realizzati in aree vincolate, come i parchi: la differenziazione di regime rispetto al condono edilizio in area non vincolata è garantita dalla previsione dell’obbligo di acquisizione di parere favorevole dell’amministrazione preposta alla tutela dell’area vincolata e dall’avvertenza dell’inapplicabilità nel caso di vincolo che comporta l’inedificabilità assoluta, con l’ulteriore precisazione che deve trattarsi di vincolo preesistente alla realizzazione dell’intervento.
La legislazione del 2003 sul terzo condono sancisce l’inapplicabilità del condono edilizio nell’ambito delle aree vincolate prevedendo che «le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, nel caso in cui: [...] d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli [...] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici» (art. 32, comma 27); peraltro, dispone la permanente vigenza della normativa precedente (più favorevole) ai fini dell’esame delle istanze di condono presentate in base alle leggi del 1985 e del 1994 (art. 32, comma 43-bis).
Il superamento della precedente distinzione tra inedificabilità assoluta e relativa con il corollario dell’effetto ostativo al condono anche dei vincoli che comportano inedificabilità relativa, si comprende in ragione dell’attenzione prestata dal legislatore agli interessi sensibili implicati, che sono, secondo le parole della Corte costituzionale, “per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi”[15].
Il nuovo assetto normativo ha suscitato diverse questioni, come quella dell’ammissibilità di soluzioni legislative, di fonte regionale, che estendono il suddetto effetto ostativo al caso di vincoli sopravvenuti. È questa l’opzione seguita ad esempio dal legislatore laziale secondo cui non sono condonabili le opere abusive eseguite su immobili sottoposti a vincolo ambientale “realizzate, anche prima della apposizione del vincolo” (art. 3, comma 1, lett. b, l.r. Lazio 8 novembre 2004, n. 12), norma che è stata portata recentemente all’attenzione della Corte costituzionale per questioni legate, più che al consueto parametro dell’art. 117 Cost.[16], alla tenuta della norma rispetto ai principi di ragionevolezza e certezza del diritto[17]. La Corte ha ritenuto la disposizione regionale pienamente legittima perché “il regime più restrittivo introdotto dalla legge regionale ha come obiettivo la tutela di valori che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali quelli paesaggistici, ambientali, idrogeologici e archeologici, sicché non è irragionevole che il legislatore regionale, nel bilanciare gli interessi in gioco, abbia scelto di proteggerli maggiormente, restringendo l’ambito applicativo del condono statale, sempre restando nel limite delle sue attribuzioni”[18].
[1] Sulla genesi della sanatoria edilizia e sulla sua legittimità in assenza di un’espressa previsione legislativa v., soprattutto, F. Saitta, Commento dell’art. 36, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 863 ss.; A. Crosetti, Commento dell’art. 36, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2004, 434 ss.; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, 580 ss.; V. Milani, Commento dell’art. 36, in S. Battini – L. Casini – G. Vesperini – C. Vitale, Codice di edilizia e urbanistica, Torino, 2013, 1397 ss.; V. Brigante, Accertamenti di conformità: tracce di una controversa evoluzione, in Riv. giur. edil., 2018, 173 ss.
[2] Una prima ipotesi era prevista dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10 (cd. legge Bucalossi), art. 15, che limitava il permesso in sanatoria ai casi di annullamento della concessione edilizia e di varianti non essenziali.
[3] L’art. 36 del testo unico dell’edilizia denomina l’istituto come «accertamento di conformità», che va considerato come la “condicio iuris” per l’emanazione del permesso in sanatoria. In altre parole, l’accertamento di conformità costituisce “l’atto di valutazione tecnico-giuridica della rispondenza dell’intervento realizzato alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, su cui si deve fondare il titolo abilitativo de quo”, con l’effetto della “configurazione del permesso in sanatoria come provvedimento vincolato” rispetto all’accertamento di conformità: così G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 586-587.
[4] Per questa via la sanatoria edilizia si pone a metà strada tra il permesso di costruire e il condono edilizio. Rispetto al titolo abilitativo ex ante, la sanatoria edilizia si differenzia non solo per l’obbligo della doppia conformità, ma anche sul piano dell’onerosità per il pagamento del contributo di costruzione maggiorato a titolo di oblazione. Dal punto di vista procedimentale rilevante è anche il distinto significato attribuito dalla legge all’inerzia della p.a. rispetto all’istanza del privato, in quanto nel caso del procedimento di rilascio del permesso di costruire il silenzio vale assenso, mentre la mancata pronuncia sull’istanza di sanatoria edilizia è qualificata come silenzio diniego (sul punto rileva l’ordinanza del Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 22 luglio 2021, n. 8854, di rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimità, segnalata da M.A. Sandulli, Addenda 2021 a “Principi e regole dell’azione amministrativa”, in www.giustiziainsieme.it, 2 settembre 2021). Rispetto al condono edilizio la sanatoria si differenzia perché si tratta di un istituto generale e permanente, mentre il condono ha carattere temporaneo ed eccezionale e vale a regolarizzare opere abusive insanabili, su cui v. infra par. 4. Il criterio della doppia conformità tipizzato dalla legge con l’istituto dell’accertamento di conformità ha suscitato la questione della sopravvivenza di un’ulteriore ipotesi di sanatoria, cd. impropria o giurisprudenziale, che richiederebbe la sola conformità dell’opera abusiva alla disciplina vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo. Ipotesi che denota la vis expansivadell’istituto in nome dei principi di buon andamento, ragionevolezza ed economicità dell’azione amministrativa, ma che appare recessiva in ragione del preciso modello impresso dal legislatore e, dunque, in ossequio al principio di legalità (per tutti, v. A. Travi, La sanatoria giurisprudenziale delle opere abusive: un istituto che non convince, in Urb e app., 2007, 339 ss.).
[5] Per un’analitica descrizione della situazione normativa attuale in termini di «tutele parallele e concorrenti», a seconda cioè delle intersecazioni o meno della disciplina (generale) relativa al governo del territorio con quelle (speciali) per la tutela dell’ambiente, si rinvia, tra gli altri, a F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2017, 257 ss.; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 877 ss.; A. Crosetti, Le tutele differenziate, in A. Crosetti – R. Ferrara – F. Fracchia – N. Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Roma-Bari, 2018, 271 ss.; Id., Il rapporto autorità-libertà nei modelli di tutela dell’ambiente, in S. Perongini (a cura di), Al di là del nesso autorità/libertà: tra legge e amministrazione, Torino, 2017, 358 ss.: P. Chirulli, I rapporti tra urbanistica e discipline differenziate, in F.G. Scoca – P. Stella Richter – P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, I, Torino, 2018, 20 ss. Il problematico confronto non è solo “esterno” nei rapporti tra la disciplina generale e quella/e speciale/i, perché possono verificarsi situazioni di conflittualità “interna” nel confronto tra discipline speciali (ad es. tra la tutela del paesaggio e la promozione di fonti energetiche rinnovabili, come nel caso dell’installazione di pale eoliche su dorsali collinari vincolati), su cui vale la felice metafora della “lotta tra giganti dai piedi di argilla” formulata da F. Salvia, Emergenza e tutela ambientale, in P. Dell’Anno – E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. Tutele parallele norme processuali, III, Padova, 2015, 17 ss. Il sistema multiplo delle tutele evoca anche la questione istituzionale, su cui rileva la considerazione di R. Ferrara, Precauzione e prevenzione nella pianificazione del territorio: la “precauzione inutile”?, in Riv. giur. edil., 2012, 63, secondo il quale si tratta di categorie «troppo spesso costruit[e] come semplici paraventi con i quali schermare il caos irrisolto delle relazioni intersoggettive fra lo Stato ed il sistema delle autonomie territoriali». Sottolinea che tra le tutele differenziate quella del paesaggio costituisca una delle espressioni più concrete ed emblematiche del pluralismo istituzionale ed amministrativo A. Crosetti, Paesaggio e natura: la governance in uno Stato multilivello, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. La tutela della natura e del paesaggio, III, Milano, 2014, 163; similmente P. Marzaro, Epistemologie del paesaggio: natura e limiti del potere di valutazione delle amministrazioni, in Dir. pubbl., 2014, 865.
[6] Si tratta dei parchi nazionali: Gran Paradiso, r.d.l. 3 dicembre 1922, n. 1584; Abruzzo, r.d. 11 gennaio 1923, n. 257; Circeo, legge 25 gennaio 1934; Stelvio, legge 24 aprile 1934, n. 740. Nel senso che i parchi di prima generazione erano posti “a presidio di un interesse specifico la cui realizzazione determina la neutralizzazione degli interessi che non ricadono nelle finalità di conservazione della natura”, G.F. Cartei, La disciplina del paesaggio tra conservazione e fruizione programmata, Torino, 1995, 37. In dottrina, peraltro, si sottolinea che l’approccio di tipo statico e vincolistico sotteso alla legislazione iniziale dei parchi appare, più che funzionale a un obiettivo primario ed esclusivo di tutela della natura, “soprattutto come un’operazione di supporto economico alle iniziative turistiche” (U. Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Roma, 2002, 192-193. Per analoghe considerazioni v. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, 1975, 30 ss.).
[7] Corte cost., 15 luglio 1994, n. 302, in Giur. cost., 1994, 2589.
[8] C.A. Graziani, Le ragioni del convegno, in Id. (a cura di), Le aree protette e la sfida della biodiversità, Atti del XV Convegno annuale del Club dei Giuristi dell’Ambiente (Pescasseroli, 14 settembre 2013), Roma, 2018, 13. Ancora, secondo l’Autore (Id., Le aree naturali protette, in N. Ferrucci, a cura di, Diritto forestale e ambientale. Profili di diritto nazionale ed europeo, Torino, 2020, 137, “i parchi rappresentano dei veri e propri laboratori in cui anche per gli esseri umani si sperimentano modelli di vita nel segno dell’armonia con la natura. Dimostrare che oggi è ancora possibile uno sviluppo diverso, non più aggressivo nei confronti della natura, ma in armonia con essa: è questa la grande missione affidata ai parchi”. Peraltro, l’Autore denuncia la deriva economicistica cui si ispirano i più recenti disegni di legge di riforma della legge-quadro, “segno di una visione aridamente mercantile del territorio, perfino delle aree più sensibili”, p. 143).
[9] Nel senso che la presenza di un ente di scopo e la sua peculiare strutturazione garantiscano l’obiettivo della “quadratura del cerchio” in quanto le decisioni sono assunte “dagli organi preposti al perseguimento degli interessi protezionistici, ma sempre sulla base di una concordanza espressa con aspettative e finalità rappresentate dalla comunità locale”, D. Borgonovo Re, Parchi naturali e regionali, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 600; in senso sostanzialmente positivo anche C. Desideri, Alla ricerca dell’ente parco, in C.A. Graziani (a cura di), Un’utopia istituzionale. Le aree naturali protette a dieci anni dalla legge quadro, Milano, 2003, 66. Per la qualificazione dell’ente parco come organo misto, nell’accezione di forma di cooperazione strutturale Stato-regioni-enti locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, v. G. Sciullo, Pianificazioni ambientali e pianificazioni territoriali nello Stato delle autonomie, in F. Bassi – L. Mazzarolli (a cura di), Pianificazioni territoriali e tutela dell’ambiente, Torino, 2000, 24-25. Sottolinea il delicato equilibrio tra la componente tecnico-scientifica e quella politica nella gestione del parco, di cui evidente espressione è data dalla composizione degli organi dell’ente parco, G. Cordini, Aree protette vent’anni dopo. L’inattuazione “profonda” della legge n. 394/1991, in Riv. quadr. dir. amb., 2011, 29 ss., il quale denota negativamente il progressivo espandersi della politica, con l’effetto di erodere l’impostazione originaria della legge quadro della protezione integrale della natura. Esprime rilievi critici verso l’assetto organizzativo delineato dalla legge 394/91, in quanto “espressione di un principio tecnocratico e non democratico” e in cui è rinvenibile “un così massiccio spostamento di potere a favore di entità tecniche e a discapito delle collettività locali”, B. Caravita, Potenzialità e limiti della recente legge sulle aree protette, in Riv. giur. amb., 1994, 10-11. Il dato organizzativo è, peraltro, tutt’altro che assestato: si veda il d.P.R. 16 aprile 2013, n. 73, di riordino degli enti parco, che ha modificato, tra l’altro, la composizione del consiglio direttivo nella direzione del ridimensionamento della componente scientifica, su cui si rinvia alle considerazioni critiche di C.A. Graziani, Le aree naturali protette, cit., 144.
[10] Cons. Stato, ad. plen., 8 giugno 2016, n. 17, in Riv. giur. edil., 2016, 742.
[11] Corte cost., 29 dicembre 2004, n. 429, in Foro it., 2005, 1311.
[12] Ex pluribus, Corte cost., 6 luglio 2020, n. 134, in Foro amm., 2021, 13; 27 dicembre 2019, n. 290, in Giur. cost., 2019, 3292; 16 luglio 2019, n. 180, in Giur. cost., 2019, 2102; 13 giugno 2018, n. 121, in Giur. cost., 2018, 1359; 11 febbraio 2011, n. 44, in Foro amm. CdS, 2011, 3045; 18 marzo 2005, n. 108, in Foro amm. CdS, 2005, 679.
[13] La preclusione del rilascio del permesso di costruire in sanatoria in caso di vincolo paesaggistico e in assenza di previa autorizzazione paesaggistica (salvi i limitati casi di autorizzazione postuma) è affermazione ricorrente in giurisprudenza: ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2007, n. 5203, in Riv. giur. edil., 2008, 368; Tar Campania, Napoli, sez. III, 3 maggio 2001, n. 2925, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 21 gennaio 2010, n. 268, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, in Foro it., 2005, 327; Corte cost., 10 maggio 2002, n. 174, in Giur. cost., 2002, 1421; Corte cost., 12 settembre 1995, n. 427, in Giur. cost., 1995, 3333; Corte cost., 28 luglio 1995, n. 416, in Giur. cost., 1995, 2978; Corte cost., 31 marzo 1988, n. 416, in Foro it., 1989, 3383.
[15] Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, cit.
[16] La disposizione non viola infatti il riparto di competenze legislative tra Stato e regioni in materia di «governo del territorio», in quanto, per consolidata giurisprudenza costituzionale, il legislatore regionale può adottare una disciplina più rigorosa e restringere l’ambito applicativo del condono.
[17] La questione della rilevanza del vincolo sopravvenuto alla realizzazione di un’opera urbanisticamente abusiva è stata già affrontata dai giudici amministrativi, da altra visuale: il procedimento congegnato dall’art. 32 legge 47/1985 che implica il parere favorevole dell’amministrazione titolare di interesse sensibile ha suscitato la questione se l’amministrazione comunale competente a esaminare l’istanza di condono edilizio debba richiedere il suddetto parere anche in caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione dell’area interessata. Questione su cui la giurisprudenza amministrativa si è divisa al punto da richiedere la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (dec. 22 luglio 1999, n. 20, in Foro amm., 1999, 1423), la quale ha affermato che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo”, la questione deve essere risolta privilegiando la normativa “vigente al tempo in cui la funzione si esplica (tempus regit actum)”, ossia quella di controllo edilizio in sede di esame della domanda di condono, essendo la più idonea alla “cura del pubblico interesse, in che si concreta la pubblica funzione”.Ha poi aggiunto che, “[q]uanto alla preoccupazione che siffatta soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del principio di certezza del diritto e di non disparità di trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione sull’istanza, […] l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e, se del caso, di sostituzione dell’Amministrazione inerte”.
[18] Corte cost., 30 luglio 2021, n. 181, in www.giurcost.it.
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